La Crocefissione in vetro dorato e graffito del Museo Diocesano di Recanati La più antica fonte sulla tecnica usata per decorare vetri è costituita dal trattato di Eraclio, De coloribus et artibus romanorum, dove è genericamente citata combinando notizie desunte da Plinio1 e da credenze superstiziose magiche dell'epoca. È però con il trattato di Teofilo De diversis artibus2 che abbiamo la prima accurata descrizione della tecnica3. Seguendo tale descrizione, l'artefice applicava, con una leggera colla, una foglia d'oro sottile dalla parte esterna sul fondo della tazza, la incideva per formare il disegno, decorava alcuni dettagli con tocchi di smalto colorato e aggiungeva infine una velatura di polvere vitrea, la quale, in seguito ad una breve cottura al forno, permetteva di ottenere uno strato protettivo raggiungendo di fatto il risultato di una foglia dorata inglobata fra due vetri; in questo modo si poteva ottenere un'unica sostanza ed impedire che il prezioso metallo venisse danneggiato, con l'unico inconveniente della possibile presenza di bolle d'aria tra i due strati di vetro, causa di distorsioni delle figure. Il trattato di Teofilo costituisce una documentazione diretta della prassi di bottega, in quanto si riscontra una perfetta corrispondenza con la produzione del mondo antico, quando la lavorazione del
vetro aveva raggiunto i più alti livelli: testimonianze di tale tecnica sono i vetri trovati infissi nella calce dei loculi delle catacombe, datati III secolo d.C. . La tecnica descritta da Teofilo corrisponde nelle sue linee generali anche alla tecnica applicata nei secoli successivi, sebbene essa abbia subito alcune varianti, la più frequente delle quali consiste nel dipingere la figura sul retro del vetro con un tratto bruno. A poco a poco però questa tecnica raffinata subì un grave declino e si allontanò dalla tradizione tardo-antica, senza mai però essere del tutto abbandonata o dimenticata 4. È in questo periodo che iniziano a diffondersi vetri di fattura scadente e di disegno incerto, realizzati con un metodo semplificato, più fragile e di minor durata, che ricomparirà poi nel Medioevo: si tratta della semplice foglia dorata graffita, senza la sovrapposizione del secondo strato di vetro. La grande fioritura della tecnica del vetro dorato e graffito si ha nel XIII e soprattutto nel XIV secolo, testimoniata dal trattato di Cennino Cennini5 che contiene nei capitoli CLXXI (“Come si lavorano in vetro, finestre”) e CLXXII (“Come si lavora in opera musaica era d'ornamento di reliquie; e del musaico di bucciuoli di penna, e di gusci d'uovo”) la più accurata e più appassionata descrizione della tecnica: l'entusiasmo con cui l'autore la descrive è tale da far supporre che egli stesso si sia cimentato nella realizzazione di opere di questo tipo, tanto che nel suo trattato egli non manca di sottolineare tutte le difficoltà e la necessità della migliore disposizione fisica e spirituale per l'esecuzione di un simile lavoro 6.
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GAIO PLINIO SECONDO (PLINIO IL VECCHIO), De Naturalis Historia Il trattato è ritenuto, pur tra molte controversie, opera di un monaco vissuto nella prima metà del secolo XII 3 Nel libro II, capitolo XIII, “De vitreis cyphis quos Graeci auro et argento decorant” (“Calici vitrei che i Greci decorano con oro e argento”), l’autore descrive minuziosamente il procedimento per decorare con una foglia dorata tazze vitree trasparenti o colorate, riportando la tradizione tecnica artistica del mondo antico e del mondo bizantino. 4 Come dimostra il trattato di ERACLIO, De Coloribus er Artibus Romanorum. Si veda C. G. ROMANO, I colori e le arti dei romani e la compilazione pseudo-eracliana, Il Mulino, Bologna, 1996 5 CENNINO CENNINI, Il libro dell’arte 6 Cennini consiglia addirittura di tenere il braccio al collo il giorno precedente in modo che la mano sia ben riposata e non appesantita da gonfiori, oltre che di eseguire il lavoro senza fretta. 2
La chiara e dettagliata esposizione di Cennini dimostra come durante il XIV secolo si fosse arrivati ad una grande divulgazione di tale genere di oggetti; il metodo di lavorazione diventa inoltre più raffinato e difficile, pur nella apparente semplicità dei mezzi. Nonostante la fragilità del materiale è pervenuto fino a noi un consistente un numero di vetri che testimoniano come tale lavorazione artistica si svolga con vicende parallele a quelle della pittura, della scultura, della miniatura e dell'oreficeria. Una notevole quantità di oggetti di devozione privata, destinati presumibilmente a conventi e monasteri di clausura, è diffusa specialmente nell'Umbria (Assisi, Gubbio, Todi, Spoleto), nell'area montagnosa delle Marche (Recanati, Arcevia), negli Abruzzi (Sulmona) 7. Un caso singolare rappresentano i vetri dorati e graffiti conservati nel Museo Diocesano di Recanati, fra i quali particolarmente interessante, per qualità e peculiarità tecniche, è una tabella rettangolare raffigurante una Crocifissione (fig. 1); questa che si trovava inserita in una composizione lignea assieme ad un tondo raffigurante la Natività 8 ed a frammenti di reliquie, rispondendo perfettamente alla descrizione di Cennini che parla della tecnica come "*…+ membro di gran divozione per adornamento d’orliquie sante *…+" 9. La tabella rettangolare presenta la Crocifissione cuspidata, e nei triangoli superiori, entro medaglioni circolari, due figure di santi: a sinistra, per gli attributi della bandiera, della palma del martirio e della veste foderata di vaio, quella che potrebbe identificarsi con Sant'Orsola, protettrice della Chiesa cattolica, a destra San Pietro raffigurato con chiave e libro, mentre la campitura del fondo è rossa con larghe foglie a oro che occupano tutto lo spazio. La scena principale è occupata dalla crocifissione di Cristo e il fondo è costituito da un cielo azzurro10, impreziosito da un motivo decorativo costituito da una serie ripetitiva di fiori a otto petali, chiara allusione in chiave cristologica alla Resurrezione. Al di sopra del braccio verticale della croce un fiore e ai lati le figurazioni del sole e della luna, anche questi riferimenti alla nascita e alla morte dell'umanità nella figura di Cristo. Ai piedi della croce, come consuetudine, San Giovanni Evangelista a destra che con gesto drammatico si torce le mani e Maria, alla sinistra, sorretta dalle pie donne perché, sopraffatta dal dolore per la perdita del figlio, sviene. L'opera è caratterizzata da un senso di drammaticità accentuata dall'andamento verticale delle figure, dai gesti addolorati dei personaggi, dal corpo emaciato e scarno di Cristo e dalla presenza di
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Questa caratteristica è sottolineata da B. TOSCANO, Un crocifisso umbro, in "Rivista d'arte", 1955, pagina 93 segg., che la collega all'impulso dato dal pontefice Gregorio IX alla costituzione di nuove comunità religiose e al sostegno dell’Ordine francescano in funzione antimperiale. 8 Tale assemblaggio non è sicuramente originale, in quanto si presenta estremamente insolito ed incoerente, d'altra parte frequentissime erano le manomissioni e gli spostamenti delle placche che costituivano questi oggetti, date le numerose dispersioni dovute all'estrema fragilità della materia, oltre che al collezionismo. 9 CENNINO CENNINI, Il libro dell’arte, capitolo CLXXII. 10 Purtroppo la campitura si presenta gravemente danneggiata a causa dell’alterazione cromatica del pigmento, la cui tonalità è virata dall’azzurro intenso al bruno, quasi nero.
rivoli di sangue che si riversano dalle ferite del costato e dei piedi di Cristo, trafitti da un unico chiodo11. Da un punto di vista stilistico non si può far a meno di notare - osservando anche particolari come i capelli di Cristo, il perizoma trasparente e l’incarnato modulato delicatamente - la perizia tecnica quasi da calligrafo o da miniatore di questo maestro che utilizza in modo virtuoso, con estrema precisione ed accuratezza la punta metallica per scalfire la foglia d’oro e delineare in questo modo volumi e ombre. Inoltre, considerando sia il decorativismo della campitura su fondo rosso che incornicia i clipei laterali e i motivi a petali dietro la croce, che l’affinità della tecnica esecutiva, si potrebbe supporre che si tratti di un maestro che conosceva la tecnica della decorazione miniata, o comunque sicuramente propenso al lavoro “in miniatura”. A tale proposito si possono osservare le figure di santi presenti nei clipei, in particolar modo quella di S. Orsola (fig. 2): l’altissima qualità dell’esecuzione si rivela nella resa luministica delle figure, nelle ombreggiature dei volti, nella linea morbida delle vesti, le cui pieghe conferiscono una delicata volumetria ai soggetti, visti di tre quarti e rivolti ora verso la luce che li illumina dalla scena principale (S. Orsola), ora verso il fedele che osserva l’opera (S. Pietro); l’abilità dell’artista si rivela anche nella raffigurazione degli attributi dei santi, la cui ottima resa prospettica contribuisce a conferire una maggior profondità ai tondi12. Questi dati stilistici uniti a quelli iconografici e alla solida impostazione volumetrica delle figure, soprattutto di S. Giovanni e delle pie donne, fanno ipotizzare un maestro sicuramente aggiornato ai modi giotteschi13, anche se la costruzione prospettica della croce appare incerta nell’orientazione dell’ombra nei due bracci. Il restauro di quest’opera (insieme ad altre simili presenti nello stesso museo) svolto nel 2006 dall’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro (ISCR) ha permesso di indagare, anche servendosi di moderne tecniche diagnostiche, tutti gli aspetti della tecnica descritti nel Libro dell'arte, oltre a quelli che invece non sono citati nel trattato di Cennini. L’autore infatti, dopo aver illustrato tutti i passaggi necessari ad ottenere il disegno, passa direttamente all'applicazione con gesso delle lastre di vetro all’interno dei reliquiari, costituiti per lo più da strutture-cornici lignee, senza menzionare il trattamento del verso delle opere che rispondono a questa tipologia; tale mancanza è aggravata proprio dal tipo di applicazione citato, in quanto, se le opere sono applicate su cornici lignee, non se ne può indagare il verso. 11
Nella rappresentazione iconografica della Crocefissione assistiamo ad una evoluzione della postura dei piedi da Oriente, tipicamente con due chiodi (come nella Croce di Gerone, 970 ca., Duomo di Colonia), a Occidente (Nicola Pisano, Rilievo del pulpito di Pisa, 1260). Dopo un breve periodo di coesistenza delle due tipologie (si confrontino Giotto, Crocefissione di Santa Maria Novella, 1290 ca. e Cimabue, Crocefissione di Arezzo, 1270 ca.) si affermerà definitivamente quella dei due piedi sovrapposti trafitti da un unico chiodo, che va nella direzione di una maggiore espressività e coinvolgimento emotivo come dimostra anche la scelta di questo artista. 12 In particolare si osservi a questo proposito la bandiera di S. Orsola raffigurata in maniera assolutamente naturalistica. 13 Infatti la tabella dopo essere stata segnalata da Serra (L. SERRA, L’arte nelle Marche,1929. Pp. 320-321) con una datazione verso la fine del Trecento e citata da Pettenati (S. PETTENATI, I vetri dorati graffiti e i vetri dipinti del Civico Museo di Torino, Torino, 1978) in relazione ad altre opere ascritte agli ultimi decenni del XIV secolo o all'inizio del XV, è stata pubblicata da Liana Castelfranchi (L. CASTELFRANCHI, Due vetri dorati umbri e un affresco del Maestro di Fossa, in “Prospettiva”, 1998, 91-92, pp. 36 ss.) che la collega forse addirittura ai maestri che si muovono intorno alla basilica inferiore di San Francesco nel primo ventennio del Trecento.
Le analisi diagnostiche svolte ai fini del restauro hanno permesso di ottenere maggiori specifiche riguardo la tecnica di Cennini: lo spessore della lastra di vetro, di circa 2,5 mm, e la sua conformazione hanno permesso di ipotizzare l'utilizzo della tecnica del cilindro14, mentre una più precisa analisi della composizione del vetro, risultato essere del tipo silico-sodico-calcico, ha permesso di individuarne la provenienza muranese, grazie alla presenza del fondente allume catino15, che i Veneziani importavano da Oriente. La foglia d’oro utilizzata dall’artista è dello spessore di 2 micron, dimensione confrontabile con quella delle foglie che venivano utilizzate per dorare alcuni particolari nei dipinti murali; tale foglia è stata applicata dall’artista sulla superficie vitrea tramite un legante di natura proteica, che Cennini indica come chiara d’uovo, la quale doveva essere sbattuta e lasciata stillare prima dell’applicazione. Secondo il Libro dell’arte il maestro doveva lasciar asciugare il legante per alcuni giorni prima di poter iniziare ad incidere il disegno nella doratura, servendosi di uno strumento appuntito, tipo punteruolo. Questo modo di disegnare era estremamente complesso in quanto non era possibile tornare indietro, cancellare e rifare, ma anzi bisognava tracciare segni molto leggeri affinché la sottilissima foglia d'oro non fosse incisa con lo stilo fino a giungere al vetro, ma solo leggermente segnata. Questo procedimento si avvicinava molto perciò alle caratteristiche della miniatura, della lavorazione a niello e del disegno con la punta d'argento. In un secondo momento l’incisione veniva modulata, a seconda del dettaglio figurativo che si voleva ottenere, da appena accennata a più profonda. Gli artisti potevano servirsi di un panno nero posto al di là della superficie vitrea, per valutare meglio il proprio operato, ma non potevano che servirsi di pochi strumenti per l’esecuzione del disegno: pochissime sono le linee realizzate con l’ausilio di righello o compasso, mentre la maggior parte dell’esecuzione è a mano libera (fig. 3). Queste peculiarità tecniche richiedevano un’estrema perizia all’artista, il quale doveva inoltre studiare attentamente il progetto per poterlo riportare dal retro (e quindi capovolto) senza commettere errori. L’oro così lavorato veniva poi asportato intorno alle figure tramite uno stilo, allo scopo di costituire lo sfondo. Seguiva poi l’applicazione del colore; Cennini parla di quattro pigmenti utilizzabili per questo tipo di lavorazione: “azzurro oltremarino, negro, verderame e lacha”, mentre nel caso della Crocifissione le analisi hanno permesso di individuare pigmenti in parte diversi. Le linee che segnano i profili ed i tratti principali delle figure sono dipinte con un nero vegetale, lo sfondo rosso delle parti cuspidate è realizzato con il cinabro, mentre quello dei tondi, oggi virato ad un colore bruno-marrone, era in origine dipinto con verde resinato di rame, infine il cielo era ottenuto con azzurrite. I pigmenti sono poi macinati, legati ad olio e stesi sulla superficie del vetro libera dall’oro. Particolarmente interessante nella tabella è la stesura dell’azzurrite, a corpo (fig. 4), a differenza degli altri pigmenti che sono utilizzati solo per leggerissime velature 16. Unico invece è il caso dei rivoli di sangue: si tratta del solo momento all’interno dell’opera in cui il maestro utilizza del colore 14
La tecnica, descritta da Teofilo nel libro II e adottata probabilmente intorno all’XI-XII secolo, consisteva nel soffiare la miscela vetrificabile in forma cilindrica che poi veniva aperta per il lato lungo e resa piatta; il vantaggio consisteva nell’ottenere lastre anche di dimensioni piuttosto grandi, ma di spessore abbastanza sottile. 15 Si tratta di una cenere vegetale sodica, importata con questo nome dall’Oriente (la qualità migliore veniva importata dalla Siria) e utilizzata come fondente nel processo di fabbricazione del vetro. 16 Una situazione confrontabile è stata riscontrata sui vetri coevi del Museo comunale di Todi (G. VIGLIANO, D. ARTIOLI, Scheda di analisi ICR, n. 789 del 9-6-1982)
per evidenziare dei particolari, visto che gli altri colori sono utilizzati per le sole campiture di fondo e che gli altri dettagli sono resi per sola sgraffiatura dell’oro, ed è inoltre il solo caso riscontrato in cui il colore è steso sopra la doratura e quindi sul recto della tabella di vetro e non sul verso come era consuetudine fare (fig. 5). La scelta di utilizzare il colore sulla foglia d’oro va ad enfatizzare (sia per contrasto cromatico, che materico) quei particolari che rendono la scena più tragica, contribuendo così ad aumentare la dimensione umana dell’avvenimento rappresentato. L’aspetto più rilevante però delle analisi svolte sull’opera e del successivo restauro è stata l’individuazione di ben due lamine di stagno sovrapposte, applicate sull’intera superficie del verso della tabella. Si tratta di un aspetto non descritto nella tecnica esecutiva mostrata da Cennini, né menzionato in nessun altro trattato o fonte antichi, ma riscontrato molto spesso nelle opere di cui è stato possibile analizzare la parte posteriore17. Tali lamine sono però sempre state fatte risalire ad interventi di restauro successivi all’esecuzione dell’opera e volti a limitare una già riscontrata caduta dei pigmenti e della foglia d’oro. Una funzione di sostegno e protezione quindi, funzione che in questo caso può essere riferita unicamente alla seconda lamina. Grazie ad un’accurata osservazione al microscopio (fig.6), infatti, è stato possibile constatare che la lamina di stagno posta a contatto con la decorazione del vetro costituisce parte originale dell’opera, data l’estrema omogeneità della sua conformazione con gli strati originali (oltre che al già citato ritrovamento in svariate opere con vicende conservative estremamente differenti). Le analisi effettuate hanno inoltre permesso di riconoscere la tipologia dell’adesivo utilizzato per fissare la lamina al vetro: un composto oleo-resinoso molto simile a quello utilizzato per i pigmenti, contenente una quantità abbastanza rilevante di piombo, probabilmente aggiunto come siccativo dell’olio. Non è da escludersi comunque il fatto che la lamina di stagno fosse fissata all’opera con una funzione anche protettiva per la decorazione; questo assimilerebbe le opere trecentesche e più tarde a quelle eseguite nei secoli precedenti con la tecnica descritta da Teofilo, in cui una funzione esclusivamente protettiva era svolta da un ulteriore strato di vetro che racchiudeva particolari pigmentati e foglia d’oro in un'unica sostanza. Non si può però pensare che l’utilizzo di una lamina di stagno al posto di un materiale e di una tecnica consolidata da una tradizione secolare risponda solo ad esigenze pratiche: nonostante la forma estremamente alterata con cui si presentano oggi le lamine della Crocefissione, ossidate e dunque anche alterate cromaticamente in un colore scuro, bisogna immaginare come queste potessero presentarsi allo stato originale, quando erano caratterizzate da un’elevata luminosità, che rifletteva la luce attraverso la foglia d’oro, facendo splendere ancora di più il prezioso metallo. Si ricordi infatti che in tutto il Medioevo, ed in particolare in epoca gotica, i vetri dorati graffiti e dipinti venissero considerati quali pregiati tesori circondati da una fama leggendaria in quanto contraddistinti da grande preziosità, raffinatezza e una luminosità che, secondo la concezione descritta da Pseudo-Dionigi l’Areopagita, costituiva il simbolo della verità divina rivelata. Sulla base di queste considerazioni la lamina di stagno applicata sulla foglia d’oro, di spessore sottilissimo, aveva si una funzione protettiva, ma contribuiva soprattutto alla resa estetica dell’opera, aumentandone lo spessore e quindi la brillantezza e i riflessi luminosi e accentuando così per contrasto cromatico i particolari dipinti sul verso dell’opera (cielo, campiture dei clipei), quelli dipinti sul recto (i rivoli di sangue), ma soprattutto le figure dorate, facendo dell’opera una profusione di luci e colori ed enfatizzando quindi il dato iconografico e stilistico. 17
La presenza di una lamina metallica è descritta da D. GORDON, another look at some Umbrian verres eglomisès, “Apollo”, 1994, le zone dorate e colorate hanno uno strato protettivo che sembra essere di piombo. Nell’archivio ICR sono stati inoltre trovati tre documenti riguardanti vetri dorati e graffiti (vetri trecenteschi di San Fortunato in Todi, vetri dipinti cinquecenteschi provenienti dal Museo Civico di Torino, vetri trecenteschi dell’arca di San Fedele a Como) e in tutti viene menzionato lo stagno applicato sul retro.
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4 Granuli di azzurrite dispersi nel legante.
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Sezione stratigrafica osservata al microscopio ottico in luce ultravioletta: si evidenzia la fluorescenza del legante del pigmento rosso(3) e dell’adesivo (2) utilizzato per lo stagno (1)
BIBLIOGRAFIA C. R. DODWELL, Theophilus, On Divers Arts, Londra, 1961; in particolare nel Libro II, il capitolo XIII, “De vitreis cyphis quos Graeci auro et argento decorant” (“Calici vitrei che i Greci decorano con oro e argento”), pagine 46, 46; CENNINO CENNINI, Il libro dell’arte, a cura di F. FREZZARO, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2003; in particolare i capitoli CLXXI (“Come si lavorano in vetro, finestre”) e CLXXII (“Come si lavora in opera musaica
era d'ornamento di reliquie; e del musaico di bucciuoli di penna, e di gusci d'uovo”), pagine 191195; S. PETTENATI, I vetri dorati graffiti e i vetri dipinti del Civico Museo di Torino, Torino, 1978; L. CASTELFRANCHI VEGAS, C. PIGLIONE, Enciclopedia tematica aperta, Arti minori, dizionario a cura di C. PIGLIONE, F. TASSO, Editrice Jaca Book, 2000; in particolare la voce Vetro dorato (graffito e dipinto), pagine 394-401; DAILA RADEGLIA, ELISABETH HUBER, DOMENICO ARTIOLI, PAOLA SANTOPADRE, GIANCARLO SIDOTI, MARCO VERITA’, Il restauro dei vetri dorati e graffiti del Museo Diocesano di Recanati, all’interno di Bollettino ICR n.13, 2006.