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“la cultura sopravvive, lì dove riesce, mediante l’investimento costante di valori e di significazioni dell’immaginario sociale delle diverse etnie, che continuano a orientare il fare e le rappresentazioni sociali” Cornelius Castoriadis
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deep inside the urban culture
Ci stiamo confrontando con una trasformazione epocale delle nostre città. Senza più confini, slabbrate, sembrano rimanere l’unico appiglio per capire, o semplicemente intuire, i movimenti magmatici che ribollono nella nostra società. Vediamo, indistinte, nuove forme abitative emergere, nuovi comportamenti, nuove modalità di produrre immaginari. Vediamo maschere sotto cui si muovono persone che si dannano per abitare spazi spesso poco accoglienti o svuotati da ogni significato. SignJam guarda cosa si è sedimentato in questi luoghi, coperti da una glassa di graffiti, adesivi, suoni, modi di vestire, stili e consumi che con un gergo, che piace tanto ai media, chiamiamo “urban culture”. Quest’insieme di segni e comportamenti si è trasformato da una subcultura marginale e discussa, per il forte rapporto con il degrado urbano, a un cruciale stock di capitale simbolico intorno a cui si costruiscono importanti narrative urbane. Castoriadis1 dice che “la cultura sopravvive, lì dove riesce, mediante l’investimento costante di valori e di significazioni dell’immaginario sociale delle diverse etnie, che continuano a orientare il fare e le rappresentazioni sociali”. Riflettere intorno alla culture urbane oggi significa allora provare a rielaborare pezzi di immaginario che definiscono modi di abitare lo spazio urbano non solo marginali, ma centrali nel definire nuove comunità, come forme di consumo e intrattenimento. SignJam invita a Milano i testimoni che hanno vissuto in prima persona e interpretato le urban cultures in giro per il mondo. In questo ciclo di incontri sono due le questioni che vengono affrontate: quella dello streetwear, e quella dei media. Lo streetwear non solo è uno dei fenomeni commerciali più significativi degli anni novanta, ma è anche il modo più immediato per avvicinarsi ad una scena culturale. Iscritto dentro codici e movimenti precisi, lo stile segna l’appartenenza a un gruppo, così come l’universale opportunità di distinguersi per il saper scegliere, vestire, personalizzare certi capi d’abbigliamento. Bobbito Garcìa delle pratiche urbane è stato un cantore. Prima mettendo la faccia a uno degli show radiofonici hip hop più importanti della grande mela. Poi a capo di una rivista, Bounce Magazine, dove si celebra la cultura dei playground, pezzi d’asfalto con due canestri e una dannata voglia di vincere. Qualche anno fa è invece con un
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libro “Where’d You Get Those?”(Testify Books, 2003), un prezioso testo sulla sneaker culture dove si prendono in considerazione i modelli cult usciti tra il 1960 e il 1987. Le narrazioni intorno ai singoli modelli indossati da lui e nei playgorund ci porta alle origini di uno di quei segni a cui oggi pochi sanno rinunciare. SignJam lo ha invitato con Steven Vogel, che ha scritto “Streetwear: The Insider’s Guide” (Thames & Hudson, 2007). Dentro c’è la mappatura di luoghi, negozi, micro imprese che definiscono la geografia dello streetwear. Sono indirizzi che suggeriscono una continuità tra le persone e microimprese in tutto il mondo. Dietro il germogliare di stili e brand ci sono infatti biografie condivise.
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Andrew Losowsky scrive, e in questi anni è stato uno di quelli che più ha riflettuto sul ruolo dei magazine nel costruire le narrative urbane. Direttore di LeCool e di tanti altri esperimenti di informazione culturale, ha da poco pubblicato un volume che raccoglie più di mille magazine dal taglio pop in giro per l’Europa. “We Love Magazines” (Mike Koedinger Editions, 2007) è un prezioso atlante che mappa le produzioni editoriali periodiche. Le riviste sono forse il fenomeno più sottovalutato delle urban cultures. Il loro ruolo è cruciale nel catturare, aggregare, diffondere e sedimentare le novità a livello locale, come a livello internazionale. Ma la capacità di comunicare non si ferma ai magazine, si sposta anche nella capacità di usare gli spazi come un medium. Gavin Lucas ha scritto il libro di riferimento per il guerrilla advertising, dove racconta come le tecniche di comunicazione sono riuscite a mimetizzarsi con i segni e i codici della strada. Il valore del capitale simbolico prodotto dall’urban culture è impressionante. Le multinazionali lo hanno divorato, costruendo campagne di comunicazione e advertising. Dentro “Guerrilla Advertising: Unconventional Brand Communication” (Laurence King Publishing, 2006) si legge come le modalità di appropriazione dello spazio pubblico delle multinazionali è intrinsecamente legato alle urban cultures. Nel bene, e nel male. Andrew Losowsky e Gavin Lucas sono ospiti del workshop “Media Sharing”. Le urban cultures richiedono un lettura critica. Spesso si è confuso il confine tra una produzione autentica e una produzione strumentale, derivativa e assolutamente orientata al mercato di massa. La capacità di distinguere, e scegliere, in quali valori e quali pezzi dell’immaginario sociale urbano ha senso reinvestire nelle nostre città richiede uno sguardo sempre pronto a intercettare e decifrare i nuovi codici. SignJam è allora uno spazio dove educare il nostro sguardo, e provare a condividere un patrimonio frammentato e scintillante come quello delle culture urbane. Luca Martinazzoli
1 Cornelius Castoriadis “Finestra sul caos scritti su arte e società”, Eleuthera, 2007.
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STEVEN BOBBITO’SHEADQUARTER RECORDS ROOM
STEVEN VOGEL
what is streetwear and who cares?
YOUR CULTURE IS OUR NATURE BOBBITO’S RECORDS ROOM
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Cos’è lo streetwear e a chi importa? Mi è stata fatta questa domanda più volte di quanto osi o mi importi ricordare. La colpa è anche mia, perché il fatto di aver scritto un libro intitolato “Streetwear”, ha indotto la gente a pensare che io sappia veramente di cosa si tratta. Ebbene non lo so. O meglio, per essere precisi, so cosa significa per me, ma ciò non mi consente di definirlo in assoluto e anzi non credo di doverlo fare. Tuttavia spiegherò cosa voglia dire per me e come sono arrivato a tale personale definizione. Lo streetwar, così come lo conosco e l’ho vissuto, è qualcosa di profondamente soggettivo, e se non lo si inserisce all’interno di un preciso contesto culturale non ha nessun significato. Per spiegare cosa significhi per me lo streetwear devo tornare indietro nel tempo e descrivere il contesto in cui sono cresciuto e che mi ha portato a scrivere un libro 16 anni dopo. Tale contesto è inizialmente nato come sub-cultura e solo successivamente è diventato il fulcro di quello che oggi è percepito pubblicamente come streetwear. Nel 1990 sono cresciuto in mezzo ad un gruppo di vecchi amici che andavano sullo skateboard a ascoltavano musica punk, hardcore, post hardcore o cross over (come la chiamavamo allora) e heavy metal. A quell’età mitizzavo certi skaters e rock stars, come ogni adolescente, e di conseguenza ho iniziato a vestire come loro (o per lo meno a tentare di farlo) indossando vestiti americani. C’era una band in particolare in quegli anni che mi ha fatto veramente scattare la scintilla. Erano i Suicidal Tendencies, una band di Los Angeles, decisamente coinvolta nello skateboard, nella politica e nei graffiti. Il loro cantante solista, Make Muir, aveva uno stile davvero singolare ed era uno che trascinava l’intero gruppo ed ha portato alla ribalta sulla scena di Los Angeles la cultura skate emergente, così come la Mexican Gang Culture nel Sud Est di L.A, dai pantaloni larghi, i colori tinta unita, gli abiti da lavoro, bandane e così via. Penso davvero che quella sia stata la prima volta nella mia vita in cui ho visto uno stile di abbigliamento unico, ben definito, e l’ho imitato. Ironicamente, questo non è stato solo il mio caso, ma quello di intere legioni di ragazzini di città frustrati, in tutto il mondo. Penso che Mike Muir, che ancora non se ne rendeva conto, in quel modo ha dato inizio allo stile di abbigliamento tipico dei primi anni dello streetwear.
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Come ho detto prima, questo è molto personale e non riflette la scena in generale. BOBBITO’S RECORDS ROOM I primi anni 90 hanno visto la nascita di così tante diverse sub-culture, quali l’hip hop, i graffiti, il punk, l’hardcore, lo skateboard, che è difficile definire lo streetwear così come noi lo vivevamo allora. Tale frammentazione è stata la ragione per cui i grandi marchi di abbigliamento non si sono occupati molto dello streetwear. Questo fino a quando lo skateboard non ha assunto un ruolo così rilevante da far realizzare alle multinazionali ed ai loro analisti finanziari che c’erano un bel po’ di soldi da fare con quei ragazzini. Questo è stato il momento in cui tutto è più o meno andato fuori controllo, ma purtroppo non si può fermare il cambiamento per rimanere aggrappati al passato glorioso di un gruppo di adolescenti. Lo streetwear, così come lo conosciamo oggi, è stato strappato da questo contesto ed è stato reso impersonale attraverso internet e il marketing massificato delle grosse società. Sempre secondo la mia personale opinione, lo streetwear ha perso la propria anima e quello che c’era di buono, come la libertà creativa dello skateboard, l’amore per la buona musica, l’interesse per il resto del mondo e il desiderio di cambiarlo, ma a chi importa?
MACHINE WORK
SJ - Berlino, la città in cui vivi attualmente, è stata descritta in questi ultimi 10 anni come una città davvero vivace per ciò che riguarda le culture urbane. Come sta cambiando questa città, quali sono i suoi pregi e i suoi difetti? SV - Sono relativamente nuovo a Berlino. Vivo qui solo da due anni e mezzo ma ho notato parecchi cambiamenti. Berlino è la capitale europea più economica nella quale vivere al giorno d’oggi, ma anche questo si sta lentamente modificando. Il fatto che sia così economico vivere qui è una lama a doppio taglio. Da un lato è meraviglioso per gli artisti di tutte le discipline che possono viverci senza troppi problemi economici, diversamente da Londra, Parigi, New York o Tokio ad esempio, e la città offre molti spazi e contesti dove potersi esprimere. Ciò ha comportato che un grande numero di artisti internazionali, e aspiranti tali, si siano riversati in città. Ovviamente questo ha generato un’atmosfera di creatività che desta un interesse internazionale nei confronti di Berlino. Tuttavia esiste anche un rovescio della medaglia. La mancanza di pressione commerciale e di investimenti, sia nelle industrie private che in quelle statali, generano una sensazione di letargo. In questo senso la politica di sinistra berlinese non aiuta. Per quanto riguarda il contesto artistico, non c’è bisogno di avere successo per sopravvivere a Berlino, e ritengo che questa sia la ragione per cui molti artisti non si impegnano al massimo per esprimere tutto il loro potenziale. Inoltre credo che la maggior parte degli artisti che vivono e lavorano a Berlino, nel campo della moda, della musica o dell’arte tradizionale, non siano sullo stesso piano in termini di qualità, rispetto ai loro colleghi internazionali. Un’altra caratteristica di Berlino è il suo atteggiamento esclusivista (e questo ha radici storiche) che spinge gli abitanti a limitarsi a vedere solo il contesto in cui vivono, senza mai spingersi oltre. È evidente che questo porta con sé aspetti sia positivi che negativi. Tutto sommato è una bella città in cui vivere e tornare a rilassarsi se, come me, viaggi molto per lavoro.
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SJ - Cos’è Black Lodges?
STEVEN VOGEL COURTESY OF FATS SHARIFF
SV - Black Lodges è il nome della mia società, uno studio associato con il quale lavoro a diversi progetti ed idee. Gran parte del lavoro lo svolgo per la Burton Snowboard e i suoi marchi Gravis Shoes e Analog Clothing. Il mio ruolo per la Burton è quello di “Global Special Projects Manager”, ovvero mi occupo di ideare progetti speciali per creare rilevanti prodotti di nicchia. Inoltre, ricerco e lavoro con una gamma di artisti e designers che possono potenzialmente collaborare con la Burton. È il più bel lavoro che possa desiderare. In più offro servizi di consulenza per una vasta gamma di aziende sportive nel mondo quando si tratta di prodotti di design e marketing. Blacklodges.com è anche la mia fanzine online, dove scrivo e presento tutto quello che mi interessa. È un sito assolutamente non commerciale che rende omaggio all’arte e alla scrittura, alla politica e alla musica, senza compromessi editoriali dovuti alla pubblicità. Essenzialmente, Black Lodges è qualsiasi cosa io voglia. Magari il prossimo anno sarò alle Hawaii a vendere skates, ma fintanto che mi diverto, sono coerente con me stesso e pago i miei conti, Black Lodges ci sarà. SJ - Il tuo background è molto legato allo skate ed hai conseguito una laurea. Quali studi hai fatto e come sei finito a scrivere un libro sui vestiti? SV – La colpa di tutto è dello skateboard, o almeno i miei genitori hanno incolpato lo skate perché non sono diventato il politico di successo che speravano! Io dico che lo skate mi ha salvato la vita. Mi ha fatto diventare quello che sono oggi, ho conosciuto la maggior parte dei miei migliori amici, proprio andando sullo skate. Ho studiato Storia e Teoria Politica all’università, e all’inizio pianificavo di lavorare per un’organizzazione non governativa. Ho anche avuto qualche esperienza di lavoro per l’ONU ed ho svolto qualche piccolo incarico per la NATO. Ma dopo un anno di studi ho realizzato che preferivo lavorare nel mio negozio di skate e dischi, e godermela un po’. E da questo ne ho ricavato uno stile di vita. Il libro è arrivato perché mi piace molto scrivere e Thames &Hudson mi ha suggerito di pubblicarlo. È stata una decisione presa d’istinto, ma ne sono soddisfatto. SJ - Nella tua carriera e mentre stavi scrivendo il libro hai incontrato molte persone più o meno note. Chi ti ha colpito di più? Ognuno di loro. La maggior parte delle persone citate nel libro sono miei amici da lungo tempo e tutti continuano ad impressionarmi per la loro creatività e perseveranza. Non c’è molto guadagno economico nel vivere facendo solo ciò che ti piace, ma questo è quello che amo della mia vita e dei miei amici: non ci sono compromessi e viviamo realmente. Questo è quello che conta. SJ - Le cinque canzoni/cd più importanti della tua vita? SV - Impossibile rispondere. Cambiano in base ai giorni, ma ci provo ugualmente: Black Sabbath- Paranoid, Led Zeppelin- I, Kyuss-Sky Valley, Guns n’Roses-Appetite for Destruction, AC/DC- Highway to Hell.
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FROM DEEP / BOBBITO’S COURT IN ZIMBAWE
BOBBITO GARCIA where’d you get those?
Nel 2003 ho scritto Where’d You Get Those? New York City’s Sneaker Culture: 19601987 (pubblicato da Testify Books). Questo volume mostra come personaggi del mondo del basket e dell’hip hop abbiano creato un nuovo modo di intendere le scarpe attraverso l’espressione individuale. Sulle pagine di moda di Vanity Fair e Vogue sono state scritte varie recensioni, e Black Book mi ha inserito nella top 100 dei più importanti trensetter a livello mondiale. Se sapessero che indosso tutti i giorni shorts e scarpe da basket! Accetto i complimenti per la mia ricerca, ma non sono di certo un guru dello stile. Gioco a basket e questo è ciò che ha fatto nascere la mia passione per le sneakers e quello che mi appassiona ancora oggi. Nel ’73 mio padre mi ha messo in mano un pallone Spalding. Avevo sette anni. Tifavamo per i Knicks durante il loro ultimo campionato NBA. Ho iniziato ad intravedere i miei primi scorci di abilità con Pete “Pistol” e i Globetrotters. Nel ’75 giocavo in squadra con quelli di due anni più grandi di me. Ho divorato libri di storia sugli Harlem Rens e su Earl “The Goat” Manigualt. La cosa mi appassionava. Nel ’77, “The Goat” ha organizzato un torneo nella strada di fronte a casa mia. Giocava mio fratello maggiore, e anche Mario Elie (futuro terzo tempista dell’NBA) che ha vinto il trofeo MVP. Quello era lo stesso anno in cui mio fratello maggiore indossò per primo una nuova marca chiamata Nike. Gli altri del quartiere lo prendevano in giro! Ma lui amava essere unico, una volta mi disse: “ Non voglio essere un trendsetter. Semplicemente non voglio vedere nessuno vicino a me con le stesse sneakers!” Mi ispiravo molto a mio fratello e così, durante gli anni 80, ne ho seguito le orme. Giocavo a basket ogni giorno, massacrandomi completamente, durante gli otto anni trascorsi tra la scuola superiore e il college. La grande quantità di cadute, soprattutto sull’asfalto, richiedevano delle sneakers performanti e che durassero. Certamente sono un prodotto di New York, così nello scegliere cosa indossare, la funzionalità non era l’unico fattore. Il fascino e lo stile avevano decisamente la loro importanza. Volevo apparire e giocare allo stesso tempo. Pensavo “Se indossassi un colore esclusivo, questo mi darebbe un grosso vantaggio mentale rispetto al mio avversario, perché penserà che sono il prediletto dell’allenatore.”
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Se la mia uniforme si abbinava alle scarpe il mio ego si gonfiava. Volevo essere originale in tutto. A volte questo ha comportato aspettare cinque anni prima di tirar fuori una scarpa dalla scatola, o personalizzarla con un colore che nessuno, nemmeno i grandi marchi, avevano ancora nemmeno lontanamente pensato di usare. Tutto questo era per esprimere la mia personalità. New York è sovraffollata. Come faccio a farmi notare? Questo era il passato. Ora ho 41 anni, gioco ancora molto e sono fortunato che i cuscinetti d’aria mi aiutino a salvare le ginocchia. Lo stile ha ancora importanza alla mia età? Certo! Non so quante volte in una partita un avversario (e perfino gli arbitri) mi ha chiesto, “Hey, cosa sono quelle?” O meglio, “Dove le hai prese?”
BOBBITO’S RECORDS ROOM COURTESY OF ATZUKO TANAKA
SJ- Qual è stata la prima sneaker che ti sei comprato? BG – Non ricordo! I miei genitori non hanno mai avuto molti soldi da darmi per comprare delle scarpe nuove, così sono cresciuto indossando quello che non portavano più i miei fratelli. Per fortuna avevano un grande gusto in fatto di scarpe! SJ- Quanto è stato importante il basket per far diventare così famose le sneakers (ora davvero un fenomeno)? BG - Estremamente importante, tanto da non poter essere sottovalutato. Il basket è stato lo sport che ha reso di tendenza indossare le sneakers fuori dalle palestre a partire dagli anni 50. SJ- Ti capita mai di indossare modelli non tipici del basket, ad esempio le Free Trails o le Air Max? BG - Corro spesso e mi ha sempre divertito indossare scarpe da corsa perchè sono leggere e spesso davvero alla moda. Mi piacciono anche le scarpe da tennis e da trekking. New York può essere terribilmente fredda d’inverno quindi non sempre le scarpe da basket mi tengono i piedi così caldi come fanno le Nike Air Max Goadome. Ed in estate, qualche volta fa troppo caldo per indossare scarpe alte, così vengono comode le Adidas dal taglio basso, Rod Lavers, o le Converse Jack Purcell. SJ - Con il tuo spettacolo sei stato nelle case di molti collezionisti come Missy Elliot o Fat Joe e molti altri ancora. Chi ha la collezione più originale e più completa? BG - Fat Joe ha una delle collezioni più strane che io abbia mai visto, con un esclusivo paio di scarpe realizzate appositamente per lui. Ma onestamente non mi entusiasmano particolarmente le collezioni delle altre persone. Mi interessa molto di più quello che indossano e come lo portano. SJ - Secondo te qual è stata la collaborazione più riuscita tra una sneaker ed un artista? BG - La mia con Nike Air Force per il 125° anniversario, quale altra!
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SELECTED CHAOS
ANDREW LOSOWSKY fascinated by delight
Penso che ci siano due modi per far reagire le persone: puoi impressionarle o incantarle. A me affascina l’incanto. Sono sempre alla ricerca di oggetti, siti web, idee, persone che mi colpiscano in luoghi inaspettati ed in modi imprevedibili. E li voglio condividere. Sia che stia curando la realizzazione di una guida turistica, ideando un sito web, o creando una rivista, oppure quando incontro le persone per la prima volta o anche solo andando al lavoro o a pranzo, voglio sorridere, voglio imparare, voglio cambiare il mio modo di pensare, e voglio godermi ogni cosa. Credo profondamente nei valori come il rispetto, l’uguaglianza, la creatività, il vivere sano, la coscienza ambientale e la felicità, ma se non sono soddisfatto o non mi piace quello che sto facendo, allora significa che non lo sto facendo nel modo giusto. SJ - Quali sono gli ingredienti chiave per il successo della tua rivista, Le Cool? AL - Le Cool è una rivista email presente al momento in otto città d’Europa. Fornisce una selezione dei migliori eventi culturali locali e luoghi in città, è scritto nella lingua locale, e si rivolge agli abitanti locali. Il suo successo deriva dalla nostra prospettiva sempre positiva, amichevole, emozionante, soggettiva; la nostra selezione (selezioniamo solo le cose più notevoli che la nostra rete di collaboratori rintraccia ogni settimana fra un’ampia varietà di generi) sorprende, diverte ed è facile da utilizzare, senza che si dia ad un singolo evento più importanza rispetto ad un altro. Un ulteriore punto di forza è la nostra integrità: non vendiamo mai i nostri contenuti e non accettiamo denaro o favori per pubblicare qualcosa. SJ - I giovani lettori sono disposti a pagare per una rivista stampata? In tal caso, perché dovrebbero comprare riviste piuttosto che cercare i contenuti sul web? AL - La gente paga per una rivista se è in grado di offrire loro un’esperienza unica attraverso la carta stampata, che soddisfi una necessità nelle loro vite. E queste sono le riviste create per uno scopo (viaggi aerei, parrucchiere) e le riviste che sono ben pensate, oggetti curati nel dettaglio, che sfruttano le qualità di ciò che la carta e la stampa sono (o non sono).
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Il web è grandioso per alcune cose, ma non ha ancora sorpassato la stampa nel modo in cui la televisione ha ucciso la radio.
SELECTED CHAOS #2
SJ - Potenzialmente chiunque abbia accesso ad internet può creare un web magazine o un blog. Quali sono gli aspetti cruciali del loro successo? AL - Il fatto di poter dire ciò che si vuole e, in teoria, milioni di persone possono leggerlo e commentarlo. Da qui nasce un’interazione: i tuoi fatti privati possono essere controllati dalle persone in tutto il mondo, inizi a dialogare, ti senti più in contatto con il tuo pubblico di quanto ti permettano di fare i mezzi di comunicazione tradizionali. È facile essere sedotti da questo ed essere indotti a pensare che la stampa non ha più valore. Ma questo non è vero. SJ - Una rivista online con contenuti generati dagli utenti può essere remunerativa? AL - Il grande problema per tutti i web magazine con contenuti generati dagli utenti è lo stesso: come possiamo guadagnare soldi? La pubblicità ondine è relativamente agli inizi, specialmente per il video. Ci sta provando, ma per ora non è semplice. SJ - Qual è il modo più strano ma allo stesso tempo efficace a livello commerciale in cui può essere distribuita una rivista? E qual è semplicemente il più bizzarro? AL - Si può dire che le riviste gratuite sono uno dei successi più strani: Vice è diventato un marchio commercialmente di successo a livello mondiale. Non sono l’unica cosa strana comunque. Io adoro le riviste stampate sul lato delle bottiglie delle bibite. Un’edizione di Addict ha solo quattro copie stampate che devono essere spedite via posta da una singola persona all’altra, con una copia distribuita per continente. La Màs Bella ha fatto un’edizione speciale della propria rivista, a forma di sandwich. Meglio leggerlo freso. SJ - Qual è l’innovazione più importante tra le riviste stampate negli ultimi 10 anni? AL - I progressi nell’editoria individuale (desktop publishing) combinata con internet: si può realizzare una rivista ad un costo relativamente basso, e mandarla in stampa ovunque nel mondo con un click del mouse. SJ - Pro e contro di essere uno editore indipendente nell’era di Internet. AL - Il contro non ha niente a che vedere con internet, èd è lo stesso di sempre: riuscire a guadagnare soldi. I pro: si può costruire una community, rivolgersi direttamente ai propri lettori, ricevere un pagamento tramite Paypal, trovare foto creative su Flickr e altri talenti in tutto il mondo, tutto senza il supporto della distribuzione e degli strumenti tradizionali.
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GUERRILA HOARDING
GAVIN LUCAS
a self-confessed pop culture junkie
Scrivo per la rivista mensile Creative Review (CR). CR si interessa di pubblicità, graphic design, video musicali, film, montaggio, illustrazione, animazione: qualsiasi tipo di materiale visivo creato per promuovere o vendere un prodotto. Un giorno scrivo sul design delle copertine dei dischi e cerco risorse utili per i creativi su Internet, un altro magari vado a visitare uno studio di design o un’agenzia per tirare fuori un nuovo prodotto o una nuova campagna. In genere trascorro le prime ore di ogni giornata leggendo i nuovi post e le email, la maggior parte delle quali arrivano da persone che presentano un lavoro per un possibile inserimento nella rivista. Può essere un po’ caotico a volte data la grande quantità di cose che arrivano ogni settimana sulla mia scrivania o nella mia casella di posta. Creative Review ha anche un blog al quale anch’io contribuisco – creativereview.co.uk/crblog. Ho fatto ricerca e scritto Guerrilla Advertising nel 2005 ed è stato pubblicato nel 2006. Da allora ho scritto un secondo libro intitolato Badge/Button/Pin, che parla delle semplici spille. Esiste anche una versione italiana, intitolata Spille. Arte e grafica all’occhiello. Ora sto lavorando al mio terzo libro che raccoglierà alcune delle migliori serie di volantini dei club prodotti negli ultimi 10 anni, e dopo averlo fatto spero di aggiungere Guerrilla Advertising Volume II. Quando non lavoro a Creative Review o non sto pensando a progetti di libri, è facile trovarmi in un negozio di dischi a cercare gli “old gold”, i dischi dimenticati dagli anni 50 agli anni 60, da far risuscitare in uno dei due club che frequento a Londra londragetinvolvedclub.com. SJ - In quali nicchie di mercato il guerrilla advertising è diventato una prassi? GL - Non credo che il guerrilla advertising possa diventare una prassi per qualche particolare tipo di prodotto o cliente. Il guerrilla advertising funziona al meglio quando viene creata una campagna che utilizza un mezzo od uno spazio mediatico specifico che ha senso per il prodotto o il marchio in questione. Non appena questo diventa “la norma” o un modo abituale di comunicare, perde il proprio potere.
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SJ - Come valuti il rapporto tra il marketing e le culture urbane?
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GL - È sempre difficile per i pubblicitari cercare di coinvolgere le culture urbane e produrre una campagna che non alieni o allontani lo stesso pubblico al quale si rivolge. Qualche anno fa un’agenzia pubblicitaria di Londra ha prodotto degli adesivi e delle matite per un marchio di birra brasiliana e li ha distribuiti nelle zone più in vista di Londra, dove l’arte di strada ha prosperato negli ultimi 10 anni. Gli artisti di strada erano sconvolti dal tentativo del marchio di entrare nel loro giro e così hanno iniziato a dipingerci sopra o togliere le immagini, ed a criticare la campagna sui blog, inserendo post con le proprie opinioni perché tutti le leggessero. Allo steso tempo, marchi come Sony PlayStation stavano investendo in maniera più astuta nella comunicazione, creando relazioni di lunga durata con le culture urbane. Ad esempio, so che PlayStation ha aiutato a creare degli skate-park ed il marchio ha impiegato regolarmente artisti di strada di fiducia e famosi DJs per i propri eventi e le proprie campagne, per ottenere maggiore credibilità. SJ - Quali sono i fattori che rendono lo spazio urbano adatto a sviluppare il guerrilla advertising? Come viene declinato il guerrilla advertising nei nuovi mercati, tipo Cina o India? GL - Una campagna pubblicitaria in stile guerrilla può esistere ovunque – in un ambiente urbano o di campagna, e così in Africa, Cina o India, come in America o in Europa. Il guerrilla advertising funziona al meglio negli ambienti urbani perché sono per natura densamente popolati, quindi molte persone possono potenzialmente vedere il lavoro; inoltre ci sono molti elementi da utilizzare, dalle superfici dell’arredamento urbano, come i bidoni della spazzatura o anche le maniglie che afferriamo quando siamo in autobus o in treno. Tutto diventa un potenziale strumento per veicolare il messaggio di un marchio. Le domande chiave da porsi per assicurare successo ad una campagna di guerrilla sono: la scelta del mezzo è appropriata al prodotto e al messaggio? È questo il modo giusto per rivolgersi al target desiderato? Il guerrilla advertising non è sempre il modo migliore per un cliente, al fine di pubblicizzare il proprio prodotto o il proprio messaggio. È solamente un tipo di approccio fra una gamma sempre più vasta di mezzi da utilizzare.
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FATS SHARIFF my journey into streetwear
1984-1990 (18anni-24anni) SVILUPPO E USO C’era una marea di stili e sub culture con la quale ci si poteva identificare, oppure no. Ma lo streetwear, allora conosciuto appena come Skatewear, era poca cosa paragonata ad oggi. Le origini risiedevano nella West Coast, e dico West Coast perché lì ho visto per la prima volta gli inizi dello Streetwear. Il fenomeno è andato ingigantendosi con il passare degli anni. A metà degli anni ‘80 le prime etichette di Skate hanno aperto le porte ai consumatori, e la loro domanda ha portato all’esigenza, e se si vuole alla nascita, delle etichette di Streetwear, le cui radici affondavano decisamente nella cultura dello skate e nella sua energia anti-istituzionale. Stussy è stato il primo vero marchio Streetwear ed ha cambiato completamente le regole del gioco. Poi il mondo sempre più crescente dell’Hip Hop e la nascita dello stile B- Boy hanno modificato di nuovo le dinamiche e hanno determinato una nuova simbiosi nell’evoluzione dello Streetwear. 1991-1995 (25anni-29anni) LA TERRA DEL SOL LEVANTE Molti marchi sono nati, altri hanno chiuso, le cose prendevano forma e c’erano un bel po’ di soldi da fare. L’incremento economico ha fatto in modo che la scena si sviluppasse. Ancora una volta Stussy è stato il primo a creare un legame con il Giappone. Basti vedere cosa stava accadendo e come il mercato giapponese aveva guardato, imparato e creato. E quello che ha creato ha portato lo Streetwear a fare un ulteriore passo avanti. Hanno preso tutto ciò che già c’era e lo hanno reso più attraente, più cool... più desiderabile. Hanno introdotto giochi e gadget nel settore. Ci hanno anche insegnato che collaborare con altri marchi su specifici progetti, era produttivo e vantaggioso per entrambi. Avevano la ricetta giusta per fare in modo che il consumatore volesse tutto e sempre di più. Questo è stato il periodo in cui tutti i “Big Guns” (i grandi marchi) si sono fatti un nome, e la fama e l’apprezzamento che il Giappone gli ha dato li ha condotti al livello successivo.
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1996-2000 (30anni-34anni) IL BUSINESS DELLO STREETWEAR
FATS SHARIFF’S STUDIO DETAIL
La formula magica era stata scritta e molti marchi sono stati fondati. Lo Streetwear è diventato un business e in tutto il mondo iniziò l’emulazione di questo stile sotto altri nomi. In nessun luogo più che in Europa, si sentì che era giunto il momento di creare un proprio stile. Purtroppo la maggior parte di quelli che uscirono erano copie dei marchi esistenti, anche se ce ne sono stati alcuni che si sono fatti notare ed hanno guadagnato rispetto. Allora come oggi, c’erano un sacco di soldi in ballo e spesso la corsa al profitto ha fatto perdere di vista la cura del design. Ma c’è di buono che in questi anni lo Streerwear è stato riconosciuto come Cultura e, così come nella maggior parte delle culture, presto sono emerse le sub culture, le divisioni e le varie categorie. 2001- Oggi (35anni-41anni) ASSOMIGLIA AD UN BLOG, MA A MODO TUO E lo voglio dire nel migliore dei modi. Internet e i blog/e-zines personali, comunque si vogliano chiamare, sono come droghe ed il consumatore di oggi è il tossico. Ma in questo caso non esiste un giusto o sbagliato. Oggi ci si può viziare di Streetwear oltre ogni immaginazione. Grazie al termine “Edizione Limitata”, le persone adesso hanno l’opportunità di creare da sè i propri oggetti personali, per esempio le NIKE ID. Così ora se un marchio di scarpe non ha il prodotto sufficientemente esclusivo per te, puoi creare tu stesso la scarpa che desideri. Quel senso di individualità rafforza l’ego e ti fa dire “Check ME out”. Devo alzare la mano e dichiararmi colpevole per questo, così come molti altri, e questo non è un peccato ma solo la regola del gioco: la necessità di sentirsi diversi dagli altri. Tutto questo dovrebbe essere inteso come una filosofia di vita: consumare l’informazione, accrescere la conoscenza e trovare la propria strada. Sono contento di dire che ci sono ancora molte persone che fanno questo piuttosto che seguire alla lettera le pagine di Slamxhype, Hypebeast o High Snobiety, per nominarne alcune.
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sneaker business in the old world
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Dopo aver dedicato in passato quasi 15 anni delle mia vita a cercare sneakers in tutto il mondo, da Londra a Tokio, posso dire che finalmente anche il nostro bel Paese sta iniziando a comprendere ed a valorizzare la Sneaker Culture. In passato in Italia le sneakers sono sempre state legate esclusivamente al contesto sportivo e considerate solo per la loro funzione di scarpe da tennis, da basket o da jogging. Nonostante avessimo i migliori brand al mondo quali Diadora, Valsport, Fila, Superga, Lotto, Sergio Tacchini, Ellesse che non avevano nulla da invidiare a marchi come Nike, Adidas e Converse, non siamo riusciti a coltivare quella passione per le scarpe da ginnastica che oggi in tutto il mondo è ormai considerata uno stile di vita. A partire dagli anni ‘80, le sneakers negli States e nel Nord Europa hanno smesso di essere considerate solo un strumento per lo sport e sono diventate scarpe da indossare tutti i giorni e da ricercare. Questo fenomeno arriva anche in Italia, ma non si afferma come avrebbe dovuto. I casi in cui le sneakers sono diventate degli oggetti di culto rimangono isolati. Fra questi ricordiamo le Nike Franchise usate dai paninari, le Stan Smith dei Pariolini e le prime Agassi, dal momento che il tennis in Italia negli ultimi anni 80 era il secondo sport nazionale e tutti indossavano le scarpe da tennis del campione preferito. Le prime Jordan ad avere successo in Italia sono state le Jordan 6 e 7 quando ormai il campione dei Chicago Bulls che le indossava era un fenomeno planetario, a riprova del fatto che in Italia le sneakers non destavano un grande interesse. Le sneakers che avevano ai piedi il Dream Team di Basket degli Stati Uniti d’America, da Michael Jordan a Larry Bird, rappresentavano due decadi di evoluzioni tecniche e di stile dei tre più grandi brand del mondo Nike, Adidas e Converse. Oggi quelle sneakers sono ancora nella memoria di tutti nonostante siano passati quasi 16 anni. L’ Italia ha faticato nel riconoscere il mercato ed il fermento che girava attraverso i vintage shops e gli sneakers collectors che si sono lentamente fatti strada durante gli anni ‘90. Negli ultimi otto anni sono stati aperti svariati negozi che hanno l’aspirazione di vendere “sneakers e passione”. Purtroppo i risultati non sono sempre ottimi anche perchè le aziende che producono sneakers, da Nike a Vans, sono diventate delle corporate enormi e non hanno
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più la capacità o l’interesse ad aiutare un singolo Paese a crescere. Al punto che tutto il fenomeno del custom e delle collaborazioni con artisti, che tanto piacciono a tutti gli amanti delle sneakers di questa decade, non ha mai avuto nessun protagonista in Italia. Tuttavia le cose stanno lentamente evolvendo. Giunti al numero 24 della rivista Sneakers, ci siamo fermati a riflettere e ci siamo resi conto che dopo tanti anni di sforzi qualcosa sta cambiando e finalmente i marchi di sneakers cominciano a comprendere e a sostenere l’impegno che sta cercando di portare avanti questa rivista. Sneakers magazine è nata circa quattro anni fa con l’intento di diffondere la “sneaker culture” nel nostro Paese e nonostante tutte le crisi economiche che i nostri politici ci raccontano e che stiamo attraversando, siamo un Paese che adora comprare scarpe sportive. I negozi di sneakers da Nord a Sud stanno aumentando e sta nascendo una nuova generazione di ragazzi che sa tutto sulle limited edition e sui quick strike. Per non parlare dei tantissimi blog su internet che trattano delle nuove uscite, fra cui il sito “all italian style” – www.unotre.com – dove si possono trovare tutte le sneakers, limited edition e vintage, che purtroppo in Italia faticano ad arrivare. La Spagna, che tanto ci assomiglia, sta vivendo un grande fermento, soprattutto nella città di Barcellona, e la famosa fiera di streetwear Bread and Butter ha riscosso un grande successo di pubblico. Penso che anche l’Italia sia finalmente pronta a fare il salto di qualità per diventare come Francia, Germania, Svezia e Inghilterra.
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GREETINGS FROM BEIRUT
SHIFT MAGAZINE Anja Lutz
Shift! È un progetto editoriale sperimentale. Ogni progetto è totalmente unico, include nuove idee ed un diverso gruppo di collaboratori. Shift! mescola le sue passioni: creare senza compromessi, sfidare i limiti della pubblicazione, inventare nuovi concetti e forme per i propri progetti e collaborare attraverso diverse discipline creative. Shift! È completamente indipendente! Pubblicare significa letteralmente “rendere qualcosa pubblico”. È un atto estremamente carico di significato. È una voce proiettata verso l’esterno, che raggiunge le persone e che porta con sé il potenziale di un cambiamento. Mi affascina indagare quali temi devono essere pubblicati e quale forma possono assumere per avere l’impatto maggiore. SJ - Come mai la stampa non è morta? Qual è il tuo ruolo nel mantenerla ancora vitale ed energica? AL - Il ruolo della stampa è cambiato drasticamente a partire dalla diffusione dell’uso del computer. Ma invece di morire, come era stato previsto nei primi anni novanta, è diventata libera. La funzione principale della stampa non è più la diffusione di informazioni e notizie. I media digitali sono più efficienti, più veloci e anche più ecologici nel farlo. La stampa può concentrare l’attenzione sulle sue specifiche proprietà e qualità di oggetto, ovvero il tatto, la manipolazione, l’olfatto ecc.. Per me la stampa è sempre stata uno strumento tridimensionale così come i mezzi di comunicazione di vecchia data. Dopotutto ogni libro ha un inizio, un centro e una fine. Fin dall’inizio Shift! si è interessata all’esplorazione delle qualità e proprietà della stampa, per creare pezzi che offrissero un’esperienza completa, che coinvolgesse tutti i nostri sensi. A seconda del progetto e del tema a cui si ispira, Shift! ha adottato molte forme differenti, dal libro, al gioco, alla collezione di poster, al video project ecc.. Shift! potrebbe essere qualsiasi cosa noi vogliamo che sia e continuerà a sperimentare forme e contenuti nuovi. SJ - Vi rivolgete ad un gruppo di lettori non convenzionale. Come si comunica la presenza di un progetto editoriale non convenzionale?
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AL- Internet è stato uno strumento prezioso nel comunicare un progetto come il nostro. Shift! è così specifico e non convenzionale che il suo eclettico pubblico di lettori è diffuso in tutto il mondo. Attraverso il sito web, la mailinglist ecc.. possiamo raggiungere i nostri lettori anche nelle zone più remote. Ed infatti riceviamo feedback, contributi e ordini da posti impensabili, fra cui Vietnam, Cile, Egitto...
AT COLOPHON FESTIVAL
SJ - Shift è un progetto editoriale creativo e partecipativo. Come riuscite a organizzare tale lavoro, coinvolgendo diverse persone e mantenendo sempre la vostra coerenza?
GET RICH WITH ART
AL - Credo che la coerenza di Shift! sia il suo spirito. Anche se Shift! non è facilmente classificabile dal punto di vista formale, lo spirito di cambiamento, la sperimentazione, la curiosità e l’esplorazione rimangono costanti. Infatti pubblichiamo un progetto solo quando ne siamo profondamente coinvolti. In questo senso ci chiediamo costantemente: cosa dovrebbe essere pubblicato? Perché? E come? In ogni progetto sono coinvolte nuove persone, che lo mantengono fresco ed innovativo. Non ci sono strutture o parametri predefiniti, né nella forma né nelle collaborazioni, né negli argomenti da trattare o nella frequenza delle uscite. Shift! parte letteralmente da zero e si reinventa ogni volta. SJ - C’è qualcosa che non vi è ancora stato possibile pubblicare? AL - No, purchè rientri nel nostro budget di produzione
ZWISCEN-FAUST
SJ - Come scegliete gli artisti ed i collaboratori che contribuiscono ai vostri singoli progetti? AL - Non ci sono regole fisse. I progetti e le collaborazioni si sviluppano in maniera abbastanza sistematica. A volte l’idea stessa di un progetto deriva dal confronto o dal dialogo con una o più persone. Qualche volta nasce un’idea e successivamente le persone iniziano a parteciparvi. In altre situazioni cerchiamo appositamente collaboratori per dei compiti specifici. Ogni progetto di lavoro è totalmente differente dall’altro. Con il passare degli anni Shift! ha sviluppato un network internazionale, che è una fonte importante per le nostre collaborazioni.
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HAPPY BALLOON
THIS IS A MAGAZINE
Andy Simionato & Karen ann Donnachie
Questo è un magazine che non parla di niente. Descritto da Adrian Shaughnessy come un “fenomeno editoriale” questo progetto mutevole continua ad evolvere nelle sue forme, fin dalla sua prima uscita nel 2002, includendo materiali della rete costituiti da book fotografici, presentazioni powerpoint, materiali-quicktime, slideshow animati, e una serie di compendi stampati e accompagnati da accessori e dvd. Pubblicato e distribuito indipendentemente, fuori dai canali e dai modelli convenzionali, questo periodico irregolare rimane immune dalle pressioni economiche, decidendo di porsi come un esperimento nell’ambito della post-comunicazione. Un magazine oltre i magazine, questa è una rivista che non parla di niente. SJ - Come mai la stampa non è morta? Qual è il tuo ruolo nel mantenerla ancora vitale ed energica? AS - Stiamo andando oltre le divisioni online/offline dal momento che i nuovi media stanno donando nuova vitalità ai mezzi tradizionali. Al giorno d’oggi il digitale influenza l’analogico così come l’analogico ha a sua volta influenzato il digitale. Le nostre prime edizioni online avevano l’aspetto di piccoli libretti d’animazione, successivamente le nostre raccolte stampate scorrevano come un linguaggio HTML, con le pagine impaginate come finestre di un browser. Pertanto è la contaminazione che permette di creare nuove idee. SJ - Vi rivolgete ad un gruppo di lettori non convenzionale. Come si comunica la presenza di un progetto editoriale non convenzionale? AS - Attraverso il passaparola nel web. SJ - TIAM è un progetto editoriale creativo e partecipativo. Come riuscite a organizzare tale lavoro, coinvolgendo diverse persone e mantenendo sempre la vostra coerenza?
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AS – Accettiamo di buon grado le casualità e cerchiamo di non prenderci mai troppo sul serio. Man mano che procediamo sperimentiamo cose diverse, per cui non c’è un’unica risposta a questa domanda.
COMPENDIUM
SJ - C’è qualcosa che non vi è ancora stato impossibile pubblicare? AS - Non abbiamo nessun tipo di restrizione (e questo può essere più difficile da gestire di quanto si creda) SJ - Come scegliete gli artisti ed i collaboratori che contribuiscono ai vostri singoli progetti? AS - Cercando attività che si sviluppano all’esterno dei circuiti artistici prestabiliti, come per esempio in internet.
TIAM DESK
IMAGE BY KAREN ANN DONNACHIE
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VNGRD CREW
the old to the new, the new to the old
VNGRD nasce nel 2005 come naturale espressione nel campo dell’abbigliamento delle energie creative di artisti, rider, designer che hanno fatto la storia dell’underground a Milano. VNGRD trova nello skate, nell’hip hop, nelle sottoculture in generale i suoi primi collaboratori, e i suoi primi sostenitori. Ma l’obiettivo è superare il contesto originale e conciliare la sartorialità e la raffinatezza dell’artigianato italiano con la sperimentazione e l’ironia tipiche del background del gruppo fondatore. SJ - New York, Tokio, Los Angeles sono state le città più importanti per creatività e produzione nello streetwear. Negli ultimi anni la scena europea ha avuto un’importante crescita. Un vostro punto di vista sulle differenze e sulle prospettive? VNGRD - Lo streetwear è nato negli USA ed è naturale che lì lo sappiano fare meglio, essendo parte della loro cultura. I giapponesi sono da sempre attenti alle mode d’oltre oceano e questa loro caratteristica ha fatto sì che il fenomeno si espandesse e prendesse piede. In Europa lo streetwear americano si mischia con le culture locali e nascono delle realtà “contaminate” molto interessanti. Riteniamo che i brand più freschi negli Stati Uniti siano proprio quelli che mischiano stili e culture diverse, attingendo per assurdo, proprio dalla cultura Europea. In Europa solo di recente sta nascendo una realtà interessante che collabora con il network americano e con quello giapponese, si sta creando una rete di conoscenze e relazioni che sfocia spesso in collaborazioni, una sorta di fermento produttivo che non può che essere positivo. SJ - Streatwear, da esperienza vissuta sulla strada, a etichette globali e strategie di comunicazione, distribuzione, consumo da multinazionali. VNGRD che visione ha dello streatwear market? VNGRD - Lo Streetwear e’ fondamentalmente abbigliamento e commercio. E’ poesia ma
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anche denaro. Esistono, come in qualsiasi contesto, etichette indipendenti e major. Il successo commerciale non significa necessariamente “compromesso”, La missione e’ quella di riuscire a creare una realtà interessante che funzioni anche dal punto di vista economico.
VNGRD ADV ‘O7 / PH. LELE SAVERI
SJ - In pochi anni la vostra etichetta, grazie alla qualità e all’originalità del vostro lavoro, si è creata un spazio importante e rispettato sulla scena internazionale aprendo a collaborazioni sempre più importanti. Crescere per un’azienda all’avanguardia vuol dire fare scelte importanti e delicate. La storia di Jun Takahashi (Undercover) da questo punto di vista sembra esemplare. L’opera di Takahashi non è mai stata frutto di calcolo, deriva dal suo amore autentico per la musica, per l’interpretazione degli stili e per la realtà che vive. Takahashi a questo proposito dice “we make noise not clothes”. Quale strada vedete per il futuro di VNGRD? VNGRD - Il futuro di VNGRD e’ in continuo cambiamento. Ci piacerebbe riuscire a creare un brand ed un’azienda con una struttura solida che possa crescere negli anni, che possa permettersi di collaborare con i creativi che da sempre stimiamo creando un prodotto stilisticamente e tecnicamente d’avanguardia. SJ - Inspired VNRGD design. Ci raccontate qualcosa sulle vostre fonti d’ispirazione, sul vostro approccio allo stile? VNGRD ha un’immagine Freak-Dark. Il background e’ quello classico della cultura street anche se quello che vorremmo provare a fare è di mischiare a questo la moda italiana, l’abbigliamento tecnico e la grafica... Il risultato e’ chiaro? No.
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SHE ONE
deep in black and white
IL MIO LAVORO Il mio lavoro si basa sulla tipografia. Il carattere di scrittura funziona come una gabbia alla quale applico la mia estetica. Descriverei il mio stile come espressionista astratto. Dopo aver realizzato graffiti per oltre 20 anni, ho ridotto la mia tavolozza di colori ai soli bianco e nero, dal momento che sento che questo è tutto quello di cui ho bisogno per esprimermi attraverso la pittura. All’inizio le lettere vengono disegnate sulla carta come semplici schizzi, con una sorta di stenografia e simboli angolari che sono al centro del mio stile unico. Nonostante la mia tecnica sia profondamente legata allo stile dei graffiti, non credo sia necessario etichettarla ancora così: sono solo un pittore. L’ISPIRAZIONE Le cose che hanno influenzato la mia vita e di conseguenza il mio lavoro (dato che le due cose sono inseparabili) sono rimaste in gran parte quelle che mi hanno fatto appassionare quando ero adolescente: la musica rock, le macchine hot rod, l’architettura e le donne. E’ difficile definire esattamente cosa sia l’ispirazione, ma riguarda la forma, la funzionalità, l’eleganza e l’efficienza. Non si può riprodurre il rumore di un motore V8 che sfreccia giù per un quarto di miglio, ma l’energia e l’eccitazione che suscita in noi può trovare espressione attraverso la pittura. LO STREETWEAR Lo streetwear non esisteva quando sono cresciuto io. Intorno al 1990 ho iniziato a dipingere le mie magliette personali e a venderle agli amici. Nel 1995 mi è stato chiesto di realizzare delle linee di t-shirt per Apollo (un marchio italiano) e Million Dollar di Londra. Quello che noi ora riconosciamo come streetwear, all’epoca lo si definiva clubwear. Più tardi ho creato la mia linea GUNDOG che è durata solo 2 stagioni. Nel 2000 il mio lavoro stava iniziando ad avere successo e mi è stato chiesto di creare varie linee di magliette, in particolare per uno dei migliori marchi di t-shirts in Giappone, Stussy. Nel 2005 ho iniziato a lavorare per la marca inglese di streetwear Addict, in principio cre-
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SCREEN PRINT
ando magliette per i migliori artisti. In seguito mi è stato chiesto di realizzare un disegno mimetico per alcune giacche, ed ho disegnato la “SheCamo”, nero su nero, la quale ha avuto un tale successo che è stata prodotta per altre 6 stagioni. Ho disegnato ancora altri tre modelli mimetici per questo marchio e la linea SHE ora è la sottomarca stabile delle collezioni Addict, con prodotti che includono anche gli snowboard (con Endevour, Canada), una gamma di intimo, occhiali per la Spy Optic, e perfino una tenda. Ad oggi ho disegnato più di 200 t-shirts e quest’anno presenterò una collaborazione che uscirà per Addict, False (Singapore) e Subdivision (Canada). Lo streetwear è stato il primo settore ad offrire ai writer un nuovo sbocco per esprimere la propria abilità creativa, e continua tuttora con nomi come Kaws, Futura, Stash e Haze, i quali hanno tutti iniziato come writers. Fra tutti, il primo brand ad entrare nella storia come marchio streetwear è stato Stussy, la cui forza risiede nella grafica del suo logo.
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SELF PORTRAIT / PH. ALEX FAKSO
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Italy: street marketing or street delay?
Verso la fine degli anni ‘90 intrapresi la via del graphic design e smisi progressivamente di occupare le mie nottate con il writing (graffiti writing). Come molti designer della mia generazione iniziai ad interessarmi al “messaggio” e a come viene utilizzzato attraverso i graffiti. La forma delle lettere e il loro significato, i nomi e la loro posizione nel contesto urbano contribuirono fortemente a evidenziare l’importanza della diversificazione dei canali mediatici. Se vuoi mettere in evidenza qualcosa la devi spostare da dove stanno tutte le altre e per spostarla hai bisogno di un sistema di trasferimento opportuno all’oggetto che muovi. L’esperienza di strada acquisita cercando di mettere in evidenza noi stessi, tutto ad un tratto venne richiesta da alcuni grossi brand, in particolare dalle major discografiche e dell’abbigliamento. Gli interventi richiesti erano tesi a comunicare capillarmente ed in modo mirato i loro prodotti senza esplicitare la complicità dei produttori stessi. Nessuno ci chiedeva di mistificare la nostra “missione” di strada, l’aerosol art, di stravolgerla, di venderla, ma semplicemente chiedevano in affitto la nostra tecnica. Noi fummo felici di accontentarli. Mi resi conto ben presto che la città avrebbe avuto un rifiuto di fronte a questa aggressione mediatica, un rigetto nei confronti di un’operazione che avrebbe potuto generare un guadagno senza essere sottoposto ad alcun vincolo o dazio istituzionale. Era a tutti gli effetti pirateria e noi eravamo mercenari. Pensai che allora avremmo dovuto modificare l’approccio e proporre qualcosa di realmente trasversale, laddove legalità e illegalità avrebbero potuto fondersi in una mescola indistinguibile agli occhi dei consumatori e delle autorità. Proposi di completare illegalmente affissioni legali, di declinare il teatro di strada alla promozione, di usare i suoni: ma mentre in Inghilterra, Stati Uniti e Francia questo avveniva con interessanti risultati, in Italia la richiesta si arenò ad un inflazionato e noioso utilizzo di segni più o meno rimovibili, ma ormai incapaci di dribblare il mercato. Decisi di gettare la spugna, deluso dall’incapacità nostrana di investire su nuovi strumenti di comunicazione, di tentare strade parallele e contemporanee a quelle internazionali. Solo oggi a circa dieci anni di distanza, inizio a vedere in Italia alcuni accenni di quello che avrei voluto realizzare. I tempi ora sono maturi?...No. Sono quasi convinto che sia il solito penoso ritardo
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CONSULTING ROOM
PORTRAIT OF N° 1 / FROM MARTEDì / DRAGO EDITORE
EXHIBITION / BLACK ROOM
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TAKE A PEEK...
CUNNING AGENCY every day/way guerrilla
CUNNING DESIGN
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Quando ho chiesto ai miei colleghi cosa ne pensassero del guerrilla advertising (esiste ancora, ha un certo impatto, ce ne occupiamo?) mi hanno inviato varie risposte dagli uffici di New York e Londra. Riporto un paio di frammenti da entrambi gli schieramenti. Da un lato: “…per me il guerrilla marketing è il dirottare uno spazio mediatico senza pagarlo. E lo spazio mediatico è ovunque.” Decisamente concisa e condivisa da molti addetti ai lavori di questo settore. Ma questo implica il problema del target: è alienante o liberatorio, è veramente guerrilla o solo una bella trovata (entrambi sono risultati efficaci ma molto soggettivi). Dall’altro: “oggi ci si confonde sempre di più tra guerrilla e BTL perchè molti grossi brand internazionali adottano i graffiti o la street art (penso a Fiat e Volvo). Quello che oggi è considerata dai ragazzi street art/marketing aggressivo, potrebbe non essere accolto così caldamente dagli adulti…e anche questo può essere controproducente (penso alla PSP Sony che ha fatto un passo indietro per quanto riguarda la campagna di graffiti sui volantini l’anno scorso). In altre parole, non è facile dire, “guarda, c’è una bella campagna di guerrilla”, perché potrebbe anche non essere tale. Detto questo, siamo tutti d’accordo sul fatto che il guerrilla marketing esiste ancora ed ha il suo spazio, ma forse si sta evolvendo verso canali più tradizionali, e sta perdendo un po’ del suo fattore sorpresa, (le autorizzazioni locali e la possibilità di farla franca giocano un ruolo fondamentale); poi ovviamente c’è la street art di Banksy a Londra venduta per £2800... (questo è considerato ancora guerrilla o business pratico?) Uno dei nostri clienti, quando parla di noi, ci chiama “agenzia di avvenimenti” perché considera il termine “guerrilla” troppo restrittivo in un senso, e il termine “esperienziale” troppo specifico in un altro. Entrambe le definizioni sono valide, entrambe (così come molte altre forme di comunicazione) hanno rilevanza, ma non abbiamo preconcetti su cosa fare e come sviluppare una campagna. Questo è il motivo per cui definiamo il nostro approccio di tipo “neutrale”. Un’agenzia ATL, nove volte su dieci, parte dalla pubblicità televisiva e poi pensa a come l’idea principale può adattarsi ad altri canali. Un media center è interessata, per i propri intenti e obiettivi, ad assicurare al proprio cliente il miglior posizionamento ad un costo contenuto, con le loro commissioni già incluse nel prezzo. Un’agenzia di PR è alla ricerca di un po’ di “effetto sorpresa” per avere un paio di buone foto e file audio nei loro media
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chiave. Il digitale sembra essere il collante che tiene tutti i vari pezzi insieme. Dopo aver studiato un brief, cerchiamo di proporre ai nostri clienti una soluzione che corrisponda alle loro necessità in quel momento e che sia utile per loro (con grande attenzione alla redditività, la sua importanza non può essere trascurata). La nostra soluzione può includere una campagna guerrilla, viral, un’esperienza dal vivo e se necessario uno spot televisivo. Il problema è che il cliente non considera quello che facciamo come una loro priorità, ma si rivolgono a noi solo dopo che è stato stabilito il budget per tutte le loro altre esigenze commerciali. Fondamentalmente quello che noi, e le altre agenzie simili alla nostra, facciamo è quello che il cliente vuole, non ciò di cui ha bisogno. Una sfida? Si. Fastidioso? Sì. Emozionante? Decisamente sì. Ci muoviamo in un grande spazio che richiede alla nostra immaginazione di andare oltre rispetto a quanto abbiamo già fatto. E anche se scegliamo di riadattare un’idea già esistente, questo non invalida l’idea, ma semplicemente significa che abbiamo trovato un modo intelligente per creare qualcosa di interessante. Se riusciamo a tirare fuori una campagna di guerrilla da sballo cavandocela solo con una tirata d’orecchie, allora la portiamo avanti in ogni modo.
AT WORK
Un’ultima considerazione: quello che facciamo è dannatamente divertente. CUNNING HEADQUARTER
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EG[ON] MAGAZINE ego raised to the n-th power
Essere dei designer oggi è un lavoro complicato. Implica l’obbligo di allenare la sensibilità, avere gli occhi aperti. Fare del coolhunting un rito quotidiano, ricettivi 24/7, sniffando la direzione del vento. In un qualche senso siamo macchine che assorbono, fagocitano e reintepretano stimoli produttori di design alimentati a deadlines e caffeina. Gli input arrivano da ovunque; c’è tutto un quotidiano training all’attenzione, l’autoimposto rito degli rss, blog da consultare in guisa di breviario, lo street style e l’estetica videoclip al posto delle vitamine. Ma gli input arrivano anche, e soprattutto, da libri d’arte e style magazines di cui gli studi di design si cibano in maniera sconsiderata. E se ne trovano ovunque negli studi, in pile disordinate ammonticchiati tra sala riunione e scrivanie, costellazioni di post-it e hopefulmonster mimetici. Un’inesorabile valanga, un massiccio attacco sensoriale. Dal momento dell’apertura del nostro studio abbiamo desiderato di rispondere a questo fuoco serrato di input con un nostro mag. Non una webzine, ma una vera rivista. Perché, pur arresi ormai alle necessità di una vita 2.0 con risultati da misurare col numero di amici di myspace, continuiamo a credere nel valore della pagina stampata, nelle sue qualità tattili, nel gioco della sovrapposizione degli inchiostri, nelle idee fissate sulla carta. Crediamo nelle pubblicazioni di arte e design, nei libri pieni di idee e invenzioni, nelle pubblicazioni monotematiche da leggere, guardare e toccare con un piacere sempre nuovo. Alla fine ne è nata la nostra bookzine ego[n]. Qualcosa che non è nè un libro nè una rivista, ma piuttosto una specie di mostro domestico. Alimentato dall’amore per l’immagine, è cresciuto a dismisura, incompleto e ridondante allo stesso tempo. Con alcune pagine bianche, altre stampate ad otto colori ed affollate di immagini. Per metà libro d’artista e per metà scatola delle meraviglie, ego[n] è una collezione di storie incomplete, perché fatto di mancanze, fratture e omissioni. Fare un magazine, ecco: una specie di catartico, necessario antidoto al vuoto. Una caparbia affermazione del sé, un ego moltiplicato alla enne. Uno smisurato desiderio di donare
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una struttura assente alle forme scomposte dell’essere, da trasferire in inchiostri di quadricromia, registri e verniciature UV, controforme a mezzotaglio e legature a filo refe. In questo percorso abbiamo incontrato diversi grandi artisti e molti nuovi amici. Il magazine per noi è anche un laboratorio sociale, il passo necessario che va oltre gli approcci da social network e si trasforma in collaborazione fattiva, in scontro e confronto di idee. Ci siamo anche permessi una ricognizione tra i colleghi della nostra città, abbiamo scoperto inaspettate sinergie con le crew di Graffbay e Gold, abbiamo avuto modo di apprezzare la disponibilità e l’umiltà di grandi nomi della comunicazione e della grafica come Alan Fletcher, Jonathan Barnbrook, Ed Fella, KesselKramer.
MAGAZINE EXHIBITION
SKETCHES
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SIGNJAM 2008 Direttore creativo Mario Flavio Benini
6/7 aprile SPAZIO VENTURA XV Via Ventura 15 Milano
Art direction Alessandro Boccardi Marco Klefisch
24/25 maggio SIGNJAM LAB Via Privata Oslavia 27 Milano
Coordinamento redazionale Elisa Piovesana
www.signjam.it redazione@signjam.it
Testo introduttivo a cura di Luca Martinazzoli
Un progetto:
Interviste: per Steven Vogel e Bobbito GarcĂŹa: Ada Korvafaj per Gavin Lucas: Luca Martinazzoli per Andrew Losowsky, Anja Lutz e Andy Simionato: Fabio Falzone per VNGRD: Mario Flavio Benini
www.metaflow.it info@metaflow.it 02/45498421
Con il patrocinio di:
Con il supporto di:
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