Inpentola 2
Rosa Orfitelli
NAPOLI IN UN ORTO
Marotta & Cafiero editori
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Disegni di Gennaro Monforte
A Chiara che mi ha sempre spronata a scrivere, sperimentare, annusare, osservare. A Diego, che si definisce “emigrante volontario”, ma vuole coltivare l’importanza del gusto legato alle sue radici affettive. A quanti amo, non q.b. (quanto basta), ma in modo smisurato… Grazie, con tutto il cuore.
Prefazione
La corazza tra noi e il brutto!
Ore 05:00, ancora non spunta il sole, ormai è segno che si avvicina l’inverno e come spesso accade arriva con esso un po’ di strana malinconia; poi pensi al ciclo necessario delle stagioni, alla benefica rigenerazione della natura e vai con la mente alla ricerca dei ricordi profumati, quelli legati alla memoria delle cose buone, ai colori delle campagne, per chi ha avuto il privilegio di giocarvi da piccolo. Invece, come accade sempre più spesso, sono in attesa di un “amico contadino”, che con molta preoccupazione e qualche iniziale titubanza, mi porterà a vedere l’ennesima discarica che minaccia il suo coltivato, la sua frutta, i suoi ortaggi. Ancora un incendio di rifiuti tossici, ancora fumo e puzza di veleno che si attaccano sulla pelle, tra i capelli, sui vestiti. Devi lottare per non farla entrare nei ricordi, non li vuoi perdere. Sei costretto a fare spazio nella mente alla mappa della terra malata, mentre osservi la colonna di fumo nero, più scuro della notte che sta per abbracciare case, paesi, abitanti, campi… e con rabbia ti chiedi quanti occhi stanno vedendo la stessa cosa, quanti polmoni stanno respirando il frutto del guadagno illecito, e come fanno ad entrare nel corpo della campagna nostra. 9
Ecco, spunta il sole, ed insieme la forza dei ricordi si fa luce, i miei ricordi profumati, delle cose buone, dei sapori giusti, il profumo di quella terra, fresca, che solo chi ha usato la zappa sa respirare. Questa è la corazza tra noi e il brutto, per non perdere la memoria, per impedire all’animo di sentirsi lontano dal luogo per cui ha lottato, per non vivere lontano da dove esisti, insieme alla tua comunità, ai racconti senza tempo, alle storie di chi non conosci, ma che esistono nella piazza, nella strada, nella campagna, nell’orto dietro l’angolo. In questi momenti, e grazie alla forza gentile di Aldo, dell’entusiasmo inesauribile di Ciro e al circolo di Legambiente “la Gru”, proprio nel cuore di quella che denominammo “la terra dei fuochi”, mi arriva la prima stesura di un libro, il libro di Rosetta. In uno di questi tristi sopralluoghi, di questo rosario di cave, discariche, cemento e monnezza, questo libro mi ha riempito il cuore di sapori buoni, un tuffo in cose profumate e genuine, nella ricchissima vita semplice. Ad ogni pagina una storia di ingredienti saggi e umani, di persone capaci di fare comunità, condivisione, appartenenza, ricostruendo parole e sapori declinati in un ciclo naturale che ti stupisce, quasi non ci credi che il buon cibo, la buona lettura, il racconto, esistano ancora. Un orto che racchiude l’anima di ricette e ricordi, concimato a festa con lo scorrere della quotidianità, senza pretese, con ingredienti crudi e nudi, cotti e condivisi attraverso il profumo di quando si alza il coperchio della pentola, un vapore caldo saporito, che esce dalle pagine e ti avvolge, che non inquina nessuno, fatto con il frutto del lavoro di tanti per molti. Ad ogni ricetta di questo libro ti appassioni nel seguire un geniale calendario del vivere semplice, del buon senso, riempiendo una cassetta di bontà da utilizzare per arginare la deriva del cibo spazzatura, della distorsione da consumo, contro la follia dell’usa e getta, per quantificare lo spreco di alimenti che ogni anno buttiamo in di10
scariche (circa 500 euro di cibo commestibile per un nucleo di quattro persone) contro il delirio da predazione, per frenare la deriva del regime della “merendina”. Perché solo se consumi vali!?! Le pagine di Rosetta sono ricette di conciliazione fra tempi sbagliati e memorie cancellate, ricordandoci gli ingredienti della buona Terra. “A terra preferisce durmì… ca avè a che fà cu ’e scieme.” Una verità racchiusa nelle pagine del libro, inserita in un cesto di parole che fanno parte degli ingredienti delle ricette, vanno gustate insieme, per avere la dimensione di quanta ingiustizia stiamo iniettando nelle nostre vite e nei nostri territori. Una verità che va raccontata sempre con più forza perché i nostri orti rischiano di sparire sotto i colpi dell’ecomafia, che continua a scaricare tonnellate di veleni sotto le campagne, e che qualche volta riesce anche a farla franca. È di questi giorni la notizia dell’avvenuta prescrizione di un processo denominato Cassiopea, le cui indagini hanno portato alla luce il marcio della corruzione e del traffico dei rifiuti Nord - Sud, tonnellate di veleno iniettato nelle vene della terra. Prescrizione per i tempi lunghi del sistema processo, della memoria corta di una nazione che si distrae troppo facilmente. Una prescrizione che non è una sconfitta di pochi, ma una colpa di tanti. L’anima di Napoli, di una terra in un orto, quanta vita gira intorno ad un ortaggio, quanto lavoro, quanta speranza; dal momento in cui si pianta a quando si raccoglie passano i giorni e i mesi. Tutto ciò è raccontato nel libro che ho deciso di rileggere più volte e questa volta in compagnia di mia moglie, una vera colonna, uno scrigno di coerenza e forza, che si adopera in tutti i modi per non dirmi che quando torno a casa i miei abiti puzzano di discarica, che cerca di non leggere nei miei occhi il riflesso del degrado, descrivendomi il suo lavoro, la progettazione ecosostenibile, il bello possibile, mentre ci aggrappiamo ai profumi della sera. E questa sera leggeremo una bella ricetta profumata, inviteremo a cena il libro di Rosetta. 11
Raffaele Del Giudice
Introduzione
L’Araba Fenice
Le “parietarie” e “le graminacee”, responsabili della mia perenne allergia, non hanno scalfito la mia passione sconsiderata per il mondo delle piante. Non hanno neppure attenuato la mia frequentazione di boschi e parchi, né tanto meno mi hanno impedito di contribuire a sistemare aiuole, orti e piccoli giardini in contesti, essenzialmente, periferici. Anche in primavera, quando la vegetazione esplode nella sua fantasmagorica varietà di colori e profumi, sollevando e diffondendo, però, nuvole di polline che accentuano le conseguenze della rinite allergica. Nei vari decenni ho provato quasi tutti i rimedi possibili, antistaminici, spray nasali, vaccino, con alterna fortuna; mi mancava l’omeopatia. Perché non provare? Tra parecchio scetticismo ed una punta di speranza mi sono recato da Rosetta, la mia amica omeopata, spinto anche dalla gioia di rivederla. Rosetta è stata per la mia famiglia una presenza amica dalla prima ora; colei che, più di tutti, ha accompagnato le gravidanze difficili di mia moglie (Rosa anche lei!) ed ha seguito i primi passi dei nostri 12
figli, Cristiano e Luca, con affetto sincero e la delicatezza che la contraddistingue. Non sempre la vita è stata generosa con lei, ma ha saputo sempre affrontare le numerose difficoltà con coraggio e forza d’animo, risorgendo continuamente, novella Araba Fenice. Nulla le è stato regalato. Ma i dolori, le fatiche, le contrarietà non hanno allentato la sua generosità e sensibilità e nemmeno la carica di ironia e di ilarità che contagia e coinvolge gli interlocutori delle sue frequenti narrazioni. Ci accomuna l’origine umile e popolare, una sintonia valoriale, il desiderio di una vita semplice e comunitaria, una disponibilità all’ascolto, l’attenzione verso gli ultimi, un’affinità spirituale.1 Chiaramente il suo approccio con la medicina è particolare, ma ancora più particolare è la sua relazione con i pazienti. Sì, pazienti, perché bisogna aspettare un bel po’ prima di accedere al suo studio. Un’attesa abbondantemente ripagata da un’accoglienza a braccia aperte; dopo poco qualche tossina accumulata si diluisce e scorre via. Raccontarsi reciprocamente è il primo approccio. Una medicina globale che parte da una conoscenza complessiva del soggetto che non viene sezionato in organi ed apparati. In questo contesto è nata l’idea del libro. Rosetta aveva letto ed apprezzato il mio libro “Il Giardino del Liceo. Un ponte tra le generazioni” e, prendendo spunto dal mio amore per le piante, ha cominciato a raccontarmi aneddoti che narrano di una cucina semplice, povera, sull’onda della tradizione, basata essenzialmente sull’uso di ortaggi e verdure in genere. Le periodiche sedute alla ricerca di una soluzione alla mia allergia, si aprivano con i racconti di Rosetta. E lei, con il suo linguaggio colorito, il brio espressivo e con gli occhi che, difficilmente, nascondevano la sottile commozione, mi faceva rivivere la tradizione di un popolo, povero ma generoso, che sembra aver smarrito, almeno sembra, la proverbiale solidarietà sotto i colpi di una modernità che ha portato individualismo e poca attenzione all’altro e alla natura. Una solidarietà che si consumava attorno ad una mensa sobria ed ospitale. 13
Perché non raccogliere queste piccole storie? Farne un libro. Un libro di una memoria alimentare che può essere recuperata. Un libro che mostri il legame inscindibile tra alimentazione e salute. Un libro capace di riproporre l’amore per la propria terra. Un libro che consegni alle nuove generazioni un barlume di speranza. Tante sollecitazioni interessanti, ma anche qualche perplessità. Sarà infine la pressione all’interno della famiglia, in particolare della nipotina Chiara, a convincere definitivamente Rosetta a cimentarsi. E così prende corpo la struttura del libro. Un racconto, una ricetta, la scheda di un ortaggio, seguendo il ritmo delle stagioni. Mangiare è certamente un fatto naturale, ma ad un atto così semplice sono connessi molti sentimenti e, talvolta, anche qualche ossessione. In genere desideri ed emozioni personali e comunitarie accompagnano il consumo di un cibo. Ma la frenesia e la fretta di una vita convulsa, la solitudine di un modello sospettoso ed avaro, ma, soprattutto, la dieta occidentale fatta di cibi industriali e raffinati, con prevalenza di carne, grassi e zuccheri aggiunti, hanno creato un forte contrasto tra alimentazione e salute. Abbiamo perduto questa semplice ed elementare consapevolezza. Eppure già Ippocrate affermava: “Che il cibo sia la tua unica medicina!” E recenti studi confermano che le malattie più frequenti e deleterie che affliggono il mondo occidentale si possono prevenire con una sana e accorta alimentazione. “La grande percentuale di tumori attribuibili alla natura dell’alimentazione occidentale è, come abbiamo visto, un segnale di degrado delle abitudini dietetiche di una società che ha perso contatto con la nozione stessa di sana alimentazione e che concepisce l’atto del nutrirsi esclusivamente come un’azione destinata ad apportare energia all’organismo, senza riguardo per il suo impatto sulla salute.”2 Verdura e frutta sono state sempre più allontanate dalle abitudini alimentari della popolazione occidentale e si fa fatica a trovare qualche bambino o qualche giovane che guardi con simpatia a questi alimenti essenziali. “I vegetali non sono semplicemente una fonte di vitamine e minerali: contengono anche diverse migliaia di composti fitochimici che svolgono un ruolo fon14
damentale nella capacità di queste piante di contribuire al mantenimento della buona salute.”3 Una sapiente e ben orchestrata pubblicità, l’atmosfera che circonda i cibi industriali che Pollan definisce “sostituti pseudoalimentari”, la loro preparazione e le modalità di offerta, la loro accurata collocazione nei templi del consumo moderno, i supermercati, divenuti luoghi del tempo libero, hanno determinato una diseducazione del gusto, privilegiando solo parte delle nostre papille gustative, e facendo prevalere aspetti marginali ma accattivanti nelle scelte alimentari. E Pollan nel suo più recente libro afferma: “Non mangiate niente che la vostra bisnonna non riconoscerebbe come cibo. I cibi odierni vengono progettati a tavolino, con il preciso scopo di farci comprare e mangiare di più, facendo leva su alcuni automatismi evoluzionistici: la nostra preferenza innata per il dolce, il grasso ed il salato.”4 Alimentazione ed agricoltura rappresentano un binomio inscindibile. È la comparsa dell’agricoltura ad avviare nel solco della storia la nostra civiltà e a garantire la sopravvivenza e la prosecuzione della nostra specie fino ai nostri giorni. Inutile negare che una certa follia dell’uomo moderno, sotto una sconsiderata guida della politica e dell’economia, ha creato le condizioni di una pericolosa crisi dell’agricoltura e dell’agricoltura di qualità. La campagna italiana è assalita dal cemento e alla terra si chiede uno sforzo produttivo intensivo, stressandola con tecniche e prodotti di origine chimica che ne determinano, nel tempo, la sterilità. Tutto ciò ha una ricaduta anche sul paesaggio, vanto dell’identità nazionale, che appare trasformato e sempre più fragile. La nostra regione, la Campania, ha subito le ferite più profonde per queste, ma anche per altre scelte scellerate. La fertilità del suolo campano, che ha consentito agli antichi di parlare di Campania Felix, avrebbe dovuto suggerire la scelta della vocazione agricola per la nostra regione. Se l’agricolutra fosse stata individuata come uno dei settori primari e trainante per l’economia dell’intero territorio italiano, questa terra, la nostra terra, avrebbe dovuto essere considerata una risorsa nazionale, da salvaguardare come patrimonio comune. 15
La Campania era concordemente celebrata dagli autori antichi come regione tra le più belle e fertili d’Italia. Ne parlano Polibio, Virgilio nelle “Georgiche” e Plinio il Vecchio, nella “Naturalis Historia”, che tra l’altro scrive: “Come parlare, anche se solo della costa campana, e di quella sua amenità fiorente e splendida, che mostra come la potenza creatrice della natura in un momento di grazia si sia concentrata in un solo luogo? E tutta quella vivificante e ininterrotta salubrità; quella mitezza del clima, i campi così fertili, colli così ridenti”. Dopo l’unità d’Italia furono queste considerazioni a suggerire il nome Campania per l’attuale territorio della nostra regione, anche se dal punto di vista fisico sarebbe stato appropriato il termine Montania.5 La natura vulcanica del suolo, fornendo il corredo di quasi tutte le sostanze necessarie alla crescita e allo sviluppo delle piante, lo rende particolarmente fertile. Nozioni che sono andate sfumandosi col trascorrere del tempo e che non hanno trovato ospitalità in una visione politica ed economica un po’ rozza e sicuramente poco lungimirante. Ma ha avuto il suo peso anche un imbarbarimento complessivo della popolazione, evidenziato dall’incapacità di gustare la bellezza, dal poco impegno per conservare l’integrità del territorio, dal non riuscire a capire che bello ed utile possono viaggiare insieme. Ad ogni modo, c’è di più e c’è di peggio. Una triade perversa, gli industriali del nord, alleati con la camorra e alcuni corrotti amministratori locali, attraverso la tecnica del “giro di bolla”, com’è stato accertato dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere, e com’è stato denunciato, più volte, da Roberto Saviano, con il grande business dei rifiuti tossici, ha trasformato la Campania nel secchio dell’immondizia delle imprese del Nord. “Un’intera area, tra la provincia di Napoli e Caserta, inquinata e avvelenata.Un’unica distesa di frutteti, serre, campi di ortaggi, tutto coltivato con concime a base di diossina. Un mix di rifiuti tossici e veleni. Tanti. Da mettersi le mani nei capelli; insalate al cianuro, finocchi da sballo, ma anche zucchine impazzite, mele alla diossina e pesche miracolate. Nella pancia di quella che una 16
volta era la Campania Felix, la camorra ha vomitato di tutto: polveri da abbattimento dei fumi di industrie siderurgiche, ceneri da combustione, olio minerale, morchie oleose di verniciatura, vernici di scarto, fanghi prodotti da trattamento di depurazione dell’acqua di industrie chimiche. E ancora inchiostro di scarto, melme acide, feci animali, letame, urina di ogni tipo, fanghi velenosi e tossici, ceneri, scorie di alluminio. E per finire cromo, rame, zinco, cadmio in quantità industriale. Neanche un premio Nobel per la chimica sarebbe stato capace di mettere insieme un cocktail così micidiale e come ciliegina sulla torta tonnellate e tonnellate di percolato, la peste del nuovo millennio.”6 Questo quadro fosco e desolante dipinto da Peppe Ruggiero dovrebbe generare rabbia e indignazione nei cittadini campani, in maggioranza gente per bene, nei confronti di questi traditori della propria terra, che hanno devastato il territorio che sarà calpestato dai loro figli e nipoti. Nello stesso tempo dobbiamo individuare strategie culturali e politiche per partecipare al recupero e alla conservazione del territorio ancora disponibile, perché, anche se in tempi certamente non brevi, Napoli e la Campania possono risorgere! Bisogna chiedere, innanzitutto, la bonifica dei territori devastati, finanziando e utilizzando la ricerca che la Facoltà di Agraria sta portando avanti. Ma chi pagherà questa bonifica lunga e complessa? Una cattiva interpretazione del “federalismo” potrebbe addossare il danno esclusivamente a chi ne ha subito la beffa. I responsabili di questo ecocidio, per lungo tempo lasciato sotto silenzio, non possono rimanere impuniti; responsabili diffusi su tutto il territorio nazionale e, pertanto, questa bonifica dovrebbe diventare una vera e propria questione nazionale. Contemporaneamente bisognerà difendere a denti stretti la parte di territorio salvato alla devastazione ed ancora utile per l’agricoltura, evitando disegni perversi di eventuali cementificazioni e di utilizzazioni improprie. Bisogna accentuare la pratica della confisca dei beni alla camorra e accelerare l’assegnazione a quelle cooperative giovanili coraggiose che rappresentano la speranza e il riscatto della nostra storia e della nostra terra. Fornire loro sostegno ed assistenza e incanalare i loro prodotti in un circuito più vasto possibile. 17
Ci sono, infine, piccoli lembi di territorio, frammenti dispersi in varie direzioni, spazi incolti, che possono essere recuperati creando “piccoli orti urbani”, microesperienze di resistenza contro propositi speculativi, per sperimentare tecniche di agricoltura biologica, per avvertire la gioia di trasferire “un po’ di anima e sudore napoletano” alla terra madre, per conservare un patrimonio di saperi e sapori antichi che non sono andati completamente perduti. Curare un orto è un’occasione per fare esercizio fisico e produttivo all’aria aperta, in compagnia di persone con cui si vogliono seminare gocce di speranza per il futuro, ma rappresenta anche un’attività redditizia; secondo la National Gardening Association, settanta dollari investiti in un orto producono una quantità di cibo pari a settecento dollari di spesa al supermercato.7 Congruentemente, mi pare importante la moltiplicazione dei GAS (Gruppi di Acquisto Solidale), gruppi di persone che si organizzano e si collegano ai luoghi di produzione biologica locali per creare filiere corte di consumi, abbattendo perdite e sprechi, incentivando un’agricoltura di qualità, salvaguardando il benessere del territorio e conservando un patrimonio di tradizione e di cultura. Anche in Africa, dove per altri problemi, il deserto avanza e la fame cresce, spesso nell’indifferenza colpevole dei paesi ricchi e spreconi, dietro l’impulso di splendide persone, come il premio Nobel per la Pace 2004, Wangari Muta Maathai, si comincia a pensare alla realizzazione di mille orti, per arginare l’espansione delle monocolture e salvaguardare la biodiversità locale. Anche Rosetta con il suo libro contribuisce a questa strategia, e il titolo “Napoli in un orto” è la dichiarazione esplicita del suo pensiero, ancor di più se si considera la sua volontà di contribuire con la vendita di questo libro a creare un piccolo orto biologico in terra di Scampia. Aldo Bifulco
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Il significato della stagionalità
Rispettare la stagionalità dei prodotti della terra non è una delle tante mode più o meno in voga del guru di turno, è il ritorno alle radici, è preservare la memoria del proprio popolo, è tornare al “senso” delle cose, al rispetto della natura e dell’altro, è rispetto per il proprio corpo che racconta ciò di cui ha bisogno ad un popolo di sordi profondi. Ricordare cosa la stagione offre è non perdersi nel delirio di onnipotenza del globale, che appiattisce mente e anima: devi innanzitutto consumare, e velocemente, perché è vietato fermarsi a pensare. Ricordare la stagionalità dei prodotti è un atto di amore e rispetto verso se stessi, per cui un calendario semplice, in cui è segnato in grassetto ciò che va esaurendosi nell’arco del mese, può essere un piccolissimo aiuto a riflettere su come ci nutriamo, per poter cambiare qualcosa anche per le generazioni future e per riprendere il senso vero delle cose con cura dei doni ricevuti e gratitudine verso madre terra. LEGENDA RICETTE
j : ogni faccina indica una persona r : ogni orologio indica 15 minuti
k : ogni coltello indica un livello di difficoltà
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Gennaio Michele e zia Rosa
“O
ggi è proprio freddo, i bambini sono tornati da scuola con le dita blu e i nasi paonazzi! “Zì Rò è freddo secco, fa bene, i bambini si devono abituare, è freddo che non fa danno…” “Sarà, ma le mie ossa non sono d’accordo! Domani è Sant’Antuono Abate, faranno le lampe; Tonino giù ha già preparato la spalliera del letto tutta tarlata per fare un bel fuoco.” “Zì Rò, sarebbe bello avere qualcosa da arrostire con il fuoco, ma più che scaldare la carta oleata della sugna, per fare odore, non c’è niente! Quando dicono che Sant’Antuono s’annammuraie d’o puorco, in senso dispregiativo, mi viene da ridere: mica era fesso Sant’Antuono, del porco non si butta via niente, nemmen’e pile! A proposito d’e pile, zia Rosa mia, parliamo di un fatto importante: oggi è 16, quindi periodo critico fino al 27... ma una cutenella con virzo e riso ce la possiamo permettere? A me, lo sapete, vanno bene due zuppierelle che ci faccio pranzo e cena da re!” 20
“Michele, io già avevo detto a Maria di prendere una bella cotica e me la sto conservando nello straccio di tela, sulla finestrella, scrupolosamente. Domani ti preparo verza e riso con la cotica, ai bambini due tubetti con l’uovo, perchè la verza non la vogliono.” “Zia Rò, quelli perciò sentono freddo e diventano blu: non sanno mangiare! Come si fa a chiamare puzza virzo e riso c’a cutenella? ‘Sti criature hanno bocca e naso sbagliati, ma voi siete speciale, piena di risorse, con quella cotica nello straccio avete acceso la ‘lampa’ nel mio cuore: già vedo la mia zuppierella!”
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RICETTA
Riso e verza Persone: j j j j Tempo: r r r r Difficolta’: k
Ingredienti:
1 verza, 320 g di riso, 3 cucchiai di olio extravergine, pecorino grattugiato, 1 cotica di maiale (optional), aglio, sale q.b. N.B. per molte famiglie partenopee il “piatto cucinato”, cioè il primo piatto, è sempre stato piatto unico del pranzo. In questo caso, soprattutto d’inverno, l’aggiunta di una cotica non crea gravi danni alla dieta.
Procedimento:
lavare le foglie della verza e asportare la parte centrale bianca più doppia. Spezzettarle e lessarle per 20 min quindi scolarle e metterle in un tegame in cui si sarà soffritto l’olio con l’aglio tagliato piccolo piccolo e sale q.b. Cuocere 20 min (se piace va aggiunto peperoncino) con l’eventuale cotica sgrassata con il coltello, a cui si sarà provveduto a bruciacchiare i peli sulla fiamma. La cotica andrebbe cosparsa, all’interno, di pecorino e un pezzettino di aglio, arrotolata e stretta con lo spago. Quando è il momento di calare il riso nel tegame con la verza, si toglie la cotica, si taglia lo spago e la si riduce a fette doppie in ogni piatto dove verrà aggiunta la minestra di riso e verza. Per ultimo si cosparge la minestra con romano grattugiato. La tradizione vuole che si mangi un po’ “riposata” per 5-10 min. 22
SCHEDA
LA VERZA
Alla famiglia delle Brassicaceae appartengono i “broccoli” e i “cavoli”, alimenti che spesso vengono trattati con diffidenza e non suscitano entusiasmo, specie in età giovanile, ma che rappresentano, invece, un vero toccasana. Da apprezzare per le virtù terapeutiche, in particolare perché contengono sostanze che diminuiscono notevolmente il rischio di tumori. La verza o cavolo-verza, è una varietà di cavolo, simile al cavolo cappuccio. Il suo nome deriva dal latino “viridis” (verde) per via del suo colore.
Breve storia
La verza rappresenta la varietà probabilmente più vicina al cavolo selvatico, originario delle regioni costiere mediterranee e, quindi, una delle specie coltivate da più lungo tempo. Conosciuta fin dall’antichità era considerata sacra ai Greci. 23
Il greco Teofrasto (372-287 a.C.), padre della Botanica, ne parla nei suoi trattati. Anche nel mondo romano, con Plinio e Catone, si parla dell’importanza e della coltivazione della verza. In particolare Catone attribuiva la proverbiale salute di ferro dei Romani proprio al largo uso di verza che essi facevano nelle loro diete. In ogni caso, essa ha rappresentato, per secoli, uno degli alimenti principali degli equipaggi delle navi, proprio per rinforzare il magro regime alimentare durante i lunghi viaggi. Viene menzionata nel XVI secolo per la prima volta in Lombardia. Ora viene coltivata in varie zone d’Italia, specie nelle regioni centro settentrionali. Forse anche per questo è detta “cavolo di Milano”. È una pianta invernale che viene raccolta da ottobre a maggio; da aprile a maggio cessa la raccolta della verza per far posto al cavolo cappuccio, simile alla verza, ma di diversa consistenza e tipicamente primaverile, più dolciastro e adatto per essere cucinato in umido. Le verze migliori migliori sono quelle che hanno subito la prima gelata.
Botanica
Nome comune della pianta Brassica oleracea sabauda; è una varietà di cavolo, simile al cavolo cappuccio, ma a differenza di questo presenta foglie grinzose, increspate con numerose sottili nervature diffuse, mentre quella centrale è molto più pronunciata e di colore bianco. Le foglie esterne sono rivolte in fuori, quelle interne, di colore giallastro, sono raccolte a palla ma meno strettamente embricate di quelle del cavolo cappuccio. La forma della parte edule (denominata testa o palla) può essere sferica o subsferica, appiattita o conica. Il peso varia da 1 a 2 kg. Il sapore è intenso e caratteristico e le foglie sono croccanti. 24
Il cavolo verza è una pianta biennale con radice fittonante non molto profonda, possiede un breve fusto eretto, di lunghezza raramente superiore a 30 cm. Resistente al freddo, fiorisce solo nel secondo anno di vita. Per poterla mangiare viene raccolta prima della fioritura da ottobre in poi. Il cavolo verza si semina in autunno o a fine inverno in terreno ben lavorato, fresco, molto ben concimato e si trapianta quando le piantine hanno emesso la quarta foglia, all’incirca dopo quaranta giorni.
Proprietaû
Essa è una miniera di energia vitale. Contiene tutte le vitamine tranne la B12, e, in particolare, vitamina E e acido folico. La ricchezza del cavolo verza in zolfo, arsenico, calcio, fosforo, rame, iodio può spiegare le sue virtù digestive, rimineralizzanti, ricostituente cerebrale e riequilibratore generale. La sua clorofilla ne fa un antianemico. Il succo fresco ha la proprietà di cicatrizzare e quindi molto utile in casi di ulcera. Contiene un raro principio attivo (gefarnato) che ha il potere di rinforzare la mucosa dello stomaco proteggendola dagli acidi. Non contiene glutine, perciò è utile per la celiachia. Inoltre 200 g di cavolo verza contengono 44 calorie. Essendo molto sazianti sono utili anche per una dieta ipocalorica. Forse pochi sanno che è molto efficace per prevenire e curare le dermatiti e lo zolfo in esso contenuto costituisce un rimedio per la pelle grassa, acne e alcuni eczemi. Per questo motivo è usata anche in cosmesi. Esiste qualche controindicazione per coloro che hanno problemi di ipotiroidismo o affetti dalla sindrome del colon irritabile. Accurati studi hanno dimostrato che il cavolverza, grazie alle sue proprietà, in particolare alla presenza di al25