Metamorph.

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03 Metamorph In viaggio nell’architettura contemporanea Si può pensare meglio quando si è agito intensamente. La conoscenza avviene attraverso l’azione non mediante la comunicazione. Humberto R. Maturana


Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca


“Kid-a – The Network Generation Magazine” realizza un progetto in collaborazione con La Biennale di Venezia, promuovendo una serie di iniziative didattiche rivolte agli adolescenti, con epicentro la 9.Mostra Internazionale di Architettura. Scopo del progetto è quello di avvicinare i ragazzi al mondo dell’architettura fornendo loro, attraverso i propri docenti, approcci didattici per conoscere e scoprire questo mondo così affascinante, ma apparentemente ostico per i giovani della scuola dell’obbligo. Nel programma di iniziative ricco e articolato di “Kid-a Metamorph”, si inserisce questa rivista che, a partire dagli spunti forniti dall’architettura ai ragazzi, pubblica il resoconto delle attività che alcuni di loro, di età compresa tra gli 11 e i e 14 anni, hanno svolto presso studi di architettura tra i più prestigiosi del mondo. Il risultato è la scoperta dell’architettura come serbatoio di concetti e di idee, di professionalità e di creatività, che risvegliano l’attenzione della mente e dell’animo di ognuno di noi. E noi educatori, noi docenti che seguiamo la crescita dei nostri ragazzi ben sappiamo che se sanno vedere, leggere e interpretare da soli un ‘progetto’, qualunque esso sia, già hanno conquistato una autonomia di percezione intellettiva che entrerà a far parte del loro bagaglio personale. Inoltre, questo progetto ha anche la grande peculiarità della presa di conoscenza e coscienza dell’immenso patrimonio artistico contemporaneo che l’Europa possiede.

Un progetto, in definitiva, che ben si colloca tra i programmi ministeriali delle materie artistiche per gli allievi delle classi medie ma soprattutto come corollario e integrazione del quotidiano impegno che i docenti spendono nelle loro attività, perché le competenze di tutti possano contribuire a fare del percorso scolastico di ogni studente un’intensa esperienza di alto contenuto umano e culturale. Direttore Generale, Ufficio Scolastico per la Lombardia del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Mario G. Dutto


Scuola Hai mai pensato a come si architetta?

Ci piace pensare che i giovani scoprano spontaneamente i loro talenti artistici come ci fanno credere certe leggende biografiche. Vasari, primo biografo sistematico degli artisti italiani, narra di Giotto che stava tracciando ruvidi schizzi delle pecore che pascolavano sui prati, quando fu sorpreso dal maestro Cimabue. Più decisivo per il futuro di Giotto che il suo incidere fu essere riconosciuto da Cimabue e incoraggiato a seguire un’assai inconsueta strada. Soltanto agli occhi di quel maestro risultava più che limpido il nascente talento del ragazzo che era destinato, nelle parole di Dante, a diventare l’artista di grido dopo Cimabue. Non vi è dubbio che il ragazzo attirava l’attenzione come se la meritò il giovane Filippino Brunelleschi, appassionato di eccellere, un secolo più tardi. In questi secoli non c’era ancora nessuna maestra in giro a scoprire gli acerbi talenti artistici di qualche abile ragazza, magari anch’essa sui prati con le pecore o a casa da un padre notaio. Ai nostri occhi è facile capire il senso della favola: ci vuole proprio un artista per riconoscere i giovani di talento e coltivarli fino a quando la staffetta passa alla generazione successiva. Oggi la profonda trasformazione delle professioni e dei modi di produzione lascia molti giovani disorientati, se non addirittura scoraggiati, e mette in pericolo la vita professionale degli adulti. Allora importa ancora di più che i talenti siano riconosciuti presto e che la loro educazione non tardi per l’inerzia della scuola. L’enorme accelerare del progresso - e, di conseguenza, la straripante espansione delle conoscenze - rende urgente la coltivazione di tutti i talenti. Sappiamo che ben presto nella loro vita i bambini sono capaci di assimilare anche cose complicate, anzi spesso nozioni complesse che si rivelano tramite l’intuizione e l’immaginazione, non soltanto con la ragione. L’immaginazione - la capacità umana di farsi un’idea di cose assenti, fittizie o addirittura impossibili - va coltivata e rispettata invece di essere giudicata con diffidenza e presunto senso di realismo. È proprio a questo punto che entra in gioco l’attività degli architetti come ‘modello’ del fare-pensare: nel concetto odierno delle scienze, un modello permette di pensare cose complesse in un insieme di rapporti. Il lavoro degli architetti ruota sempre di più intorno a ‘modelli’ del costruire che sono anche modi di pensare. Si imparano questi modi partecipando, benché in maniera modesta, al lavoro degli architetti, spalancando la porta dell’immaginazione e dell’esperienza. Ci sentiamo fiduciosi che l’accesso dei giovani al mondo dell’architettura risvegli ben altri desideri che solo quelli professionali, che stuzzichi la curiosità per gli artefatti e stimoli la volontà di capire qualcosa di più del nostro mondo. Kurt W. Forster Direttore, 9.Mostra Internazionale di Architettura, Biennale di Venezia, 2004


Indice Pagina 12 Concert halls

Federico Soriano: l’architettura come racconto

“Kid-a - The Network Generation Magazine”, in collaborazione con la 9.Mostra Internazionale di Architettura, realizza un viaggio per mettere in relazione diretta i ragazzi con alcuni dei grandi protagonisti dell’architettura contemporanea. Per la prima volta viene definito un percorso che non si rivolge agli addetti ai lavori, ma il cui obiettivo è riuscire a far respirare l’atmosfera degli studi, i processi creativi mentre questi sono in atto, così da far capire ai ragazzi (e a noi tutti) come gli architetti e i loro collaboratori concepiscono e realizzano i loro progetti. L’idea è che osservando il fare architettura diventa più facile comprendere e assorbire il suo significato. È infatti partendo dall’osservazione diretta dei materiali e degli strumenti con cui lavorano gli studi, passando attraverso una rielaborazione creativa (una creazione attiva) delle teorie e delle modalità di lavoro, che è possibile sviluppare una percezione autonoma dell’architettura. In questo modo i ragazzi sono messi in grado di acquisire uno strumento individuale di osservazione che può diventare un preziosissimo bagaglio personale. Una task force di ragazzi del Kid-a, composta da Giada, Tommaso, Carlo, Amanda e Ronnie, accompagnati da Marta e da un gruppo di operatori, ha viaggiato tra Bilbao, Parigi, Barcellona, New York e Madrid per incontrare Federico Soriano, Odile Decq, lo studio embt, Peter Eisenman e Juan Navarro Baldeweg. Gli strumenti di viaggio e d’avventura sono stati: una valigia e un diario. La valigia li ha seguiti ad ogni tappa ed è stata riempita, di volta in volta, con i materiali scelti dagli architetti per presentare le loro idee e il loro progetti. Mentre il diario è stato lo strumento attraverso il quale i ragazzi hanno raccontano la loro esperienza. In questo modo i loro appunti, le loro idee, i percorsi, gli

Prima tappa del nostro viaggio: Madrid e il progetto di Palacio Euskalduna di Bilbao. Soriano ci racconta le tante storie che hanno accompagnato la nascita del Palazzo dei Congressi e della Musica, che abbiamo visitato a Bilbao. Nei laboratori, abbiamo osservato e misurato con corpo e voce gli ambienti della hall e dell’auditorium per poi rielaborare il tutto in forma di racconto.

stimoli creativi sono diventati la parte centrale del progetto. L’intento di Kid-a non è stato quello di tracciare una narrazione storica dei lavori degli studi, ma di trasformare questi incontri in scambi attivi, ricchi di spunti di riflessione. Ne sono scaturiti diversi laboratori ispirati a parole chiave, scelte in base al tema di ciascuna sezione della Biennale, che sono andati a comporre i capitoli di questo magazine. Nelle pagine finali di questo numero, troverete alcuni materiali di riflessione: un breve storia dell’architettura contemporanea scritta da Maurizio Vitta; uno studio sui modi di vivere lo spazio di Vanna Iori; un saggio di Fulvio Scaparro sulla motivazione ad apprendere e un progetto testuale e fotografico di Anna Barbara che ci invita ad esplorare l’architettura attraverso i sensi. Un’ultima cosa: come in ogni viaggio, prima di partire è meglio avere una guida. Kid-a ne ha pensate due (le riconoscete dal colore giallo delle pagine): la prima ci parla in modo più approfondito degli studi e dei progetti presentati, l’altra è dedicata al linguaggio dell’architettura. Per ora è tutto: è il momento di mettersi in viaggio.

Pagina 30 Guida.

Lo studio e i progetti

Pagina 32 Transformations

Odile Decq: l’equilibrio instabile Seconda tappa: eccoci a Parigi per scoprire con la Decq il suo progetto per il macro di Roma. Da lei capiamo come la città sia profondamente legata al progetto per il Museo d’Arte Contemporanea, i cui spazi, sono stati trasformati mischiando tutti gli elementi caratteristici di Roma. Nei laboratori, abbiamo sperimentato la disarticolazione di una superficie proprio come ha fatto Odile con la terrazzagiardino del macro, abbiamo creato dei punti di fuga verso l’infinito ispirandoci agli ambienti del museo e abbiamo esplorato Parigi con un selettore visivo. Pagina 52 Guida.

Lo studio e i progetti Il progetto di Kid-a sull’architettura prosegue su internet, all’indirizzo www.kid-a.it/biennalearchitettura, e a Venezia, negli spazi della Biennale dove verranno realizzati workshop, blog e progetti per coinvolgere tutti i ragazzi che non hanno ancora partecipato a questo progetto.


Pagina 54 Topography

La ‘casa’ di embt Terza tappa: Barcellona e la copertura del Mercato di Santa Caterina. La storia di questo progetto è anche la storia familiare di Enric Miralles e Benedetta Tagliabue, la coppia di architetti che ha reinventato la topografia del centro storico di Barcellona, creando uno spazio pubblico sospeso. Spunti creativi delle nostre attività di laboratorio sono stati:la tecnica della ri-composizione attraverso il collage fotografico; l’esplorazione delle superfici in tensione e la creazione di un nuovo orizzonte. Pagina 76 Guida.

Lo studio e i progetti

Pagina 100 Atmosphere

Pagina 78 Surfaces

Peter Eisenman: vedere ciò che non c’è Quarta tappa: New York e la Reinhardt Haus di Berlino. Eisenman ci racconta come l’architettura possa provocare sensazioni di disorientamento visivo nell’osservatore e costringerlo a rivedere i suoi punti di riferimento. Nei laboratori abbiamo prima osservato l’architettura della Reinhardt Haus, per poi elaborare con strumenti diversi delle forme continue e complesse che ci hanno fatto comprendere meglio il suo lavoro. Pagina 98 Guida.

Lo studio e i progetti

Juan Navarro Baldeweg: la luce come materia prima Quinta e ultima tappa del nostro viaggio: Barcellona e la Universidad Pompeu Fabra. La luce e la forza di gravità sono gli elementi centrali dei progetti di Navarro. Esse creano un’atmosfera vitale che riguarda il rapporto dell’architettura con lo spazio percettivo circostante. Luce e gravità sono anche le parole chiave dei laboratori: gli spunti creativi per la realizzazione di installazioni e giochi al limite dell’equilibrio. Pagina 122 Guida.

Lo studio e i progetti

Pagina 126 L’architettura in breve Maurizio Vitta Pagina 144 La didattica come creazione Fulvio Scaparro

Pagina 158 Guida. Altri studi e progetti Pagina 168 Guida. Le parole di Kid-a Metamorph

Pagina 136 Spazio vissuto e architettura Vanna Iori Pagina 150 Esercizi di lettura dei luoghi e degli spazi attraverso 5 sensi e 1/2 Anna Barbara


L’architettura contemporanea è spesso chiamata a sviluppare progetti di edifici complessi, nei quali si intersecano funzioni diverse e i caratteri della topografia, dell’atmosfera e delle superfici convergono in un unico intreccio. In questo quadro, i teatri lirici e le grandi sale concerti costituiscono uno tra i più impegnativi compiti progettuali. Essi hanno un rapporto diretto con la musica, e dunque con il suono, e possono quindi essere definite ‘architetture di suono’. All’esterno questi edifici si impongono come luoghi dell’arte e della cultura e hanno quindi il dovere di esprimere, nel contesto urbano, tutto il loro valore e il loro significato, ovvero, in qualche caso, la loro monumentalità. All’interno, invece, ogni particolare architettonico deve essere dedicato alla migliore qualità possibile della produzione e dell’ascolto della musica. L’acustica è dunque protagonista e impone agli spazi e alle strutture forme studiate per esaltarla al massimo. Basta osservare le pareti e i soffitti di una sala per concerti per accorgersi del loro complesso disegno, delle ondulazioni, dei rilievi, delle spezzettature delle superfici, che sono tutti particolari calcolati per ottenere la migliore acustica possibile, ma che a uno sguardo generale si impongono per la loro qualità formale. Da un punto di vista più precisamente architettonico, invece, la sagoma delle platee e degli spazi per l’orchestra, il rivestimento delle pareti, gli spazi destinati alle complesse apparecchiature indispensabili per la musica contemporanea, i materiali usati e la loro composizione sono tutti elementi di natura squisitamente funzionale che però alla fine, nel loro complesso, si compongono in un’immagine di carattere estetico. 12

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Concert halls


Marion Michaut

Federico Soriano: l’architettura come racconto

Marion è di Parigi: si presenta mostrandoci il plastico degli Uffici di Piazza Bizkaia a Bilbao, a cui sta lavorando.

Monica Garcia Fernandez Anche Monica si sta occupando del progetto di Piazza Bizkaia.

La prima tappa del nostro viaggio è Madrid, nello studio di Federico Soriano. Sul terrazzino arancione col pergolato che sta davanti

all’ingresso ci vengono incontro Federico Soriano e sua moglie Dolores Palacios, titolari dello studio s& aa (Soriano & Asociados architects). Mentre Soriano ci accompagna a visitare

le diverse stanze, ci racconta qualcosa della filosofia e del metodo di lavoro che caratterizza il suo studio: “Tutti collaborano in modo uguale, non ci sono gerarchie. Io faccio il progetto, ma non distribuisco compiti: all’inizio ci riuniamo con tutto il team per capire

quali sono le diverse problematiche e valutarne le possibili soluzioni. Poi, man mano che il progetto procede nel suo sviluppo, gli scambi di opinione continuano e possono anche modificare il lavoro in corso di realizzazione. Usiamo molti diagrammi di lavoro: si parte

da quello di processo realizzato sulla base del progetto originario, che viene poi integrato con le osservazioni degli specialisti che si uniscono via via al team per aggiungere nuove idee ad ogni fase del progetto. Normalmente sono sette le persone che lavorano nello studio, ma con le consulenze esterne il team si può ingrandire”.

Leticia Saez Munoyerro

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È praticante nello studio. Si sta occupando del diagramma per il progetto del concorso per la Casa des Artes

di Cadiz: “Si tratta di un centro per la musica, lo spettacolo e la danza per la cui realizzazione ci siamo ispirati all’opera di Matisse, “La dance””.

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Federico Soriano si presenta “Credo che il processo artistico che sta dietro alla scrittura di un racconto sia molto simile a quello del disegno di un edificio, dal momento che sono tutte operazioni che trasmettono dei sentimenti”. Così ci dice Soriano, facendoci capire che il suo rapporto con la scrittura è uno degli aspetti dominanti del suo lavoro di architetto. Da un lato se ne serve per fissare su carta, in modo che non vadano perse, le idee che non si realizzano concretamente in edifici architettonici; dall’altro la sua esigenza di scrittura corrisponde a quella di fissare la memoria del processo creativo, di non perdere neanche una delle sensazioni che hanno accompagnato l’ispirazione del progetto, fin dai suoi inizi. “Gli architetti ripensano all’edificio, ricordano, per un momento, le persone che hanno portato lì un po’ del loro tempo. [...] In ogni lavoro gli architetti mettono un pezzetto di fuoco delle loro illusioni e delle loro forze. Ma ricevono in cambio un pezzetto di tempo, di storia. Un lavoro è senz’altro una riflessione, ma deve essere anche emozione”. La scrittura deve, cioè, documentare i cambiamenti e le evoluzioni che segnano lo sviluppo di un progetto: “Il progetto di architettura segue linee sinuose; torna una e un’altra volta sui suoi primi passi, ma con nuove interferenze, catturate o conquistate. Idee che sembravano molto distanti adesso devono coesistere, mentre altri fatti e pensieri che sembravano sostenersi adesso perdono di significato”.

Palacio Euskalduna Palazzo dei Congressi e della Musica, Bilbao Soriano, mostrandoci alcuni materiali che ha raccolto per noi nella valigia che accompagna le tappe del nostro viaggio, ci racconta quale idea ha ispirato la costruzione del palazzo: “A Bilbao, città industriale posta sulla riva di un fiume di acqua salata, é molto diffusa la tradizione di costruire navi e il luogo in cui è stato edificato il palazzo una volta ospitava un cantiere. Questa tradizione si combina con quella musicale: mettendo insieme questi due aspetti ne risulta un edificio, destinato alla musica, che ricorda una nave in costruzione in un cantiere. L’idea è quella di accogliere in un grande volume di ferro una sorta di barca, destinata ad ospitare il palcoscenico e il pubblico, oltre ad altre sale congressi più piccole. Il metallo che la riveste risulta ossidato, per suggerire ancora di più l’idea di una fabbrica abbandonata da tempo”.

“El buque fantasma” (La nave fantasma) ll plastico del palazzo Soriano ci mostra un modellino in cartone e metallo del 1992 che rappresenta il Palacio Euskalduna: si deve sollevare il coperchio per vedere all’interno.

Il disegno della nave

Ci sono anche i cinque volumi in cui Soriano racconta la storia del progetto del palazzo.

Nella valigia c’è anche un disegno di una sezione della nave-palazzo.

Il fiume non è lontano dal palazzo: “È un luogo affascinante – scrive Soriano – e una passeggiata lungo le sue rive stimola l’immaginazione. È un luogo che concentra costruzioni prive di una scala di dimensioni unitaria, senza una forma definita, senza peso, senza dettagli [...]. Il fiume è anche un’arteria urbana, ma gli edifici che sorgono sulle sue rive non hanno alcuna forma architettonica: non sono navi, non sono fabbriche in senso stretto, la loro immagine è in continua trasformazione. Sono forme non finite, in gestazione, forme del futuro, che danno l’idea di arrivare prima o poi ad essere qualcosa che ancora non sono”. El buque fantasma... de Wagner, naturalmente. Palacio Euskalduna. Federico Soriano, Dolores Palacios. Madrid: Fisuras, 1999.

El buque fantasma... de Wagner, naturalmente. Palacio Euskalduna. Federico Soriano, Dolores Palacios. Madrid: Fisuras, 1999.

Da questo capiamo anche molto chiaramente che il processo di creazione architettonica richiede per Soriano una grande flessibilità: “L’architettura non deve essere una disciplina chiusa, ma deve trarre informazioni ed elementi dalla vita di tutti i giorni affinché possa interagire con essi”.

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Diagrammi Soriano nel suo testo descrive così il concetto di diagramma: “Il diagramma definisce le forme attraverso azioni e procedimenti. Non è immaginario, ma specifico e concreto. [...]. È un meccanismo dell’intelletto tanto quanto la rappresentazione finale dell’architettura. Tende all’astrazione, ponendosi tra l’idea di partenza e la sua messa in pratica, facendo in modo che il momento dell’ispirazione coincida con quello della costruzione. Si definisce come il minimo elemento grafico che spiega un concetto. Inizialmente il diagramma era uno schema geometrico: rappresentava un’organizzazione topologica che aspettava di essere tradotta nel suo corrispondente architettonico. Negli anni ’70 e ’80 l’architettura inizia ad usare i diagrammi come modelli di analisi e di proposizione. Le convenzioni architettoniche poi li hanno trasformati in piante, sezioni, dettagli costruttivi. [...] Il diagramma contemporaneo pensa per immagini”. Diagramas. Federico Soriano. Madrid: Fisuras, 2002.

Soriano parla dell’attività editoriale che è parte

integrante del lavoro dello studio e di cui è responsabile Dolores Palacios: “Pubblichia-

mo, oltre ad alcune monografie tematiche, un magazine mensile di architettura che si intitola “Fisuras”. L’ultimo

numero è dedicato ai diagrammi, nel senso che esamina il rapporto tra diagrammi di ogni genere e architettura”. Ne leggiamo un piccolo brano: “Un diagramma

In questa pagina.

Nella pagina a lato.

A sinistra: La copertina

A sinistra: Soriano ci mo-

della rivista “Fisuras”, dedi-

stra le pagine del “Buque

cata ai diagrammi.

fantasma” con i disegni dei mosaici del pavimento.

A destra: Soriano ci mostra alcuni diagrammi

A destra: Un dettaglio del

di studio.

mosaico.

oggi è architettura. Non è uno schema, una semplificazione, neanche un disegno preparatorio da essere tradotto in un linguaggio o in una disciplina specifica. È direttamente spazio,

forma e materiale di costruzione; è una voce diretta, una parola sintetica senza linguaggio. È un concentrato di forma e contenuto, un nodo di informazioni”.

Soriano, accompagnandoci a Bilbao nella visita del palazzo, ci descrive nel dettaglio un’altra pubblicazione, che riguarda direttamente il Palacio Euskalduna. Si tratta de “El buque fantasma” (La nave fantasma), un cofanetto

di cinque volumi, che narra la storia del progetto: “È un libro che racconta tutta la memoria della creazione, attraverso immagini, disegni e ricordi. Il volume che mi è più caro è l’ultimo, con una raccolta di racconti che hanno ispirato i disegni della pavimentazione dei diversi piani del pa-

lazzo. L’edificio è piuttosto complicato nella sua articolazione degli spazi, è quasi un labirinto: per orientarsi bisogna seguire i mosaici del pavimento. Tutti i mosaici sono di colore blu, tranne l’arcobaleno colorato e i capelli di fuoco della donna della caverna dorata”. Per ascoltarlo meglio noi ci sdraiamo direttamente sui mosaici...

Mosaici Soriano ci spiega come è realizzato tecnicamente il mosaico: “Il vetro blu delle tesserine è dipinto di bianco sulla faccia rivolta verso il pavimento: abbiamo fatto una prova senza questo strato di bianco, ma la luce non veniva riflessa a sufficienza. Sono circa 25000 pezzi di vetro con due toni diversi di azzurro. Il pavimento in cui si incastona il mosaico è di cemento con piccoli pezzetti di marmo colorato”. Donna della caverna dorata Soriano ci narra la leggenda della donna con i capelli dorati: “Nei Paesi Baschi ci sono molte storie che riguardano personaggi che vivono nelle caverne: una di queste racconta di una donna che vive in una caverna dorata. Tutti gli oggetti che si trovano all’interno della grotta sono d’oro, ma se si prova a portarli fuori, essi ritornano delle ombre senza forma. Nella mia rappresentazione del mosaico, la donna porta nel palmo di una mano un palazzo (il Palacio Euskalduna): mi piace immaginare che mi abbia donato questo palazzo d’oro che, una volta uscito dalla caverna, è diventato di ferro”. Tommaso ha disegnato la donna sul suo diario.

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Ci spostiamo ora nell’auditorium, sempre insieme a Soriano: “Ci troviamo in uno spazio di 1700 metri quadri, dal quale si ha una prospettiva molto particolare: l’ambiente è molto ampio, per ospitare le scenografie. Si scende di 30 metri, fino al livello del garage, dove arriva-

no i camion che trasportano le scene: ci sono 50 metri di altezza tra il punto più basso, dove entrano i camion, e il tetto; in larghezza sono 60 metri. Pensate, tutto questo spazio solo per due o tre dive, cantanti d’opera, mentre il resto é tutto per il pubblico, circa 2000 persone: da una parte due persone

e dall’altra 2000...l’ego della cantante ha bisogno di molto spazio!” Carlo domanda: “Perché l’interno dell’auditorium è fatto completamente di legno?”

Soriano ci spiega: “Il legno è il materiale che risponde meglio alle esigenze acustiche, dato che permette al suono di espandersi adeguatamente: ideare uno spazio destinato ai

concerti è molto complicato perché bisogna tenere conto delle questioni acustiche che sono sempre piuttosto articolate”.

A sinistra: L’enorme altezza del palco. A destra: L’interno dell’auditorium con le pareti in legno.

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Uscendo dal palazzo, attraversiamo un bosco fitto di alberelli metallici: lampioni, dispositivi per la regolazione del flusso delle persone, per il filtraggio dei raggi solari e per il riparo dal vento. “Ci troviamo sulla copertura del parcheggio sotterraneo, che le macchine raggiungono solo passando sotto gli ‘alberi’. Non era possibile prevedere un giardino di piante vere, dato che il parcheggio sottostante toglie spazio alle radici. Abbiamo pensato quindi al metallo, in sintonia con le gru dei cantieri qui attorno: trovo molto attraenti queste figure, quasi dei dinosauri, de-

gli animali fantastici. In un ambiente come questo, trovarsi di fronte ad alberi di metallo sembra assolutamente naturale. In più, di notte, la loro forma appare semplifi-

cata e ancora più simile a quella di veri tronchi.” Carlo osserva: “In effetti a me viene in mente una foresta di luci”, mentre per Giada “sembra di essere in un paesaggio spaziale”.

“È vero”, risponde Soriano, “nessuno ha mai visto un paesaggio spaziale e quindi noi ce lo siamo inventato...” 21


Tommaso Alieno di Pitch Black

L’edificio di Palacio Euskalduna ci ha offerto la possibilità di capire come in un’architettura si possano creare ambienti molto diversi: l’esterno, la hall e l’auditorium. Partendo dall’esterno, siamo andati nella hall e poi nell’auditorium, tracciando un percorso che si sviluppa in tre tappe. Fuori dal palazzo si trova una foresta metallica dove abbiamo osservato gli ‘alberi’ da più punti di vista. La cosa importante è lasciarsi afferrare dalle suggestioni provocate dalle forme e dai materiali. Fare e rifare i disegni è stato un modo per arrivare alla sintesi della forma e della sensazione che ci provocava. Toccare i materiali, poi, serve a percepire la sensazione trasmessa dalla costruzione architettonica. Il materiale ha la capacità di esprimere una sensazione tattile-visiva molto precisa.

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Ci siamo presi del tempo per sfiorare ogni tipo di materiale presente nei tre ambienti diversi e per capire come ognuno di questi contribuisca a definire l’ambiente stesso.

Pavimento a quadrati con piastrelle di diverso colore e una riga che ne taglia alcune.

Carlo Foresta di luci

La foresta metallica

Reti di acciaio per evitare che gli uomini scappino.

Gabbia per gli uomini. Luci: solo se passa qualcuno la luce si accende per pressione del pavimento.

Esploriamo la foresta Ci siamo sdraiati di fianco e di lato, ci siamo allontanati e avvicinati alle strutture metalliche per guardarle e disegnarle. Raccontiamo le nostre scoperte scrivendo e disegnando... Dopo abbiamo commentato i nostri disegni con Soriano e sono emerse le immagini di “una foresta di luci”, di “paesaggi spaziali” e di “deltaplani”.

Giada Timidezza

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Spaziale


Nuovi mondi

Dopo aver ascoltato i racconti di Soriano sui mondi che sono descritti dai mosaici dei pavimenti di Palacio Euskalduna, abbiamo cercato di utilizzare la tecnica del mosaico per inventare nuove storie.

Siamo saliti ai diversi livelli dell’edificio e ci siamo fermati ad osservare. Sdraiati accanto ai mosaici, li abbiamo disegnati immaginando storie e personaggi. Ne sono nati tanti disegni e parole. Le pagine di carta bianca prendono la forma di un diario che narra dei graffiti di Palacio Euskalduna, reinterpretati da noi illustrando i racconti di Soriano.

Tommaso:

Abbiamo ripensato il mondo naturale che è narrato nei diversi livelli del palazzo: nel livello inferiore troviamo l’ambiente subacqueo con gli animali sottomarini; salendo cambiano gli scenari e si incontrano via via gli animali acquatici, con una sirena e la caccia alla balena; poi quelli terrestri domestici, quelli selvatici; più su ancora i volatili ed infine un arcobaleno.

Graffiti’s hall

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“OK sono al 4° piano. Stranamente ci sono graffiti su tutti i piani. Nel 1° piano ci sono maggiormente figure geometriche e una sirena gigantesca e dei pesci. Nel 2° piano c’è una ragazza che passeggia nell’ombra con qualche cosa che potrebbe essere una lanterna. Nel 3° piano ci sono cavalli e pochi altri animali della fattoria. Nel 4° piano c’è un graffito stupendo che raffigura la caccia alla balena. Ora mi sposto molto velocemente al 5° piano, poi al 6° e al 7°... Chi abita qui? Forse un baleniere pazzo? Mah? Vi restituisco la linea”.

Carlo: “Pesce disegnato sul pavimento con la tecnica del mosaico. Parete obliqua di rame. Dà l’idea di poter crollare su di te. Passerella che porta ai piani più alti colorata di azzurro. Cacciatori di balene che si avvicinano a una preda. Vetri che cambiano la luce solare e la trasformano in lunare”.

Giada: “Ci troviamo sperduti nel mare, ma non in 1 mare qualsiasi, 1 mare fatto di figure e scale, colonne e vetri. La nave è imponente e manda fuori rotta tutti i pesci. Fra poco entreremo nel vascello fantasma”.

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Raccontare come progettare

Ultima tappa: l’auditorium. Soriano ci ha accompagnato nel cuore di Palacio Euskalduna. Ci ha detto che per lui scrivere un racconto è un po’ come progettare...

Entrando all’interno dell’auditorium ci siamo sdraiati sul palcoscenico e abbiamo ascoltato l’architettura. Ne abbiamo ascoltato l’ampiezza, ne abbiamo guardato le forme... lasciando che le impressioni arrivassero a noi.

Tommaso: “GIGANTESCO, SICUREZZA, RIMBOMBO, ONDULATEZZA”.

Gli piace molto raccontarci delle storie. Per spiegarci meglio l’importanza dell’acustica, Soriano ci parla di un racconto di Günter Grass (Il mio secolo. Gün-

Giada: “Il soffitto sembra un cielo stellato e le comodissime poltrone fatte di pelle bordeaux dilagano per tutta la stanza. Questo grossissimo auditorium è contornato da grandi forme geometriche”.

ter Grass. Torino: Einaudi,

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1999.) in cui si narra

Carlo:

un episodio legato all’inaugurazione della Filarmonica di Berlino: “Una musicista entra nell’edificio berlinese ancora in costruzione per effettuare le prime prove di acustica. Rimane affascinata a tal punto da scegliere di cambiare professione, abbandonando la carriera di chi crea la musica per intraprendere quella di chi crea spazi perché la musica risuoni bene. Per lei, infatti, il momento più magico dell’architettura è quello in cui l’edificio è compiuto e dal centro della sala si battono le mani per sentire come si propaga il suono”.

“Le cose che mi hanno colpito di più nell’auditorium progettato da Soriano sono: all’esterno il bellissimo colore dell’acciaio ossidato e l’incisione su di esso, che elencava i nomi dei nati il giorno dell’inaugurazione.

Dopo aver ascoltato, tocca a noi inventare delle storie grazie anche al mondo fantastico in cui ci troviamo.

L’auditorium e le sue storie

Altre cose che mi hanno colpito sono state il rivestimento interno del padiglione completamente in legno con un insolito posizionamento dei faretti sul soffitto come a formare un cielo stellato”. 27

Tommaso: “Sono in un auditorium e vedo un sacco di cose. Ci sono due organi quindi un musicista. Ci sono stelle artificiali. Quindi qui può abitare un medico baleniere visionario osservatore di animali e di stelle, musicista”.

Materiali: fogli, penne e pennarelli.


Abbiamo perlustrato l’auditorium. È talmente ampio che per prendere confidenza con l’ambiente, lo abbiamo percorso con il corpo e misurato con la voce. Il corpo diviene misura dello spazio. E lo spazio è percepito ancora una volta attraverso la sensazione visiva, vocale, corporea. Il corpo e la voce servono da unità di misura per capire le proporzioni immense dello spazio: osservandoci e ascoltandoci a vicenda, vediamo la proporzione che esiste fra una testa e una poltrona, fra un corpo in lontananza e tutto l’edificio.

Misurare lo spazio Rincorrersi con la voce Abbiamo usato la nostra voce e il nostro corpo per capire le distanze, le misure, le proporzioni fra le varie parti dell’auditorium. Tutti stretti e vicini abbiamo cominciato a sussurrare parole. Ci siamo allontanati di poco e man mano che la distanza tra noi aumenta, il volume della voce si alza fino a gridare.

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Ci si nasconde e ci si chiama: si cerca di capire attraverso il volume delle nostre voci quanto si è distanti l’uno dall’altro. Cerchiamo, con l’aiuto dei gesti del corpo, di riempire lo spazio con le nostre voci fino ad arrivare al punto più alto, vicino al cielo stellato di faretti.

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Guida. Lo studio e i progetti

Palacio Euskalduna.

Federico Soriano Pelaez

Selezione dei principali progetti

Palacio Euskalduna, Palazzo dei Congressi e della Musica, Bilbao

Madrid, 1961. Laureato nel 1986 alla Escuela Técnica de Arquitectura di Madrid (e.t.s.a.m.), crea nel 1992, insieme a Dolores Palacios, lo studio di architettura “Soriano & Asociados architects”. Dal 1991 al 1993 è direttore della rivista Arquitectura, edita dal coam (Colegio de Arquitectos de Madrid) e nel 1994 fonda la rivista “Fisuras de la cultura contemporanea”. È professore di Progettazione alla e.t.s.a.m. dal 1993.

“Barranco”, Biblioteca Centrale dell’Università di Santander, Cantabria (realizzazione: 1989). “Edinburgh”, Scottish Architecture and Design Center, Edimburgo (realizzazione: 1995). “No, eso no es”, Edificio amministrativo per la comunità di Madrid Carretas, Madrid (realizzazione: 1998). “puppy”, Palazzo dei Congressi e Auditorium, Navarra (realizzazione: 1998). “DvM”, Drijvend Museum, Anversa (realizzazione: 1999). “Bolzano”, 4 Edifici Amministrativi, Bolzano (realizzazione: 1999). “El buque fantasma”, Palacio Euskalduna, Palazzo dei Congressi e della Musica, Bilbao (progetto: 1992, realizzazione: 2000). “mZmk”, Museo di Arte Moderna, Bolzano (realizzazione: 2001). “Isblokk”, Opera Nazionale, Oslo (realizzazione: 2000). “PzaBizkaia”, Edificio amministrativo in Piazza Bizkaia, Bilbao (realizzazione: 2002). “K&K”, Kultur and Koncert Centrum, Uppsala (realizzazione: 2002). “Ovulos”, Centro municipale di esposizioni e congressi, Avila (realizzazione: 2002).

La struttura dell’edificio ‘Buque’, in spagnolo nave, del Palacio Euskalduna ospita il principale auditorium della città destinato alla musica e auditorium più piccoli per i congressi. L’edificio è concepito come una nave la cui struttura si basa su tre elementi. Le nervature, che costituiscono lo scheletro dell’edificio, sono come dei portici invertiti che supportano gli altri elementi strutturali. L’edificio si appoggia su blocchi che trasmettono il peso delle nervature alle fondamenta: si tratta di colonne in cemento che hanno la stessa funzione dei blocchi che sostengono una nave durante la costruzione. Il rivestimento esterno, in lastre di acciaio preossidate, contribuisce a dare l’immagine della nave. L’edificio è stato costruito come una singola unità senza giunture nonostante la sua lunghezza di circa 100 m. Si sviluppa su un’area di 25000 mq. Il foyer d’ingresso é scandito da pilastri circolari di cemento grigio con capitelli a svaso con corone luminose. L’auditorium principale può ospitare fino a 2200 persone: é interamente rivestito in legno, con un soffitto lavorato con faretti luminosi che danno l’illusione di una volta stellata. Nei livelli inferiori si succedono, oltre a 3 piccoli teatri, 8 sale cinematografiche, 7 sale per congressi e tantissimi altri spazi ricreativi con uno spazio per il parcheggio interrato di circa 500 auto.

Dolores Palacios Dolores Palacios, si laurea nel 1987 alla Escuela Técnica de Arquitectura di Madrid (e.t.s.a.m.). Partecipa al programma di Formazione e Ricerca del Ministero della Cultura e della Scienza. È autrice del libro “Rufino Basanez”, nella Collana di Arquitectos Contemporaneos, coavn e, dal 1998, è membro del consiglio redazionale della Rivista ViA.

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La sezione trasversale del

L’interno dell’auditorium.

Vista notturna dell’esterno del palazzo, con gli alberilampioni illuminati.

Bibliografia essenziale

Vista esterna del Palacio

El buque fantasma... de Wagner, naturalmente. Palacio Euskalduna. Federico Soriano, Dolores Palacios. Madrid: Fisuras, 1999. Bilbao: Guggenheim effect. Berlino: Baumeister 10, 1999. Il mio secolo. Günter Grass. Torino: Einaudi, 1999. Equilibri e tensioni a confronto. Palacio Euscalduna, Bilbao. Milano: L’Arca 146, 2000. Diagramas. Federico Soriano. Madrid: Fisuras, 2002. It’s small, it rains inside, and it’s got ants. Federico Soriano, Dolores Palacios. Barcellona: Actar, 2002.

Euskalduna.

Sito web ufficiale: http://www.federicosoriano.com

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La nostra è un’epoca di grandi trasformazioni, fra le quali assume particolare importanza la metamorfosi di un edificio esistente in altro edificio, senza modificarne i caratteri strutturali, ma ridisegnandone l’immagine e ricomponendone gli spazi funzionali. In questo caso l’architettura è chiamata a rimodellare ciò che già esiste, inserendo nuovi spazi, aprendo nuove prospettive, occultando o lasciando trasparire i caratteri fisici e percettivi dell’antico progetto. In Europa, e soprattutto in Italia, dove la storia si è costruita per strati e moltissimi edifici più o meno antichi vengono tuttora usati, ma per scopi assai diversi da quelli originali, la trasformazione architettonica è molto praticata. Fino a che punto essa può spingersi, dipende dal carattere dell’intervento. A volte l’architettura è chiamata a interpretare una trasformazione storica: per esempio Norman Foster ha trasformato il Reichstag di Berlino, riportando una vecchia rovina alla sua funzione originaria; e per far ciò ha rispettato le vecchie strutture, inserendole però in un disegno nuovissimo. In altri casi si tratta di richiamare a nuova vita un vecchio fabbricato, per destinarlo a usi più attuali, come accade a certi edifici industriali dismessi, divenuti spazi abitativi o espositivi. In un contesto urbano, il criterio della trasformazione serve in genere a rispettare l’identità dei luoghi senza rinunciare al loro rinnovamento. Si tratta perciò di trovare nuovi linguaggi, nuove forme capaci di esprimere la diversità della destinazione senza tuttavia cancellare la permanenza dell’antico.

Transformations

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Odile Decq: l’equilibrio instabile Siamo a Parigi nei pressi di Place de la Bastille, entriamo in quello che una volta era un antico convento e ci inerpichiamo sulla scala a chiocciola, fino ad arrivare ad una porta dipinta di verde. Ad aprirci troviamo Odile Decq che ci introduce all’interno del suo studio. L’ambiente è luminoso, rischiarato da ampi finestroni e conserva le tracce del vecchio convento nelle travi di legno che sorreggono il soffitto. Il soppalco della sala riunioni si affaccia sulla stanza centrale con le scrivanie una in fila all’altra. Iniziamo a respirare le sensazioni di questo luogo, che conserva ben evidenti le tracce del suo passato, proprio come fa Odile ogni volta che va in una nuova città per assorbire tutto quello che il posto ha da trasmetterle e che lei, a sua volta, ritraduce nei suoi progetti. “Gli oggetti non sono innocenti, ma sono già il frutto di un’alchimia di tutte le idee che ci si è potuti fare

precedentemente, attraverso tutte le storie che si sono ascoltate”. È esattamente quello che è successo anche nel caso del progetto per il macro di Roma, come ci racconterà Odile, che passa a presentarci l’attività del suo studio.

The Rolling Stones or The Flying Horse House

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Maithili Raut È una ragazza indiana che ha studiato a New York: sta facendo uno stage nello studio e si occupa del cipea (China International Pratical Exhibition of Architecture).

Si tratta di un progetto a cui lo studio sta lavorando in Cina: “Cinque pietre rotolano (the Rolling Stones) nella foresta giù dal pendio fino ad un lago: sono le cinque stanze da letto della casa. La combinazione dei volumi richiama l’immagine di un cavallo volante (the Flying Horse), giustificando così il secondo nome dell’edificio”.

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Il Liaunig Museum Delphin Marques Delphin ha appena cominciato a lavorare nello studio.

Un altro progetto a cui sta lavorando lo studio di Odile Decq è questo museo austriaco antistante a un castello dello stesso proprietario. L’idea é quella che il museo si relazioni al castello da un livello inferiore, in modo tale che il proprietario possa guardare dalla propria abitazione giù verso il suo museo.


Odile Decq si presenta

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Fondamentale per Odile Decq è che: “l’architettura racconti delle storie: il modo in cui si disegna e si concepiscono le cose è il modo di raccontare le storie. Normalmente sono storie di come si arriva in un posto, di cosa si trova, di come ci si passeggia, si naviga...” Per questo la sua idea di architettura si combina con quella di movimento, divagazione, apertura: “Mi piace molto l’idea di infinito, pensare che le cose non siano chiuse e bloccate; amo lasciare un punto di fuga verso l’infinito. Non mi piace essere rinchiusa in qualche posto, bisogna sempre essere in movimento e crearsi la propria velocità personale”. A questo proposito è interessante leggere quello che Michel Vernes, professore all’Ecole d’Architecture de Paris, ha scritto in un testo intitolato “Vertigo”: “L’architettura di Odile Decq è dominata da due temi: la fuga dei suoi tratti che si perdono verso l’infinito e il levarsi in volo dei suoi volumi verso regioni inaccessibili. A questi viene ad aggiungersi un terzo tema, quello della velocità. [...] La sua passione per la velocità dipende dal fatto che essa squilibra e, al tempo stesso, libera la sua architettura”. Opere e progetti. Odile Decq Benoît Cornette. Alessandro De Magistris, Michel Vernes. Milano: Electa, 2003.

MACRO, Museo d’Arte Contemporanea, Roma Qui sul soppalco dello studio ascoltiamo ‘le storie’ che Odile ci racconta sull’idea del progetto, osservando i materiali che di volta in volta estrae dalla nostra valigia. Ci spiega innanzitutto in che modo il progetto si lega alla città di Roma: “L’edificio si affaccia sulla strada semplicemente con un angolo di vetro, che apre verso la città le trasformazioni che abbiamo pensato all’interno del museo. In realtà, ho progettato gli spazi in modo che al loro interno ci si possa muovere come se si fosse ancora per le strade della città. Mi spiego meglio: a Parigi se volete andare da qualche parte guardate la cartina, trovate il posto e avete degli assi da seguire che vanno dritti verso il luogo che dovete raggiungere. Se a Roma volete andare da qualche parte, prendete la cartina e scoprite che non vi serve a niente...identificate più o meno la meta, cominciate a navigare nella città e potete prendere ogni volta delle strade diverse: prima o poi ci arriverete, ma non è possibile sapere quanto tempo ci vorrà. Mi piace moltissimo questa differenza tra Roma e Parigi. A Roma ci si perde con piacere: è un bellissimo modo per scoprire la città. Per questo anche il Museo di Arte Contemporanea deve essere la divagazione di una passeggiata in cui ci si può perdere: il rapporto tra il mio progetto e Roma sta quindi nel concetto della navigazione, del perdersi durante una passeggiata, oltre che in una serie di soluzioni che ho ideato per sottolineare ulteriormente quella che è la mia idea di Roma. Vi sto parlando di una terrazza, di un giardino, di una fontana, di una piazza...”

Fotografie degli edifici preesistenti Dalla valigia spuntano fotografie dei vecchi edifici della Peroni.

La cartina del luogo Odile ci mostra su una cartina la localizzazione del futuro Museo.

Il plastico presentato nella prima fase del concorso Odile ci mostra il primo plastico presentato al concorso: dopo la prima fase, dei centoventi architetti ne sono stati selezionati cinque.

Il progetto, vincitore di un concorso, é vincolato al contesto in cui si inserisce: si tratta di una zona occupata nel passato dalla fabbrica della Birra Peroni, di cui dieci anni fa è stata ristrutturata un’ala destinata alla Galleria d’Arte Moderna.

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Il progetto si inserisce nella sezione della Biennale dedicata alle trasformazioni, dato che la Decq, come ci dice, ha “rimescolato” tutti gli elementi che aveva a disposizione per ideare gli spazi del museo. “Per me Roma è una città minerale: tutti gli alberi, i giardini sono nascosti dietro i muri dei palazzi e soltanto alzan-

do il naso si possono vedere. A Roma ci sono delle bellissime piazze con delle splendide fontane realizzate da artisti famosi. Abbiamo mischiato la storia della città con la destinazione del nuovo edificio a museo di arte contemporanea. Così è nata l’idea di fare una grandissima terrazza che diventerà una piazza pubblica,

con una fontana al centro. E, allo stesso tempo, è nata l’idea che la terrazza fosse un paesaggio. Che tipo di paesaggio? La prima cosa che è uscita è stata un ghiacciaio. E quindi la parola ‘glace’ che in francese vuol dire ‘ghiaccio’, ma anche ‘vetro’. Una parola che è

parte della storia del posto, poiché questo era lo spazio della fabbrica Peroni dove si faceva il vetro”. Attraverso una rampa, dal cortile d’ingresso si accede allo spazio pubblico della terrazza, che è anche piazza e

giardino: questo luogo rappresenta l’elemento di continuità tra i livelli dell’edificio. I tronchi degli alberi dal piano inferiore del cortile salgono fino a spuntare con le foglie sulla terrazza; dal foyer al piano inferiore si può ve-

dere l’acqua che scorre nella fontana, costruita come una scatola di vetro sulla terrazza.

Nella pagina a lato. A sinistra: Una delle fotografie delle facciate dell’edificio preesistente.

38 A destra: Il plastico più recente del macro, con la terrazza bene in evidenza. In questa pagina. A sinistra: Il foyer: veduta della fontana da sotto. A destra: Rendering della facciata del macro: si intravedono gli alberi.


Passerelle sospese attraversano il foyer e le sale espositive, in modo da consentire la passeggiata negli spazi del museo: “Le passerelle offrono la possibilità di avere punti di vista diversi sulle opere esposte, a seconda che si collochino allo stesso livello di queste o più in alto. Quando si visita un museo di arte contemporanea ci si interroga sul senso di quello che si sta vedendo: non pretendo di fornire la risposta a questo interrogativo con la soluzione delle passerelle, ma ritengo sia importante dare la possibilità a chi entra nel museo di avere punti di vista diversi sulle opere, in modo da stimolare impressioni e scoperte personali. Si tratta quindi di un percorso di scoperta attraverso il museo, che evita la successione noiosa delle sale una dopo l’altra: qui si passeggia e si fanno scoperte.” Michel Vernes scrive, a questo proposito:

“La Decq propone un libero scambio tra gli esseri umani e le cose. Che altro dovrebbe essere un museo se non un luogo di incontri inopinati? [...] Un groviglio di storie particolari, quelle delle opere in mostra e quelle dei visitatori occasionali”.

Entriamo più nel dettaglio all’interno degli spazi del museo. Un luogo decisamente curioso sono le toilette, che “saranno visitate come fossero delle opere d’arte”, ci dice la Decq. Tutto è in acciaio

Opere e progetti. Odile Decq Benoît Cornette. Alessandro De Magistris, Michel Vernes. Milano: Electa, 2003.

Passare attraverso il museo e la sua piazza sopraelevata diventa quasi una scorciatoia per gli abitanti del quartiere, che in questo modo sono incuriositi dagli spazi espositivi, che intravedono tra le trasparenze delle vetrate, e che sono invitati ad attraversare passeggiando sulle passerelle. “Tutto il museo è disegnato come un percorso in modo tale che uno non si renda conto di entrare o uscire: questo vuol dire pensare all’uomo. L’uomo è sulla terra solo per passare”.

A sinistra: Rendering della terrazza-piazza sopraelevata .

più calde e sensuali: ho deciso di aggiungere allo zampillo dell’acqua il calore del fuoco che riscaldasse lo spazio”.

Odile ci indica i rendering delle passerelle. 40 A destra: Rendering delle sale espositive.

“Anche la sala delle conferenze è tutta rossa e la luce diffusa dai muri diventerà arancione: lo spazio caldo diventa individuale appena ci si siede su una delle poltrone provviste di una tavoletta per prendere appunti e di una piccola lampada a forma di candela. Abbiamo scelto

il rosso, un colore che riemerge in quasi tutti i resti di affreschi sopravvissuti nelle rovine romane”. La sala delle conferenze è un ambiente enigmatico, un po’ sollevato rispetto al suolo, che si abbassa in corrispondenza: l’impressione che se ne ricava è che lo spazio sia ancora più profondo, senza capire quanto. La Decq, che dal 2000 sviluppa un’importante

attività di design, ha disegnato le lampade del ristorante: “sono state pensate come dei giavellotti che saranno nel cielo del ristorante e, dato che siamo a Roma, usciranno sulla terrazza come fulmini scagliati dall’ira di Giove: ecco un’altra delle storie raccontate dalla mia architettura”. Dopo aver ascoltato la descrizione di tutti questi ambienti, Tommaso domanda: “Perché ci

inossidabile, pavimento, soffitti, e muri compresi: una serie di specchi moltiplicano gli spazi dando la sensazione di infinito. Al centro si trovano le strutture a cubo dei lavandini bianchi: grazie a dei sensori, quando ci si avvicina l’acqua inizia a zampillare e il lavabo si colora di rosso. “La complessità del mondo di oggi richiede che le cose siano meno fredde, che diventino

sono così tante forme geometriche: i cubi delle toilette, l’ambiente sospeso della sala conferenze, le superfici oblique della terrazza?” Odile risponde: “L’architettura è fatta di forme geometriche, le cose si misurano, è necessario dare delle proporzioni: più le forme sono complesse, più sono difficili da disegnare e più la geometria diventa complicata: non è matematica, è un ragionamento a tre dimensioni”.

Mondo di oggi La Decq cita, a proposito degli ambienti delle toilette, un film del 1967 di Jacques Tati, “Playtime”: “È un film che ha espresso l’ultramodernità; si svolge negli aeroporti, negli uffici, gli ambienti sono lindi. Esprime l’idea di quello che sarebbe stato il mondo moderno, dove le persone sono dei numeri”. È da questa denuncia dei rischi della disumanizzazione del mondo contemporaneo che la Decq parte per riscaldare, ‘riumanizzare’ e ‘sensualizzare’ gli ambienti del macro. Profondo La Decq, a proposito della profondità indecifrabile dello spazio sotto la sala conferenze, afferma: “Mi sono ispirata al lavoro di Anish Kapoor, un artista indiano che vive in Inghilterra: realizza dei buchi nei muri, nel pavimento, che non si capisce quanto siano profondi né dove portino. Mi piace molto questa idea di infinito”. Kapoor, che attua un uso ‘allargato’ della scultura, lavora ultimamente proprio sulla messa in scena del vuoto, di una realtà profonda percepibile come un passaggio: nel 1999 ha realizzato “Tarantara”, un’enorme doppia tromba in pvc rosso, lunga 51 metri e alta 32, la più grande messa in scena di un enorme vuoto.

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Con questo laboratorio analizziamo due aspetti importanti del progetto di Odile Decq sul macro: la compresenza nell’edificio del vecchio e del nuovo, e la soluzione adottata affinché questi due aspetti potessero coesistere. Questo progetto si è misurato “Con la complessità intrinseca del collocare un museo d’arte contemporanea in un antico edificio industriale...” Opere e progetti. Odile Decq Benoît Cornette. Alessandro De Magistris, Michel Vernes. Milano: Electa, 2003.

Infatti, tra il vecchio stabilimento Peroni e il nuovo Museo si è instaurata una relazione di articolazione. Il vecchio e il nuovo, gli spazi espositivi e le attività che vi si svolgono sono al tempo stesso articolati e volutamente distinti.

Articolare le forme Nello studio di Odile Decq abbiamo portato dei grandi fogli di poliplatt. Con un taglierino abbiamo creato dei tagli, delle linee, delle figure geometriche. Piano piano abbiamo usato le mani per creare delle forze che dal basso spingono verso l’alto, cosicché la superficie è stata modificata da queste forze sotterranee. Lo spazio ne risulta disarticolato, mosso, frastagliato.

Abbiamo scelto la terrazza-giardino come luogo emblematico del laboratorio, poiché Odile Decq ci ha raccontato come qui si concentrino gli aspetti peculiari di Roma: le sue piazze, le sue fontane, i suoi giardini. Il pavimento della terrazza è scolpito, fratturato, aperto da movimenti tettonici che collegano e articolano gli spazi interni ed esterni. Animando la superficie piatta della terrazza con alcuni piani che tendono a salire e altri a scendere, la Decq instaura una relazione particolare tra vecchio e nuovo. Ne deriva un’articolazione che fa emergere il vecchio all’interno del nuovo, lasciando quindi apparire e sparire la struttura preesistente. Abbiamo tentato di ricreare le linee e le superfici che abbiamo visto nelle fotografie e nei plastici conservati nel suo studio parigino.

Movimenti di superficie A destra: Immagine del

tetto-terrazza del macro e delle passerelle che complicano e articolano l’interno del macro.

Il laboratorio ruota intorno al senso della mutazione, della metamorfosi attraverso la disarticolazione o, per riprendere il titolo della sezione della Biennale, attraverso la trasformazione.

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Materiali:

poliplatt, riga, taglierino.


Ci serviamo di una rete metallica traforata. Muovendola riusciamo a creare forme complesse e osservandola da vicino, in sezione, possiamo vedere al suo interno la creazione di piani sovrapposti. Una rete metallica può, quindi, aiutarci a capire come una superficie mossa da più forze, animata da una pressione, si disarticola e fa emergere delle forme complesse. Al loro interno, poi, si possono riconoscere quelli che Odile Decq definisce “spazi di circolazione”: dei percorsi concatenati tra loro dove passeggiando ci si può perdere e scoprire nuovi punti di vista. Michel Vernes ha scritto a questo proposito: “L’architettura del macro di Roma sarà un’architettura paesaggio e non un’architettura-santuario. Con i suoi itinerari divagati che non portano in nessun luogo e ovunque [...] i suoi percorsi saranno analoghi a fiumi senza rive: la fluidità stessa”. Esiste inoltre una connessione molto forte fra la complessità dei piani del progetto e la sua funzione di luogo espositivo “Trovare il punto di rottura, creare tensioni, trasgredire i limiti: nei piani, nei passaggi, nelle linee”. Questa complessità interna trova il suo senso nel contesto “di un’arte contemporanea che si mette continuamente in discussione, esplora nuove strade, contesta e sperimenta: ecco ciò che esprime il museo”. Opere e progetti. Odile Decq Benoit Cornette. Alessandro De Magistris, Michel Vernes. Milano: Electa, 2003.

La tensione in una rete Creare gli spazi di circolazione

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Il corpo e le braccia perlustrano la rete metallica, ne sentono la forza. Piegandola, torcendola e accartocciandola, nascono nuove figure. Poi, con un dito scorriamo all’interno della forma e ne percorriamo le sue pieghe, avvertendo come le linee da piatte e semplici si sono fatte estremamente complesse. Un groviglio di piani che vanno verso l’alto o verso il basso, come gli itinerari progettati per il macro. Materiali:

rete metallica.

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Come abbiamo già visto, Vernes parla, a proposito del lavoro della Decq, di “fuga dei tratti che si perdono verso l’infinito”, di volumi che si “levano in volo verso regioni inaccessibili” e di velocità come “una delle fonti della vertigine che ispira la sua architettura”. Opere e progetti. Odile Decq Benoît Cornette. Alessandro De Magistris, Michel Vernes. Milano: Electa, 2003.

Durante l’incontro, Odile ci ha presentato in modo davvero ironico uno spazio inusuale: “Le toilette sono molto importanti. Poiché gli architetti contemporanei cercano di essere molto innovativi nella realizzazione delle loro opere e da una decina d’anni hanno incominciato a disegnare delle toilette che sono divenute luoghi da visitare. Le toilette del macro saranno visitate come se fossero un’opera d’arte”.

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Partendo dall’ambiente delle toilette, abbiamo riflettuto sulla tensione delle linee all’infinito. Queste, infatti, sono state realizzate come delle scatole in acciaio inossidabile con una serie di specchi, uno di fronte all’altro, che moltiplicano lo spazio, creando un’illusione d’infinito.

Il cubo all’infinito Tendere le linee Abbiamo costruito una forma geometrica: un cubo. Iniziamo a muoverlo per capire le possibilità di distorsione delle linee. Prendendo confidenza con il materiale abbiamo distorto il cubo indirizzando tutte le linee verso un punto lontano. Le linee vanno in una direzione precisa: lo sguardo, le mani, la griglia metallica convergono in quella direzione. Nei gesti, nella tensione dei movimenti si legge lo spostamento verso un punto all’infinito. Materiali:

filo di ferro.

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Prolungamenti del corpo Pensando ancora al tema dell’infinito, all’allungamento delle linee che si vedono all’interno del progetto, immaginiamo il nostro corpo come se fosse uno spazio. Nel parco dietro a Notre-Dame, abbiamo attaccato dei bastoni ai polsi e alle caviglie in modo da allungare le estremità dei nostri corpi. Ci siamo serviti del corpo per immaginare di creare delle linee di fuga che tendono all’infinito.

Vertigini lineari A sinistra:

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Anche nella città è possibile riconoscere delle linee in fuga: lo abbiamo notato in questo scorcio della Senna.

Abbiamo iniziato immaginando di poter disarticolare il corpo. Di fronte, immobile ma disponibile, il corpo viene modellato come se fosse una superficie. In piedi o sdraiato, il corpo lascia uscire le spigolosità e gli angoli.

A destra:

I punti di fuga delle passerelle in un rendering del foyer.

Materiali:

bastoni di legno, nastro adesivo.

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L’edificio del macro ci permette di affrontare il tema della relazione che esiste tra colore e materia e della sensazione che tale relazione crea nell’osservatore. Siamo partiti da due esempi che ci sono stati narrati da Odile Decq: il primo è quello delle toilette, in cui il lavabo da bianco diventa rosso quando le mani si avvicinano ai sensori: “È acqua e fuoco allo stesso tempo”, ci ha detto. Il secondo esempio è la sala conferenze, tutta colorata di rosso in “una gradazione più chiara e vivace rispetto a quello che si trova negli affreschi delle rovine di Roma, perché per me il rosso rappresenta la vita e non la morte”.

Territori sensuali Colorare la città

Abbiamo realizzato un laboratorio che ci ha condotto ad osservare il rapporto tra la città e il potere sensuale del colore, in quanto la percezione di un edificio varia a seconda del colore che gli si abbina. L’obiettivo è quello di identificare la relazione esistente fra il materiale, il colore e la sensazione che ne emerge.

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Il colore ha una valenza sensuale, cioè legata ai sensi. Si tratta quindi di sensualità visiva: l’effetto cromatico del macro è amplificato dalla proiezione notturna delle luci dall’interno del museo sulle facciate degli edifici intorno!

A Parigi abbiamo vagabondato con in mano un selettore visivo. Una cornice rettangolare di cartoncino. Abbiamo scelto delle inquadrature che sono servite per fotografare degli scorci di Parigi. Dopo, abbiamo fatto dei fotomontaggi con degli acetati colorati: con l’aggiunta del colore cambia completamente la percezione del luogo, dell’oggetto o dell’edificio.

Tommaso: “Ho fatto vari tentativi di colore per Notre-Dame. Col giallo mi sembrava diventata troppo dorata, col rosso mi piaceva di più! Le fiamme uscivano dal finestrone rotondo... il gobbo fuggiva di lato... tutti scappavano!” Carlo: “Ho scelto di colorare la base della statua di... nessun colore: la base è trasparente! Il cavaliere e il suo cavallo sono di nuovo vivi, stanno saltando...” 51

Giada: “Ho messo del bianco sulla pavimentazione. Le persone sembravano muoversi più lentamente, il terreno è diventato soffice come una nuvola, i piedi affondavano un po’...”


Guida. Lo studio e i progetti Odile Decq

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Laval, 1955. Ha studiato architettura all’École d’Architecture de Paris- La Villette, dove si è laureata nel 1978. Nel 1979 fonda lo studio odbc insieme a Benoît Cornette. Nel 1990 i due architetti realizzano la loro prima opera significativa: la Banque Populaire de l’Ouest a Rennes, edificio pluripremiato che li rende internazionalmente noti. Partecipano quindi a una serie di concorsi pubblici con diversi riconoscimenti, fino al Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 1996. Dopo la scomparsa di Benoît Cornette nel 1998, Odile Decq rimane sola alla guida dello studio odbc. La sua fama viene consolidata dalla vittoria del concorso per il macro di Roma. Dal 2000 si dedica anche all’attività di design. Parallelamente dirige un corso presso l’Ecole Spéciale d’Architecture de Paris ed è visiting professor in diverse università straniere (Barlett a Londra, Columbia a New York, tu a Vienna). È membro dell’Académie Française d’Architecture, in qualità di Commandeur des Arts et Lettres.

Assonometria degli spazi del macro.

Rendering dell’ingresso con l’angolo trasparente in evidenza.

Selezione dei principali progetti

macro,

Museo d’Arte Contemporanea,

Centro amministrativo e centro sociale della Banque Populaire de l’Ouest, Rennes (progetto: 1988, realizzazione: 1990). Viadotto e centro operativo dell’autostrada A14, Nanterre (progetto di concorso: 1993, realizzazione: 1996). Facoltà di Scienze Economiche, biblioteca di diritto e Maison des Sciences de l’Homme, Nantes (progetto: 1993, realizzazione: 1998). Progetto per la sede del cnasea, Limoges (progetto: 1994). Porto di Gennevilliers (progetto di concorso: 1994). Progetto per la tribuna dello stadio di rugby, Orléans (progetto: 1997). “A third city bridge”, progetto per il terzo ponte della città di Rotterdam (progetto di concorso: 1998). macro, Museo d’Arte Contemporanea, Roma (progetto di concorso: 2001).

Il progetto del 2001, vincitore del concorso per l’ampliamento del Museo macro di Roma, si inserisce in un contesto urbano ben preciso, occupando gli spazi di un vecchio stabilimento della Birra Peroni, nel quartiere Salario Nomentano. L’inserimento della nuova struttura nell’ambiente circostante tende a camuffare il Museo, rendendolo quasi invisibile: l’ingresso si affaccia sulla strada attraverso un angolo di vetrate trasparenti, che sottolineano l’interazione tra la città e il Museo. La struttura del tetto-terrazza, con il giardino disposto su più livelli lungo tutto lo sviluppo verticale dell’edificio, si sviluppa come una piazza pubblica che ospita il ristorante e una fontana dal fondo trasparente, visibile quindi dall’interno. I pavimenti e le coperture sono incisi, fratturati, quasi fossero animati da movimenti tettonici. I tronchi degli alberi dal piano inferiore del cortile d’ingresso salgono fino a spuntare con le foglie sulla terrazza, circondati da facciate di vetro trasparente lungo tutta la loro altezza. L’interno si articola in diverse sale espositive disposte attorno al foyer centrale, che ospita, oltre all’ingresso, alla biglietteria e al guardaroba, anche la sala delle conferenze, quasi un elemento sospeso nello spazio sopra il pavimento.

Roma

Rendering della terrazza-giardino con gli elementi in vetro in evidenza.

Plastico del macro.

Prospetti delle facciate del vecchio stabilimento su Via Nizza e Via Cagliari, in cui si integra la nuova architettura del macro.

Bibliografia essenziale Odile Decq Benoît Cornette. Clare Melhuish. Londra: Phaidon, 1996. Roma, Odile Decq. Milano: Domus 841, 2001. Un altro mondo? Stefano Pavarini. Milano: l’Arca 163, 2002. Dopo 40 anni, un nuovo piano per cambiare Roma. Roma: Il giornale dell’architettura, 2003. Opere e progetti. Odile Decq Benoît Cornette. Alessandro De Magistris, Michel Vernes. Milano: Electa, 2003. Sito web ufficiale: http://www.odbc-paris.com/web

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La parola topografia significa, in senso stretto, ‘disegno dei luoghi’. Nell’ambito dell’architettura contemporanea, essa rinvia al contesto in cui ogni nuovo edificio dovrà collocarsi e con il quale dovrà dialogare, e soprattutto la sua capacità di ridisegnare, talvolta radicalmente, la natura stessa dei luoghi. Questo è un problema di primaria importanza per l’architettura contemporanea, chiamata il più delle volte a inserirsi in luoghi storici di altissimo valore culturale o naturalistico. Non ci sono regole precise a questo riguardo. Se il contesto è urbano, ciò di cui bisogna tener conto sono i caratteri artistici dell’ambiente, gli aspetti monumentali, i modelli di esistenza collettiva, le esigenze da soddisfare. Se si tratta invece di un contesto naturale, occorre rispettare il carattere paesaggistico e naturalistico dei luoghi. In qualche caso si richiede di armonizzare il più possibile il nuovo edificio alle forme e alle proporzioni di quelli già esistenti. In altri casi, la nuova costruzione può differenziarsi radicalmente da quelle preesistenti, costruendo per esempio un edificio avveniristico in un antico centro storico, come è stato per il Centre Pompidou di Parigi.

Topography 54

Se invece la natura del luogo non è particolarmente significativa, come è il caso delle grandi periferie urbane, l’architettura ha il compito di migliorare la qualità dell’ambiente, creando essa stessa una nuova topografia. A tale proposito, occorre ricordare la nuova Biblioteca Nazionale di Parigi, progettata da Dominique Perrault, che si presenta, più che come un edificio, come un vero e proprio intervento urbano su grande scala.

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Eccoci di fronte al palazzo in Paseig de la Pau dove si trova lo studio di embt di Enric Miralles e Benedetta Tagliabue: prima di arrivarci abbiamo camminato nelle viuzze qui attorno insieme ad Elena Rocchi. È lei, architetto senior dello studio insieme a Joan Callis e Karl Unglaub, ad accoglierci per presentarci lo studio e il progetto del Mercato di Santa Caterina. Ha scelto di passeggiare con noi prima di arrivare allo studio per farci capire meglio il luogo, la vita e soprattutto la storia del quartiere. Elena dice: “Tutti i riferimenti al passato (le architetture preesistenti, la ristrutturazione del palazzo che lascia intravedere gli affreschi sottostanti) vengono riletti dagli architetti di oggi con un significato che gli viene suggerito dalla loro sensibilità. La casa dove lavoriamo è importante: tutti noi abbiamo imparato a ristrutturare partendo dalla risistemazione del nostro studio, proprio come Enric e Benedetta avevano fatto con la loro casa”. Anche noi proviamo a sperimentare lo stesso gioco, cercando nel palazzo dettagli che ci raccontino qualcosa di questo luogo: la ‘A’ di architettura nelle crepe di uno dei gradini dell’ingresso dello studio, il cortile con le vecchie botteghe di artigiani oggi utilizzate come depositi dei materiali, la scala di accesso al piano nobile di questo antico palazzo…che ci porta nello studio.

Igor Peraza e il Mercato di Santa Caterina

La ‘casa’ di EMBT

Igor Peraza, architetto senior dello studio, ci accompagna insieme ad Elena nel nostro giro

del quartiere. Igor è l’architetto responsabile del progetto del Mercato di Santa Caterina.

Joan Callis Architetto senior dello studio, è stato il responsabile insieme ad Elena Rocchi del progetto per il Parlamento di Edimburgo e si è occupato, tra gli altri,

Ampliamento del porto di Amburgo sul fiume Elba

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Elena ci racconta: “È un lavoro molto impegnativo perché ad Amburgo le maree si alzano e si abbassano di tre o quattro metri e mezzo durante la giornata. Uno degli elementi protagonisti è la vegetazione perché con le maree il paesaggio cambia completamente e abbiamo pensato di sottolineare questo fatto piantando degli alberi che vengono sommersi e riemergono nei diversi momenti della giornata”.

di quello del Mercato di Santa Caterina e del Parco dei Colori a Mollet del Vallés.

Karl Unglaub Architetto senior incaricato insieme a Elena Rocchi del progetto, è tra i più stretti collaboratori di Benedetta Tagliabue.

Joana Guerre Portoghese, anche lei sta lavorando al muro del porto. Si ispira alle facciate antiche dei vecchi magazzini della città, oggi scomparsi.

Sabine Zaharanski È una ragazza tedesca, praticante nello studio: sta lavorando a un muro di mattoni del molo del porto lungo alcuni chilometri, tutto giocato su tonalità diverse di rosso. Per idearlo si è ispirata ad una fotografia di pesci su una cartolina.

Veronica Belloli Italiana, si sta occupando del plastico del muro del porto. Partendo dal disegno a cui sta lavorando Sabine, Veronica rende tridimensionale il motivo dei pesci con piccoli pezzetti di legno di colore diverso.


Lo studio embt si presenta.

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Ad accompagnarci in questa tappa del nostro viaggio per conoscere il lavoro dello studio di Enric Miralles e Benedetta Tagliabue è Elena Rocchi, italiana, uno degli architetti senior dello studio: è arrivata qui nel 1992 ed è molto vicina a Benedetta. Ci tiene molto a farci capire quale è da sempre la filosofia di lavoro nello studio embt. Ci racconta dell’atmosfera che si respira al suo interno: “Lo studio ha sempre la porta aperta, gente che va e che viene; le persone che lavorano qui provengono da diverse parti del mondo e ognuno è importante e prezioso. Certo, ci sono lavori che alcune persone possono fare meglio di altre, lo studio deve essere in grado di valorizzare le caratteristiche di ognuno a seconda delle esigenze del momento. Questa è la sua ricchezza più grande. Lavoriamo in uno spazio silenzioso, laborioso, dinamico e soprattutto sereno: sembra una grande famiglia”. Stando una giornata assieme a loro ci si accorge subito che i rapporti umani che legano le persone dello studio si intrecciano al loro lavoro: lo studio è veramente pieno di vita.

Mercato di Santa Caterina, Barcellona Ci spostiamo nella sala riunioni, per aprire la nostra valigia con i materiali che lo studio ha preparato per presentarci il progetto. A illustrarcelo ci sono Elena e Igor Peraza, responsabile per lo studio del cantiere del Mercato di Santa Caterina. Elena inizia a raccontare: “In questa valigia ho raccolto più che altro testimonianze del ‘processo’ progettuale. La storia di questo progetto si intreccia molto da vicino con quella di Enric e Benedetta che lo hanno ideato, loro abitavano qui nel quartiere e frequentavano abitualmente questo mercato coperto. Circa nove anni fa a Barcellona la gente ha smesso progressivamente di fare la spesa al mercato e quindi il Comune aveva deciso di demolire questa costruzione. Enric e Benedetta hanno iniziato la loro protesta, proponendo al Comune come soluzione alternativa quella di riqualificare il mercato. Al nostro arrivo, quindi, ci siamo trovati di fronte ad un vecchio mercato coperto: procedendo con i lavori abbiamo poi scoperto i diversi strati della storia del luogo. Il più antico è quello che corrisponde a una necropoli in parte romana, a cui si è sovrapposta nei secoli una piccola cappella, trasformatasi nel convento di Santa Caterina, cioè in una chiesa a tre navate con un chiostro”.

Plastico di cartone Elena ci indica una fotografia del plastico di cartone di una zona del mercato.

Disegni planimetrici Collage della necropoli Igor ci chiarisce le vicende del ritrovamento della necropoli.

Elena sovrappone il disegno planimetrico del mercato a quello della necropoli e della chiesa per spiegarci la complessità della stratificazione del luogo.


Benedetta Tagliabue, a proposito di questo progetto, ha affermato: “Il mercato si costruisce sopra le rovine dell’antico convento. Per lavorare in un contesto storico complesso come questo è necessario lavorare non solo nel momento attuale, ma anche cercare possibili

indicazioni per il futuro in alcuni momenti del passato”. Work in progress. embt,

Enric Miralles, Bene-

detta Tagliabue. Barcellona: colleghi d’Arquitectes de Catalunya,

Questa considerazione, che sintetizza efficacemente la filosofia di lavoro dello studio embt, risulta fondamentale per comprendere al meglio quello che Elena ci racconta.

Elena ci illustra il suo punto di vista sul significato della copertura del mercato in relazione alla topografia del luogo: “Non sono io ad aver progettato

la ristrutturazione del mercato, ma credo che l’idea sia stata quella di confrontarsi con la perduta topografia antica del centro storico e di creare un nuovo spazio

pubblico ad una certa altezza, una specie di parco che nessuno può calpestare, di inventare cioè un nuovo livello di orizzonte: bisogna volare veramente alti per vederlo”.

2004.

Elena ci parla, infatti, della topografia del luogo, che è anche la tematica della sezione della Biennale in cui si inserisce il progetto del Mercato di Santa Caterina: “Per noi la topografia iniziale del luogo era quella del vecchio mercato: col progredire dei lavori ci siamo trovati di fronte a una nuova topografia, quella della necropoli, poi soppiantata da quella successiva del convento”.

A sinistra: Una foto di Benedetta Tagliabue che passeggia sulla copertura del mercato. È come se in questa foto Benedetta Tagliabue si appropriasse della topografia del luogo: un po’ come passeggiare sulla terrazza di una chiesa.

A destra: La copertura ondulata del mercato.

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Concentriamo la nostra attenzione sulla copertura del mercato. Elena dice: “Per noi il progetto del Mercato di Santa Caterina consisteva nella realizzazione della copertura. Se fosse stato possibile, non avremmo costruito una facciata, ma poiché era sopravvissuta quella originale abbiamo deciso di conservarla”.

In questa pagina. A sinistra: Plastico in legno di una delle capriate della copertura. A destra: Gli studi per la 62

copertura colorata. Nella pagina a lato.

E passa quindi a spiegare, insieme ad Igor, più nel dettaglio la struttura e le particolarità di questa tettoia: “L’architettura di questo tetto è molto complessa, costituita da archi di legno fatti di lamine. Per immaginare il passaggio dal disegno in piano alla superficie ondulata abbiamo dovuto costruire un plastico, in cui la copertura verde del tetto è fatta di cartapesta. Inizialmente la copertura non era colorata. Abbiamo aggiunto i colori in un secondo tempo, ispirandoci alla frutta e alla verdura esposte nelle bancarelle dei mercati.

Igor, sul progetto ci dice: “Per mesi si è lavorato separatamente e in luoghi diversi ai singoli elementi della struttura: poi di colpo tutto si è incastrato come in una specie di meccano”.

Le piastrelle sono di ben sessantasei colori diversi. Hanno una forma esagonale e sono raggruppate in moduli di un metro quadro di superficie. La scelta della forma delle piastrelle e dei moduli è dovuta al fatto che l’esagono sopporta al meglio le tensioni e le dilatazioni dei diversi materiali”.

È ancora Elena a fornirci nuovi indizi sul metodo di lavoro: “Per noi il progetto è stato qualsiasi momento. Non c’è stata fase che non abbiamo registrato: come quando si è piccoli e la mamma scatta delle foto. Noi trattiamo i nostri progetti come se fossero tutti dei primi figli: ci affezioniamo a loro”.

Metodo di lavoro Per capire il metodo di lavoro dello studio, è fondamentale tener presente come Miralles descriveva i collage utilizzati per presentare i progetti: “I collage si presentano come istanti interrotti di un progetto. Sono immagini istantanee che fissano dei momenti riguardanti la costruzione. [...] In un certo senso sono come schizzi simultanei, come molteplici e distinte visioni di uno stesso momento. Vi sono in essi tanti punti di attenzione e tanti pensieri diversi. [...] Un progetto è sempre fatto di questi momenti diversi, di diversi frammenti a volte contraddittori. Questi collage, alla maniera di un puzzle, trasferiscono la rappresentazione di uno spazio in un’azione che in qualche modo ripete il lavoro stesso di progettare. Sono come una sorpresa, che apre continuamente una nuova definizione dei limiti e dei contorni. [...] Da questa nozione ho sviluppato il tema della rappresentazione deformante, che raccoglie solamente visioni parziali mentre la costruzione del progetto deve ancora essere realizzata. Queste deformazioni hanno la capacità di rendere espliciti i contenuti dei progetti”. Opere e progetti. Enric

A sinistra: Alcune im-

Miralles, Benedetta Taglia-

magini scattate durante la

bue. Milano: Electa, 1996.

lavorazione degli archi di sostegno.

A destra: La fabbrica dei colori delle piastrelle.

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In questo laboratorio abbiamo lavorato sulle trasformazioni di una forma che viene modificata con piccole varianti, fino ad ottenere la composizione più soddisfacente. Siamo, quindi, partiti dallo studio di oggetti semplici, cercando di capire le loro possibili relazioni di vicinanza e lontananza e la proporzione fra le loro parti. Questo metodo di lavoro si ritrova in ogni progetto dello studio embt. Enric Miralles ha scritto: “Rifare in ogni istante tutto il lavoro. È un materiale identico che vuol essere mostrato in modi diversi per essere contemporaneo al pensiero in ogni istante”. Metamorfosi del paesaggio. Universale di Architettura. Fredy Massad Alicia Guerrero Yeste, Enric Miralles. Roma: Testo & Immagine, 2004.

Ricomporre

Oggetti e parole

La parola ri-comporre contiene tutti i germogli della creazione. Prendiamo degli elementi e li ri-componiamo a modo nostro. Li modifichiamo leggermente, quel tanto che basta per stravolgerli profondamente. Li spostiamo un poco, e tutto cambia ...l’equilibrio fra le parti, il senso immediatamente visibile, il ricordo che conserviamo delle cose viste.

Abbiamo scelto una base e, prima, con oggetti geometrici, poi con gli oggetti trovati nel nostro viaggio a Barcellona, abbiamo giocato con la composizione. Ognuno di noi a turno ha aggiunto, spostato o tolto un pezzo, fino ad ottenere una composizione soddisfacente.

Con questa frase di Miralles abbiamo voluto spiegare la funzione di questo laboratorio: “Ripetere è ciò che preferisco. Milioni di tentativi. ...Solo ripetere la forma del ‘block’, cambiando un poco il suo volume. ...Finalmente si ferma in una posizione”.

Basta il gesto di una mano concentrata per modificare grandi parole ...parole immense come composizione, relazione fra le parti, equilibri, squilibri...

Come scrive Miralles: “Così i sognatori professionisti si occupano di migliorare la trasformazione della realtà che è la realtà al di là dello specchio, un progetto, un sogno”. embt

Miralles Tagliabue. Ar-

Work in progress. embt, Enric Miralles, Benetta Tagliabue.

chitetture e progetti. Marco

Barcellona: Collegi d’Arquitectes de Catalunya, 2004.

De Michelis, Maddalena Scimeni, Benedetta Taglia-

Per Miralles l’atto del ripetere è centrale, è lo strumento che gli permette di sviscerare poco a poco gli aspetti dell’essenziale... Ogni atto di ripetizione del disegno o della realizzazione di un plastico fa in modo che compaiano aspetti che, prima, non si erano fatti notare. La ripetizione fa in modo che sia il lavoro dell’architetto a permettere che emerga un’architettura adattata al luogo e al contesto in cui si deve costruire. In realtà, questo processo non è definibile esattamente come una ripetizione; piuttosto, usando le parole di Miralles, come “una traslazione di informazione da un progetto all’altro”; cioè Miralles considera la ripetizione come un atto che evidenzia la sua profonda convinzione nel fatto che: “I progetti non terminano mai, bensì entrano in fasi successive, nelle quali forse non avremo il controllo diretto su di essi, o forse si reincarnano in altri progetti”. 64

Metamorfosi del paesaggio. Universale di Architettura. Fredy Massad Alicia Guerrero Yeste, Enric Miralles. Roma: Testo & Immagine, 2004.

bue. Milano: Skira, 2002.

Composizione variabile

Durante il nostro viaggio, abbiamo raccolto piccole cose che abbiamo incontrato e che adesso trattengono il ricordo. Questi oggetti sono stati raccolti in una scatola la cui forma ricorda un libro: si tratta di uno scrigno dei segreti...

Forme e disegni È importante in questo lavoro dare ad ognuno un tempo preciso per pensare alla propria forma modificata e realizzare diverse composizioni con materiali differenti. Si può provare a sviluppare una forma anche attraverso il disegno. Disegna una forma, poi traccia la stessa forma leggermente modificata su un altro foglio e ancora un’altra volta per almeno dieci volte. Dopodiché si può ritagliare le forme e attaccarle su un cartoncino scuro sino a creare una sequenza.

Materiali: base d’appoggio, vari oggetti geometrici, mani, parole...


“Si può guardare il pezzo di un puzzle per tre giorni di seguito credendo di sapere tutto della sua configurazione e del suo colore, senza aver fatto il minimo passo avanti: conta solo la possibilità di collegare quel pezzo ad altri pezzi [...]; solo i pezzi ricomposti assumeranno un carattere leggibile, acquisteranno un senso: isolato, un pezzo di un puzzle non significa niente...; ma se appena riesci a connetterlo con uno dei pezzi vicini, ecco che quello sparisce, cessa di esistere in quanto pezzo: l’intensa difficoltà che ha preceduto l’accostamento e che la parola puzzle – enigma – traduce così bene in inglese, non solo non ha più motivo di esistere, ma sembra non averne avuto mai, tanto si è fatta evidenza: i due pezzi miracolosamente riuniti sono diventati ormai uno...” La vita: istruzioni per l’uso (“La vie: mode d’emploi”). Georges Perec. Milano: Rizzoli, 1984.

In alcuni testi, Miralles racconta come l’introduzione del romanzo di Georges Perec, “La vita: istruzioni per l’uso”, fornisca una buona metafora del suo lavoro intellettuale. Si tratta di una breve riflessione sul puzzle che ci aiuta a capire lo spirito di questo laboratorio. Scrive ancora Miralles: “Lasciati portare più dalla curiosità e dall’intuizione che dalla sistematicità”. embt

Fotopuzzle

Ri-composizione nel senso di smembrare e poi ri-assemblare. Ricomposizione nel senso di ricercare elementi e poi rimescolarli, unendoli e riordinandoli. Ri-comporre: ri-creare e stratificare lo spazio e il tempo. Nel Mercato di Santa Caterina e nei suoi dintorni abbiamo giocato con i concetti di spazio e di tempo. Con lo spazio perché abbiamo fotografato i luoghi che abbiamo incontrato, con il tempo perché con le immagini che abbiamo scattato, abbiamo creato un racconto della nostra giornata.

Miralles Tagliabue. Architetture e progetti. Marco De

Michelis, Maddalena Scimeni, Benedetta Tagliabue. Milano: Skira, 2002.

Nell’idea di puzzle rientra anche quella del tempo che, negli scritti e nelle parole di Miralles, è definito come il fattore chiave attraverso il quale è possibile parlare della memoria. Della memoria come convergenza di passato, presente e futuro e della memoria come connessione dell’individuo con il divenire del tempo.

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Curiosità, casualità e attenzione ai dettagli

Dallo studio di embt abbiamo passeggiato fino al Mercato di Santa Caterina, accompagnati da Elena Rocchi. Abbiamo tentato di orientarci nella città scattando delle foto di quello che ci colpiva: con l’occhio vigile pronto a registrare tutto! Ci ha guidato lo stesso principio di curiosità che anima lo studio embt: la curiosità del dettaglio, dell’edificio, del complesso, dei profumi, degli odori, delle parole messe in aria... La creazione fotografica è servita per capire meglio la portata stravolgente del progetto in sé e del progetto nel suo territorio. Stravolgere è una bella parola!

Sommando tutte le immagini, scattate da noi durante il sopralluogo al Mercato di Santa Caterina, ricostruiamo un puzzle della memoria. Memoria delle cose che abbiamo incontrato e di quelle che ci hanno colpito. Qui la foto diventa prolungamento dello sguardo e strumento per la memoria che trattiene l’impressione che i luoghi ci hanno dato. Un lavoro che parte dalla casualità e che arriva alla stratificazione nel tempo e nello spazio dei nostri ricordi che diventano i tasselli di questo collage fotografico: il quartiere storico, la struttura del vecchio mercato, la struttura metallica che sostiene la copertura, il mercato della Buqueria e la copertura. Questo puzzle fotografico è la sintesi di ricordi, parole, emozioni di tre ragazzi.

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Materiali:

fotografie, cartoncino, colla.


“L’architettura di Enric Miralles è frutto della conoscenza, della sperimentazione, dell’ispirazione e delle inquietudini del suo creatore. È un’architettura di forme eloquenti che dialoga con la realtà (con il paesaggio, con il tempo...), un’architettura che non cerca la sua affermazione attraverso l’alienazione. È un’architettura che media tra l’uomo e lo spazio cercando di ottenere un’interazione fluida e distesa...” Enric Miralles. Metamorfosi

Percepire il luogo

del paesaggio. Universale

L’ampia copertura del Mercato è un luogo magico, stravolgente, al quale Elena Rocchi associa immagini diverse: “Le cose più importanti sono le fotografie in cui si vedono le diverse fasi di costruzione della copertura della necropoli: i corpi che vi erano sepolti e le pietre che stavano spingendo verso l’alto e che hanno fatto in modo che il tetto si muovesse”.

di Architettura. Fredy Massad Alicia Guerrero Yeste, Enric Miralles. Torino: Testo & Immagine, 2004.

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Esplorazione dei sensi

E ancora Elena ci ha spiegato che: “La copertura la vedo sempre come un gioco sotto le lenzuola, in cui appaiono le figure dei figli e della moglie di Enric. Questa tettoia è anche una storia familiare, che mi fa piacere raccontarvi”. La percezione di un luogo, o di un’architettura che si colloca in un luogo, può passare attraverso la vista, il tatto e il corpo. Sentiamo ed ispezioniamo il luogo e le sue superfici con

tutti i sensi e con tutto il corpo, sdraiandoci, scivolando... Come si muove un corpo in perlustrazione? Cosa percepisce?

La vista è sicuramente il senso più stimolato in questo spazio così ampio. Abbiamo reso visibile il nostro sguardo con la macchina fotografica, attraverso ampi scorci del tetto. Abbiamo ascoltato ad occhi chiusi, per percepire attraverso l’udito i rumori della vita. E infine il tatto: con la temperatura folle di questa giornata le piastrelle sono davvero roventi!

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Giocare con l’architettura Miralles ha fatto dell’essere architetto un gioco al quale ci invita costantemente a prendere parte. E noi decidiamo di prenderne parte usando tutti i nostri sensi. Siamo saliti sul tetto del Mercato di Santa Caterina per vivere con i sensi e con il corpo la sensazione dataci dal territorio sospeso, ampio, vivo. È un’occasione unica e irripetibile, poiché l’accesso al tetto del Mercato di Santa Caterina non è consentito al pubblico. Elena Rocchi ci ha detto: “È stato creato una specie di nuovo spazio pubblico ad una certa altezza. Una specie di parco che, però, nessuno può calpestare: non sarà uno spazio accessibile. L’esperienza di oggi è davvero unica e mi piacerebbe che questo tetto fosse aperto ai bambini”.

Lo spazio ci ha preso, ci ha mosso, ci ha spinto a correre. Ne è nato un gioco che ha coinvolto tutti, anche Elena e Igor, il responsabile del cantiere. Ci siamo sbilanciati, appesi alle strutture metalliche, ci siamo legati l’uno con l’altro: una cordata di uomini, donne e ragazzi! Siamo stati bene, bene come si può stare in un parco sospeso. Le parole iniziali di Elena, i suoi racconti sul tetto si sono materializzati in un’esperienza del tutto nuova che si è sedimentata nella nostra memoria.

Abbiamo iniziato ad esplorare con tutto il corpo. Non solo con un senso, ma con tutte le parti coinvolte. Sentire le pendenze, le rientranze... scivolare, correre, arrampicarsi e riposarsi. 70

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“Da quando ho iniziato ad occuparmi di sensorialità cerco sempre di annusare l’architettura, di palparla, di ascoltarla, di vedere che cosa succede quando c’è la luce e quando non c’è, di sentirne i suoni e di narrarla più o meno in forma di racconti, se possibile brevi”. Storie di architettura attraverso i sensi nebbia, aurorale, amniotico... Anna Barbara. Milano: Bruno Mondadori, 2000.

Indice poetico di Carlo Dopo l’esplorazione con i sensi, ci prendiamo del tempo per sedimentare le emozioni, per scrivere brevi testi che narrano e che ci fanno scorrere davanti agli occhi immagini, personaggi, ambienti. Il luogo fisico, la copertura del tetto, diviene spunto creativo, poetico, immaginario. Enric Miralles, Benedetta Tagliabue e Elena Rocchi hanno scritto un testo, “Mille e un pensiero”, sullo studio della parola, della scrittura e del segno a cui ci siamo ispirati per il nostro lavoro. “E per lavorare, i sognatori professionisti, sempre si accompagnano a compagni di viaggio interessanti, per sviluppare la conversazione. ‘Questo si, questo no’ e tutte le infinite varianti. È un compagno che riflette nello sguardo l’aggrado o no della proposta, sono le molte mani che la lavorano. È un libro, che fa compagnia agli occhi mentre la mano e la matita si muovono sul foglio”. embt

Indice poetico di Joan Callis

Il Mar del centro storico 1. agosto 2. viaggio.. 3. invasione. 4. barcel-ona.

Uno scivolo di mattonelle.

Ci siamo seduti al fresco e con Joan, Elena e Dani abbiamo giocato con la parola. Ci immaginiamo di poter guardare la copertina di un libro con il nostro nome come autore, apriamo il libro e immaginiamo l’indice... e i titoli di ogni capitolo.

1. una scala pericolante. 2. un tetto esageratamente sporco. 3. fotografi acrobatici. 4. una scalata su un arco. 5. finalmente giù.

Indice poetico

Miralles Tagliabue. Architetture e progetti. Marco De

Michelis, Maddalena Scimeni, Benedetta Tagliabue. Milano: Skira, 2002.

Indice poetico di Dani Rossello

Sciare in una valle di colori tra i tetti di Barcellona 72

1. i ceramisti portoghesi scendono per la pista nera. 2. l’architetto scala il lucernaio. 3. cafè alla quota più alta prima di proseguire. Da lì, si vede Barcellona....e la torre del gas. 4. le piste non sono né nere, né rosse, né blu, né verdi. Ma tutti i colori.

Indice poetico di Giada:

I grossi pesci di.... Santa Caterina 1. la camminata verso Santa Caterina. 2. la grande salita. 3. gli scivoli colorati. 4. le corde umane. 5. cadute libere. 6. pranzo con un famoso architetto. 7. il libro.

Indice poetico di Labrea Rocky (Elena Rocchi)...

(Domenica Pomeriggio)... Forse è ora di andare a dormire Papà Vieni con me qua sotto... le lenzuola. Mi hai trovato? Celebrazione.

Indice poetico di Tommaso

Viaggio nel mondo dentro l’arcobaleno. 1. la grande scalata. 2. l’arrivo nel mondo dell’arcobaleno. 3. la conquista del monte “non ce la faccio più”. 4. quasi morti. 5. la “rampicata” sull’arco di ferro. 6. ustionato! 7. finalmente giù.

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Nella presentazione del progetto, Elena Rocchi ci ha spiegato come sono stati risolti alcuni problemi tecnici, dovuti alla forte tensione strutturale della copertura. “L’architettura di questo tetto è molto difficile. È fatta di archi di legno”. Carlo ha chiesto: “Ma sono più archi, oppure sono vari pezzi di legno?” Elena ci ha spiegato che si tratta di un arco curvato fatto di lamine: “Si mette un pezzo di legno, poi un altro e un altro...” Le ceramiche poste sulla copertura sono di sessantasei colori diversi. Abbiamo visto alcuni provini delle ceramiche che sono conservati in una cassa. Notiamo subito una quantità di rossi... “Perché sapete” – ci ha detto Elena – “che quando la ceramica si fa artigianalmente i colori non sono mai uguali. Per esempio il rosso è un colore difficilissimo. Quando lo cuoci cambia sempre di tonalità”. Giada: “Come avete deciso la forma del modulo. Avete magari preso le forme da un modello?” Elena: “Abbiamo preso una foto con la frutta delle bancarelle di un mercato e abbiamo fatto un fotomontaggio. Poi dopo, abbiamo usato i pixel dell’immagine e ingrandendoli la forma che ne è uscita è un esagono. Questa forma funziona nella natura, soprattutto per le tensioni. Perché, sapete, quando fa molto caldo, i materiali si dilatano in modo differente, per cui uno dilata di più, uno di meno, e questa forma permette il maggior numero di movimenti possibili”.

La dilatazione dei materiali Nella visita alla copertura, abbiamo dedicato del tempo a perlustrare i luoghi in cui più era evidente come la struttura piegata provochi dei punti di tensione. Abbiamo provato le “scottature” da ceramica... e ci siamo arrampicati sulle strutture dei ponti, per sentire la tensione abbiamo spinto con i piedi le pareti curve.

Struttura in tensione Percepire la tensione strutturale dei materiali è molto difficile. Abbiamo fatto, allora, un laboratorio fisico per cercare di percepire la tensione della struttura portante e della copertura.

Usando una semplice rete e torcendola in modi diversi abbiamo cercato di sentire la resistenza del materiale. Abbiamo provato a torcere e flettere una griglia robusta per sentire la torsione interna.

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Materiali:

rete metallica.


Guida. Lo studio e i progetti Enric Miralles

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Barcellona, 1955 - San Feliu de Codines, 2000. Studia architettura alla Barcellona School of Architecture (e.t.s.a.b.), laureandosi nel 1978. Dal 1973 al 1985 ha collaborato con PinonViaplana. Apre un proprio studio nel 1984, che divide con Carme Pinos fino al 1990 e fino al 1999 con Benedetta Tagliabue. Tra il 1980 e il 1981 è visiting student alla Columbia University di New York. Nel 1983 discute la tesi di PhD: “Cose viste a destra e a sinistra (senza occhiali)”. Professore all’e.t.s.a.b. dal 1985, detiene una cattedra dal 1996. Direttore del Masterclass alla Stadelschule di Francoforte dal 1990. Professore ad Harvard con la cattedra Kenzo Tange dal 1992. È stato professore e lettore in diverse università degli Stati Uniti, sud America ed Europa (Columbia University, 1988-89; Princeton University, 1993-94; riba aa, Università di Architettura di Rio de Janeiro, Buenos Aires, Rosario, Mexico City...). Membro del Ryal Incorporation of Architects in Scozia.

Benedetta Tagliabue

Selezione dei principali progetti

Milano, 1963. Laureata all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia nel 1989, con una tesi su “Central Park, New York”, con cui vince il primo premio alla Biennale Joves di Barcellona nel 1991. Nel 1993 apre uno studio con Enric Miralles. Ha scritto articoli per diverse riviste di architettura dal 1986 e ha preso parte all’attività accademica in diverse università di architettura in Europa. Gestisce l’archivio dello studio e ha pubblicato diverse opere tra cui “Mixed Talks” per Academy Editions e “Enric Miralles”. Opere e progetti’ per Electa.

Casa in Mercaders Street, Barcellona (realizzazione: 1993-94). Scuola di Musica, Amburgo (progetto: 1997, realizzazione: 2000). Municipio di Utrecht (progetto: 1997, realizzazione: 1999-2000). Parco dei Colori, Mollet del Vallés (progetto: 1992, realizzazione: 2001). Parco del Viale Diagonale, Barcellona (progetto: 1997, realizzazione: 2002). Campus dell’Università di Vigo (progetto: 1999, realizzazione: 2003). Parlamento di Edimburgo (progetto: 1998, realizzazione: 2003). Ristrutturazione del Mercato di Santa Caterina, Barcellona (progetto: 1997, realizzazione: 2004). Istituto Universitario di Architettura di Venezia (iuav) (progetto: 1998, realizzazione: 2001). Quartiere del gas Natural, Barcellona (progetto: 1999, realizzazione: 2005). Hafen city (Porto di Amburgo) (progetto: 2002).

Un’immagine del cantiere: la copertura del mercato.

Studio tipologico del progetto di Santa Caterina.

Mercato di Santa Caterina, Barcellona Il Mercato di Santa Caterina occupa un’area rettangolare all’estremità orientale della Ciutat Vella, poco distante dalla Cattedrale. Conservava la struttura perimetrale originale del 1840, fino a quando nel 1997 il Comune di Barcellona decise di rinnovarlo, nel contesto di una più ampia azione di recupero del centro storico. Il concorso venne vinto dallo studio embt, che iniziò nel 1999 i lavori di scavo che portarono alla luce una vasta zona archeologica. Il carattere della ristrutturazione prevede la convivenza delle diverse stratificazioni storiche con la nuova architettura. Il perimetro murario del vecchio mercato viene conservato quasi interamente e gli viene sovrapposta una nuova copertura ondulata a tre campate lignee, rivestite esteriormente da un mosaico di piastrelle di ceramica: nella nuova struttura sono utilizzate le originali capriate lignee. La nuova costruzione si sovrappone e si confonde quindi con quella preesistente, proponendo un modello che si adatti alla complessità del luogo: il mercato si identifica con la strada e diviene un luogo di passaggio, una piazza. Il programma di risistemazione prevede la superficie del mercato concentrata nella zona nord, verso la piazza con la Cattedrale, mentre l’ala sud del lotto è destinata ad accogliere edifici residenziali, un parcheggio sotterraneo e un museo archeologico.

Plastico dell’area del mercato.

Studi cromatici per la creazione delle piastrelle di copertura.

Bibliografia essenziale. La vita: istruzioni per l’uso (“La vie: mode d’emploi”). Georges Perec. Milano: Rizzoli, 1984. Opere e progetti. Enric Miralles, Benedetta Tagliabue. Milano: Electa, 1996. Time architecture. Miralles Tagliabue. Barcellona: Editorial Gustavo Gili, 1999. Storie di architettura attraverso i sensi nebbia, aurorale, amniotico... Anna Barbara. Milano: Bruno Mondadori, 2000. embt Miralles Tagliabue. Architetture e progetti. Marco De Michelis, Maddalena Scimeni, Benedetta Tagliabue. Milano: Skira, 2002. Enric Miralles, Benedetta Tagliabue. 1983 - 2000. Madrid: El Croquis 30 - 49/50 - 72(ii) - 100 - 101, 2002. Enric Miralles. Metamorfosi del paesaggio. Universale di Architettura. Fredy Massad Alicia Guerrero Yeste, Enric Miralles. Torino: Testo & Immagine, 2004. Work in progress. embt, Enric Miralles, Benetta Tagliabue. Barcellona: Collegi d’Arquitectes de Catalunya, 2004.

Il Mercato di Santa Caterina visto dall’alto.

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Noi conosciamo l’architettura attraverso la sua superficie, così come il corpo d’ogni organismo è conosciuto attraverso la sua epidermide. La superficie è ciò che percepiamo, visivamente e tattilmente, di ogni manufatto architettonico. All’esterno l’architettura si presenta come una massa plastica e compatta, ma solamente visibile. La qualità della superficie è dunque data in primo luogo dalla conformazione dei volumi (sporgenze e rientranze, vuoti e pieni, simmetria e dissimmetria, aperture e chiusure). Molta importanza hanno anche il colore, esaltato dalle potenzialità dei nuovi materiali, oppure la sua assenza, con il dominio delle superfici bianche. C’è poi da sottolineare la trasparenza dell’edificio, con la maggiore o minore estensione di zone vetrate, che mette in gioco il rapporto con la luce naturale (capacità di assorbimento o di riflessione, chiaroscuri) o con la quella artificiale (di notte molti edifici vengono percepiti solo grazie alla loro illuminazione interna, che traspare dalle finestre). All’interno l’architettura viene percepita non solo visivamente, ma anche tattilmente. Ciò mette in gioco altre sensazioni provocate dalle superfici (liscio e ruvido, rotondo e spigoloso, caldo e freddo), che variano a seconda dei materiali usati. Va inoltre ricordato che l’esperienza tattile non risiede solo nelle mani, ma anche nei piedi (morbido e duro, regolare e irregolare, in salita e in discesa ecc.).

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Peter Eisenman: vedere ciò che non c’è Siamo a New York nello studio di Peter Eisenman. Gli ambienti si sviluppano su due piani: uno destinato al lavoro di progettazione e di elaborazione al computer, l’altro utilizzato per la realizzazione dei plastici. I progetti di cui si occupa lo studio sono molto sperimentali e richiedono quindi un notevole impegno di lavoro e di tempo. Eisenman ci spiega, infatti: “Dal momento in cui si inizia a lavorare ad un progetto, ci vuole circa un anno per studiarne il design, un altro anno per per fare i disegni e poi tre anni circa per realizzarlo: in tutto fanno cinque anni. I nostri progetti impiegano dai cinque ai dieci anni per essere realizzati. Tenete presente che dopo cinque o dieci anni che lavorate su uno stesso progetto non ne volete più sapere, avete voglia di fare altro. Per questo le persone non rimangono quasi mai nel nostro studio per un tempo così lungo ed è mia opinione che sia giusto che si muovano, che vadano a lavorare in altri posti, che facciano altre esperienze”.

I locali dello studio Visitando lo studio abbiamo modo di farci un’idea dell’atmosfera che si respira in queste

stanze quando tutti sono al lavoro.

Stadio per gli Arizona Cardinals, Phoenix Girando per lo studio scopriamo il progetto di Eisenman per lo stadio degli Arizona Cardinals.

Anthony di Mari È praticante dello studio: lo vediamo al lavoro su un plastico.

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Florencia Vectcher Florencia è argentina: si sta occupando di Sewoon 4, progetto integrato per uffici ed edifici pubblici a Seoul.


Peter Eisenman si presenta Peter Eisenman ci descrive il mestiere dell’architetto, parlandoci della sua esperienza di lavoro. “L’architettura, che per me deve innanzitutto creare degli artefatti che abbiano un significato, è una cosa estremamente seria che richiede fatica. Partecipiamo a molti concorsi con progetti decisamente sperimentali: in questo senso vi dico che il mestiere dell’architetto è difficile e faticoso. Gli edifici che progettiamo richiedono studi molto più complessi del normale e non sempre vengono realizzati”. A questo proposito è molto interessante quello che Kurt W. Forster, curatore della Biennale, scrive di Eisenman per spiegare come la sua sperimentazione architettonica sia innanzitutto una riflessione, da mettere in relazione più con un pensiero che con una realtà concreta: “...gli edifici di Peter Eisenman [...] invitano a paragoni con idee piuttosto che con altri edifici. Anche una volta costruiti non sembrano mai coincidere col loro significato o rispettare le loro condizioni. Invece di rassicurare con la loro presenza fisica, gli edifici di Eisenman ci allontanano proprio dal senso della presenza. Rimandando sempre a qualcos’altro, implicando di essere qualcosa di diverso rispetto a quello che noi crediamo, i suoi edifici continuano a opporsi alla loro natura ancora per molto tempo dopo che sono divenuti parte della realtà. [...] In quanto edifici tra altri edifici, essi continuano a sorprenderci...”

Reinhardt Haus, Berlino Eisenman ci illustra l’idea fondamentale che sta alla base del progetto: “La Reinhardt Haus é stata progettata come una sfida per realizzare un grattacielo che non sembrasse tale, dal momento che esiste una regola per la quale a Berlino non si possono costruire grattacieli: non si tratta, comunque, di una costruzione elevatissima, dato che raggiungerà al massimo i 223 metri di altezza, distribuiti su sessanta piani. Si tratta di un centro mediatico che dovrebbe accogliere un hotel, spazi commerciali, uffici, un centro sportivo, un auditorium, ecc. Non è ancora sicuro che l’edificio venga in effetti realizzato, ma io ci tengo a parlarvene perché sono sicuro che non avete mai visto un grattacielo come questo. Tutto il progetto si basa su un’idea di partenza che viene da un architetto italiano del XVII secolo, Francesco Borromini: combinando nelle sue opere elementi molto diversi tra loro come la colonna e il muro, riesce a renderli una superficie continua. Ottenere una superficie continua con un unico elemento non è difficile: lo diventa se si vogliono combinare tra loro elementi assolutamente disomogenei. Quello che mi interessa ottenere con questo progetto è proprio una superficie continua articolata”.

Immagini tridimensionali Eisenman ci mostra alcuni rendering del progetto.

Il plastico della Reinhardt Haus Ecco il plastico dell’edificio, che a Carlo sembra quasi una scultura...

Il giardino dei passi perduti. Una installazione al Museo di Castelvecchio (Verona). Peter Eisenman. Venezia: Marsilio, 2004.

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Troviamo molto affascinante il fatto che la superficie esterna dell’edificio non lasci assolutamente intuire la partizione dei locali e dei piani interni. A questo proposito Eisenman ci dice: “Non ho mai creduto che gli spazi interni potessero determinare la forma esterna: anche le finestre che si aprono sull’esterno non raccontano nulla della divisione dei locali. In più, una sorta di griglia avvolgerà tutto l’edificio come una seconda pelle, lasciando un’intercapedine tra essa e la facciata, che contribuisce a dare alla superficie il senso di continuità. Ulteriore scopo della griglia di acciaio, é quello di riflettere la luce”.

Proseguendo nella descrizione dell’edificio, Eisenman ci chiarisce ancora meglio la sua idea di “superficie continua”. “Francesco Borromini è stato il primo architetto a riuscire in questo intento e noi stiamo cercando di ottenere proprio questo risultato.

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Creare, cioè, una superficie continua su un edificio che in realtà è frammentato in segmenti e piani diversi: l’effetto d’insieme è quello di un edificio curvo che camuffa la sua composizione effettiva in singoli elementi. Da questo risultato, ottenuto grazie

alla sperimentazione su una superficie continua irregolare e sfaccettata, si ottiene una sensazione di disorientamento visivo, che ci costringe a rivedere i nostri punti di riferimento e di equilibrio”.

La messa in discussione dell’equilibrio è proprio uno dei temi di riflessione fondamentale su cui si basa il lavoro di Eisenman: “Lo spiazzamento attacca la coerenza ma

non la elimina. Così l’architettura è una lotta tra una coerenza necessaria e il suo necessario spiazzamento”. Peter Eisenman. Milano: Area 74, 2004.

Nella pagina a fianco. A sinistra: Dettaglio del

plastico della Reinhardt Haus, con i singoli segmenti geometrici in evidenza. A destra: Un elemento

dell’installazione per l’allestimento alla Biennale, che sottolinea l’elemento di continuità della superficie.

A questo punto, Carlo domanda: “Cosa ci sarà tra le due ‘colonne’ di questo edificio?” Eisenman risponde: “L’idea è quella di intrappolare lo spazio all’interno di questo unico edificio, come nella cornice di una finestra o di un quadro: ci guardi attraverso e cambi completamente il tuo punto di vista”. Osservando il plastico della Reinhardt Haus ci sembra che la forma dell’edificio si perda ripiegandosi su se stessa all’infinito, come se si potesse mettere in relazione con la città in mille modi diversi.

Francesco Borromini Francesco Castelli, detto Borromini (Bissone, Canton Ticino, 1599 – Roma, 1667), si trasferisce a Roma poco prima del 1620, dove si dedica per anni al modesto lavoro di scalpellino. L’occasione decisiva per la sua affermazione (che comunque non è mai stata definitiva e stabile) è la costruzione della chiesa di San Carlino alle Quattro Fontane; seguono commissioni per l’Oratorio dei Filippini, la Chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza, il rinnovamento interno di San Giovanni in Laterano, il campanile di Sant’Andrea alle Fratte e la Chiesa di Sant’Agnese in Piazza Navona. L’ingegnosità del Borromini sta nella sua capacità di far perdere alle strutture la loro rigidità, integrandole in un più articolato e mosso rapporto reciproco; rivoluzionario è il continuo trapasso dalle superfici concave a quelle convesse. Il ritmo spezzato e accelerato delle sporgenze e rientranze della sua architettura interrompe spesso il fluire concavo-convesso delle pareti. La sua sperimentazione massima sta nella capacità di ondulare le superfici in un gioco di incastri, rientri e sporgenze incredibilmente complesso, grazie allo scomporsi dei muri in piani stratificati.

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tav

Carlo domanda: “Perché nel progetto della Reinhardt Haus non sono state usate delle forme tonde al posto dei frammenti geometrici che compongono la superficie dell’edificio?” Eisenman gli risponde, facendoci capire quanto sia importante lo sviluppo delle tecnologie al servizio del lavoro dell’architetto: “Quando nel 1992 abbiamo iniziato a lavorare a questo progetto, non avevamo ancora a disposizione la tecnologia computerizzata di oggi: l’unica cosa che potevamo fare era

frammentare le superfici in tante forme geometriche. Mano a mano che i software sono diventati più sofisticati siamo stati in grado di curvare le superfici e abbiamo incominciato a lavorare in questa direzione. Ad esempio, se avessimo ideato dieci anni fa il progetto del concorso per tav la Stazione per l’Alta Velocità Napoli Afragola, le sue forme sarebbero ancora una volta tutte squadrate e non così curve e fluide come quelle del progetto che abbiamo presentato”.

In alto: Il plastico del progetto della Stazione di Napoli, che evidenzia la morbidezza e la fluidità delle linee che lo compongono. A destra: Eisenman ci mostra il rendering del progetto per la Stazione per l’Alta Velocità Napoli Afragola.

Eisenman ci dice: “Prima di tutto bisogna capire come l’edificio

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sta in piedi: per questo si costruiscono i plastici, per valutare gli elementi funzionali dell’edificio e studiarne la statica. Ser-

vono per capire come si possono tradurre nella realtà le forme pensate nel progetto iniziale. Non è sufficiente vi-

sualizzarli digitalmente, perché il computer non restituisce il senso dello spazio reale. Trasferire il progetto

dal plastico ai disegni è molto difficile: quando i ragazzi costruiscono un modellino di una nave o di un aereo, assemblano dei pezzetti di plastica sulla base di un

disegno. Noi facciamo esattamente il contrario: costruiamo, cioè, prima un modello, ne traiamo dei disegni e da questi passiamo finalmente all’edificio reale”.

Eisenman descrive così il progetto presentato al concorso del 2003 per TAV, la Stazione per l’Alta Velocità Napoli Afragola: “Il progetto combina l’invenzione e la precisione strutturale in un risultato organico, condizione indispensabile sia per il suo valore simbolico, che per la sua efficace operatività. L’obiettivo è una stazione che simboleggi non solo la tecnologia e la velocità, ma anche la Napoli storica e la Napoli del domani in tutta la sua evidente complessità. Da un lato, troviamo aspetti conosciuti di struttura, spazio e forma che provengono da stazioni ferroviarie esistenti e del passato, dall’altra nuovi elementi, inattesi ed originali. La stazione erompe dall’uniformità della pianura Campana, trascinando con sé i campi e i frutteti della vallata. La struttura è razionale e fluida. I treni e le automobili scorrono tra e sotto un sistema di grandi tubature che incornicia un’imponente veduta del Vesuvio”. Peter Eisenman. Milano: Area 74, 2004.

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Ricalcare i punti di vista

In questo laboratorio abbiamo sperimentato un metodo di osservazione dell’architettura. Prima di incontrare Peter Eisenman, abbiamo guardato attentamente il progetto della Reinhardt Haus. Abbiamo fatto delle fotocopie ingrandite del progetto e abbiamo preso dei fogli di carta da lucido, semitrasparenti e un po’ più piccoli delle fotocopie. Abbiamo scelto delle porzioni del progetto e ne abbiamo segnato le linee, gli aspetti che più ci hanno colpito. Abbiamo ripetuto l’attività di osservazione su più fogli che poi abbiamo messo uno di fianco all’altro. Ogni disegno mette in luce aspetti ritenuti interessanti del progetto. Per esempio, Carlo ha tracciato con un’unica linea tutta la superficie del progetto, e in un altro disegno ha osservato le sfaccettature della superficie. Amanda ha realizzato un disegno in cui questi due aspetti convivono nello stesso foglio. Ne è nata una riflessione su come è diversa la percezione di un edificio visto da lontano, in cui si coglie l’insieme della struttura e quella dello stesso edificio visto da vicino, in cui si vedono i dettagli e le sfaccettature della materia.

Abbiamo messo dei piccoli fogli di carta da lucido sulle fotocopie ingrandite del progetto della Reinhardt Haus e ricalcato con dei gessetti le linee, le forme, le parti del progetto che più ci hanno colpito. Questa osservazione ci ha spinto a concentrarci con lo sguardo, visivamente, sul progetto: il foglio di carta da lucido più piccolo dell’immagine del progetto ci ha costretti a fare delle scelte precise, a posizionare il foglio soltanto su alcuni punti dell’immagine!

Aspetto fondamentale di questo lavoro è il momento del confronto tra i disegni, in cui emerge tutta la curiosità e la voglia di capire come lavora un architetto.

Disegno d’osservazione

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Con i disegni in fila, uno accanto all’altro, abbiamo notato come ognuno di noi ha scelto un aspetto diverso del progetto, ma ora vogliamo saperne di più: siamo pronti a rivolgere le nostre domande a Eisenman. Abbiamo, infine, capito che questo metodo di osservazione del progetto è simile a quello adottato da un architetto. Affrontare il progetto da tutti i punti di vista per capirne le problematiche: ogni nostro foglio è una tappa dell’analisi e sovrapponendo tutti i disegni abbiamo ricreato quello finale della Reinhardt Haus.

Materiali: fotocopie, carta da lucido, gessetti.

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La superficie continua

Tema fondamentale della sezione Surfaces della Biennale di Venezia è la continuità. Nell’architettura con la lavorazione delle linee e delle superfici si ottiene una continuità visiva che disorienta chi guarda. Diviene estremamente difficile capire anche le cose più semplici: quanti piani ha un edificio, dov’è il tetto, dove sono le finestre e dove le pareti.

Un altro esperimento sulla continuità: abbiamo preso delle lastre di metallo e delle lastre di cera da modellare. Abbiamo simulato la possibilità di modificare le superfici morbide come la cera, ma anche quelle più dure come quelle di metallo. Abbiamo concatenato i nostri frammenti per creare, oltre alla continuità visiva di una superficie modellata, delle forme più complesse e articolate.

Eisenman ci ha detto: “Tutto il lavoro che facciamo riguarda la sperimentazione delle superfici continue, irregolari”. E gli abbiamo allora domandato se per lui fosse importante ottenere il disorientamento che nasce proprio dalla continuità di una superficie irregolare. “L’idea è quella di disorientare visivamente. Quando guardate la Reinhardt Haus perdete l’equilibrio, il senso dell’orizzontalità e della verticalità si confondono e siete costretti a riorientarvi rispetto all’ambiente che vi circonda”. Per introdurre questa tematica complessa abbiamo realizzato un laboratorio in cui abbiamo modellato dei fogli di cera e di rame e creato delle linee e superfici continue. Eisenman ci ha spiegato che: “È per questo motivo che il progetto è interessante: è facile realizzare una superficie continua su di un edificio piano, ma ciò che abbiamo fatto noi è una superficie continua su di un edificio interrotto. [...] Non è difficile fare una superficie continua con un elemento solo, ma lo è aggiungere un elemento diverso a quello preesistente e ottenere una superficie continua. Quella che vedete qui è una superficie continua articolata”.

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La continuità di linea e superficie La linea continua Abbiamo realizzato un cubo di carta. Con l’acrilico nero abbiamo disegnato delle linee. La mano deve fare un gesto continuo senza interrompersi mai. Si crea un intricato disegno di linee in cui è molto difficile ricostruire l’inizio e la fine di ognuna. Abbiamo montato il cubo: adesso diventa difficile stabilire qual è il sopra e quale il sotto. Abbiamo iniziato a farlo roteare per aria: è impossibile distinguere le facce! Il movimento ci impedisce di mantenere anche i più semplici riferimenti. Un espediente visivo che ci ha introdotto al tema della continuità.

La forma si ripiega su se stessa, si articola, si struttura. Anche in questo caso abbiamo voluto giocare sull’estraniamento visivo che un materiale e la forma di una superficie possono creare. Diviene impossibile stabilire l’inizio e la fine della forma, il sopra e il sotto. La Reinhardt Haus nella sua uniformità materica provoca lo stesso tipo di disorientamento visivo. A questo punto la domanda è d’obbligo: quanti piani ha la Reinhardt Haus, quante finestre? Si riescono a individuare gli elementi strutturali?

Materiali: carta, cartoncino, nastro adesivo, colori acrilici, fogli di cera e di rame.


Un edificio acquista fascino per la sua capacità di evocare una forma. L’evocazione è una suggestione data dall’immaginazione: possiamo vedere solo una parte di una forma per immaginarla completa, nella sua interezza.

La continuità visiva di un volume

La Reinhardt Haus riprende la forma dell’anello o nastro di Möbius. Ottenuto mediante una striscia rettangolare di cui si fanno coincidere due lati opposti, dopo una torsione di mezzo giro, il nastro può essere percorso lungo tutto il contorno con una linea continua senza mai staccare la matita dalla carta. Per questa proprietà è divenuto simbolo dell’infinito: ∞ . Vedendo l’edificio, una metà dell’anello sembra essere sottoterra: la forma emerge e si ripiega su se stessa per sparire nel terreno. Da sottoterra, essa continua il suo cammino per piegarsi e tornare fuori. È facile immaginare che la parte che emerge è solo una porzione dell’anello. In questo laboratorio, abbiamo cercato di ricostruire delle forme continue che dessero l’idea dell’anello di Möbius e della circolarità. Come prima tappa, abbiamo lavorato la rete metallica tubolare ricercando e creando delle forme. La seconda tappa è stata quella di appoggiare la forma su uno specchio. Questo ha reso la forma percettibilmente più complessa: essa sembra moltiplicarsi creando delle figure organiche e un senso di continuità fra il sopra e il sotto. L’uso del computer nella progettazione architettonica rende possibile la realizzazione di edifici estremamente complessi. In particolare, nella sua più recente produzione architettonica, Eisenman ha usato programmi di animazione che gli hanno permesso un’analogia sempre più spinta con la genesi degli organismi viventi, evolutivi e complessi.

Forme riflesse In una rete metallica tubolare abbiamo inserito del filo di ferro che ci ha permesso di modellare delle forme che stessero in piedi. Le abbiamo appoggiate su uno specchio che, riflettendole, ci ha aiutato a creare virtualmente un volume ampio, intero, circolare.

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Materiali: rete metallica tubolare, filo di ferro, specchio.


Eisenman ci ha fatto notare che la superficie della Reinhardt Haus: “è una superficie continua articolata. La cosa che la rende interessante è che è rotta in segmenti, in superfici, in piani diversi, sembra curva, ma sono tutti segmenti. Di base sono degli esagoni perché sono facili da mettere assieme”. In questo laboratorio, abbiamo visualizzato il processo di torsione di una figura geometrica. Abbiamo realizzato un esagono tridimensionale e lentamente lo abbiamo contorto per moltiplicarne le sfaccettature. Il volume acquista complessità poiché anche le angolature delle piccole superfici geometriche sono inclinate, pendono e girano creando una superficie estremamente articolata. Osservando il modellino della Reinhardt Haus è evidente come la torsione del volume abbia creato mille sfaccettature geometriche della superficie.

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La complessità in un cappello Abbiamo costruito con il filo di ferro un esagono tridimensionale. Per rinforzare il filo di ferro e rendere più rigida la forma, abbiamo usato il nastro adesivo di carta che l’ha resa tutta bianca. Abbiamo fatto delle prove di torsione in modo che la superficie dell’esagono diventasse complessa, fatta cioè di più sfaccettature. Alla fine Tommaso ha pensato di mettere l’esagono sulla testa per farne un divertente cappello!

Materiali: filo di ferro, nastro adesivo di carta.

Sfaccettature geometriche

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Oggi l’architettura si serve di strumenti estremamente complessi ed innovativi. L’informatica fornisce nuove possibilità di progettazione. Questo breve testo rivela gli aspetti più interessanti dell’uso del computer nella progettazione: “L’informatica, gioca in questo contesto quattro caratteristiche chiave. Innanzitutto fornisce i modelli matematici per indagare la complessità chimica, fisica, biologica, geologica della natura e a partire da questi modelli di simulazione consente di strutturare relazioni nuove in progetti che ne assumono le dinamiche. In secondo luogo, l’informatica fornisce armi decisive per la costruzione reale di progetti concepiti interamente al computer [...]. In terzo luogo, l’informatica permette di simulare i comportamenti complessi della natura [...]. In quarto luogo, l’informatica, fornisce un modello diverso di città e di paesaggio: aperto ventiquattrore su ventiquattro con attività produttive, ludiche, sociali e residenziali”. La nuova architettura crea edifici che entrano nel paesaggio e lo modificano in parte o lo ricreano completamente. “L’idea è che l’architettura, dopo essersi fatta paesaggio, nelle stratificazioni di Eisenman, [...] nelle onde di Zaha Hadid, o ancora nei movimenti scoscesi del compianto Miralles, può diventare paesaggio complesso, animato, vivo”. Gli edifici non sono più oggetti appoggiati al suolo, ma modificano e creano paesaggi. Territori della complessità. Universale di Architettura. Paola Gregory. Torino: Testo & Immagine, 2003.

Per immaginare questa capacità e volontà di creare paesaggi abbiamo progettato delle piccole scenografie. Siamo andati molto in alto per fare delle foto di un paesaggio urbano. Con queste foto abbiamo immaginato di dover inventare forme geometriche.

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La distorsione percettiva Abbiamo scelto una foto significativa e con questa, grazie ad un’elaborazione grafica, abbiamo ricreato un piccolo sipario in cui la stessa immagine è tutto: è soffitto, è parete, è sopra, è sotto, è albero, è paesaggio. Si crea così una percezione stranita, una distorsione visiva e nello stesso tempo una situazione poetica, un piccolissimo paesaggio.

Paesaggi complessi Una foto che si ripete, come in un progetto d’architettura realizzato a computer, ci aiuta a capire e realizzare un effetto di distorsione percettiva. Abbiamo realizzato un paesaggio complesso partendo da un’immagine semplice.

Materiali: fotografie, computer, software 3D.

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Guida. Lo studio e i progetti

La Reinhardt Haus inserita nel contesto urbano.

Il plastico della Reinhardt Haus con il contesto urbano: facciata orientale (sopra) e facciata occidentale

Peter Eisenman

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New Jersey, 1932. È fondatore e presidente della Eisenman architects di New York City. Prima di iniziare la sua carriera di progettista, più o meno nel 1980, é stato soprattutto un teorico e un critico dell’architettura. Scrittura e insegnamento hanno sempre costituito parte integrante della sua carriera professionale. Nel 1967 ha fondato l’Institute for Architecture and Urban Studies (iaus), un serbatoio internazionale per il pensiero architettonico, di cui é stato direttore fino al 1982. Dei cinque architetti (Eisenman, Graves, Gwathmey, Hejduk, Meier), che nel 1969 furono presentati al Moma di New York da Kenneth Frampton, poi riuniti sotto il nome di “Five Architects”, Eisenman é stato in qualche modo l’anima teorica. Il suo percorso di studio prevede un diploma in architettura della Cornell University, una laurea della Columbia University, un Master e un Ph.D dell’University of Cambridge. Gli é stata conferita la laurea ad honorem in Belle Arti dalla University of Illinois, Chicago, e dal Pratt Institute di New York. Nel 2003 ha ricevuto la laurea honoris causa in Architettura dall’Università La Sa-

pienza di Roma. La carriera accademica di Peter Eisenman comprende l’insegnamento a Princeton, Yale, allo iuav di Venezia, e all’eth di Zurigo. Ad Harvard ha avuto in affidamento la cattedra “Arthur Rotch” per l’Architettura dal 1982 al 1985. É “Distinguished Professor of Architecture” alla Cooper Union di New York City ed attualmente detiene la cattedra di “Louis Kahn Professor of Architecture” a Yale. Ha ottenuto nella sua carriera diversi premi, tra cui nel 2001 la Medal of Honour dal New York Chapter of the American Institute of Architects, una Guggenheim Fellowship; alla Terza Biennale Internazionale di Architettura, nel 1985, ha vinto il Leone di Pietra per il suo progetto “Romeo + Juliet”. È membro dell’American Academy of Arts and Sciences e dell’American Academy of Arts and Letters.

Selezione dei principali progetti House II, Hardwick, Vermont (progetto: 1969, realizzazione: 1970). Piazza di Cannaregio, Venezia (progetto: 1978). iba, Edifici residenziali, Berlino (progetto: 1981, realizzazione: 1985). Wexner Center for the Arts, Columbus, Ohio (progetto: 1983, realizzazione: 1989). “Moving Arrows, Eros and other Errors, Romeo + Juliet”, progetto per I castelli dei Montecchi e dei Capuleti, Verona (progetto: 1985). Guardiola House, Cadice (progetto: 1988). Aronoff Center for Design and Art, Cincinnati, Ohio (progetto: 1988, realizzazione: 1996). Sede centrale della Koizumi Sangyo Corporation, Tokio (progetto: 1988, realizzazione: 1990). Concorso per la sede del Monte dei Paschi di Siena, Siena (progetto: 1988). Columbus Convention Center, Columbus, Ohio (progetto: 1990, realizzazione: 1993). Max Reinhardt Haus, Berlino (progetto: 1992). Chiesa dell’Anno 2000, Roma (progetto: 2000). Monumento alle Vittime dell’Olocausto, Berlino

(progetto: 1998, in realizzazione). Città della Cultura della Galizia, Santiago de Compostela (progetto: 1999, in realizzazione). Concorso per la ricostruzione del World Trade Center, New York (progetto: 2002). tav, concorso per la Stazione per l’Alta velocità, Napoli (progetto: 2003). Concorso per il Guandong Museum, Guangzhou (progetto: 2004). Stadio per gli Arizona Cardinals, Phoenix (progetto: 2004). Sewoon 4, progetto integrato per uffici ed edifici pubblici, Seoul (progetto: 2004).

Max Reinhardt Haus, Berlino Denominata in memoria del famoso imprenditore teatrale tedesco, la Reinhardt Haus è destinata, nel progetto del 1992, ad essere un centro mediatico con al suo interno un hotel, centri di bellezza e fitness, spazi commerciali e uffici, un centro sportivo ludico, auditorium ecc. Sarà alta al massimo 223 metri, distribuiti su sessanta piani. La superficie si articolerà in una serie di frammenti geometrici che si basano sulla forma dell’esagono. Una griglia di acciaio avvolgerà tutto l’edificio, lasciando un’intercapedine tra essa e la facciata, in modo da unificare la superficie, nascondere la partizione dell’interno e riflettere la luce. L’edificio assume un carattere prismatico, si piega su se stesso e allo stesso tempo si apre ad una serie di riferimenti e relazioni urbane. La forma riprende quella dell’anello o nastro di Möbius che simboleggia l’infinito: ∞ . Vedendo l’edificio, metà di questo anello sembra essere sottoterra: la forma emerge e si ripiega su se stessa per sparire nel terreno.

(sotto).

Il plastico della Reinhardt Haus esposto al MoMa di New York.

Il plastico del progetto per il concorso tav.

Bibliografia essenziale Peter Eisenman. Trivellazioni del futuro. Universale di Architettura. Antonio Saggio. Torino: Testo & Immagine, 1996. Territori della complessità. Universale di Architettura. Paola Gregory. Torino: Testo & Immagine, 2003. Il giardino dei passi perduti. Una installazione al Museo di Castelvecchio (Verona). Peter Eisenman. Venezia: Marsilio, 2004. Peter Eisenman. Milano: Area 74, 2004. Sito web ufficiale: http://www.eisenmanarchitects.com

Il rendering del progetto per il concorso tav, per la Stazione per l’Alta Velocità Napoli Afragola.

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Atmosphere

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Di questa parola, di derivazione pittorica, si possono dare, in riferimento all’architettura, due interpretazioni. La prima riguarda il rapporto dell’architettura con lo spazio percettivo circostante (luce, sfondo, caratteri paesaggistici). La seconda esprime invece le suggestioni create, più o meno consapevolmente, dall’opera architettonica. Nel primo caso l’atmosfera è di natura fisica; nel secondo è poetica. Naturalmente, le due interpretazioni finiscono col fondersi tra loro. L’architettura contemporanea sembra particolarmente adatta a creare intorno a sé un’atmosfera di natura estetica, giacché insiste sul valore espressivo e comunicativo della forma e dell’immagine. Questo risultato viene ottenuto non soltanto attraverso la forma plastica – o addirittura scultorea – dell’edificio, ma anche grazie a interventi di carattere cromatico e a un particolare rapporto con la luce, oppure esaltando il carattere simbolico della struttura. In tal modo il manufatto architettonico tende a porsi come presenza incisiva nel contesto, creando episodi di grande impatto visivo che sottolineano la natura della costruzione (basti pensare alle chiese di Michelucci o Spadolini), o si propongono, all’esterno, come pure immagini (il Guggenheim Museum di Bilbao, di Frank O. Gehry). Questa atmosfera non è però fine a se stessa, giacché fa vivere l’ambiente circostante, vi immette una nuova bellezza e fa dell’architettura un linguaggio in grado di esprimere la sensibilità contemporanea.

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Juan Navarro Baldeweg: la luce come materia prima Juan Navarro Baldeweg ci apre la porta del suo studio di tre piani a Madrid: alle pareti ci sono alcuni dei suoi quadri coloratissimi e le stanze sono piene delle installazioni che gli architetti stanno realizzando per l’allestimento del progetto in Biennale. Da subito intuiamo quello che poi lui stesso terrà a sottolineare: “Sono un artista, non un ingegnere. Ho iniziato come pittore e non ho mai lasciato l’attività di artista.

Sabina Aparicio Belmonte Ha disegnato i piani dell’Universidad Pompeu Fabra, ha trasposto a computer i disegni a mano libera di Navarro, risolvendo i problemi tecnici che quest’azione comporta.

María del Val Vázquez Sequeiros Si è occupata del progetto del Palacio de la Música y de las Artes Escénicas di Vitoria-

Gasteiz, attualmente in fase di esecuzione. Un Palazzo della Musica e delle Arti Teatrali deve essere una scatola magica chiusa nel suo mistero e contemporaneamente porta aperta che

inviti la gente e ne solleciti la curiosità. Lo straordinario lotto di Vitoria-Gasteiz stabilisce già immediatamente una relazione con la città che preannuncia questo tipo di incontro.

Victor Navarro È il figlio dell’architetto. Si sta laureando e nel frattempo lavora nello studio.

Faccio quadri, sculture, installazioni: tutte queste pratiche sono una specie di laboratorio”.

Adriana Solé Così ci presenta lo spirito dello studio: “Il mio 102 lavoro non ha tempo, appartiene all’universalità. Si fonda su una ricerca talmente basilare che nel tempo non perderà la sua ragione di essere. La filosofia dello studio è proprio quella di portare queste coordinate di base nell’architettura”.

Pur non essendosi direttamente occupata del progetto dell’Universidad Pompeu Fabra è lei ad accoglierci e a presentarci i colleghi e i materiali.

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Juan Navarro Baldeweg si presenta Ci parla dei suoi riferimenti culturali e della sua filosofia di lavoro: “Ho seguito anch’io la tradizione del Bauhaus che combinava le pratiche artistiche con la sperimentazione sui nuovi materiali. Con la soppressione della scuola poco prima della seconda guerra mondiale, questi principi si erano trasferiti, insieme ad alcuni dei suoi esponenti, negli Stati Uniti: ho ritrovato personalmente questa filosofia ad esempio al mit, il Massachusetts Institute of Technology, dove sono stato ricercatore tra il 1971 e il 1975: qui le arti visive entravano in relazione con le nuove idee della tecnologia. Mi è sempre interessato rendere visibili cose che in generale non lo sono e creare opere che producano nello spettatore una coscienza e una consapevolezza dell’energia che lo circonda: con il tempo ho capito che ci sono molte cose che si possono fare senza strumenti troppo sofisticati”. La sua riflessione continua a proposito del concetto di architettura e delle sue sfumature di senso: “L’architettura non è niente in se stessa, è la cassa di risonanza per la gravità, per la luce e per tante altre cose. Penso che sia importante operare una distinzione tra l’architettura come oggetto e come esperienza. Quando ad esempio parliamo di uno strumento musicale da una parte e della musica dall’altra cogliamo una differenza tra i due termini: la musica è qualcosa che è prodotto dallo strumento ma le due parole sono distinte. In questo senso dovremmo ritrovare la stessa distinzione quando parliamo dell’architettura. Ho pensato quindi che il concetto di architettura dovrebbe essere espresso tramite due parole diverse: una che rappresenti la funzione dell’oggetto con noi al suo interno, come suonatori di questo strumento, e l’altra che significhi l’architettura in se stessa, che continua nel tempo, come fa la musica”.

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Universidad Pompeu Fabra, Barcellona Piante e alzati Dopo essersi presentato, Navarro inizia a parlarci del progetto dell’Universidad Pompeu Fabra a Barcellona, attraverso i materiali che ha radunato per noi nella valigia: “Ci hanno commissionato l’estensione dell’Università di fronte a un parco molto bello: in questo edificio verranno collocati gli uffici per gli insegnanti, alcune aule e un piccolo auditorium. Appartiene a due dipartimenti diversi, quindi ho pensato di realizzare due doppi piani indipendenti l’uno dall’altro, con due rampe senza connessione tra loro. L’atrio vetrato che ospita le rampe risulta uno spazio molto interessante. La luce è filtrata attraverso una struttura di alluminio laccato di rosso con funzione di frangisole, che avvolge la vetrata: probabilmente quando sarete in questo spazio vedrete solo i disegni rossi e non il vetro, come se vi trovaste in una loggia aperta. Ho amato molto questo progetto perché è molto semplice: pura geometria minimalista unita ad una tecnologia sofisticata. Ho iniziato a fare disegni a mano libera che mettevo assieme ad alcuni modelli di architettura, enfatizzando la differenza tra l’edificio minimalista e la struttura molto organica del frangisole”.

Dai disegni a mano libera al frangisole

Per spiegarci la struttura dell’edificio Navarro ci invita ad osservare una serie di piante e di alzati. In questo caso ci sta indicando la pianta dell’edificio inserito nel suo contesto.

Nella valigia ci sono poi degli ingrandimenti della struttura del frangisole: li guardiamo in controluce per immaginarci l’effetto nell’atrio vetrato dell’edificio.

Plastico Nella valigia c’è anche il plastico dell’edificio: così riusciamo ad immaginare più concretamente i sei piani dell’Università.

Gli abbiamo anche chiesto di spiegarci in che senso il progetto si inserisce nella sezione della Biennale dedicata all’atmosfera: “ll motivo per cui il progetto è stato inserito nella sezione “Atmosphere” è che questa opera rappresenta un suono nello spazio, è come un rumore, il rumore della vitalità che percepiamo in una stanza animata: questo è l’ornamento. Potete sperimentare questa sensazione attraverso questi disegni organici nello spazio: potete sentire la voce di un essere umano. Il modo per sentire l’universalità della vita è attraverso la vita privata particolare”.

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sempre e ovunque intorno a noi. È importante dire ‘intorno a noi’ perchè quando si osserva uno di questi piccoli lavori improvvisamente si diventa coscienti del proprio corpo e del proprio peso”.

Navarro prosegue e approfondisce il discorso sui disegni organici del frangisole, evidenziando il ruolo fondamentale che assume la luce proiettando ombre speciali nelll’ambiente...: “Come vedete qui le ombre sono molto organiche, come una fo-

resta: una foresta che in realtà è derivata dal mio disegno nello spazio a mano libera. Per me l’ornamento è una variabile, una coordinata di base della vita umana: pensate ad esempio ai pittori di graffiti che attraverso i segni tracciati sui muri manifestano l’esigenza di espandere il loro corpo nell’ambiente circostante. Questa è una delle ragioni delle mie opere: è come creare del suono nello spazio”.

Navarro ci parla ora di un altro aspetto fondamentale nella sua idea di architettura: la gravità: “Vi vorrei parlare di una delle prime opere che ho fatto per rendere visibile e dare una consapevolezza concreta della gravità, che considero l’energia più chiara e forte dell’architettura. È stata una ruota sostenuta da un peso su un piano inclinato: il desiderio della ruota è di cadere ma il peso la trattiene.Quindi vedete un lavoro molto semplice che dà un’idea concreta di questa forza che agisce tutto il tempo

Interviene Tommaso: “A me questi disegni sembrano degli ideogrammi cinesi”. Risponde Navarro: “Hai ragione, è molto interessante anche l’argomento della calligrafia. Le calligrafie sono l’espressione del bisogno di liberare la mano anche per la necessità di comunicare qualcosa. È come portare la vita in qualcosa che non ha strettamente bisogno di vita: puoi scrivere anche con una macchina da

scrivere ma la bellezza della calligrafia è dovuta al fatto che al suo interno c’è il corpo dell’uomo che l’ha tracciata. È un’arte fondamentale, che fa parte della cultura islamica, cinese e giapponese”.

Navarro continua il discorso sulla gravità con un altro esempio concreto: “Dondolando sull’altalena si oscilla tra la libertà dalla gravità quando si sale e l’appartenenza alla gravità quando si scende”.

Ideogrammi Qui sopra alcuni ideogrammi disegnati da Tommaso nel suo diario. Calligrafia A questo proposito, Navarro ha scritto: “Nella calligrafia esistono due livelli di riferimento: l’essere segno convenzionale e l’essere un’espressione fisica particolare. La calligrafia e il suo arabesco si stabiliscono in uno spazio aperto tra due estremi. Da un lato, il servire da veicolo a un contenuto propositivo, essere il significante di una parola o una frase e, dall’altro, rappresentare una realizzazione, come opera manuale e come gesto corporale”. Juan Navarro Baldeweg. Modena: Logos, 2001.

106 A sinistra: “Piezas de mano”: particolare dell’in-

A destra: Una veduta

stallazione per la retrospet-

di insieme dei “Piezas

tiva all’ivam (Istituto

de equilibrio” alla mostra

Valenzano di Arte Moder-

delll’ivam.

na), con i disegni automatici o calligrafie nell’aria.

A sinistra: Navarro ci mostra un’immagine di

A destra: La ‘foresta’

“Piezas de equilibrio”.

Ruota Navarro racconta: “A partire dall’opera denominata “La ruota e il peso” del 1974 ho realizzato una serie basata su principi simili. Si tratta di costruzioni in equilibrio (Piezas de equilibrio), che creano però una certa inquietudine sul loro stato, mettendone in discussione il fondamento”.

di ombre proiettate dalla

Juan Navarro Baldeweg.

struttura frangisole.

Modena: Logos, 2001.

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Uno dei temi principali al centro del pensiero architettonico di Navarro è la luce. Ci spiega: “... la luce é l’elemento di lavoro dell’architetto, la vera protagonista dell’architettura”. Quindi, l’esigenza diventa quella di rendere visibile l’energia della luce: “Quando introduciamo la mano in un fiume che scorre, i mulinelli rendono evidente il suo fluire che resta, invece, invisibile quando l’acqua è calma”. E ancora continua Navarro: “In quell’istante si ha una doppia manifestazione: il nostro desiderio di sperimen-

luna brillante, si prova un’emozione molto più forte dell’effetto che si potrebbe ottenere con le più artificiose tecnologie”.

Navarro ci parla di una delle sue sperimentazioni che hanno reso evidente la presenza della luce, senza l’uso di strumenti troppo sofisticati: “...metto una goccia d’olio su un pezzo di velluto bianco e lo guardo in controluce: la macchia sembra una bellissima luna grazie alla luce che assorbe dall’ambiente circostante. Quando si guarda questa goccia d’olio, trasformata in una

tare e di esprimere la natura dell’acqua e il suo invisibile fluire”. Ovvero, immergere la mano nell’acqua diventa il modo per rivelare ciò che per natura non è visibile allo sguardo umano e per capire fino in fondo le energie che ci avvolgono pur non manifestandosi in modo tangibile.

In un secondo momento, Navarro ha sentito l’esigenza di fare proprie e interiorizzare la luce e l’ombra attraverso il gesto concreto del dipingere. “...la pittura è iniziata quando un uomo ha dipinto un’ombra su un muro. Ho fatto qualcosa del genere: ho iniziato a dipingere le ombre sulle pareti di una stanza, volevo essere di nuovo un pittore perché non ero più soddisfatto delle mie opere realizzate con la luce. Volevo essere più coinvolto!”

In questa pagina. A sinistra: Navarro ci illustra l’effetto della luce in una stanza. 108

109 A destra: Dettaglio dell’effetto di luce. Nella pagina a lato. A destra: Opere pittoriche di Navarro.


Per la realizzazione di questo laboratorio ci siamo ispirati al concetto di luce che caratterizza le opere architettoniche di Navarro Baldeweg. Durante il nostro incontro, l’architetto ci ha raccontato: “Come dicono i filosofi giapponesi: siamo zen, facciamo le cose semplici. Per questo motivo ho lavorato con le ombre, le ombre delle mani. Ho realizzato un libro le cui pagine, di carta fotosensibile, sono state sottoposte a diverse situazioni di luce in modo da creare delle ombre: la luce colpisce la carta e vi imprime dei segni”. In questo modo, Navarro è riuscito nel suo fondamentale intento di rendere “visibili cose che non lo sono”.

Tracce di luce La ricerca corporea

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Abbiamo utilizzato il corpo per fermare la luce, per creare dei contrasti fra luce e ombra. Abbiamo giocato con il corpo e la luce, disegnando con del carboncino le nostre ombre proiettate su fogli bianchi. Abbiamo differenziato i tratti usando il carboncino di punta per tracciare i contorni e di piatto per riempire gli spazi. È interessante servirsi delle mani e delle parti del corpo per creare delle ombre dalle forme astratte e poco riconoscibili. L’immaginazione ne è più stimolata!

La ricerca nello spazio urbano Ci siamo avventurati per Barcellona alla ricerca di tracce di luce. La città è piena di questo incontro/scontro fra luce e ombra. Abbiamo giocato con gli oggetti della città, intersecando la nostra ombra con ciò che abbiamo incontrato.

Tracciare le linee C’era un punto preciso in cui la luce e le ombre si differenziavano. Nel pieno della luce si crea una zona vuota, un buco. Sui fogli abbiamo catturato quella linea fugace che per un attimo crea una forma e che dopo pochi minuti si è già modificata, spostata... è sparita! La luce o la sua assenza sono diventate spunti per creare e scoprire forme. Forme riconoscibili o astratte. Forme familiari o incomprensibili. Unendo tutti i fogli abbiamo creato un disegno unico...

Materiali: fogli, carboncino.

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Navarro dice di sé: “Sono un architetto che oltre a fare architettura dipinge e fa installazioni. L’arte dei pittori e degli scultori, l’arte degli artisti attuali che producono pezzi e installazioni ha una relazione molto spesso ambigua con l’architettura”.

Nel silenzio e con gli occhi chiusi ci siamo preparati ad usare il pennello. Immaginando i movimenti del polso ancora prima di farli. Lentamente le falangi, il palmo, il polso, il gomito, la spalla... tutto si fa coinvolgere in quello che sarà l’ampio movimento necessario per dipingere su una grande superficie.

Per Navarro l’orizzonte è il luogo privilegiato degli sguardi degli uomini. Come possiamo leggere in un suo scritto: “La sensazione di appartenenza allo spazio totale [...] Mi piace definire questo insieme di circostanze orizzonte, qualcosa che si trova sempre più in là, un limite del quale abbiamo esperienza fuori dal luogo in cui siamo, che porta con sé anche l’esperienza della trasparenza, ovvero l’esperienza in base alla quale le cose possono essere attraversate dal nostro sguardo e anche dal nostro desiderio di oltrepassare i luoghi e raggiungere un nuovo limite, nell’architettura o al di fuori di essa”. Esperienze di architettura: generazioni a confronto. I quaderni dell’Accademia di architettura Mendrisio. Clorindo Testa, Juan Navarro Baldeweg. Milano: Skira, 1996.

Partendo dal concetto di orizzonte, siamo andati in uno spazio aperto e con lo sguardo abbiamo cercato delle linee e delle figure che vi sono contenute. Abbiamo cercato i limiti, il contorno dei pieni e dei vuoti e la figura che ci siamo trovati davanti viene identificata con l’orizzonte particolare.

Installazione colorata La preparazione Nel cantiere dell’Universidad Pompeu Fabra abbiamo preparato un’installazione temporanea. Abbiamo appeso agli alberi dei fogli immensi di cellofan che galleggiano nella luce e si gonfiano d’aria...

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L’ampio gesto del dipingere Sulla superficie trasparente del cellofan abbiamo dipinto linee e forme astratte che la natura circostante ci ha ispirato. Con la stesura del colore abbiamo oscurato alcune parti del cellofan, illuminato dalla luce che filtra tra le foglie.

Nell’immagine del frangisole, realizzata da Navarro per il progetto dell’Universidad Pompeu Fabra, possiamo vedere come l’architetto mette in relazione il concetto di orizzonte con l’esperienza della trasparenza. Allo stesso modo, noi abbiamo creato la nostra installazione colorata. Il visitatore attraversa con lo sguardo l’architettura dell’edificio oltrepassando il frangisole e raggiungendo un nuovo limite al di fuori di essa.

Le nostre forme disegnate si inseriscono nel paesaggio, alcune si mimetizzano, altre lo modificano. Siamo entrati nel paesaggio. Forse è il paesaggio che è entrato nell’installazione.

Togliere i limiti, aprire finestre, vedere lontano Dal nostro ‘quadro’ abbiamo tolto, servendoci di un taglierino, i punti di trasparenza del cellofan che sono attraversati dalla luce. Dietro appare un mondo più nitido: persone, oggetti, paesaggi... un orizzonte. Con lo sguardo andiamo oltre, all’altezza dell’orizzonte, guardiamo i nostri lavori e cerchiamo le forme che vorremmo aprire come finestre. 115

Materiali: cellofan, filo robusto, colori acrilici, pennelli, taglierini.


Scrive Navarro: “Anche in molti quadri recenti sul tema del paesaggio ho cercato di rendere visibile quella luce che nel paesaggio mediterraneo, l’ambiente dove dipingo, si spande, cade, si sparge come se fosse una sostanza opalina, plasmabile e visibile, non perché illumina le cose, ma perché diventa qualcosa di concreto”. Juan Navarro Baldeweg. Il ritorno della luce. Mario Lupano (a cura di). Milano: Motta Archittettura, 1996.

Strati di colore Abbiamo coperto l’acetato trasparente di uno spesso strato di colore acrilico. Uno strato sopra l’altro fino a non lasciare alcuna trasparenza. La luce non passa più attraverso!!

La luce è per Navarro una sostanza da manipolare, su cui è necessario esercitare un preciso controllo. Da questa idea abbiamo preso spunto per la realizzazione di questo laboratorio in cui la luce viene annullata dalla stesura del colore per poi riemergere grazie ai nostri gesti attenti.

E poi la luce Poi abbiamo tolto con una piccola spatola il colore, il nero, il buio ed è ricomparsa la luce in trasparenza.

La luce si rivela

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Materiali: fogli di acetato, colori acrilici, spatoline da gesso.


Navarro Baldeweg nelle sue opere si serve della luce per creare spazi, aperture e precisi effetti visivi. Si serve della luce come di una materia: “Dal silenzio alla luce. L’architettura si fa in due stanze. Una non ha un’esistenza reale, eppure senza dubbio è quella in cui si svolge il lavoro principale. Nell’altra stanza, si elaborano i progetti a seconda di pertinenti considerazioni materiali. Un’opera architettonica è una fusione, una sovrapposizione di configurazioni elaborate nelle due diverse stanze. Le opere rivelano questa doppia origine...”

Tagli di luce Dei grandi fogli rigidi di poliplatt rappresentano per noi dei muri o dei tetti in cui possiamo creare, con un taglierino, delle fenditure geometriche. Mentre su un cartone morbido, abbiamo inciso un segno irregolare e, infine, su un foglio morbido abbiamo trapassato la carta con un gesto brusco.

La luce, materia dell’architettura

Juan Navarro Baldeweg. Il ritorno della luce. Mario Lupano (a cura di). Milano: Motta Archittettura, 1996.

La luce e la sua proiezione si muovono nello spazio del tavolo creando degli effetti diversi: nel primo caso disegna dei rettangoli regolari, nel secondo una figura ondulata e nel terzo una forma ancor più indefinita.

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Materiali: fogli di poliplatt, carta da pacchi, faretto o pile, taglierini.


Dal diario di Giada abbiamo estrapolato il titolo del laboratorio: “Da Università PF a Parco della Gravità”. Come ci ha spiegato Navarro: “L’energia più chiara e forte dell’architettura è la forza di gravità, poiché tutti gli edifici devono essere retti e restare in piedi contro la gravità”. Inoltre, continua Navarro: “In molti miei progetti la struttura è stata concepita come un pezzo di gravità all’unisono con la luce, per evocare l’esperienza del peso e della leggerezza”. Prendendo spunto dal concetto di gravità, abbiamo abbinato la pendenza della struttura a quella dei nostri corpi cercando, come scrive Tommaso, di “trovare quella frazione di secondo dove mantenevo l’equilibrio per l’ultimo momento. Ho avuto la sensazione di sicurezza e libertà mentre cadevo”.

L’attimo in cui si resta sospesi Come il frangisole di Navarro pende in avanti, attratto verso il basso dalla forza di gravità, abbiamo cercato di percepire l’attimo in cui si resta sospesi, al limite della caduta, del crollo.

La gravità attraversa i corpi Proviamo a sentire la tensione creata dalla gravità sui nostri corpi, cosicché questi divengono strumento per capire un aspetto dell’architettura: è la sensazione fisica della caduta libera verso terra.

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Materiali: corpi, telo elastico.

Il parco della gravità


Guida. Lo studio e i progetti

L’edificio dell’Universidad Pompeu Fabra si colloca a Barcellona di fronte al parco della Ciudadela.

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Juan Navarro Baldeweg

Selezione dei principali progetti

Santander, 1939. Architetto e pittore. Nel 1959-60 studia incisione alla scuola di Belle Arti di San Fernando a Madrid. Nel 1965 si laurea alla Escuela Superior de Arquitectura di Madrid, dove consegue anche il dottorato nel 1969. Tra il 1971 e il 1975, è ricercatore presso il Center for Advanced Visual Studies al mit di Cambridge, Mass, e in questa sede centra il proprio interesse su una pratica molto personale, nello stesso tempo artistica e architettonica. Elabora pezzi e installazioni tra cui “Luz y metales” del 1976. Alla fine degli anni ’70 si dedica all’insegnamento e dal 1977 detiene la cattedra di progettazione presso la Escuela Técnica de Arquitectura di Madrid. Dal 1987 è invitato nelle maggiori facoltà del mondo: Pennsylvania University, Yale University, Princeton e Harvard.

Ristrutturazione dei Mulini del fiume Segura per il Museo Idraulico e Centro Culturale, Murcia (progetto:1984, realizzazione: 1987). Palazzo dei Congressi ed Esposizioni Castilla-León, Salamanca (progetto: 1985, realizzazione: 1992). Biblioteca Municipale e Centro di servizi sociali, nell’area San Francisco el Grande, Madrid (progetto: 1988, realizzazione: 1994). Completamento e ampliamento del Neues Museum e nuovi collegamenti tra gli edifici della Museuminsel, Berlino (progetto: 1994). Sede della Presidenza e di quattro Assessorati della Giunta di Estremadura, Mérida (progetto: 1989, realizzazione: 1995). Palazzo di Giustizia, a Mahón, Minorca (progetto: 1992, realizzazione: 1996). Biblioteca del Woolworth Center of Music, Princeton University, Princeton, New Jersey (progetto: 1994, realizzazione: 1997). Centro di ricerca e museo di Altamira, Santillana del Mar, Cantabria (progetto: 1994, realizzazione: 2001). Biblioteca Hertziana, Roma (progetto: 1995).

Universidad Pompeu Fabra, Barcellona (progetto: 1996). Teatro del Canal para la Comunidad de Madrid, Madrid (progetto: 2000). Palazzo della Musica Vitoria-Gasteiz (progetto: 2002).

Universidad Pompeu Fabra, Barcellona Il progetto per l’edificio, collocato nel complesso dell’Università Pompeu Fabra a Barcellona, è stato ideato nel 1996 ed è tuttora in realizzazione. Pensato per accogliere due istituti di ricerca (crei e iae), ai quali saranno destinati due piani ciascuno e la condivisione per usi comuni del piano terra e di quello interrato, l’edificio ha una struttura in cemento armato ad eccezione dell’angolo vetrato sorretto da elementi tubolari in acciaio. Un gioco di luci e ombre provocato da una serie di frangisole di alluminio laccati di rosso, all’interno e all’esterno, rallegrano lo spazio e nello stesso tempo controllano l’intensità della luce solare. Le altre facciate sono tipo curtain-wall, a bande orizzontali di vetro argentato, opaco e trasparente. L’edificio è composto da sei piani uniti, due a due, da rampe di scale che si avvicinano tra loro man mano che si sale. Vicino alle scale sono state predisposte delle aree di relax che si affacciano sul parco. Il terreno su cui verrà edificato l’edificio si modella come una leggera collina a prato o giardino, come se la sponda del parco entrasse dentro all’edificio.

Sezione dell’edificio dell’Universidad Pompeu Fabra: i sei piani dell’edificio sono uniti a due a due da rampe che si avvicinano man mano che si avanza verso l’alto pur restando tra loro indipendenti.

Bibliografia essenziale

Sezione dell’edificio

A patient search. Juan Navarro Baldeweg, William Curtis. Madrid: El Croquis 54, pp.5-27, 1992. Juan Navarro Baldeweg. Madrid: El Croquis 73, 1995. Esperienze di architettura: generazioni a confronto. I quaderni dell’Accademia di architettura Mendrisio. Clorindo Testa, Juan Navarro Baldeweg. Milano: Skira, 1996. Juan Navarro Baldeweg. Il ritorno della luce. Mario Lupano (a cura di). Milano: Motta Archittettura, 1996. Juan Navarro Baldeweg. Opere e progetti. Angel Gonzalez Garcia, Juan José Lahuerta. Milano: Electa, 2000. Juan Navarro Baldeweg. Modena: Logos, 2001. Juan Navarro Baldeweg. 12 de abril - 16 junio de 2002. Santiago de Compostela: Centro Gallego de Arte Contemporanea, Xunta de Galicia, 2002. Juan Navarro Baldeweg. Escultura. 22 de abril 22 de mayo de 2004. Madrid: Marlborough, 2004.

dell’Universidad Pompeu Fabra con il frangisole in evidenza.

Un dettaglio della struttura del frangisole. 123


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Trilite

Il trilite e la soglia

L’architettura in breve

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Che cos’è l’architettura? Che cos’è l’architettura? Due sono le risposte a questa domanda. La prima, più generale, l’ha fornita nel 1881 William Morris, un progettista inglese, il quale affermò che “l’architettura è l’insieme delle modifiche e alterazioni introdotte sulla superficie terrestre in vista delle necessità umane”. La seconda, più specifica, fa dell’architettura l’arte di progettare e costruire edifici o manufatti destinati a usi individuali o collettivi e dotati di una forma significativa. Entrambe le definizioni sono esatte. La seconda, però, definisce con maggior precisione il carattere particolare che l’architettura ha assunto nel tempo, distinguendola dall’ingegneria: anche l’ingegnere, infatti, modifica il territorio, ma tenendo conto esclusivamente delle funzioni che la sua costruzione ha l’obbligo di rispettare, mentre l’architetto deve curarne anche gli aspetti formali (la bellezza, la piacevolezza, l’artisticità, il carattere simbolico). Partendo da queste premesse, è facile concludere che la storia dell’architettura ha inizio con la storia della civiltà umana. In effetti, le più antiche e rudimentali forme di società sono nate intorno ai primi artefatti architettonici: capanne in legno, villaggi costruiti su palafitte, sepolture o spazi sacri segnati da rozze strutture in pietra. Questi interventi su un territorio naturale ancora informe hanno impresso il segno dell’essere umano sulla terra, giacché vi hanno introdotto un ordine geometrico (altezza, lunghezza, larghezza, posizione nello spazio) misurato sui caratteri anatomici e fisiologici del nostro corpo.

Tutte queste costruzioni hanno in comune alcuni aspetti architettonici fondamentali. Il più importante, che costituirà sempre, da allora fino ad oggi, la caratteristica primaria della struttura architettonica, è dato dall’ossatura formata da due elementi verticali sui quali poggia un elemento orizzontale. Questa ossatura viene chiamata trilite, perché è tipica delle più remote sepolture, costituite da due pietre piantate verticalmente nel terreno e da una terza poggiata orizzontalmente su di esse (trilite vuol dire, all’incirca, ‘formato da tre pietre’). Essa costituisce la base di ogni costruzione, comprese quelle di oggi: basta osservare qualsiasi edificio, o anche solo la nostra casa, per accorgersi che tutto, indipendentemente dal materiale usato (legno, pietra, cemento armato o ferro) si regge su pilastri verticali e su travi orizzontali che si appoggiano su di essi. Un’altra caratteristica di primaria importanza è costituita dalle aperture e dalle chiusure. La soglia di una costruzione, ovvero la breve linea che separa l’interno dall’esterno, è sempre stata considerata sacra, e in certo modo lo è ancora oggi. Essa è normalmente segnalata da una porta, che può essere privata (quella di una casa), collettiva (quella di un edificio pubblico) o urbana (quelle aperte un tempo nelle mura della città, ancora visibili negli archi sopravvissuti). Varcare una soglia è un gesto ricco di elementi simbolici: nella leggenda, Romolo uccise il fratello perché aveva con prepotenza varcato la soglia della nuova città; un tempo, ai potenti si offrivano le chiavi della porta delle città sottomesse; noi stessi chiediamo ‘permesso’ prima di attraversare quella sottile striscia di pavimento per entrare in casa d’altri; e, nella favola, perfino i vampiri non possono entrare nelle case senza essere espressamente invitati.

Cornovaglia.

Porta di Brandeburgo Berlino.

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L’interno e l’esterno

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La porta e la soglia delimitano il confine tra l’interno e l’esterno che l’architettura è chiamata a modellare nello spazio. L’esterno architettonico è costituito dalle facciate dell’edificio, sulle quali si dispongono le aperture (finestre, accessi). La facciata di ogni costruzione ne costituisce l’immagine sintetica, quella che cogliamo osservandola dalla strada o comunque da lontano. Guardandola dall’esterno, nella sua immagine verticale, possiamo valutare le dimensioni, le proporzioni, i colori, i volumi del fabbricato, il gioco delle masse che si incastrano, rientrano o sporgono, oppure la superficie liscia e uniforme, scandita solo dalle file delle finestre. In tal modo si percepisce la ‘personalità’ dell’opera architettonica, l’individualità formale che la distingue dalle altre nel tessuto urbano o nell’ambiente naturale. L’interno di un edificio è invece costituito dal suo spazio orizzontale. Quando entriamo in un palazzo, ne afferriamo anzitutto gli aspetti funzionali: i percorsi da seguire, gli atri da attraversare, le scale da salire o scendere, i corridoi da percorrere, le stanze in cui entrare o da cui uscire. Solo in un secondo momento distinguiamo, anche dell’interno architettonico, i caratteri formali: la brillantezza di un pavimento marmoreo, la luce che irrompe da grandi vetrate oppure la chiarezza dell’illuminazione elettrica, i colori delle pareti o dei rivestimenti, le forme rette o arrotondate, la profusione o la riduzione al minimo degli ornamenti. Possiamo dunque dire che l’apprezzamento esterno di un edificio avviene su un piano verticale (la facciata), mentre quello interno è possibile solo in una dimensione orizzontale (la pianta). Ciò vale per qualunque tipo di costruzione, per una chiesa come per un condominio, per una villa come per un palazzo per uffici. Un altro importante aspetto dell’architettura è quello della luce. Un tempo ogni costruzione viveva della luce naturale che entrava dall’esterno, e ciò decideva anche della forma delle facciate, nelle quali si aprono le finestre. Oggi, con l’illuminazione artificiale, il rapporto con la luce naturale resta fondamentale, ma altrettanto importante è quello con la luce che dall’interno irrompe all’esterno. Quando di sera si accendono le luci nelle stanze, ogni edificio diviene infatti una sorgente luminosa che crea un panorama urbano un tempo inimmaginabile, composto solo di luci che si accendono e si spengono seguendo il ritmo dell’attività sociale.

I materiali

Crystal Palace Londra.

Il Palazzo Stoclet Bruxelles Joseph Hoffmann.

La casa sulla cascata Ohiopyle, Pennsylvania Frank Lloyd Wright.

Da quanto abbiamo detto finora, l’architettura può essere definita l’arte di modellare e racchiudere lo spazio. Ma per far ciò essa ha sempre bisogno di materiali con i quali erigere le strutture, chiudere i confini perimetrali, moltiplicare gli spazi funzionali in altezza e larghezza, assicurare il perfetto funzionamento dell’edificio. All’inizio furono la pietra e il legno a fornire la materia prima per la costruzione degli edifici, dai grandi palazzi alla capanna del contadino. A partire dal XIX secolo, gli sviluppi della rivoluzione scientifica e industriale misero a disposizione degli architetti altri materiali come il vetro e il ferro, per quei tempi innovativi. Poi, tra il XIX e il XX secolo si affermò il cemento armato, che è tuttora largamente usato in tutto il mondo. Ma negli ultimi decenni del Novecento, i grandi progressi della chimica, della metallurgia e dell’elettronica hanno messo a disposizione degli architetti materiali sempre più sofisticati, che hanno consentito di realizzare costruzioni un tempo impensabili. Il massiccio impiego di quelle che genericamente vengono definite materie plastiche, per esempio, ha alleggerito e assottigliato lo spessore delle strutture; gli sviluppi dell’industria vetraria hanno permesso di produrre lastre di vetro di grandi dimensioni, che hanno assicurato la massima trasparenza agli edifici, spesso 129 dotandoli di superfici vetrate specchianti; il ferro e l’acciaio vengono ora prodotti secondo tecniche che assicurano la massima resistenza in una sezione minima. Infine il progresso dell’informatica e della telematica ha fornito innumerevoli dispositivi che permettono di far funzionare tutti i servizi dei grandi e piccoli complessi architettonici mediante congegni miniaturizzati, che possono gestire autonomamente ogni incombenza, dal riscaldamento all’illuminazione, dalla sicurezza alle comunicazioni. Per questo si è potuto addirittura parlare di edifici intelligenti.


Il Palazzo del Governo Brasilia Oscar Niemeyer.

L’edificio e la città

Seagram Building New York Mies van der Rohe.

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TWA, terminal dell’aeroporto Kennedy New York Eero Saarinen.

Il rapporto tra tecnica e architettura è dunque strettissimo, giacché l’architetto può sfruttare le possibilità offerte dai materiali per ideare nuove forme e nuove soluzioni progettuali. Per esempio, alla fine del XIX secolo si poneva il problema delle costruzioni sempre più alte, che assicuravano il massimo spazio sfruttabile in una minima superficie di terreno. Ma lo sviluppo delle torri o dei grattacieli per abitazioni o uffici fu possibile solo quando un’industria americana lanciò sul mercato i primi ascensori azionati elettricamente, che risolsero tutti i problemi creati dall’altezza. Da allora, il panorama urbano delle grandi città del mondo è segnato dalle altissime torri moderne, che ricordano nella loro immagine quelle del Medio Evo, ma che gareggiano ormai tra loro per altezza, raffinata tecnologia e bellezza formale. Ciò ci ricorda che lo sviluppo dell’architettura va ormai di pari passo con quello della città. I grandi centri urbani, sempre più estesi e articolati in dense aree metropolitane, si caratterizzano per l’emergenza di grandi edifici, che per le loro dimensioni o la particolarità della loro forma ne definiscono l’identità. Oggi le porte urbane, che un tempo si aprivano nelle mura difensive, sono rappresentate dalle stazioni ferroviarie o dagli aeroporti; la cultura esige costruzioni funzionali (biblioteche, teatri, auditorium, musei) che si pongono come punti di riferimento nel tessuto cittadino; l’esistenza quotidiana si svolge nei cinema multisala, nei grandi centri commerciali o negli enormi stadi sportivi. Bisogna ricordare infine, per concludere, che l’architettura vive essenzialmente di due momenti: il primo è quello del progetto dell’opera, ossia dell’ideazione delle sue forme essenziali, tradotta poi, sulla carta, in disegno di piante, sezioni e facciate; il secondo è quello della realizzazione, attraverso i calcoli tecnici, l’organizzazione del cantiere e le procedure costruttive.

Le origini dell’architettura moderna La grande avventura dell’architettura moderna inizia con i profondi mutamenti verificatisi nella cultura e nella società occidentali, accompagnati da rapidi sviluppi scientifici e tecnici che accelerarono la crescita dell’industria, imposero nuovi materiali e nuove tecniche costruttive, e accompagnarono la crescita della società di massa. Il ferro e il vetro furono i protagonisti iniziali di questo mutamento. Il Crystal Palace, costruito a Londra nel 1851 per ospitare la “Grande Esposizione dell’Industria di tutte le Nazioni”, segnò l’inizio di questo processo, anticipato da costruzioni funzionali come ponti e stazioni ferroviarie. I nuovi materiali assecondarono le trasformazioni che in tutte le grandi città dell’Occidente cambiavano i sistemi di vita della collettività. Negli Stati Uniti, a Chicago, l’organizzazione del lavoro in grandi fabbricati urbani e la diffusione dei grandi magazzini indussero alcuni architetti, come Louis Sullivan e altri, a realizzare, verso la fine del XIX secolo, edifici dalle linee essenziali, molto sviluppati in altezza e caratterizzati da un disegno delle facciate scandito per moduli sempre uguali. Nello stesso periodo, in Europa, si diffondeva un nuovo stile, definito Liberty o Art Nouveau, che puntava invece alla plasticità delle forme e a una decorazione che era nello stesso tempo elemento strutturale del fabbricato. Victor Horta a Bruxelles realizzò alcuni edifici esemplari di questo stile, come la Maison du Peuple del 1897, dotata di una struttura portante in ferro.

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I maestri del Novecento Una continua ricerca di forme nuove Negli stessi anni, però, un’intensa attività teorica e di ricerca portava gli architetti a elaborare sempre nuove soluzioni formali, rese ora possibili da un nuovo materiale da costruzione, vale a dire il cemento armato, che rendeva assai più flessibili le strutture e consentiva una maggiore libertà al progettista. Il palazzo Stoclet di Bruxelles, realizzato nel 1905-11 da Joseph Hoffmann, diede subito il senso di questa nuova tendenza, con la sua essenzialità e l’elegante geometria dei contorni e dei volumi. Si insistette molto, allora, sulla necessità di ridurre al minimo gli elementi ornamentali per lasciar affiorare la bellezza intrinseca delle strutture funzionali; ma ci furono anche architetti, come il catalano Antonio Gaudí, che fecero dell’opera architettonica un elemento scultorio. Negli Stati Uniti, nel frattempo, un geniale progettista, Frank Lloyd Wright, rinnovava completamente il linguaggio architettonico, realizzando costruzioni nelle quali la composizione dei volumi, articolata e aperta alla luce, era dettata dall’intima organizzazione degli spazi interni, che rendeva unitaria la concezione dell’edificio e ne faceva un artefatto in sé compiuto. Fu questo il principio di un’architettura organica, che ebbe in alcune celebri opere, come le case nella prateria o la casa sulla cascata (profondamente inserite nell’ambiente, ma dotate di una spiccata personalità architettonica), una testimo132 nianza di valore universale. Anche in Europa, la spinta al rinnovamento crebbe a partire dai primi anni del XX secolo. L’architetto futurista Antonio Sant’Elia disegnò grandi edifici che, sebbene mai realizzati, costituirono un punto di riferimento costante per le nuove costruzioni; e nel primo dopoguerra il Costruttivismo russo e le ricerche olandesi ispirate all’arte di Piet Mondrian proposero architetture segnate da una forte geometrizzazione dello spazio, da una rigorosa funzionalità e da una qualità formale ispirata a principi di semplicità e razionalità.

Guggenheim Museum Bilbao Frank O. Gehry.

Il Museo Van Gogh Amsterdam Kisho Kurokawa.

Queste ricerche ebbero successo grazie alla possibilità di sfruttare tutte le potenzialità plastiche del cemento armato, e l’architetto che seppe meglio impiegarle fu Le Corbusier. Il nuovo materiale, infatti, costituito da una stretta interdipendenza tra cemento e ferro, consentiva di creare un’ossatura saldissima (perfino antisismica), fondata sui pilastri e sulle travi orizzontali (il trilite), in grado di modellare l’edificio con la massima libertà creativa, corredandolo anche di strutture a sbalzo e di ardite aperture. Le Corbusier creò quindi una vera e propria poetica del cemento armato, realizzando opere che uniscono alla massima funzionalità e vivibilità, espressa dall’irruzione della luce negli interni, un valore formale ancora oggi attualissimo. I maestri della prima metà del secolo XX diedero vita a uno stile che, sebbene interpretato da ciascuno di essi in maniera originale, si presentò nel suo complesso come stile moderno. Le caratteristiche di questo stile, che è tuttora presente e vitale, sono la disarticolazione dei volumi, la tendenza alla dissimmetria, la scomparsa della facciata principale (ogni edificio trasmette la propria immagine da qualunque punto di vista), la trasparenza delle superfici, con la valorizzazione della luce, l’impiego di materiali tecnicamente avanzati, e la tendenza all’essenzialità (Mies van der Rohe, autore del Seagram Building di New York, lanciò la parola d’ordine “il meno è il più”, per indicare che quanto più l’architettura è semplice e pulita, tanto più è significativa). Ma fu nella seconda metà del secolo che il progresso economico e sociale consentì la diffusione e la piena realizzazione dell’architettura moderna. Negli anni Cinquanta, maestri come il tedesco Walter Gropius (fondatore, nel 1919, del Bauhaus, una grande scuola di architettura e design moderni), italiani come Gio Ponti (autore del grattacielo Pirelli di Milano, 1956), il finlandese Eero Saarinen (progettista del terminal della TWA all’aeroporto Kennedy di New York, 1962) o il brasiliano Oscar Niemeyer (progettista di molti edifici di Brasilia, la nuova capitale del Brasile, 1956) portarono a maturazione lo stile moderno con opere rimaste nella storia.

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La ‘Piramide’, da cui si accede al Museo Louvre Parigi M Pei.


Le ultime tendenze Nei decenni successivi, nuove tendenze hanno modificato lo stile moderno, dando vita ad altre soluzioni. Così si è parlato di architettura high tech per indicare quegli edifici (per esempio il Centre Pompidou di Parigi, progettato da Renzo Piano e Richard Rogers, 1971-77) che mettono in vista la complessa struttura tecnica facendone un’immagine formale di forte impatto visivo; di decostruzionismo (il Parc de la Villette di Parigi, di Bernard Tschumi, 1982), che esprime il senso di un’architettura che nella frammentazione dei volumi e delle funzioni ricerca l’unità profonda della costruzione; di postmoderno (gli edifici di Aldo Rossi a Berlino, 1984), come recupero e traduzione moderna degli stili del passato e delle memorie storiche dei luoghi. Ma ormai ogni architetto tende a realizzare la propria concezione dell’architettura, che diviene così episodio isolato, ma significativo nel panorama urbano contemporaneo (come il Guggenheim Museum di Bilbao, realizzato recentemente da Frank O. Gehry). L’architettura moderna ha avuto, nella seconda metà del XX secolo, un particolare sviluppo in Giappone, dove l’impiego di materiali tecnicamente avanzati e la ripresa dei modelli occidentali si sono fusi in una attenta analisi degli elementi tradizionali locali. Kisho Kurokawa, uno dei maestri dell’architettura contemporanea, ha anche teorizzato la necessità di un confronto tra il pensiero orientale e quello occidentale, per portare l’architettura – e l’esistenza che vi si svolge – a un più alto equilibrio formale e culturale. Gli architetti giapponesi hanno quindi dato un contributo importante alla cultura progettuale, con la loro sensibilità per l’ambiente, per gli antichi materiali e per le forme che dialogano con il passato, ma con un linguaggio moderno. I nomi di Arata Isozaki, Kiyonori Kikutake o Kenzo Tange appartengono ormai alla storia dell’architettura, ma altri più giovani maestri, come Sei Watanabe, Shin Takamatsu o Kengo Kuma propongono oggi soluzioni sempre più ardite e ricche di fascino. In generale, il problema più importante che l’architettura contemporanea ha di fronte è il rapporto con il contesto urbano, ovvero con le preesistenze storiche e la riqualificazione delle città, e con quello naturale. L’architettura deve esprimersi con il proprio 134 linguaggio, senza però ferire l’ambiente nel quale essa sorge. Molto discussa è stata ad esempio la grande piramide vetrata eretta da M Pei nel cortile del Louvre a copertura del nuovo accesso al Museo. Qualcuno l’ha definita una forzatura, ma in realtà essa trasporta un luogo dal passato prestigioso nella contemporaneità, facendo leva su una figura geometrica antichissima. Quanto al rapporto con il paesaggio, si tratta ogni volta di trovare la soluzione più adatta, fino a giungere alla totale identificazione dell’architettura con la natura, come da anni propo-

ne Emilio Ambasz con i suoi edifici, per lo più solo progettati, che si fondono con l’ambiente naturale circostante pur conservando la loro modernissima identità architettonica.

L’architettura tra estetica ed etica Intorno a questo tema ruotano tutti gli altri problemi che l’architetto d’oggi deve affrontare, in un serrato confronto tra la propria visione progettuale e le esigenze di una società sempre più fluida e complessa, soggetta a mutamenti accelerati che modificano di continuo la fisionomia del luoghi. Le città crescono di continuo, dando vita a uno sterminato territorio urbano che non ha più gli antichi riferimenti della piazza, del municipio o della chiesa, ma si organizza intorno a nuovi nuclei (i luoghi di lavoro, i centri commerciali) la cui permanenza è però incerta. In tale prospettiva, ciascuna opera va considerata a sé, per capirne le motivazioni profonde e la logica delle risposte fornite di volta in volta alle esigenze del momento. In ogni caso, però, resta dovere di ogni progettista rispettare alcuni impegni fondamentali che gli sono imposti dalla società: assicurare la perfetta corrispondenza alle funzioni, garantire la massima vivibilità, inserirsi armonicamente nel contesto urbano e naturale. Di recente, proprio dalla Biennale di Architettura di Venezia è venuto il monito di tener conto dell’etica non meno che dell’estetica; e questo è un concetto che va tenuto sempre presente per ricordare che l’architettura è, anzitutto, un servizio reso a ciascun individuo e all’intera società. Maurizio Vitta

La Grande Bibliothèque Nationale de France Parigi Dominique Perrault. Maurizio Vitta Laureato in filosofia e studioso di estetica, è docente di Teoria e storia del disegno industriale presso la III Facoltà di Architettura e Design del Politecnico di Milano. Tiene inoltre un corso di Storia delle arti applicate e del design presso l’Accademia di Brera. Ha insegnato Teoria della comunicazione visiva all’isia di Urbino e Storia dell’arte e della comunicazione visiva presso la naba di Milano. È autore di numerosi articoli, saggi e libri sull’architettura, l’arte, la letteratura e il design contemporanei, e ha curato mostre d’arte contemporanea, di disegno industriale e di visual design. Collabora con il “Sole24Ore” ed è vicedirettore de “l’Arca”, mensile di architettura, design e comunicazione visiva. Tra le sue ultime pubblicazioni: Il disegno delle cose. Storia degli oggetti e teoria del design. Napoli: Auditorium

Liguori Editore, 1996. Il sistema delle immagini. Estetica

Roma

della rappresentazione quotidiana. Napoli: Liguori Editore,

Renzo Piano.

1999. Il progetto della bellezza. Il design tra arte e tecnica 1851-2001. Torino: Einaudi, 2001.

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Spazio vissuto e architettura

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Lo spazio dell’esattezza matematica è muto, assoluto, omogeneo. I corpi in esso contenuti mostrano costantemente le stesse proprietà in tutte le direzioni. Lo spazio vissuto si dilata o si contrae, si rabbuia o si rischiara in base agli stati d’animo: le distanze si estendono o si accorciano e noi siamo ‘vicini’ o ‘lontani’, secondo misure dettate dalla nostra tonalità emotiva. Non c’è un solo spazio ma molti, poiché lo spazio della vita è un sistema di ‘luoghi’ significativi che ci respingono o ci attraggono: è pieno o vuoto così come l’esistenza di chi lo abita. La prima conoscenza della spazialità non deriva dalle forme e dai volumi, dalle linee e dalle distanze dell’astrazione geometrica, poiché lo spaziomondo non è mai neutro, omogeneo, indifferenziato, separato da chi lo misura, lo percorre, lo progetta, lo abita. Non ha senso quindi un mondo ‘in sé’, indipendente dal soggetto che lo vive e gli conferisce un senso. Lo spazio è sempre spazio per un soggetto e la sua comprensione si fonda sull’esistenza umana stessa. Accanto ad una dimensione oggettiva e misurabile dello spazio esiste dunque una dimensione soggettiva che fa riferimento all’esperienza vissuta. Questa concezione dello spazio non è tuttavia diffusa né predominante, poiché la tradizione del pensiero scientifico occidentale deriva da Cartesio ed ha progressivamente separato il soggetto che conosce dall’oggetto conosciuto, assegnando validità scientifica soltanto ai dati di conoscenza fondati sull’oggetto. Questo atteggiamento ha portato ad una profonda svalorizzazione di tutto

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Slow Glass L.A. Galerie - Lothar Albrecht, Frankfurt Naoya Hatakeyama.


ciò che appartiene alla sfera del soggetto. Non a caso, nel linguaggio corrente, si usa ritenere il termine ‘oggettivo’ sinonimo di ‘certo’, ‘universalmente condiviso’; mentre il termine ‘soggettivo’ è sinonimo di ‘opinabile’, ‘incerto’, ‘non verificabile’. Diversi orientamenti della riflessione epistemologica e culturale del Novecento hanno messo in discussione questa tradizionale separatezza-contrapposizione tra soggetto e oggetto: l’epistemologia francese, la teoria sistemica e soprattutto la fenomenologia che ha denunciato la ‘crisi’1 della scientificità tradizionale affermando che la visione fisico-matematizzante ha condotto il soggetto alla estraneità dal mondo che egli stesso abita. Le distanze, anche se misurabili secondo un sistema metrico convenzionale, ‘oggettivamente’ conoscibili, variano a seconda della società, della cultura, dell’immaginazione, dei sentimenti che le rielaborano incessantemente. Vicinanza e lontananza, altezza e ampiezza variano con le relazioni

The Partial - Gather 04

basata sulla verificabilità intersoggettiva secondo cui ‘oggettivo’ non è solo ciò che è fondato sull’oggetto (cartesianamente), ma anche ciò che ha validità universale in quanto evidente, comprensibile e comunicabile tra i soggetti, sulla base della comune appartenenza allo stesso mondo comune della vita (Lebenswelt). Nonostante le varie scienze abbiano successivamente individuato modelli e sistemi oggettivi di misurazione e catalogazione degli spazi, la dimensione soggettiva resta decisiva nella conoscenza della spazialità. “Non si accede al mondo se non percorrendo quello spazio che il corpo dispiega intorno a sé nella forma della prossimità o distanza dalle cose” (M. Merleau-Ponty) . Prima di ogni astrazione derivante dalle leggi fisiche dei corpi e prima di ogni meccanica c’è l’originario essere-nel-mondo dell’esistenza umana che, come afferma Heidegger, è da sempre “presso il mondo” abitandolo nella dimensione essenziale della spazialità. Come esiste un tempo vissuto (Minkowsky) che non coincide con il tempo degli orologi o dei calendari ma scorre in fretta o lentamente nelle diverse situazioni dell’esistenza, così esiste uno spazio vissuto, amatematico e ageometrico, mutabile, labile, misterioso, poetico. Le stratificazioni culturali e concettuali, attraverso i secoli, non hanno mai cancellato del tutto lo spazio emotivamente partecipato del primitivo e della mente arcaica, ancor oggi presenti nell’esperienza dell’uomo contemporaneo. Secondo l’antropologo Lévy-Bruhl, la mentalità primitiva non si rappresenta lo spazio in modo uniforme, e neutro, indifferente agli stati d’animo, poiché è sempre il soggetto che lo ‘differenzia’, sulla base delle presenze che lo popolano rendendolo spazio noto, familiare, oppure estraneo, ostile. Il ‘qui’ e il ‘là’ sono legati alla casa, al luogo protetto, o al sentirsi lontani, esposti, minacciati. Questo pensiero arcaico non è estraneo a noi e non ha cessato di esistere nel pensiero e nella coscienza odierna degli esseri umani.

Naruki Oshima.

La città 138

che le sottendono, rendendo un medesimo luogo angusto e soffocante oppure esteso e desertico. Stiamo dunque parlando di una ‘anarchia’ scientifica per cui non esistono più criteri di verificabilità? Lo spazio vissuto è soltanto un’esperienza circoscritta al soggetto e incomunicabile? No certamente. Lo spazio vissuto è vario e mutevole in relazione al senso che gli viene conferito dal soggetto, ma è tuttavia comprensibile e comunicabile. La fenomenologia ha aperto la via ad una scientificità

L’educazione allo spazio è un’educazione ad abitare il mondo, non solo riguardo alle modalità dell’usare, del pensare, del rappresentare (osservare, sperimentare, disegnare, costruire ecc.), ma soprattutto riguardo al ‘sentire’ la propria spazialità esistenziale circostante, poichè “le forme visive non contano se non per quanto ci dicono” (R. Arnheim). I racconti e i disegni dei bambini esprimono vissuti, desideri, sogni, paure, scoperte sollecitate dall’architettura urbana. Recuperando il valore

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della tonalità emotiva si modifica la fisionomia della città che può svelare i suoi misteri e aprirsi all’appropriazione di senso. Le strutture dominanti costituite da anonimi tetraedri inducono lo spaesamento ed il perdersi labirintico entro spazi della coercizione, favoriscono la stereotipia delle esistenze, imprigionano i movimenti entro percorsi schematici. I modelli di urbanizzazione sono modalità attraverso cui ogni società si appropria dello spazio e lo modella secondo i suoi bisogni. Ma quali bisogni? Come dice il poeta Hölderlin, “poeticamente abita l’uomo” e “la vita dell’uomo” è “un vivere abitando”. Il corpo è al mondo non secondo la modalità di essere nello spazio, ma di abitare lo spazio. Lo spazio architettonico della città è lo spazio abitato del vivere, del vedere, dell’immaginare, dell’udire, del toccare, del coinvolgimento con le cose e con gli oggetti, in quell’incessante movimento che è il fluire della vita. La monotonia delle costruzioni riflette e richiama la ripetitività del lavoro, l’omologazione delle esistenze, la convenzionalità del pensiero e del comportamento. Questa frantumazione spaziale imprigiona la creatività, le città di cemento occultano le tracce della memoria e restituiscono l’immagine di una immodificabilità degli edifici, delle strade, delle strutture architettoniche ripetitive, acuendo l’isolamento, l’anonimato, l’uniformità di pensiero. Subire queste leggi morfologiche e volumetriche induce a modificare il vissuto dello spazio ed a subire regole prestabilite verso un’esistenza unidimensionale. Lo spazio vissuto urbano può essere traboccante di colori, di profumi, di suoni, di voci, di forme, di presenze, spazio dell’ampiezza, dell’estensione e dell’apertura in senso fisico, corporeo, relazionale. Ma l’apertura può deformarsi in un vissuto impersonale e rarefatto, grigio e inquietante, punteggiato di innumerevoli ‘là’, nessuno dei quali è in riferimento al ‘qua’ del soggetto. L’ampiezza diventa allora minacciosa o distanziante e il mondo si presenta come un palcoscenico senza una rete di relazioni dotate di senso. Lo spazio della nostra concreta esistenza urbana assume significati e risonanze affettive e valoriali che lo connotano come accogliente/ostile, sacro/profano, ecc. Noi abitiamo lo spazio e i luoghi sempre in una ambivalenza di mistero e di incomprensione da cui forse ci salva soltanto la luce della parola poetica che dis-vela l’essenza dell’abitare umano. È evidente che le linee, i piani ed i punti sono compresi sempre da chi ‘vive’ questi elementi della spazialità che impregnano innanzitutto i luoghi familiari, i luoghi dell’abitare.

Reflections - Düsseldorf, Stripe 001 Naruki Oshima.

La casa La casa è il primo spazio dell’abitare abitato. I suoi micro-luoghi (soggiorno, soffitta, cantina, scale, finestre, ecc.) diventano espressione di questa correlazione tra i luoghi familiari fatti propri dal soggetto. L’intimità e la sicurezza sono l’essenza stessa del grande archetipo dell’abitare. I suoi simboli esprimono altrettanti vissuti di protezione, familiarità, rifugio. Come luogo-sacro, sede delle divinità-familiari, del femminile, la casa è l’intimità protettiva dello spazio interno, la cui immagine corrisponde al cerchio che racchiude e protegge. Il sentimento del rifugio richiama, secondo Bachelard, la rêverie del nido dove ci si ritira, ci si rannicchia e dove si ritorna o si sogna di ritornare. Tutti sappiamo che il nido è una costruzione precaria, esposta ai venti, eppure ci suggerisce un vissuto di rifugio perché è l’abitare relazionale, amoroso, nutritivo, procreativo. Il nido è il tepore della relazione con gli altri, una interna intimità. A differenza del guscio che evoca invece il vissuto dell’abitare solitario, dove ci si nasconde entro una dura corazza che protegge dall’esterno. Questo diverso volto dello spazio vissuto interno/ esterno corrisponde alla duplice valenza privata/ pubblica della casa. Lo spazio interno è lo spazio dell’intimità, della familiarità, della quotidianità: è ‘il nostro angolo di mondo’, dove gli odori, i colori ed i rumori, i brusii ed anche i silenzi ci sono fa-

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miliari. I suoni, le voci, le luci e le ombre, gli odori occupano un ruolo essenziale nel vissuto dell’abitare. I profumi ed i colori dell’intimità domestica si mescolano con i rumori familiari rendendo ‘abitata’ l’abitazione dove i gesti si mescolano con i sentimenti. L’abitare appreso dal bambino è molto di più dell’accordo corporeo-spaziale della psicomotricità: egli apprende le cose verso cui si pro-tende, L’abitare vissuto è fatto delle attribuzioni di senso alla territorialità che regola i nostri movimenti, le nostre percezioni, che mediano il rapporto corpo-mondo. Anche i muri, i materiali degli interni delle stanze, i colori, gli odori, il tatto, le forme, la nostra vita multisensoriale fanno parte integrante dei nostri vissuti spaziali. I materiali caldi, gli ‘angoli morbidi’, le nicchie, i soppalchi consentono soprattutto ai bambini di esperire momenti di intimità, di rielaborare i ricordi e i sentimenti, favorendo il riposo psichico e somatico o il senso di protezione (la capanna). Abitare l’intimità è sentirsi ospitati da uno spazio che non ci ignora, é poter trasfigurare le cose, avere un proprio angolo. E infine, dentro a propria stanza, c’è un angolo ancor più piccolo in cui si restringe e si concentra il ‘germe’ del raccoglimento e del rannicchiamento: la ‘tana’, il cassetto, lo scrigno dei ricordi, il rispecchiamento simbolico degli spazi di vita. Di queste dimensioni occorre tener conto nei modelli e sistemi di catalogazione e progettazione degli spazi architettonici, poiché le case, le strade, le porte, le scale, le forme, i volumi, le luci, le ombre sono sempre luoghi della memoria e dell’immaginazione. La dimensione soggettiva (trascurata dalla scienza fisico-matematica) resta perciò ancora decisiva per cogliere significati e risonanze affettive di uno spazio che ci corrisponde.

Bibliografia Arte e percezione visiva. R. Arnheim. Milano: Feltrinelli, 1988. La poetica dello spazio. G. Bachelard. Bari: Dedalo, 1984. Essere nel mondo. L. Binswanger. Roma: Astrolabio, 1973. Das Raumproblem in der Psychopathologie. Ausgewählte Werke. L. Binswanger. Heidelberg: Vorlage Asanger, 1994 Essere e tempo. M. Heidegger. Milano: Longanesi, 1976. L’arte e lo spazio. M. Heidegger. Genova: Il Melangolo, 1992 La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. E. Husserl. Milano: Il Saggiatore, 1997. Lo spazio vissuto. V. Iori. Firenze: La Nuova Italia, 1996 (rist.2002). La mentalità primitiva. L. Lévy-Bruhl. Torino: Einaudi, 1975. Fenomenologia della percezione. M. MerleauPonty. Milano: Il Saggiatore, 1980. Il tempo vissuto. E. Minkowski. Torino: Einaudi, 1971. Il metodo. E. Morin. Milano: R. Cortina, 2001.

Vanna Iori Vanna Iori È professore ordinario di Pedagogia generale presso

Note: 1

l’Università Cattolica di Milano. L’orientamento fenomeno-

Non a caso una delle opere più significative di E. Hus-

serl, il fondatore della fenomenologia, ha per titolo “La crisi

logico qualifica le sue ricerche scientifiche e indirizza l’atti-

delle scienze europee e la filosofia fenomenologica”.

vità di formazione svolta in molteplici ambiti. In particolare è da dieci anni consulente al Comune di Reggio Emilia sui

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temi dell’abitare urbano e della domiciliarità come rete di relazioni tra famiglie. Fa parte della direzione delle riviste Pedagogia e Vita, La Famiglia, Adultità ed Encyclopaideia. Tra le sue ultime pubblicazioni: Essere per l’educazione. Firenze: La Nuova Italia, 1988, ristampa 2002. Eloisa o la passione della conoscenza. Milano: Franco Angeli, 1994. Lo spazio vissuto Firenze: La Nuova Italia, 1966, ristampa 2002. Filosofia dell’educazione. Milano: Guerini, 2000. Fondamenti pedagogici e trasformazioni familiari. Brescia: Transfer MK galerie. nl, Olanda Frank var der Salm.

La Scuola, 2001, ristampa 2003. Famiglie, domiciliarità, relazioni. Milano: Unicopli, 2001. Emozioni e sentimenti nel lavoro educativo e sociale. Milano: Guerini, 2003.

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sono la casa, il riparo, il castello, il recinto, la protezione, l’albero con le radici ben piantate a terra, le figure stabili di riferimento (genitori, animali, oggetti del suo ambiente...). La seconda condizione, legata alla prima, consiste nell’assicurare al bambino spazio e incentivazione per l’immaginazione e l’ideazione, per l’accesso al simbolo, per il percepire l’oggetto in assenza. Il fanciullo e poi il ragazzo comincia prima a simulare e poi a tentare l’avventura, a mettere a repentaglio le sicurezze dell’infanzia, provoca e accetta le sfide del pensiero avventuroso. Di tanto in tanto emergono nostalgie d’infanzia, regressioni, ma la prua è sempre più spesso puntata verso il mare aperto e verso una navigazione senza coste in vista.

La didattica come creazione

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“Bisogna insegnare agli uomini – scriveva Alexander Pope – avendo l’aria di non insegnare affatto, proponendo loro cose che non sanno come se le avessero soltanto dimenticate”. Ottimo suggerimento, ma quando ci si propone di accostare i ragazzi ai mondi dell’architettura, non è affatto detto che le cose che non sanno non siano state almeno in parte davvero dimenticate. Già, perché noi siamo relazionali per concezione1, siamo architettura vivente2. Nella continuità dello sviluppo non è identificabile un momento a cui corrisponda la nascita dell’individualità che non sia quello del concepimento. L’individuo è il suo genoma, cioè un sistema di relazioni tra geni, ed è l’organizzazione epigenetica, cioè il sistema di relazioni che precocemente si forma con l’instaurarsi dell’equilibrio tra elementi innati ed elementi acquisiti. Non è della scienza stabilire quando l’individuo diventa soggetto. Sappiamo però quali condizioni devono essere assicurate a ciascun individuo per divenire un soggetto produttore e cercatore di sensi e significati, che vive, dunque, e non solo sopravvive. La prima condizione è data dalla protezione e dall’educazione assicurata da un ambiente familiare che aiuti il bambino, esposto a un’enorme molteplicità di stimoli e non guidato dagli istinti che definiscono invece rigidamente gli animali, a non perdersi nella molteplicità, a selezionare, classificare, ordinare, a decidere e scegliere, esonerandosi dallo sperimentare ogni cosa. Il piccolo ama costruire, disegnare, giocare e i temi ricorrenti

Come ogni essere vivente, noi siamo un sistema complesso e il nostro sviluppo è costruzione gerarchica di sottosistemi, organi, cellule, molecole, strutture subcellulari. L’insieme dei funzionamenti differenziati dei singoli sottosistemi ha una funzione di organizzazione basilare che dà stabilità all’essere umano. Il sistema essere umano si apre all’ambiente, ad interagire, e già il genoma ha un’apertura. L’apertura è sempre più grande passando dal genoma all’insieme dei funzionamenti dei sottosistemi, all’organismo, ai comportamenti globali dell’individuo. Il sistema si chiude, per autoproteggersi, per riequilibrare le strutture scosse dagli input ambientali, per proteggere la funzione organizzativa basilare. Le aperture sono biologiche, cognitive e affettive e le chiusure sono raccoglimenti, raccoglimenti in un ‘segreto’ che bisogna riconoscere, comprendere e, quando si tratta di comportamenti e di relazioni tra individuo e ambiente, rispettare. Il raccoglimento lo si riconosce già nei comportamenti del neonato, nel suo stato di veglia tranquilla, quando si vede che fissa l’ambiente circostante e ne è allo stesso tempo distaccato, quasi guardasse fuori scrutandosi dentro. Si crede di riconoscerlo già nel feto, nei momenti in cui con l’ecografia lo si vede immobilizzarsi. 145 Il gioco delle aperture e delle chiusure significa assimilazione degli stimoli, accomodamento e adattamento del sistema ad essi, conservazione della sua autonomia, ossia invarianza dell’organizzazione basilare. Se si è attenti ai comportamenti dell’individuo, si comprende il significato comunicativo di questo gioco, ed è di importanza fondamentale comprenderlo quando l’individuo è un bambino, soprattutto se è piccolo, soprattutto se non sa ancora esprimersi verbalmente.


L’individuo è dipendente e, autoregolandosi, autoproducendosi, mantenendo la stabilità della propria organizzazione, relativamente indipendente dall’ambiente. Il bambino è maggiormente dipendente dall’ambiente, ma cerca l’indipendenza anche quando è molto piccolo. Lo sviluppo, in quanto organizzazione, costruzione gerarchica di sottosistemi, adattamento e ricerca di indipendenza, di autonomia, è un processo modulare, esprime un meccanismo fondamentale di modulazione delle relazioni che vanno formando il sistema individuo. È scientificamente descrivibile in tappe, in stadi, quantificabile e misurabile, raffigurabile in grafici, schemi, tabelle, valutabile con medie e deviazioni standard, ma non lo si conosce senza l’idea e il senso della sua complessità e della misteriosità delle sue relazioni, della sua architettura.

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L’architetto viennese Harry Glück si chiese a quali bisogni umani rispondesse l’abitazione sulla base del condizionamento ‘filogenetico’ dell’uomo, e come l’edilizia sociale di massa potesse soddisfarli. Le persone facoltose di regola costruiscono la propria casa in modo da soddisfare tali bisogni e danno la preferenza alla casa unifamiliare immersa nel verde con veduta sulla campagna e magari con un laghetto personale o almeno una piscina. Da un’inchiesta risulta che questi erano anche i desideri delle persone con pochi mezzi. Questo bisogno di vicinanza con la natura ha sicuramente radici filogenetiche, poiché noi siamo condizionati da un habitat di savana. Noi amiamo globalmente un certo tipo di paesaggio - a cui si possono anche sovrapporre imprinting locali della propria terra d’origine - e amiamo in particolare le piante. È straordinario il modo in cui personalizziamo le nostre abitazioni urbane, lontane dalla natura, con piante in vaso e con decorazioni vegetali dei tipi più svariati. Fiori e viticci adornano tende, tovaglie, coperte e molti altri oggetti di uso quotidiano. Anche l’acqua rappresenta un buon indice per questa scelta, soprattutto l’acqua che scorre. Noi però amiamo la natura anche per altri motivi. Essa ci sprona a essere attivi e ci offre possibilità di movimento. L’aria fresca e il sole stimolano la nostra circolazione e attivano i sistemi omeostatici che regolano la temperatura corporea. Come tutti i sistemi biologici, anche questi hanno ‘voglia’ di funzionare, e ciò fa sì che noi dovremmo esercitarli tutti i giorni, preservandoli dalla degenerazione. In modo molto azzeccato, parliamo di desiderio di moto, di piacere dei sensi e cose simili.3

In questa pagina e nella pagina precedente. Half Square/Half Crazy Piazza del Popolo, Como Dan Graham. Nella pagina successiva. The Weather Project Tate Modern, Londra Olafur Eliasson.

Tutto questo non mi è parso in contraddizione con quanto ho ascoltato sei anni fa da Renzo Piano, nel suo discorso di accettazione pronunciato in occasione del conferimento del premio Pritzker 1998, una sorta di Nobel per l’Architettura. Credo che la lettura integrale di questo breve discorso in cui vengono esposte le motivazioni di una scelta professionale, potrebbe essere una buona introduzione alla conoscenza dell’architettura. Nel suo “Elogio della costruzione” ci sono affermazioni che non possono non entusiasmare gli adolescenti e spingerli ad amare l’architettura come arte se non come professione. “ [...] l’architettura è un mestiere antico, forse il più antico della terra; [...] è un po’ come la caccia, la pesca, la coltivazione dei campi, l’esplorazione dei mari. Sono le attività originarie dell’uomo, da cui discendono tutte le altre. Subito dopo la ricerca del cibo, viene la ricerca di un riparo; a un certo punto, l’uomo non si accontenta più dei rifugi offerti dalla natura e diventa architetto. L’architettura, infine, è un’arte che mescola le cose: la storia e la geografia, l’antropologia e l’ambiente, la scienza e la società. E inevitabilmente è lo specchio di tutto ciò. [...] Ho sempre amato andare in cantiere con mio padre e vedere le cose nascere dal nulla, create dalla mano dell’uomo. Per un bambino il cantiere è magia: oggi vedi un mucchio di sabbia e mattoni, domani vedi un muro che sta in piedi da solo, alla fine tutto diventa un edificio alto, solido, dove la gente può abitare. Sono un uomo fortunato: ho passato tutta la vita a fare ciò che sognavo da bambino. [...] L’architettura è scienza. Per essere scienziato, l’architetto deve essere un esploratore, e deve avere il gusto per l’avventura. Deve affrontare la realtà, con curiosità e coraggio, per conoscerla e per cambiarla. Deve essere ‘homo faber’, nel senso rinascimentale del termine. [...] una formidabile lezione di curiosità per il nuovo, di autonomia di pensiero, di coraggio di esplorare l’ignoto [...] Gli architetti devono vivere sulla frontiera, e ogni tanto attraversarla per vedere che cosa c’è dall’altra parte.[...] L’architettura è un’arte. Usa una tecnica per generare un’emozione, e lo fa con un linguaggio suo specifico, fatto di spazio, di proporzioni, di luce, di materia (la materia per un architetto è come il suono per un musicista, o le parole per un poeta). [...] Al tempo dei miei primi lavori era un gioco: una sfida un po’ ingenua fatta di spazi senza forme e di strutture senza peso. In seguito, questo è diventato il mio modo di essere architetto. [...] Come in tutte le arti ci sono momenti difficili. Creare significa scrutare nel buio, rinunciare ai punti di riferimento, sfidare l’ignoto. Con tenacia, con insolenza, con ostinazione. Senza questa

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ostinazione, che io trovo sublime talvolta, si resta alla periferia delle cose. Finisce l’avventura del pensiero: comincia l’accademia. Per creare veramente, l’architetto deve accettare tutte le contraddizioni del suo mestiere: tra disciplina e libertà, tra memoria e invenzione, tra natura e tecnologia. Non si può sfuggire: se la vita è complicata l’arte lo è ancora di più. L’architettura è tutto questo: società scienza e arte. [...] L’architettura è così lo specchio della vita. Per questo io vedo in essa prima di tutto la curiosità, l’ansia sociale, la voglia di avventura[...]”. A proposito di creatività, proviamo ad intenderci su questo termine tanto usato che si finisce con l’abusarne. È forse possibile individuare entro quali limiti si possa parlare di ‘gioco liberamente creativo’ e di ‘gioco con finalità didattiche’. ‘Creare’, secondo la mia opinione, è forzare i limiti della realtà, utilizzando i dati della realtà stessa, però in forme e modalità insolite. Un grande psicologo bielorusso, Lev Vygotskij, sosteneva che ogni creazione dell’immaginazione si compone sempre di elementi presi dalla realtà e già inseriti nell’esperienza passata dell’individuo. Se l’immaginazione potesse creare dal nulla o se avesse per le sue creazioni altre fonti che l’esperienza passata, si tratterebbe di un prodigio improbabile. Tutto quello che noi consideriamo nuovo, da noi creato, non è frutto di partenogenesi ma è una manipolazione o una creazione di dati della nostra realtà combinati in una forma insolita. Vygotskij, per spiegare cosa sia la creatività, utilizzava una fiaba popolare russa in cui si descriveva una capannuccia che poggiava su zampe di gallina. Nessuno ha mai avuto esperienza diretta di una costruzione del genere se non attraverso la fiaba. Gli elementi ‘capanna’ più ‘zampe di gallina’ con cui l’immagine è stata costruita, fanno parte della reale esperienza umana: conosciamo ‘la casa’ e conosciamo ‘le zampe di gallina’, ma è insolito metterle insieme. Soltanto la loro combinazione reca l’impronta della creazione e dell’immaginazione, quella felice non corrispondenza con la realtà a noi nota, che ci trasporta nel mondo fantastico della combina148 zione insolita di elementi della realtà. Nella mia vita ho incontrato spesso ragazzi con un passato di fallimenti. Se avessero dovuto trascorrere la vita a contemplare questa loro realtà passata, si sarebbero trovati in una situazione in cui non c’era spazio per creare e progettare, ma soltanto ripetizione e drammatica depressione. Un buon insegnante, un buon adulto, una buona relazione, li hanno aiutati a scomporre questi elementi, a creare combinazioni insolite, spesso diverse da quelle deprimenti che finora avevano caratterizzato la loro vita.

Sarà anche vero che nulla si crea e nulla si distrugge, ma l’essere umano è in grado di percepire, utilizzare e modificare il reale in forme molto personali. Questo è uno degli aspetti più affascinanti e talvolta inquietanti dell’esistenza che, senza la nostra illusione di lasciare un segno nel reale, sarebbe ben piatta e scialba. Quindi un buon rapporto con l’educatore o con un genitore serve anche a raccontarci delle buone storie, per vivere in un mondo che altrimenti, visto realisticamente, non ci consentirebbe né di sopravvivere né di vivere. Del resto, chiunque di noi, se ha vissuto abbastanza a lungo, ha dimostrato di essere una persona capace di raccontarsi tante storie per continuare a vivere, a sognare, a lottare. Una persona profondamente depressa sta tanto male perché non produce più storie e questo è per noi esseri umani un dolore, una mancanza, radicale.

bollente’, che salva capra e cavoli: la creatività è tollerata entro i limiti dei programmi ministeriali. Forse per tutto questo e altro ancora “les enfants adorent les cours d’architecture4” ed è questo lo spirito che mi sembra animare questo progetto didattico in collaborazione con la 9.Mostra Internazionale di Architettura, Metamorph: avvicinare bambini e ragazzi al mondo affascinante e avventuroso dell’architettura, un mondo che fornisce ai giovanissimi infinite possibilità di espressione e dove la loro personalità si forma e si rispecchia nel costruire e nel progettare. Fulvio Scaparro

Note: 1

Se creare è forzare i limiti, è necessario che questi limiti siano presenti: non parlo soltanto nei nostri evidenti limiti umani, ma anche delle norme della nostra cultura, dei suoi stereotipi, dei suoi pregiudizi. In altri termini, non c’è creatività senza limiti da superare, barriere da infrangere, ostacoli da oltrepassare, rituali da trasgredire. Mettere una capanna su zampe di gallina è una trasgressione dell’ordine costituito. Il bambino e l’adolescente sono messi in condizioni di liberare il loro naturale potenziale creativo se gli si evitano due estremi: l’assoluta mancanza di regole e l’oppressione totale. Nella fascia intermedia tra questi due poli c’è lo spazio della creatività e noi sappiamo che non solo i ragazzi, ma anche i bambini molto piccoli, non hanno alcun bisogno di lezioni di creatività. Questo loro potenziale può essere sviluppato soltanto in un ambiente fertile, che fornisca ricchezza di esperienze, li esponga alla diversità di cultura, di sesso, di razza, di età, di condizioni fisiche, psichiche e sociali, di ambienti di vita. C’è necessità di un ambiente adulto che ritualizzi le tappe dello sviluppo e della crescita sociale, fissi chiare regole del gioco e le rispetti, consentendo ai bambini e ragazzi di rendersi conto di stare crescendo, anche riconoscendoli responsabili delle trasgressioni. Infine, c’è da chiedersi se vogliamo davvero bambini e ragazzi creativi e dunque un po’ imprevedibili, diffidenti verso l’ovvietà e il conformismo, talvolta ombrosi, con sospetta indipendenza di pensiero. Si invoca spesso nella scuola la ‘creatività’, ma non credo che vi sia la seria intenzione di allevare personaggi di questo genere visto che un giovane veramente creativo è inaffidabile, tende a pensare con la sua testa e mostra una certa insofferenza per i limiti. Il problema è stato risolto con un compromesso. Ci si accontenta di una moderata creatività, un ossimoro come ‘ghiaccio

La bella stagione. Dieci lezioni sull’infanzia e sull’adole-

scenza. Fulvio Scaparro. Milano: Vita e Pensiero, 2003. 2

Già l’età d’oro del popolo egizio è contraddistinta da un

profondo intreccio tra medicina, architettura e cultura (I sacerdoti del corpo, dotti geometri del cielo. Giovanni Caprara. Corriere della Sera, 5 agosto 2004.) 3

Etologia umana. I. Eibl-Eibesfeldt. Torino: Bollati

Boringhieri, 1993. 4

Journal Communal de Lausanne, 14 aprile 2003.

Vedere anche http://www.tribu-architecture.ch

Fulvio Scaparro Psicoterapeuta. Ha insegnato, fino al 1998, Psicopedagogia nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano. Giudice onorario fino al 1992 del Tribunale per i Minorenni e componente privato della Corte d’Appello del Tribunale di Milano, Sezione Minori e Famiglia, è membro fondatore (1976) dell’Associazione Italiana di Psicologia Giuridica. Impegnato da anni nella difesa dei diritti dei bambini e degli anziani, ha fondato a Milano l’Associazione GeA-Genitori, di cui è attualmente Direttore Scientifico. Scrittore e giornalista, è collaboratore e opinionista del Corriere della Sera, dell’Avvenire e di altre testate. Tra le sue ultime pubblicazioni: La bella stagione, dieci lezioni sull’infanzia e sull’adolescenza. Milano: Vita e Pensiero, 2003. Marcello Bernardi, La vita segreta del bambino. Gli ultimi appunti di un grande pediatra raccolti da Fulvio Scaparro. Milano: Salani, 2004.

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Esercizi di lettura dei luoghi e degli spazi attraverso 5 sensi e 1⁄2

Pennini. Prendi un oggetto che hai in tasca o il primo

che ti capita nelle mani, senza stare troppo a scegliere, e utilizzalo per disegnare ovunque. Variazioni. Disegna lo stesso oggetto con almeno

dieci strumenti differenti. Poi con lo stesso strumento modifica gli attributi dell’oggetto ogni volta un po’, fino a quando ti si disfa nelle mani. Metamorfosi. Prova a trasformarti per un po’ di tem-

po in un ragno e inizia a muoverti per casa strisciando sulle superfici anziché camminando. Quando non riesci ad andare avanti torna indietro e prova un altro percorso. Mosca cieca. Prova di giorno ad attraversare la tua

casa come se fosse completamente al buio e riprova ad attraversarla al buio come se fosse completamente illuminata. Identikit. Scegli una stanza della tua casa e rac150

contala a qualcuno che deve riprodurla seguendo le tue descrizioni. Una volta disegnata prova a farti raccontare le sensazioni percepite in ogni punto: dove c’è caldo, dove freddo, che odore c’è vicino alla porta e che rumore fanno i passi. L’attimo fuggente. Sali in piedi sopra il tavolo della

sala da pranzo e guardati intorno. È un omaggio a un bel film e all’adolescenza. Sottomarino. Riempi la vasca del bagno con almeno 50 cm di acqua a temperatura confortevole. Immer-

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giti completamente con la testa, finché le orecchie sono sotto il pelo dell’acqua: ascolta i suoni e racconta cosa succede nel condominio. Telescopi o cimici varie. Per quelli privi di vasca a

casa, ma dotati di doccia. Rimani tranquillamente vestita/o e poggia le tue orecchie contro lo stipite di una porta o di una finestra. Presentaci i tuoi vicini: a destra, a sinistra, quelli di sotto e di sopra. La finestra sul cortile. Attraverso i rumori che proven-

gono dal cortile, sei in grado di assicurarti che tutti gli inquilini del palazzo siano tornati a casa? Home sweet home. Ripercorri all’ora di pranzo la tua

strada e descrivi cosa offre oggi il menù. Prima di cominciare l’esercizio, sincerati che a casa ti attenda una leccornia altrimenti potresti incorrere in una vera e propria frustrazione. Vietato scrivere. Giallo, ruvido, elastico, ritmo, fischio,

odore di plastica, fumo, bagnato, puntiforme, gracchiante, consumato, retto, salato, blu, ‘r’ moscia, trasparente, vibrante, grezzo, filiforme. Scegli un attributo e rintraccialo ovunque nella tua casa, poi disegna sopra una mappa dove si trova. Quando avrai terminato, scegline un altro e ricomincia con il successivo. Bioritmi e metronomi. Distingui i suoni endogeni della

casa da quelli esogeni della città. Dopodiché prova a scandire il tempo della tua giornata attraverso la voce degli oggetti: alle 4,30 il vicino di casa che esce a lavorare; alle 6,30 il primo tram; alle 7,15 la sveglia; alle 8,32... Il giorno successivo verifica cosa è cambiato. Nel blu dipinto di blu. Inizia la giornata tingendoti la

bocca di blu di metilene (non è velenoso). Alla sera verifica quante cose hai messo in bocca. La notte è vietata ai minori. Sagrada Familia. Usa gli amici come materiale da

costruzione e prova a erigere un edificio, gli altri devono capire che architettura è. 152

Impulse. Segui un odore, un sapore, un suono o il

silenzio fin dove vuoi... fino a smarrirti nei tuoi ricordi.

L’architettura vivente e la messa in scena dei sensi L’Opera NHT70PSS l’aveva sentita in un lungo viaggio e ne era stato mortalmente annoiato. Non capiva la passione per la lirica né tanto meno per il melodramma. NHT70PSS dovette arrivare lì per capire che l’Opera è travolgente quando viene eseguita in luoghi speciali, che consentono di assaporarla e goderla, come avviene con il vino nei calici. Il pubblico non è banalmente spettatore, ma diventa cassa armonica tutt’uno con l’arena, resta immobile, incollato al suo posto nell’incanto di quell’atmosfera. NHT70PSS rimase inebriato da quelle emozioni, capì che non era l’opera: era lo spazio. Gli sembrò di ricordare ai tempi dei cavalieri il rumore delle armature... sentì caldo e gelo a seconda delle scene... respirò il tanfo di sterco e di bivacchi ...e una percussione finale di tragedia. Ci sono sensazioni che riescono a vivificare i luoghi, e architetture che amplificano emozioni, evocano immagini, riescono a sintonizzare tremila persone sul medesimo sospiro. Si riaccesero le luci sugli spalti e rimase notte... estate... Verona... il Trovatore. L’architettura non è una immagine soltanto per la vista, ma è un luogo di esperienza per tutti i sensi. In essa si entra con il corpo, che attiva le coordinate non solo dimensionali, ma anche sensoriali e plurispaziali. C’è un’architettura che possiamo chiamare ‘vivente’ che è in grado più dell’altra, anche dopo millenni, di indurre esperienze coinvolgenti tra gli spazi e i corpi, di instaurare relazioni emotive (positive o negative che siano) con i propri abitanti. Dire luce non può bastare: c’è la luce naturale e quella artificiale, quella del giorno che è diversa alla mattina e al tramonto e poi la notte... la luce dei lampioni, quella della televisione accesa, quella del computer, quella delle insegne dei negozi sotto casa, quelle della luna e delle stelle quando si è un po’ fortunati... quella al polo nord diversa da quella ai tropici... Ed oltre alla luce, ci sono i suoni: costanti, intermittenti, episodici, naturali, artificiali... e le voci degli umani e quelle degli animali, e i rumori delle automobili che suonano diverse dai motorini e dai tram. E ci sono voci stridule e imperative di insegnanti e voci basse e affettuose di nonni, e voci che cantano e musiche di strumenti armonici diversi da quelli elettrici... e radio accese... e tutto un mondo di suoni in movimento nel tempo e nello spazio. Ci sono le superfici lisce, ruvide e levigate, e materiali plastici, vetrosi, legnosi e gelatine. E odori così regionali da potere capire dove ti trovi in meno di un secondo: dal fragrante del pane italiano al caprilico del kebab arabo, dalla vaniglia dei dolci francesi al fritto di cocco del wan-ton cinese...

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Insomma le emozioni che ogni giorno proviamo sono sensazioni della nostra vita e ingredienti dell’architettura che abitiamo, che ce la fanno piacere o disgustare, che ci fanno eccitare o intimorire, molto più degli stili e delle forme.

Anoressia e bulimia: il rifiuto della metamorfosi Sara non si piace. Si annoia, passa troppo tempo da sola, e telefona, e guarda la tele, e vede tutti che le sembrano più magri, più sani, più tonici e definitivamente più belli. Vorrebbe un altro corpo, ma non sa come fare. Non mangia mai un pasto normale e l’ansia le cresce. Nel buio divora per poi vomitare. Sara cambia cento volte i vestiti senza mai piacersi, quando può si tinge i capelli di colori impossibili, ma non ha tatuaggi, né strani piercing. È il governo del suo corpo che vuole impaziente, farsi giurare obbedienza, poterlo controllare a suo favore, allungarlo e accorciarlo come un vestito. Aspetta Sara, non farti operare, forse basterebbe un bacio vero per farti piacere! Si inizia con un gesto, uno qualsiasi, banale, come ad esempio andare in cucina a bere un bicchiere d’acqua. Si ripete l’esercizio in maniera diligente una seconda volta, poi una terza... e una quarta, poi ci si chiede se si vuole continuare così e soprattutto... fino a quando? Sostanzialmente questo è già un primo bivio importante della creatività di ognuno, una decisione seria da prendere: ripetere o variare? Ripetizione significa obbedire ad una regola, ad un ordine prestabilito, almeno fino a quando non si è raggiunta la perfezione, nei gesti, nei modi, nell’esecuzione. È un esercizio che potremmo definire verticale, una pratica di concentrazione, una zoomata su un punto che si tiene fermo, e poi pian piano ci si avvicina sempre più, per aggiustamenti infinitesimi... vicino... vicino... al concetto di limite. Variazione significa un po’ disobbedire alla regola che è stata decisa, oppure semplicemente concentrarsi su un punto che non è fermo, ma è in movimento, e che quindi impone una modifica continua. Variare è apertura, è esplorazione orizzontale, attraverso una dinamicità che si nutre di irrequietez154 za e di continua frequentazione dei mille percorsi possibili. Non c’è una strada migliore di un’altra. Entrambe le scelte sono creative, ma in modo diverso. Si potrebbe dire che la ripetizione va verso l’infinitesimo e la variazione verso l’infinito; che quando la variazione è trasformazione esponenziale, l’esercizio si allontana sempre più dall’originale, diventa metamorfosi. La metamorfosi è la crescita vera e propria di una creatura, è la trasformazione da una forma ad un’al-

tra che alle volte non è facile accettare. Metamorfosi è la vera adolescenza, è il viaggio – non la meta – di un corpo che si trasforma verso l’età adulta e la maturità. In adolescenza non esiste perfezione, c’è un corpo che assume forme e dimensioni sempre disequilibrate, è un baco da schiudere... di una bellezza mozzafiato. Bulimia e anoressia non accettano l’adolescenza, sono paranoica rincorsa di una perfezione che è costrizione senza sviluppo, prigione senza tempo, autismo senza creatività. Metamorfosi è un corpo in evoluzione che asseconda i propri squilibri per raggiungere la sua forma, quella del sé, della propria esistenza, senza obbligarsi in forme di altri. Anna Barbara

Anna Barbara Architetto. E’ stata visiting professor di Progettazione sensoriale presso le Facoltà di Architettura, Industrial Design e Interni della Kookmin University e professore di Estetica presso il Techno Master Brain 21, a Seoul. È stata borsista della Canon Foundation in Giappone presso la Hosei University di Tokyo. È docente di Progettazione sensoriale all’Università dell’Immagine di Milano e docente di design della sensorialità al Politecnico di Milano. Le relazioni tra i sensi, gli spazi e i prodotti sono al centro delle sue ricerche, pubblicazioni, lavori curatoriali, mostre, attività didattiche e professionali. È consulente di design strategico presso numerose multinazionali e aziende italiane.

Fotografie di: Amelia Eguia e Francesca Ripamonti.

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Concert halls

Città della Musica Roberto Marinho, Rio de Janeiro, Brasile Atelier Christian de Portzamparc

Kirishima International Concert Hall, Makizono, Kagoshima, Giappone Maki and Associates Fotografia aerea dell’edificio, con la tettoia in

Christian de Portzamparc (1944, Casablanca, Marocco). Vive e lavora a Parigi, Francia

Planimetria inserita nel contesto ambientale.

Fumihiko Maki (1928, Tokyo, Giappone). Vive e lavora a Tokyo, Giappone

metallo in evidenza.

www.maki-and-associates.co.jp

http://www.chdeportzamparc.com A Rio de Janeiro, la Città della Musica è in construzione; situata tra il mare e le montagne, nella pianura urbana di Barra da Tijuca. Destinato a diventare la sede dell’Orchestre National Symphonique du Brésil, l’edificio contiene una sala concerti da 1.800 persone convertibile in sala da opera, una sala per musica da camera, sale per il cinema, per la danza, per le prove, spazi per esposizione, ristoranti, ecc. In questa nuova Rio, il progetto è stato concepito per divenire un simbolo pubblico, un punto di riferimento urbano da dove ammirare l’estensione della città. Per una lunghezza di 200 metri, due grandi piani orizzontali sono sospesi a 10 e 30 metri di altezza, sopra un giardino tropicale acquatico. Tra questi due piani corrono sinuosi gli involucri delle grandi sale e il vasto terrazzo pubblico. La sala di musica da camera prosegue l’esperienza spaziale e acustica delle superfici curve cominciata negli anni Novanta. La grande sala concerti, in linea con quelle della Villette di Parigi e di Lussemburgo, é un grande volume nelle cui pareti sono inglobate delle torri a loggia. Tutto il pubblico è raccolto nello spazio intorno ai musicisti. Quattro torri mobili cambiano la configurazione della sala da concerto in sala da opera.

Sezione dell’edificio della Città della Musica Roberto Marinho.

Il Kirishima International Concert Hall è nascosto tra le montagne vulcaniche della regione meridionale del Giappone, dove secondo la mitologia antica gli dei crearono il paese. Il tetto in metallo sfaccettato e lucente costituisce una presenza iconografica forte in contrasto con le colline retrostanti e il verde circostante dove sono collocati un anfiteatro e la strada di accesso al teatro. La forma di questo tetto suggerisce la presenza di una struttura interna simile a quella esterna che avvolge la sala principale dove i muri in legno di quercia e una composizione di pannelli bianchi triangolari al soffitto accolgono gli artisti e il pubblico. Man mano che si procede all’interno dell’edificio si svelano continuamente diverse vedute di questo palcoscenico naturale, arricchendo così il piacere dell’esperienza musicale in uno scenario indimenticabile.

Vista esterna dell’edificio.

Rendering della terrazza dell’edificio.

Interno dell’auditorium.

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159 Rendering dell’interno dell’auditorium.


Transformations

Las Arenas, Barcellona, Spagna

Kleiburg Block, Bijlmermeer, Amsterdam, Olanda

Richard Rogers Partnership Richard Rogers (1933, Firenze, Italia). Vive e lavora a Londra, Gran Bretagna

Greg Lynn FORM Rendering del complesso Las Arenas visto dall’esterno.

http://www.richardrogers.co.uk

Greg Lynn (1964, Vermilion, Ohio, Usa). Vive e lavora a Venice, California, Usa

Il progetto Las Arenas, intrapreso in collaborazione con l’architetto Alonso Balaguer, trasforma una ridondante costruzione del IX secolo, utilizzata come arena per la corrida, in un complesso per l’intrattenimento e il tempo libero. La struttura si trova nei pressi di Montjuic e della Plaça España all’incrocio di due vie di comunicazione molto importanti; ciò consente alla città di aprirsi una porta da ovest.

http://www.glform.com

La facciata esistente sarà preservata e restaurata come parte del progetto e racchiuderà un insieme composito e vivace di attività. Saranno create nuove piazze al piano terra e queste faranno da collegamento alle stazioni di metropolitana esistenti e al Parco Joan Miró. Una gigantesca terrazza sui tetti costituirà la ‘piazza nel cielo’ e offrirà una vista panoramica sulla città. All’interno, il progetto prevede una serie di spazi per l’intrattenimento, gli acquisti, il benessere e il tempo libero raccolti intorno a uno spazio centrale per eventi e manifestazioni. Il piano terra disporrà di un parcheggio in grado di accogliere 1250 vetture.

Rendering dell’inserimento dell’edificio nel contesto urbano.

L’idea è di fornire un alto livello di flessibilità degli spazi che consenta modifiche future e permetta di realizzare una grande varietà di attività all’interno della costruzione. Planimetria del complesso inserita nel contesto urbano. 160

Questo edificio residenziale di 500 unità costruito all’inizio degli anni ’70 nei dintorni di Amsterdam, è uno dei 31 edifici che costituiscono uno dei più grandi esperimenti di architettura residenziale in Europa. Il quartiere Bijlmermeer è in via di sviluppo e riabilitazione. Questo progetto in particolare funge innanzitutto da stimolo per un nuovo sviluppo dei dintorni; costituisce poi un modello per il riutilizzo degli edifici ed è infine uno strumento di comunicazione per la società immobiliare Rochdale proprietaria del quartiere. Lo schema si basa sulla trasformazione invece che sulla demolizione e la ricostruzione. Il design riesce ad ottenere una differenziazione dello spazio sia dal punto di vista sociale che architettonico, attraverso la riduzione dello spazio pubblico e la moltiplicazione delle tipologie delle unità abitative raccolte poi in gruppi aggregati di quartieri omogenei. Questa operazione è facilitata da una combinazione di nuovi ascensori e scale mobili che permettono ai vari quartieri di scomporsi e ricomporsi in una varietà di configurazioni. Questo edificio segna per la prima volta l’utilizzo delle scale mobili nell’edilizia residenziale. Le nuove scale mobili e le passerelle per la circolazione, che in realtà sono appese alla struttura di calcestruzzo esistente, sembrano sospese ad un sistema di travature reticolari in forme vegetali in acciaio semitrasparente.

Rendering di uno degli edifici del Kleiburg Block con gli elementi semi trasparenti in evidenza.

Rendering della facciata di uno degli edifici.

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Topography

Cassa di Risparmio di Firenze Nuova Sede, Italia

Temporary Guggenheim, Tokyo, Giappone

Mario Bellini Associati

Ateliers Jean Nouvel

Mario Bellini (1935, Milano, Italia). Vive e lavora a Milano, Italia

Jean Nouvel (1945, Fumel Lot-et-Garonne, Francia). Vive e lavora a Parigi, Francia

http://www.bellini.it

Rendering della facciata del Museo.

http://www.jeannouvel.fr Come tutti dicono, la città è un insieme di edifici e sono gli edifici che formano la città. In realtà la città che i cittadini percorrono è fatta di spazi vuoti, non costruiti. Le strade sono dei vuoti, le piazze sono anch’esse dei grandi vuoti per non parlare poi dei parchi, che sono dei vuoti pieni di alberi. Quindi, gli edifici – i pieni – è vero che formano la città, ma sono significativi perché danno forma ai ‘vuoti’ che sono la parte più importante della città, la parte della città che è di tutti. I cortili sono dei vuoti dentro ai pieni degli edifici. Questi vuoti possono appartenere ad un singolo edificio ed essere quindi degli spazi privati; oppure possono coinvolgere un intero isolato e diventare quindi degli spazi pubblici. Le facciate degli edifici che prospettano sul cortile possono essere disegnate in modo molto diverso da quello usato per la facciata pubblica degli edifici. Il progetto per Firenze, del 2003, nasce dall’idea di rendere pubblico lo spazio del cortile della Cassa di Risparmio di Firenze – molto grande – facendolo diventare un bel giardino, circondato su tre lati dalle facciate in vetro del cortile. Le facciate del cortile sono molto diverse dalle facciate verso le strade: disegnano un grande vuoto privato tutto frastagliato – sembrano delle scogliere di ghiaccio oppure un anfiteatro dalla 162 geometria un po’ folle e spettinata – in contrasto con le facciate ben educate che disegnano lo spazio pubblico della città.

Rendering della vista del cortile.

Rendering del cortile visto dall’interno.

Il paradigma artificio-natura è una delle basi della cultura giapponese e in particolare dell’arte del giardino. La natura come contrappunto positivo all’urbanizzazione di Tokyo: i giardini sono un luogo privilegiato, la parte nobile della città (i parchi imperiali, i giardini dei templi). La differenziazione tra artificio e natura risulta indispensabile perché è difficile vivere nel ‘collage’ urbano di Tokyo: il quartiere di Odaiba ne è un’illustrazione perfetta. Per il Temporary Guggenheim di Tokyo, ci vuole uno statuto eccezionale, in sintonia sia con il mondo giapponese che con quello dell’arte: il Temporary Guggenheim di Tokyo diventa allora un’architettura-natura dalle molteplici connotazioni e dai molteplici richiami, giapponesi e artistici. Sotto un rilievo artificiale adeguato a queste illusioni, il progetto del Temporary Guggenheim di Tokyo prevede grandi spazi rettangolari, costruiti come robuste infrastrutture d’acciaio. Di qui si può intravedere, attraverso una lunga apertura orizzontale, l’acqua del golfo con il porto e, dalle grandi finestre, le distese di alberi. Un viale sinuoso porta il visitatore in un cratereristorante circondato da ciliegi e aceri. Il Temporary Guggenheim di Tokyo è quindi il piccolo monte, la collina delle stagioni: bianco-rosato a primavera con i ciliegi, verde chiaro d’estate, fiammeggiante in autunno e grigio come la loro scorza d’inverno. La sua presenza dovrebbe essere segnalata inoltre da un totem sul quale girano lentamente tre grandi immagini luminose. Vuole essere intrigante, misterioso e attraente per diventare l’icona della nuova vita culturale di Tokyo.

La collina-Museo nelle diverse stagioni.

Rendering di una delle sale per l’esposizione.

Rendering di una delle sale per l’esposizione.

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Surfaces

Kyushu Shinkansen/Shin-Minamata Station, Minamata, Giappone

Slavin House, South California, USA

Makoto Sei Watanabe Architects’ Office

Greg Lynn form

Makoto Sei Watanabe (1952, Yokohama, Giappone). Vive e lavora a Tokyo, Giappone

Greg Lynn (1964, Vermilion, Ohio, Usa). Vive e lavora a Venice, California, Usa http://www.glform.com

http://www.makoto-architect.com La famosa rete ferroviaria di alta velocità giapponese Shinkansen, che collega le aree metropolitane di Tokyo e Osaka è stata aperta nel 1964. La Shinkansen ha ora raggiunto l’isola meridionale del Giappone, Kyushu. Sono state costruite quattro nuove stazioni in questo segmento. Una di queste è la stazione di Shin-Minamata nella città di Minamata. Rendering dell’interno

Le stazioni ferroviarie sembrano aperte ma sono in realtà chiuse. Sembrano chiuse ma sono in realtà aperte. Sono dei luoghi speciali diversamente dai pacchetti chiusi delle architetture normali. Quest’opera tenta di chiarire il carattere speciale dello spazio di una stazione ferroviaria. Non ci sono porte che introducono alla stazione né ai binari, ma a questi ultimi, ad esempio, bisogna fornire riparo dalla pioggia, dal vento e dal sole e fare in modo che il rumore non esca quando passano i treni. Il tetto e i muri di questa architettura consistono in una serie di singoli elementi rettangolari che continuano l’uno nell’altro senza distinzione. Si è studiata la forma e lo stato della struttura in un momento specifico per determinare quanta pioggia potesse respingere, quanto vento vi avrebbe soffiato attraverso, quanta ombra potesse creare e quanto rumore dei treni in transito potesse essere trattenuto. Dopo numerosi tentativi e ripetizioni, si é scelta la 164 forma che meglio rispondesse ai requisiti, che ha costituito il design su cui si basa il progetto. I vari pezzi che corrono paralleli hanno angoli di superficie differenti, che rifrangono la luce in modi diversi, anche in base all’ora del giorno e della stagione. La gente vedrà bagliori diversi cambiare man mano che cambia l’ora del giorno e man mano che si avvicina alla stazione. Anche questa variazione della rifrazione della luce, come il moto di un orologio solare, è un tipo di movimento.

della stazione.

Rendering dell’esterno dell’edificio.

La Casa Slavin crea un nuovo tipo di spazio domestico ‘poroso’ che si avvolge e si svolge su se stesso. È stata progettata con un reticolo strutturale che definisce l’intero corpo della casa. Questo reticolo è composto da due tubi di acciaio che si piegano, si intrecciano e si avvolgono a spirale l’uno con l’altro in modo da funzionare simultaneamente da elemento portante sia orizzontale che verticale. Il reticolo permette di chiudere parzialmente l’area di soggiorno, collocata al piano terreno, mantenendo al contempo una relazione con gli spazi esterni attraverso alcuni pozzi di luce che perforano il piano superiore e collegano il paesaggio con il cielo. Questi pozzi di luce hanno la funzione di separare le stanze del piano superiore (le camere da letto, lo studio e l’area destinata ai bambini) e al contempo quella di unirle al piano inferiore e al tetto perché si piegano verso l’alto lungo il raggio strutturale curvo. Ciascun elemento della casa assolve a più di una funzione. Allo stesso tempo i materiali e le superfici rendono i suoi volumi sia vuoti che pieni permettendo uno scambio costante tra il dentro e il fuori e creando una fluente continuità tra i livelli.

Il plastico della struttura dell’edificio.

Schizzo della struttura a reticolo.

Plastico di studio della struttura dell’edificio.

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Atmosphere

Tod’s Omotesando Building, Tokyo, Giappone

The Web of North Holland, Olanda

Toyo Ito Associates, Architects

ONL [Oosterhuis_Lénárd]

Toyo Ito (1941, Seoul, Corea). Vive e lavora a Tokyo, Giappone

Kas Oosterhuis (1951, Amersfoort, Olanda). Vive e lavora a Rotterdam, Olanda

http://www.toyo-ito.co.jp

http://www.oosterhuis.nl L’edificio sarà costruito lungo la via Omotesando, una strada costeggiata da bellissimi alberi di zelkova a Tokyo. L’edificio di sette piani sarà alto 27 metri e sarà la sede della Tod’s, la società italiana produttrice di borse e scarpe. I piani inferiori saranno usati per il negozio al dettaglio e i piani superiori saranno adibiti ad uffici e spazi per eventi. Caratteristica dell’edificio è la sua facciata che circonda il sito a forma di L come una fila di alberi di zelkova. Il muro della facciata è di calcestruzzo spesso 30 cm e sembra fatto di strati sovrapposti di carta che riprendono il disegno della struttura dell’albero. Il muro in calcestruzzo funge allo stesso tempo da struttura dell’edificio e da cornice per le finestre di forme e dimensioni diverse. In queste aperture dalle forme irregolari sono inseriti vetri poligonali. L’edificio della Tod’s nella strada di Omotesando godrà di una identità forte e unica in mezzo agli anonimi muri degli edifici circostanti. Le fronde degli alberi cambiano forma e funzione man mano che ‘crescono’ dai piani inferiori a quelli superiori. I tronchi degli alberi al primo piano sono usati per esporre le scarpe e le borse. Al quarto piano, la luce del sole entrerà negli uffici da finestre di modeste dimensioni. Nello spazio eventi al sesto piano i ramoscelli si incrociano lungo le pareti. La struttura bidimensionale, quasi un lavoro di 166 grafica, rende astratta la facciata.

Rendering dell’edificio visto dall’esterno.

Plastico di un piano dell’edificio visto dall’interno.

La facciata in costruzione vista dall’interno.

L’idea è stata quella di disegnare un’astronave, che non è facile come può sembrare in un film. Prima di tutto, un edificio ‘normale’ si poggia ‘nel’ suolo. Tutte le costruzioni hanno delle fondamenta, una struttura sotto il terreno, fatta per lo più di cemento, per fare in modo che la costruzione non affondi e non si inclini come la torre di Pisa. Il web è costruito ‘sul’ terreno che in Olanda è molto irregolare. Qui il suolo è così morbido che tutti i grandi edifici hanno fondamenta con colonne di calcestruzzo fino a 20 metri di profondità. Si é pensato che una costruzione che doveva sembrare una nave non potesse avere queste fondamenta: se una nave può galleggiare sull’acqua, allora un edificio può galleggiare sul suolo. In più, non si può costruire un’astronave come si costruisce un edificio normale. Una casa si costruisce con molti piccoli elementi uguali, i mattoni ad esempio. Per ciascuna funzione c’è un elemento tipo, ad esempio un muro è fatto di mattoni, una porta di legno, ecc.: in questo modo allora i muri dovrebbero essere per forza verticali e i pavimenti orizzontali, senza una via di mezzo. “Questa impostazione non ci convince”, dice Sander Boer, dello studio onl. Guardando le automobili, però, si nota che esse hanno forme molto irregolari. Non c’è niente di veramente orizzontale o verticale e non assomigliano più a scatole, come la maggior parte degli edifici. Allora si sono studiati da vicino i principi di costruzione delle auto che sono stati applicati alla costruzione dell’edificio. Invece di usare diversi materiali edilizi per funzioni differenti (mattoni, porte, pavimenti, soffitti, ecc.) si é disegnato un unico elemento che potesse essere pavimento, soffitto, muro, porta. Come per le tessere di un puzzle, ogni elemento è simile all’altro ma ha un’unica posizione nel disegno generale.

Esterno del padiglione.

Dettaglio della struttura del padiglione.

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Guida. Le parole di Kid-a Metamorph

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Assonometria. Rappresentazione grafica di figure spaziali su piani, secondo gli assi di altezza, larghezza e profondità (coordinate cartesiane) e tramite una proiezione parallela a una direzione data: le linee proiettanti sono oblique rispetto al piano e parallele tra loro.

Capitello. Parte superiore della colonna. La sua forma è uno degli elementi che meglio caratterizzano uno stile e l’epoca di un edificio.

Alzato. In alternativa anche elevazione, o impiede. La rappresentazione verticale di un edificio o di una sua parte.

Dolmen. Nome bretone che indica quel monumento megalitico composto di poche pietre rudi dritte sul suolo che reggono una grande pietra orizzontale.

Bauhaus (1919-1933). Scuola tecnico-artistica di Weimar diretta da Walter Gropius, che la fondò unificando l’Accademia di Belle Arti e la Scuola di Arti e Mestieri. Il Bauhaus (Casa del costruire) si poneva l’obiettivo di riunificare in una nuova architettura, come sue parti inscindibili, tutte le discipline pratico-artistiche: scultura, pittura, arte applicata e artigianato. Lo scopo era quello di costruire un linguaggio comune che si basasse sulla pratica diretta del fare artistico, combinato con lo studio metodologicamente rigoroso delle nuove tecnologie. Ad esso aderirono fra gli altri J. Itten, L. Feininger, A. Meyer, V. Kandinskij, L. MoholyNagy, P. Klee. Campata. In alternativa anche portata di un arco. La distanza che intercorre fra i sostegni dell’arco stesso. Capriata. In alternativa anche incavallatura, o cavallo. Disposizione di travi a triangolo che serve per ossatura di tetti, tettoie, ecc.

Diagramma. Disegno geometrico che serve per dimostrare una proposizione, risolvere un problema.

Frangisole. Insieme di lastre in legno, metallo, materiali in plastica o calcestruzzo, fisse od orientabili, poste all’esterno delle finestrature di un edificio, che impediscono l’ingresso dei raggi di sole direttamente nei locali e hanno una funzione termoisolante. Si usa anche il corrispondente termine francese brise-soleil. Ornamento. In alternativa anche ornato. L’insieme dei risalti che che si usano in architettura e che si sovrappongono al corpo principale per abbellimento. L’ornato si dice essenziale se serve a dimostrare meglio la struttura Travata. Un insieme di travi di diversa portata. Topografia. Rappresentazione grafica sul piano di una determinata regione terrestre (di norma di dimensioni tali da non superare un cerchio del diametro di 30 km), ottenuta mediante le operazioni di rilevamento (o rilievo) e di livellazione;

anche l’insieme delle operazioni attraverso cui si realizza tale rappresentazione. Per estensione: aspetto, modo di presentarsi, configurazione di un luogo, e specialmente di una città, nella disposizione delle sue vie, delle sue piazze, dei suoi edifici pubblici, dei suoi monumenti e simili ed anche la descrizione esatta e particolareggiata di esso. Topologia. Studio geografico delle caratteristiche morfologiche del suolo e del paesaggio. Planimetria. Disegno in proiezione orizzontale. Plastico. Modello in scala di un edificio o di parte di questo, di un complesso architettonico, di un’area, utilizzato come rappresentazione tridimensionale o come verifica in fase di progettazione, eseguito generalmente in legno, materiali plastici, gesso. Pianta. In alternativa anche iconografia. Sezione orizzontale di un edificio. Prospettiva. In alternativa anche proiezione prospettica. L’arte di dare alla rappresentazione degli oggetti il senso dello scorcio e della lontananza. Proiezione. Rappresentazione su di uno o più piani di una qualunque figura ottenuta con linee, dette proiettanti che da vari punti dell’oggetto sono condotte al piano.

Prospetto. In alternativa anche facciata. Parte principale e anteriore di un edificio. Rendering. Tecnica di visualizzazione tridimensionale che si pone come obiettivo principale quello di ricreare effetti realistici tramite l’applicazione di trame fotorealistiche alle strutture tridimensionali e il calcolo degli effetti di luce, riflessione ecc. Sezione. Superficie secondo la quale si tagliano i solidi. Se il piano di sezione è orizzontale si dice anche icnografia o pianta; se il piano è di sezione è verticale si dice ortografia o spaccato. Statica. Scienza che studia le leggi dell’equilibrio e della resistenza.

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Referenze fotografiche

Metazoo. We create persistent world

Archivio Mario Bellini Associati, Milano p. 162 Archivio Eisenman Architects, New York p. 92 - 99 Archivio embt, Barcellona p. 60 - 61 - 77 Archivio Toyo Ito Associates Architects, Tokyo p. 166 Archivio Greg Lynn form, Venice California p.161 - 165 Archivio Juan Navarro Baldeweg / Juan Diego Lopez-Arquillo, Madrid p. 106 - 115 - 116 - 123 Archivio Atelier Jean Nouvel, Parigi p. 163 Archivio odbc, Parigi p. 34 - 35 - 39 - 40 - 49 - 50 - 51 - 53 Archivio onl [Oosterhuis_Lenard], Rotterdam p.167 Archivio Atelier Christian de Portzampac, Parigi p.158 Archivio Richard Rogers Partnerships, Londra p. 160 Archivio s& aa, Madrid p. 31 Archivio Makoto Sei Watanabe Architects’office, Tokyo p. 164 Bettmann, Corbis p. 128 in alto - p. 130 Gillian Darley, Edifice Corbis p. 135 in alto James Davis, Eye Ubiquitous/Corbis p. 131 Amelia Eguia p. 150 - 151 in basso 152 - 153 Naoya Hatakeyama, L.A. Galerie - Lothar Albrecht, p. 136 Thomas A. Heinz, Corbis p. 129 Angelo Hornak, Corbis p. 128 in basso

Eva-Lotta Jansson, Corbis p. 148 Ray Juno, Corbis p. 127 in basso Toshiharu Kitajima p. 159 Raphael Monzini p. 150 - 151 in alto Pino Musi, Associazione culturale Borgovico p. 145 - 146 - 147 Naruki Oshima p. 138 - 139 - 140 - 141 Kai Pelka p. 31 Jose Fuste Raga, Corbis p. 132 - 133 in alto Jim Richardson, Corbis p. 127 in alto Francesca Ripamonti p. 154 - 155 Frank Van Der Salm, mkgalerie.nl p. 142 - 143 John Van Hasselt, Corbis sygma p. 132 - 133 in basso Sandro Vannini, Corbis p. 135 in basso

Kid-a è ideato e prodotto da Metazoo, agenzia di comunicazione di Milano specializzata nel mondo dell’infanzia, della pre-adolescenza e dell’adolescenza. Metazoo la missione è: aggiungere valore al ‘tempo libero’ dei ragazzi elaborando proposte e realizzando progetti che esaltino le doti creative individuali e moltiplicando le occasioni d’interazione; costituire un riferimento internazionale per la promozione di attività legate ai consumi culturali dei ragazzi perseguendo l’obiettivo di costruire una ‘cittadinanza comune’. Metazoo crea: sinergie operative tra aziende e istituzioni realizzando progetti ‘su misura’ che coinvolgono territorio e media. Metazoo si distingue per: design vincente, capacità di intervenire con originalità sui contenuti, campagne che integrano in modo strategico i nuovi media. Il gruppo creativo è integrato da esperti e studiosi dell’infanzia e della comunicazione, educatori, autori, è altamente qualificato nell’ideazione, produzione e nella gestione di progetti innovativi, attivi sia territorio nazionale che su quello internazionale.


Kid-a The Network Generation Magazine http://www.kid-a.it 03 Metamorph

Direzione Creativa Mario Flavio Benini mfbenini@metazoo.it Art Direction Alessandro Boccardi aboccardi@metazoo.it Consulente Scientifico Maurizio Vitta Progetto Didattico Sarah Dominique Orlandi sorlandi@metazoo.it Realizzazione Laboratori Sarah Dominique Orlandi Marta Castelli Coordinamento Redazionale Francesca Zocchi Redazione Serena Vinattieri Francesca Zocchi Redazione Grafica Gioia Ferrari Marta Pirolli

Fotografie Claudio Cipriani Assistente Fotografo Diego Veronesi Contatti Internazionali e Traduzioni Silvia Malosio Assistente Fotografo Diego Veronesi Contatti Internazionali e Traduzioni Silvia Malosio

Promozione Patricia Bozzetti pbozzetti@metazoo.it Direzione Amministrativa Giuseppe Ingrassia Amministrazione Luigi De Micco Fotolito e stampa Grafotech Venezia

Kid-a ringrazia

La Biennale di Venezia Comunità Europea i.c.a.r.

- Istituto di Cultura Architettonica promosso dal Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori Ministero dell’Istruzione, dell’Università della Ricerca Università dell’Immagine

Carlo, Tommaso, Giada, Amanda e Ronnie per aver aderito a questo progetto e per averci donato le loro idee e il loro coinvolgente entusiasmo. Tutti gli studi di architettura che hanno collaborato e reso possibile la realizzazione di questa straordinaria esperienza.

Produzione Esecutiva Donatella Cascone Ufficio Stampa Newrelations press@metazoo.it

mbc Italy per la fornitura degli abiti dei ragazzi.

American Chamber of Commerce

Realizzazione Marsilio Editori Prima edizione Settembre 2004 ISBN 88-317-8587-7

Fila, per aver dato fiducia a questa iniziativa e averla sponsorizzata. Un grazie anche per la fornitura dei prodotti impiegati per la realizzazione dei laboratori.

Software Development Massimiliano Ribuoli max@metazoo.it

©2004 Metazoo Corso Buenos Aires 60 20124 Milano Italia tel. + 39.02.29.409.290 fax +39.02.29.512.057 email redazione@metazoo.it

Senza regolare autorizzazione è vietata la riproduzione, anche parziale con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia.


Fila e Metamorph: augmented creativity Fila, che da oltre ottant’anni produce strumenti per la creatività e che è presente sul mercato con i marchi Giotto, Tratto, Das, Didò e Pongo, è sempre stata particolarmente vicina al mondo della scuola. Da un anno è sponsor di “Kid-a - The Network Generation Magazine”, il primo magazine multimediale e multicanale che propone progetti e attività culturali dedicati ai pre-teenagers e alla scuola. Anche con la sponsorizzazione di Kid-a Metamorph, il primo progetto educativo dedicato all’architettura contemporanea, realizzato in collaborazione con la 9.Mostra Internazionale di Architettura di Venezia e con il patrocinio del Ministero della Pubblica Istruzione, Fila si propone di avvicinare i ragazzi alle arti creative e di far incontrare il mondo della scuola e quello del lavoro attraverso la sperimentazione della didattica attiva, privilegiando l’esperienza pratica e sensoriale. Perché osservare, immaginare, relazionarsi con chi lavora, sperimentare tecniche, strumenti e materiali innovativi, significa aprire una finestra sull’orizzonte della propria creatività e stimolare l’impiego di nuovi linguaggi e di nuove modalità espressive. http://www.fila.it


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