Anteprima Sotto le ali dell'airone

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La cittĂ raccontata 6



Rosario Esposito La Rossa

SOTTO LE ALI DELL’AIRONE

Marotta & Cafiero editori


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©Marotta & Cafiero editori Via Andrea Pazienza 25 80144 Napoli www.marottaecafiero.it

ISBN: 978-88-88234-97-7 Copertina e foto di Tiziana Mastropasqua Terza ristampa ottobre 2012


A mia mamma, a mio padre, stelle polari dei miei giorni. Scudo, braccia aperte, fiore felice delle mie notti. A voi grazie, per ciò che è stato, per ciò che sono.



“Non credo che il talento sia il risultato dell’allenatore. Penso sia una questione d’amore tra il bambino e la palla.”

Roy Keane



Prefazione

Lui già vedeva la rivoluzione

Abbiamo conosciuto l’Arci Scampia e Antonio Piccolo, il presidente, nel 2007. Arrivò in Fondazione accompagnato da Carlo Uccella e devo dire che al primo incontro non scoccò la scintilla, anzi ci fu, incredibile a dirsi col senno di poi, una reciproca diffidenza. Ci parlò del suo sogno e di come era determinato a far sì che si realizzasse. Aveva ottenuto il comodato d’uso da parte del Comune, di quella struttura che oggi è l’Arci Scampia, e mostrava un atteggiamento non propriamente morbido, fin troppo “determinato” ad ottenere i fondi per rimetterlo a posto. Era disposto a fare qualunque cosa perché si realizzasse questa opportunità. Ostentava un ardore tale nella sua richiesta che in Fondazione rimanemmo quasi interdetti. Dava così per scontata la parte sociale intrinseca nel progetto, da non farne quasi menzione. Infatti rimanemmo un attimo interdetti, non riuscivamo a capire se si trattava realmente di un progetto sociale o di un progetto per realizzare una bella, ma ordinaria e semplice, scuola di calcio. La scintilla della curiosità, però, scattò e successivamente ci incontrammo per andare a vedere la struttura e fare un giro per il quartiere accompagnati da lui. Lì nacque l’innamoramento. Nel corso di quella passeggiata incontrammo non so quante 11


persone e non c’è n’era una che non lo conoscesse, che non lo salutasse, che non lo ringraziasse per quanto aveva fatto per sé, per un proprio figlio o per una persona a lui vicina. Man mano, durante i vari incontri e riunioni che si susseguirono, capimmo che Antonio era una persona che non faceva il sociale, lui “era” il sociale. Capimmo anche che quella veemenza e tutta quella energia nell’esporre il desiderio di realizzazione del suo sogno era dettata dalla forte volontà di dare una grande opportunità a tanti ragazzi del suo quartiere. Nella realizzazione del suo progetto non c’era nulla che potesse portare ad un beneficio meramente personale, era tutto per l’amore per il suo quartiere, per la sua gente, che fino a quel momento aveva comunque sostenuto al meglio anche se con scarse strutture e mezzi. Lui già vedeva la rivoluzione, che la bella struttura che oggi è, avrebbe portato in quel quartiere tanto martoriato. É per me sempre una grande emozione ricordare la nascita del nostro rapporto, approfondito e consolidato nel tempo. Da lì inizia la nostra collaborazione, riunioni su riunioni, battaglie per cercare di raggiungere l’obiettivo fino all’incontro con Fondazione Vodafone Italia che ci ha permesso la realizzazione del sogno. Poi arrivò il giorno dell’inaugurazione: eravamo un po’ tutti frastornati e felici della realizzazione di quell’opera che solo pochi mesi prima ci sembrava irraggiungibile. Anche Ciro, Fabio, Antonio Bernardi, il Presidente della Fondazione Vodafone Italia erano presenti alla festa di inaugurazione dell’Arci. La loro reazione, il loro compiacimento, il loro stupore per quello che tutti insieme eravamo riusciti a fare ci hanno resi ancora più orgogliosi. In questi quattro anni abbiamo condiviso decine e decine di momenti di festa, di aggregazione, progetti, esperienze bellissime e coinvolgenti con la partecipazione di tantissima gente. 12


Non smetterò mai di ringraziare Antonio Piccolo, Carlo Uccella, Carlo Sagliocco, Rosario Esposito La Rossa, Franco Riso, Enzo Tipaldi e tutti i collaboratori, persone di cuore prima di tutto e di grande competenza e professionalità. Ci hanno permesso di conoscere il grande cuore di Scampia, la bella gente, la grande umanità, solidarietà, che difficilmente si trovano, soprattutto in un quartiere tanto maltrattato dai media, la cui immagine percepita dall’esterno è molto lontana dalla realtà. É sempre una grande emozione osservare Antonio che ancora oggi, dopo questi quattro anni, guarda i suoi ragazzi, la sua gente, con gli occhi lucidi, ancora incredulo di quello che è riuscito a fare. Osservando la passione e l’amore che lui con il suo staff ci mettono quotidianamente nel loro lavoro, non mi riesce difficile capire quanto siano riusciti a costruire in termini di umanità, di valore, per così tante persone in venticinque anni. Immagino quante storie di vita abbiano visto e contribuito a salvare in tutti questi anni, loro sanno accogliere chiunque e sanno trasferire con grande garbo, ma allo stesso tempo con grande forza, quei sani principi di cui sono naturalmente portatori. La loro sensibilità si evince dai piccoli gesti che quotidianamente compiono. Andare all’Arci non solo per me, ma per tutto lo staff della Fondazione, è sempre una gioia. Sembra di tornare a casa ed è proprio questa la cosa stupefacente! Non per la bella accoglienza che sempre riceviamo, ma per l’aria che si respira. Oggi l’Arci Scampia vede oltre cinquecento ragazzi iscritti ai vari campionati, tra l’altro con risultati spesso molto positivi. Alcuni atleti sono stati addirittura trasferiti a società importanti, ma quello che mi preme sottolineare è la soddisfazione e la felicità di vedere il Centro sempre pieno di bambini e ragazzi di ogni età con le loro famiglie, che in questa struttura trovano un loro spazio vitale ed un luogo dove aggregarsi. 13


Vorremmo che Napoli offrisse tanti posti del genere ed il progetto realizzato all’Arci dimostra che tutto questo è possibile se l’incontro tra le forze sane della città si focalizza su obiettivi virtuosi. Ognuno di noi dovrebbe mettere un piccolo mattone per la ricostruzione della dignità morale e valoriale della nostra città. L’Arci lo ha fatto, lo fa quotidianamente e lo farà ancora nel futuro. Vincenzo Ferrara

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Eravamo solo sette

Correva l’anno 1986, nasceva la scuola calcio Arci Scampia.

Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada, ricomincia la storia del calcio. Jorge Luis Borges

I

l cigolio della porta di metallo annuncia l’inizio del primo allenamento. Non un alito di vento, la polvere del campetto del rione Monterosa resta immobile sotto il peso delle scarpette chiodate di Antonio Piccolo. È il 1986, è settembre, in campo sette ragazzi. Non cinquanta, settanta, venti, solo sette ragazzi. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei e sette. Li guarda il baffuto Antonio Piccolo, fischio d’inizio, tutti in fila, è nata la scuola calcio Arci Uisp Scampia. Mentre si corre, mentre la fase di riscaldamento mette in moto i muscoli dei ragazzi che Antonio Piccolo, segretario di sezione del PCI di Scampia, della Casa del Popolo di Scampia, pensa alle migliaia di volantini sparse per il quartiere. “Sono aperte le iscrizioni alla scuola calcio Arci Scampia”, volantini sparsi dovunque, tra i negozi, sui muri, per le strade. Un nuovo annuncio per i settanta mila abitanti del quartiere a Nord di Napoli. 15


I ragazzi in campo sono figli di amici, parenti, compagni. Si inizia con niente, senza magliette, palloni, ostacoli, birilli, niente tranne la passione, il credo che la vita di un uomo è limitata se non mette a disposizione degli altri le proprie potenzialità. Sugli spalti, appoggiati alla rete metallica, ci sono cinque vecchietti. Michele, Carmine, Vincenzo, Luigi e Don Mario, il grande Don Mario. Con curiosità bloccano i loro sguardi sul nuovo pazzo del quartiere, sul signore che da un giorno all’altro arriva e dice di voler fare una scuola calcio. “Ma siete sicuro, qui, a Scampia?” “Il campo c’è?” “Il campo ci sta.” “E non vi preoccupate.” Ne aveva parlato tra i compagni della sezione Antonio Piccolo, “avrei intenzione di aprire una scuola calcio, di mettere a disposizione dei ragazzi le competenze sportive, culturali, che dite ci siete?” Qualche accenno, alcuni consensi, ma ora in campo c’è solo lui con sette ragazzi. Sarà stato più o meno nel momento in cui uno degli allievi si avvicinò e gli chiese come lanciare quella sfera polverosa in rete, che Antonio Piccolo, si trasformò in Mister Piccolo. Nemmeno lui immaginava quello che stava per accadere, quanto lontano sarebbe andato quel pallone lanciato in rete. Al secondo allenamento i ragazzi diventarono quindici e al terzo trenta. Così la scuola calcio Arci Scampia si iscrisse al suo primo campionato Giovanissimi. In campo i ragazzi nati nel 1972/1973. Prima partita, la periferia Nord sfida quella Est. A Ponticelli l’Arci sfida il San Pietro. La partita finisce con un secco 3 a 0 per il San Pietro. Nel frattempo i ragazzi aumentavano e Mister Piccolo si circondò dei primi collaboratori, Vincenzo Fasano, Antonio Uccella e Falsone. A San Rocco, non molto distante da Scampia, una scuola calcio locale chiudeva i battenti. Per duecentomila lire 16


il presidente Piccolo acquistò palloni, casacche, magliette. La mamma di Luca Bifulco, allievo dell’Arci creò la prima bandiera, invece alla moglie di Mister Piccolo toccò rattoppare tutte le casacche. Don Mario, dagli spalti, si esaltava nel veder correre sul campetto di terra battuta decine di ragazzi, che accorrevano numerosi da ogni angolo del quartiere. La perplessità iniziale si trasformò in enfasi, voglia di fare, di collaborare, di dare una mano. Il campetto del Monterosa, al centro del rione con i suo 40 x 60 metri non raggiungeva però le dimensioni minime per lo svolgersi delle partite ufficiali dei ragazzi, cosi le prime sfide casalinghe dell’Arci Scampia si svolsero a Villaricca, una delle ultime società che aveva avuto tra i pali il portiere Antonio Piccolo. La guardia storica del calcio di Scampia non si fece attendere, gli ex giocatori dell’Ina Casa, polisportiva del quartiere, misero a disposizione dei bambini la propria maestria. Fu così che Gennaro Petriccione, il difensore Alfredo Riso, Salvatore Barrelli, il talentuoso Gaetano Miele e Carlo Sagliocco, si aggiunsero allo scacchiere degli allenatori dell’Arci Scampia. La presenza di questi mister favorì l’arrivo di numerosi ragazzi, rassicurati dagli idoli calcistici del quartiere. A dicembre la squadra Giovanissimi era ultima in classifica. Fu in uno di quegli allenamenti invernali, una di quelle sere dove il freddo ti entra nelle ossa, che Mister Piccolo sancì un patto con i ragazzi. “Non dobbiamo arrivare ultimi, l’obiettivo è non arrivare ultimi.” Forse fu l’umiltà, le motivazioni, le parole del mister, ma a giugno, al triplice fischio dell’ultima partita di campionato, la prima squadra Giovanissimi dell’Arci Scampia era quinta in classifica.

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Il trampoliere romagnolo

Genesi di uno stemma di speranza cucito sul petto.

Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. Pier Paolo Pasolini

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urono i Pulcini classe 1977 a far brillare il palmares della scuola calcio Arci Scampia. Furono loro a vincere il campionato regionale Uisp (Unione Italiana Sport per Tutti). Le mamme festeggiavano, i bambini avevano portato il quartiere sul tetto della regione Campania. Quella vittoria era soprattutto un lasciapassare per le fasi nazionali organizzate dalla Uisp. Le venti società vincitrici dei campionati regionali si sfidavano per il titolo nazionale. Bisognava però superare un ostacolo, la partita eliminatoria secca, o dentro o fuori. C’era fermento tra i giovani scampioti, si prospettava un viaggio, la possibilità di giocare in trasferta, di confrontarsi con giovani di altre regioni. Il sorteggio proclamò l’Emilia Romagna. “La scuola calcio Arci Uisp Scampia della Campania sfiderà la scuola calcio Porta Mare Frutteti di Ferrara, Emilia Romagna. La sfida si svolgerà in campo neutro ad Arezzo.” I Pulcini ’77 dello Scampia si giocavano l’accesso alle finali in terra toscana. Erano anni di grande fermento quelli, gli anni di un certo Diego Ar18


mando Maradona, del Napoli in Coppa dei Campioni, del Napoli che batte il Milan, la Juve di Platini, l’Inter, le blasonate squadre internazionali. Erano gli anni in cui gli sponsor iniziavano ad impadronirsi di uno sport, anni in cui diventare un calciatore significava diventare miliardari. Fu così che molti papà vedevano nel futuro dei propri figli la Nazionale, i gol, ma soprattutto valigette di centomila lire. E molti napoletani, scaramantici sin dentro le vene, auguravano il successo ai nascituri chiamandoli Diego. Nel clima del nascente calcio capitalista l’Arci Scampia sfidò in agguerrita partita i ragazzi di Ferrara. Fu un match indimenticabile, corretto, ricco di emozioni. In campo i ragazzi diedero il massimo. La spuntò il Porta Mare Frutteti. Nel terzo tempo i ragazzi si abbracciarono, vincitori e perdenti, lontani dal campo, dal sudore, dall’agonismo, si brindava insieme, atleti e dirigenti di due regioni così lontane. Tra il tintinnio dei calici ci si sentiva italiani. Quel giorno nacque una forte amicizia tra due società sportive che muovevano insieme, verso ambiti traguardi, i primi passi. Alcuni mesi dopo squillò il telefono del presidente Piccolo, era il 1987, gli amici romagnoli invitavano l’Arci Scampia per un torneo, “Torneo Porta Mare Frutteti”. Alla competizione partecipavano le leggendarie squadre di Serie A, Milan, Juventus, Torino, Inter, ma anche Padova, squadre come l’Atalanta, da sempre rinomata per i suoi giovanissimi talenti. Con curiosità, speranza e tanta voglia di fare, i ragazzi dell’Arci partirono nuovamente. Partirono per dieci anni consecutivi. Mai furono la cenerentola del torneo. Per dieci lunghi anni l’Arci Scampia e il Porta Mare Frutteti furono le uniche società non professionistiche a partecipare al torneo. Quell’amicizia tra Nord e Sud si rinsaldò notevolmente. Ai dirigenti dell’Arci piacque il logo, lo stemma, la bandiera del Porta Mare. In un mare d’azzurro un airone volava verso il pallone. Quel simbolo di speranza nato nella mente di chissà quale ro19


magnolo fu trasportato a Scampia. Stilizzato in modo diverso e bagnato dal bianco e rosso dell’Arci Scampia, l’airone romagnolo diventò napoletano. Stemma romantico cucito sul petto di ogni giovane allievo, racchiude un sogno, la speranza di ogni bambino di diventare un calciatore. L’uccello trampoliere è simbolo di libertà, è quella voglia irrefrenabile di correre e calciare, innata in ogni bimbo che varca le porte del campo, che percorre decine di chilometri verso chissà quale meta, chissà quale scopo. L’airone cucito sul petto è in volo, la destinazione è nel cuore di ogni atleta.

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Ancora rimbombano i tacchetti

Vita e morte di un romantico campetto di periferia.

Ci sono alcuni paesi e villaggi del Brasile che non hanno una chiesa, ma non ne esiste neanche uno senza un campo di calcio. Eduardo Galeano

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entre le gru d’acciaio tiravano su i palazzoni di Scampia, mentre i frutteti, i peschi in fiore lasciavano spazio al cemento della nuova 167 dell’area Nord di Napoli, nel rione Monterosa, l’ultimo scampolo di Napoli, cinque anziani compagni ridavano vita ad un quadrato incolto di periferia. Si strappavano le erbacce, si recintava, si dava vita al campetto del rione Monterosa. In prima fila Don Mario, amatissimo Don Mario, seguito da Carmine, Luigi, Michele e Vincenzo. Erano tempi in cui non esistevano console, giochi virtuali, erano tempi in cui ci si divertiva in strada, tempi in cui un portone arrugginito si trasformava nella porta del San Paolo. Quel campo rappresentò immediatamente un punto di riferimento per il quartiere, lo stadio dell’Ina Casa, la grande Polisportiva Ina Casa, squadra di Promozione. Tempi in cui in Promozione si giocava davvero a calcio, quando, lontani dalle pay 21


tv, la domenica vestiti per bene si tifava per gli idoli del quartiere, idoli poveri, ma veri. Don Mario e gli altri avevano espropriato il proprietario dei 45 x 90 metri necessari per il rettangolo di gioco. Un esproprio proletario. Pagavano anche una quota al padrone, anche se questi non era mai stato d’accordo. Poi arrivò la scuola calcio Arci Scampia, arrivarono i ragazzi, decine e decine, vestiti di rosso correvano sulla terra battuta, la terra battuta rivendicata da Don Mario. Con i suoi capelli bianchi Don Mario diventò il nonno di tutti, una parte dell’Arci, del quartiere, riconosciuta da molti. Il campetto del Monterosa non raggiungeva le dimensioni necessarie per lo svolgimento di gare ufficiali, così i ragazzi del quartiere si giocavano i punti di “casa” a Villaricca. Innamorati dell’ambiente, di quella grandissima famiglia chiamata Arci, che cresceva sempre di più, Don Mario, Carmine, Luigi, Vincenzo e Michele, allargarono il campo, utilizzarono tutto lo spazio a disposizione, ogni lembo di terra, cemento o materiale che fosse. Fu così che il campetto del Monterosa divenne regolamentare, raggiunse le dimensioni minime per lo svolgimento delle partite. Il campo era ingrassato per amore dei ragazzi, per volere degli anziani del quartiere, il regalo di una generazione che passava il testimone. L’Arci Scampia passò da semplice cliente a cuore pulsante del campetto. In uno sgabuzzino fatto di lamiere c’era la segreteria-magazzino della scuola calcio, una stanza con panche e tubi che lanciavano acqua diventò uno spogliatoio, e una collinetta ai lati del campo divenne la curva dell’Arci Scampia. In breve tempo i papà, i fratelli, le mamme, i parenti, i nonni, accorrevano la domenica per le sfide dei ragazzi dell’Arci Scampia. E anche chi non aveva in campo nessun calciatore speciale, passeggiando per il quartiere, si fermava ad osservare i ragazzi. Si usciva dalla parrocchia e ci si ritrovava al campetto del Monterosa per gli aironi biancorossi. C’era chi in22


collato alla rete urlava per incitare i ragazzi, chi dal balcone si godeva l’effetto stadio e chi, come gli autisti dei pullman, si riposava cinque minuti godendosi le prodezze dei bambini. In breve tempo su quel campo improvvisato arrivò la Società Sportiva Calcio Napoli, la Rappresentativa Campania e tante altre rinomate società. Don Mario volle così omaggiare i ragazzi e i genitori con nuove strutture. Nonostante i soldi non fossero tanti, vennero costruiti altri due spogliatoi per consentire lo svolgersi di due gare consecutive. Nei nuovi spogliatoi non c’erano docce. Ci si poteva solo spogliare. Poi a gara finita si passava nelle vecchie stanze che lanciavano acqua. Tutto in modo spartano, ma per i ragazzi, l’Arci e il quartiere fu importante. Sulla collinetta, con tubi innocenti e lamiere ondulate, venne innalzata una tribuna coperta, niente di che, ma quando pioveva riparava molti. Don Mario eliminò dalla vista dei ragazzi e dei passanti anche lo scasso di auto che sorgeva nei pressi del campo. Un muro ne eliminò la visuale. Il campetto del Monterosa era l’unico campo in Campania dove si giocava sempre, indipendentemente dalle condizioni atmosferiche, assorbiva tantissimo. Un campo sempre asciutto. Don Mario e gli altri seguivano i ragazzi nelle trasferte, supporter unici e indimenticati nel cuore di tanti allievi. Alla fine degli anni novanta, dopo anni di battaglie gli abitanti delle Vele di Scampia riuscirono a convincere le istituzioni che i palazzoni in cui abitavano non avevano nulla di umano. Infiltrazioni, pareti non insonorizzate, degrado, mancanza di ascensori in condomini di quattordici piani, topi, spaccio di droga. Era necessaria una soluzione definitiva, veloce e per tutte le famiglie. Si decise di abbattere le Vele, simbolo negativo del quartiere, ma bisognava trovare ad ogni costo uno spazio per costruire nuovi alloggi. Tra i lotti individuati compariva anche il romantico campo del rione Monterosa. Tra l’incudine e il martello, Don Mario, l’Arci Scampia e i ragazzi si ritrovarono tra la voglia di giocare in un campo che amavano profondamente e il sogno di una casa 23


diversa. Insieme si scelse per le nuove case. L’Arci Scampia emigrò al GP di Melito e al Mariolina Stornaiuolo di Arzano. Un giorno tra il silenzio dei palazzi, un bulldozer buttò giù le porte bianche del campetto. Appoggiati alla rete c’erano Don Mario, Carmine, Luigi, Michele e Vincenzo a cui va la stima, la gratitudine, l’affetto di tutti quei ragazzi che hanno calpestato con gioia l’incredibile terreno del campetto del Monterosa. Oggi, quei Pulcini diventati papà, abitano nei nuovi alloggi costruiti per gli abitanti delle vele. Ogni tanto, però, verso le tre del pomeriggio, mentre i nonni fanno la controra, ancora rimbombano le scarpette di mandrie di bambini, si alza il polverone d’estate e qualcuno tra i raggi vede ancora Don Mario.

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Avere parte

A Scampia la coppa dedicata a Simonetta Lamberti, vittima innocente di camorra.

Non importa quanto corri, ma dovi corri e perchè corri. Zdenek Zeman

È

il 29 maggio del 1982. Cava de’ Tirreni, Salerno. Il giudice Alfonso Lamberti, procuratore di Sala Consilina è in macchina con sua figlia Simonetta. Un auto si avvicina, a bordo tre uomini. Sparano. Il giudice Lamberti viene ferito, Simonetta come una rosa maggese perisce sciolta in un lago di sangue e piombo. Come una farfalla fulminata in primavera s’accascia tra il biondo dei suoi capelli. 11 anni. Vittima innocente di camorra. La prima di una lunga serie di bambini uccisi in faide, vendette trasversali, omicidi mirati. Sono gli anni di ‘O Professore di Vesuviana, di Raffaele Cutolo e della NCO, gli anni in cui si ammazzavano trecento persone all’anno. Come tante vite spezzate dal putrido odore dei soldi sporchi, Simonetta rischiava in breve tempo di diventare una manciata di lettere seppellita in un dimenticatoio comune. Sarà stata l’indignazione della gente, quella morale, virtù nascosta dentro arterie sconosciute, che divampa ogni santa volta che non si può non rimanere esterrefatti davanti alle barbarie dell’uomo, ma il 2 aprile del 1983 lo stadio 25


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