Oltre il muro

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CHRISTIAN ELIA

OLTRE IL MURO Storie di comunità divise


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A mia madre, che mi ha insegnato a ridere o piangere con eguale dignità

L’immagine del muro è chiara: la paura dell’altro. Si tratta certo del muro a misura di quartiere o di territorio non del muretto che cinge il giardino di casa - del muro che divide, oppone, aggredisce. Produce una potenza illusoria e ritarda la soluzione dei conflitti, lo scambio di parole, la più elementare urbanità. Il costruttore di muri è un inquinatore dell’umanità! Non immagina nemmeno che il muro, qualsiasi muro, suggerisce la libertà, richiama alla partenza, all’avventura. Thierry Paquot antropologo urbano

All in all its just another brick in the wall All in all you're just another brick in the wall Pink Floyd Another Brick In The Wall



INTRODUZIONE

Molti parlano del loro lavoro in termini di esigenza. Per un giornalista è differente, almeno lo è stato per me. Questo libro non è nato da una necessità, ma da un dovere. Il primo muro che mi sono trovato di fronte è stato quello del Sahara Occidentale. Vedere una barriera nel deserto è innaturale e la prima cosa che pensi è: tutti devono sapere. Poi è venuta la Palestina, poi Ceuta e Melilla e così via. Raccontati uno per volta, informando il lettore. Andando avanti, però, ti rendi conto che il racconto resta parziale. Non basta descrivere la storia del singolo conflitto o la genesi della singola barriera. Scrivere di ogni muro è importante, ma il lavoro sarebbe incompleto se non si raccontasse anche del sottile filo rosso nel quale sono inciampato in ogni angolo della terra che ho calpestato, andando incontro a un muro. Un filo rosso che unisce vicende differenti, che intreccia periodi storici lontani tra di loro, che si arrotola su problematiche molto disomogenee. In ogni occasione, però, finivo sempre per incappare in fattori costanti, che si ripetevano, come in una roulette truccata. Sequenze. Fatte non di numeri, ma di storie. Vite di persone che, all’improvviso, hanno trovato un muro sul loro cammino. Un disco che si incanta sempre sulla stessa nota, quel punto di non ritorno nel quale si rompe qualcosa nel naturale corso delle relazioni umane. Il momento in cui l’animale sociale diffida a tal punto del suo vicino da ritenere il muro, la barriera, la divisione l’estrema ratio. Non c’è più spazio e tempo per dialogare, litigare e dialogare ancora. Non c’è più fiducia. Meglio chiudere fuori l’altro, senza rendersi conto che allo stesso tempo finisci per chiuderti dentro anche tu. 7


A quel punto diventava relativa la ragione storica, la giustificazione religiosa, oppure quella politica di ogni singolo caso. Le storie finivano per assomigliarsi tutte. Come imprigionate in una clessidra di pietra. E anche questo bisognava raccontare. L’ho lasciato fare, molto meglio di quanto avrei mai potuto farlo io, a Mustafà Barghouti e Francesca Borri che hanno scritto la postfazione di questo libro. Per tirare le somme, per raccontare il filo rosso. Loro, che di fronte a un muro ci vivono ogni giorno. L’occasione è stata la ricorrenza del ventennale della caduta del muro di Berlino, forse il muro simbolo, la sineddoche di tutti i muri. Eppure è durato meno e ha causato la morte di meno persone di altri. Soprattutto, rispetto a tanti, troppi muri, è caduto. Ho chiesto a Nicola Sessa, amico prima che collega, di raccontare le celebrazioni nell’introduzione. Io non potevo. È scattato un senso di esclusione rispetto al tono trionfante che ha accompagnato tutto il 2009, lanciato in una veloce corsa per celebrare quel 9 novembre 1989. Ti ritrovi a pensare per quale motivo non si è partiti proprio da questa ricorrenza per rendere la distruzione di tutte le barriere il vero e unico risultato al quale anelare. La risposta più semplice è legata proprio al lavoro che ho scelto di fare nella vita, o che la vita ha scelto per me. Il muro di Berlino è diventato un simbolo per tanti motivi, uno di questi è il fatto di essere stato raccontato. Molti hanno capito cosa ha significato la caduta del muro di Berlino perché hanno saputo cosa ha voluto dire per la vita di tante, troppe persone. Capita di pensare che se domani un ponte aereo dei paesi ricchi portasse cibo ai palestinesi affamati tante persone lo guarderebbero in televisione e capirebbero come si vive chiusi dentro. Capita di pensare che se Barack Obama, dotato dello 8


stesso prorompente fascino mediatico di John Fitzgerald Kennedy, si recasse nel Sahara occidentale e, in perfetto dialetto del deserto, dicesse: “Siamo tutti Saharawi” la storia cambierebbe il suo corso. Allora è importante dire a tutti che esiste un filo rosso, che lega i berlinesi a tutte le popolazioni divise. Un filo rosso che non si spezza se il muro è fatto di mattoni o di rete metallica. Perché un filo rosso lega le vite delle persone che, all’improvviso, si sono trovate spalle al muro. Si tenta di arrotolare questo filo rosso attorno al fuso di un libro, partendo proprio da Berlino. Dove sono state raccolte quelle suggestioni necessarie a riannodare tutte le storie dei diversi muri. Secondo l’unico criterio possibile: il reportage. Egisto Corradi, storico inviato del Corriere della Sera, diceva: “Il giornalismo si fa con la suola delle scarpe”. Gli ho creduto dal primo giorno. Ho deciso quindi di raccontare tutti i muri che ho potuto calpestare, se così si può dire. Per farlo ho deciso di parlare dei muri che ho visto, delle storie che ho raccolto nel mio taccuino. Nel capitolo sette, però, ho lasciato spazio a tutti quelli che non ho ancora incontrato. Come una sorta di promemoria, ma anche come un invito al viaggio verso tutti quelli che potranno farlo. Tutti coloro, giornalisti o no, che avranno voglia di consumare la suola delle loro scarpe e di raccogliere quel filo rosso, per continuare a seguirlo mentre s’intreccia ad altre storie. Storie di persone comuni. Questa è stata una scelta precisa. Non si è voluto raccontare il livello alto, quello che in fondo riesce a superarlo un muro. Si è voluto raccontare l’umanità all’ombra dei muri, quella alla quale nessuno ha chiesto cosa ne pensava prima di chiuderla dentro. Attraverso voci che, nonostante i muri, riescono ad alzarsi in punta di piedi e a guardare oltre. 9


Questo libro non ha alcuna pretesa di esaustività o di esclusività. Il criterio di scelta, come detto, è molto personale. Per molti saranno state raccontate situazioni troppo differenti tra loro e per altri saranno state tralasciate realtà importanti. Spero che sia così, perché non vedo l’ora che qualcuno raccolga quel filo rosso e continui a corrergli dietro. In fondo basta un taccuino. E un paio di scarpe.

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PREFAZIONE ERA IL MURO di Nicola Sessa Era il Muro. La matrice da cui sono nati gli altri muri sparsi sul pianeta. In 28 anni di vita, il Muro di Berlino ha distrutto migliaia di vite, migliaia di famiglie e ha represso i sogni e le illusioni di milioni di persone. Durante e dopo. E già, perché i suoi effetti, anche adesso che non c’è più, continuano a farsi sentire a Berlino, in Germania e in Europa. Quel serpente di cemento lungo 150 chilometri che fisicamente abbracciava e stritolava la Berlino ovest, ma che ha avvelenato i tedeschi che erano fuori dal mortale accerchiamento è passato, nel corso degli anni, attraverso quattro stadi successivi, sempre più alto, sempre più perfetto e impenetrabile. Quello che cadde il 9 novembre di vent’anni era il Muro di quarta generazione: insormontabile anche solo con le idee. Nei libri di storia rimarrà scritto che sono state le parole di Ronald Reagan, la perestroika di Mikhail Gorbacev e il pragmatismo del tenace Helmut Kohl a tirare giù il Muro. Nei fatti, quelli riportati dalla cronaca, il Muro è caduto per un misunderstandig di Günter Schabowsky, per una risposta improvvisata a una domanda scontata fatta durante una conferenza stampa. Da quella sua imbarazzata risposta “la nuova regolamentazione sui viaggi è in vigore da oggi, tutti i posti di frontiera saranno aperti”, la Storia è cambiata. La cronaca registra che mancavano sette minuti alle 19. Non ci volle molto perché migliaia di tedeschi dell’est si riversassero su Bornholmerstrasse, uno dei sette punti di passaggio tra le due Berlino. Quella sera almeno ventimila tedeschi attraversarono il ponte Bösebrücke. E solo nei giorni a seguire si capì che se il Muro poteva essere attraversato, allora quel Muro non aveva più ragione d’essere. 11


Che cosa rimane oggi di quel serpentone di cemento? Strutturalmente ben poco: una sezione di un chilometro e mezzo trasformato in galleria d’arte a cielo aperto, la East Side Gallery; un reliquario rimasto intatto in Bernauerstrasse con tanto di Striscia della morte all’interno della quale qualunque cosa si fosse mossa sarebbe stata carne morta; qualche segmento in Potsdamer Platz e una lunga cicatrice di due file di pietre di porfido che corre veloce attraverso tutta la città. Non sono pochi gli intellettuali pessimisti, nichilisti, nostalgici che puzzano di naftalina a sostenere che un muro c’è e che incombe tutt’oggi sulla testa dei tedeschi. È il fantasma di quel divisorio di cemento, è il Muro di quinta generazione, immateriale e difficile da abbattere. Il ventennale della Caduta del Muro è stato celebrato in grande pompa. A chi ha seguito i festeggiamenti in tv, è difficile raccontare quello che a Berlino è realmente accaduto il 9 novembre del 2009. Difficilmente crederebbe che si trattava di una splendida passerella di politici di ieri e di oggi, di capi di Stato che vent’anni fa, il 9 novembre del 1989, erano presi da tutt’altri affari o che, come la cancelliera tedesca Angela Merkel, erano in una sauna a rilassarsi. Difficilmente crederebbero che tra i centomila(?) srotolati tra Potsdamer Platz e la Porta di Brandeburgo la lingua meno parlata fosse il tedesco. Difficile trovare traccia di quelle persone che si erano strette in abbracci e lacrime e che cantavano Wir sind das Volk, affermando la supremazia del popolo rispetto a un governo che li stringeva in una gabbia dorata. Non c’era libertà di movimento, la polizia segreta della Stasi era entrata nelle menti dei Berlinesi mettendoli l’uno contro l’altro, l’uno a sorvegliare l’altro, vicini contro vicini, amici contro amici, padri contro figli, mogli contro mariti. Ma quello che chiedevano i tedeschi dell’est, gli Ossi, che hanno 12


cominciato a riferirsi a essi stessi come tali solo dopo l’unificazione della Germania per sottolineare una differenza insita tra loro e i fratelli-cugini della Germania federale, i Wessi, era democrazia e libertà, un cambio ai vertici del Sed, il PartitoStato, e non una profonda modificazione delle loro biografie, la cancellazione della Repubblica Democratica Tedesca dalle cartine geografiche. Il tiranno Erich Honecker, quando tutto era finito e la Storia lo stava processando lanciò un profetico memento: Un numero sempre maggiore di persone dell’est si renderà conto che le condizioni di vita nella Ddr lo aveva deformato assai meno di quanto la gente dell’ovest non sia deformata dal capitalismo e che nei nidi, negli asili e nelle scuole i bambini della Ddr crescevano più spensierati, più felici, più istruiti,più liberi dei bambini delle strade e delle piazze dominate dalla violenza della Germania Federale. I malati si renderanno conto che nel sistema sanitario della Ddr, nonostante le arretratezze tecniche, erano dei pazienti e non oggetti commerciali del marketing dei medici. Gli artisti comprenderanno che la censura, vera o presunta, della Ddr non poteva recare all’arte i danni prodotti dalla censura del mercato. I cittadini constateranno che anche sommando la burocrazia della Ddr e la caccia alle merci scarse non c’era bisogno che sacrificassero tutto il tempo libero che devono sacrificare ora alla burocrazia della Germania Federale. Gli operai e i contadini si renderanno conto che la Germania Federale è lo Stato degli imprenditori e che non a caso la Ddr si chiamava Stato degli operai e dei contadini. Le donne daranno maggior valore, nella nuova situazione, alla parità e al diritto di decidere sul proprio corpo di cui godevano della Ddr. […] Molti si renderanno conto che nella vita di tutti i giorni, specialmente sul posto di lavoro, avevano assai più libertà nella Ddr di quante ne abbiano ora. 13


Tutti credevano, e per molto tempo hanno sperato, che si trattasse solo del testamento politico dell’uomo che per 17 anni aveva guidato il paese su una strada sempre più buia e sconnessa. Ma dopo vent’anni quella profezia si è avverata. I fautori del sogno europeista guardavano alla Germania come il nuovo motore dell’unità europea, altri temevano la Grande Germania, la cui economia di ferro avrebbe messo in ginocchio quella degli altri paesi. Così non è stato. Le due Germanie, che si sono riunite dopo quarant’anni di divorzio, hanno dato vita a uno Stato non così forte come ci si sarebbe aspettato. Le spese per parificare l’ex Ddr alla Germania Federale hanno profondamente inciso sulla sua capacità di crescita. Ma anche le persone comuni, quelle del popolo, si sono risvegliate da un sogno molto bello, esauritosi con l’entusiasmo dei primi anni: con la sbornia sono evaporate anche le illusioni di chi ci aveva creduto e vedeva nell’occidente la Terra Promessa. La frustrazione dei berlinesi e dei tedeschi dell’est si può riassumere nelle parole che mi hanno riferito il regista Andreas Dresen e lo scrittore Ingo Schulze, entrambi nati e cresciuti nella ex Ddr, entrambi poco meno che trentenni nel 1989, pieni di fiducia verso il mondo che spalancava le porte a oriente: I tedeschi dell’est hanno dovuto accettare le regole della Germania Federale, fare presa di coscienza che tutto ciò in cui avevano creduto, l’eguaglianza, la solidarietà e il rispetto reciproco fossero tutte cose da mandare al macero. Non è bello dirlo, ma è come se fossimo stati invasi dall’altra Germania che ci ha imposto il loro sistema senza salvare ciò che di buono noi avevamo. Non ci è voluto molto tempo, infatti, perché le politiche sociali venissero immolate sull’altare del capitalismo rompendo quel delicato equilibrio su cui si muovevano in perfetto sincrono le fabbriche, l’istruzione, la sanità e una qualità di vita che, a detta di molti, era superiore a quella di oggi. Certo, si dirà, quando su un piatto della bilan14


cia c’è la libertà, nessun altro valore messo sull’altro piatto avrà lo stesso peso. Ma molti tedeschi, dell’est, si chiedono oggi se siano veramente liberi: sognavano di viaggiare, ma le condizioni economiche e la disoccupazione non lo permettono a tutti; sognavano di dire la loro liberamente, ma chi li ascolta? Sono questi i mattoni del muro, quello di quinta generazione, che sarà durissimo da tirare giù. Solo il tempo e la inconsapevolezza dei moltissimi ragazzi nati a cavallo o dopo la caduta del Muro potrà esorcizzare il fantasma che perseguita i loro genitori e, soprattutto, i loro nonni.

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CAPITOLO 1 Cipro, l’ultimo muro d’Europa L’atterraggio all’aeroporto di Larnaca vale da solo il prezzo del biglietto. L’aereo compie una traiettoria a rientrare, descrivendo un grande ferro di cavallo, dopo una virata che permette d’inebriarsi di tutto il Mediterraneo che c’è. Sembra di planare in spiaggia. L’aerostazione è piena di persone, che portano sulle spalle una pelle bianca come il latte, colpita con violenza da un sole scintillante. Inglesi, per lo più. I taxi aspettano fuori, quasi tutte Mercedes. Si parte, direzione Nicosia, ma il tempo di uscire dal parcheggio dell’aeroporto basta per provare quella sensazione di precario equilibrio, quasi di vertigine, che dà la guida a sinistra per chi non è abituato. Un retaggio coloniale, ma non è l’unico e non è certo il più doloroso. L’auto viaggia veloce, ma non così in fretta da impedire la visuale della bandiera della Repubblica di Cipro Nord che è stata disegnata sul fianco della montagna. Al di là del muro che divide in due l’isola dal 1974. Una specie di monito, che deve essere visto da tutti. Anche dagli inglesi dalla pelle chiara. Perché questa divisione nel cuore del Mediterraneo e alla periferia della vecchia Europa riguarda anche loro. Cipro è stata, fino al 1960, una colonia britannica. Per tutta la sua storia, in realtà, l’isola è stata occupata. Una posizione strategica che ha sempre fatto gola a tutti quelli che volevano controllare la migliore base navale naturale del mediterraneo, un trampolino verso l’Asia. Nel 1878 la Corona inglese ne fece una delle stazioni di quella linea vitale per gli interessi 17


britannici che collegava Londra all’India, passando per Gi-bilterra e Malta. Poi arrivò il Canale di Suez e tutto cambiò, ma Cipro restò nelle mani dei Windsor, che dopo la Prima Guerra mondiale ne fecero una vera e propria colonia. La comunità greco-ortodossa dell’isola non ha mai tollerato l’occupazione britannica. In quel tempo, che sembra così lontano, comincia la questione di Cipro. I greci, circa l’80 percento della popolazione cipriota, non hanno mai davvero rinunciato al mito dell’enosis, l’unione con la Grecia. Un sogno che per la comunità turco-cipriota, che rappresenta circa il 20 percento della popolazione, è un incubo. Grecia e Turchia, così vicine così lontane, da sempre. La Gran Bretagna non voleva rinunciare a Cipro e le divisioni tra la popolazione le agevolavano il compito. Quest’ultimo reso ancor più semplice, dopo la Se-conda Guerra mondiale, dalle divisioni all’interno della stessa comunità greca a causa della guerra civile nella madrepatria, che si riflettevano a Cipro, mettendo gli uni contro gli altri gli isolani di origine greca. La Turchia non era da meno. Il governo di Ankara e la sua lobby militare non tolleravano l’idea che un’isola a meno di cento chilometri dalle sue coste potesse cadere nella mani della Grecia, la nemica di sempre. Gli interessi, le strategie e le paure della Gran Bretagna, della Grecia e della Turchia avviluppano l’isola da sempre, tenendola come in gabbia. È come se l’isola fosse un terreno di gioco, dove spie e soldati hanno giocato una partita, ma il biglietto l’hanno pagato solo i ciprioti. Costretti a recitare un ruolo in un conflitto per procura, sempre per gli interessi di qualcun altro. Sentendosi sempre greco ciprioti e turchi ciprioti, costretti a interpretare un’esistenza da aggettivi, mai da soggetti. Tra bombe, attentati e complotti, giunge l’indipendenza dell’isola, ma i nodi restano intricati. Le Nazioni Unite risolsero la questione con le solite acrobazie diplomatiche che sembrano lungamente studiate in modo che i problemi diventino 18


sempre più complessi: Gran Bretagna, Grecia e Turchia divennero potenze garanti dell’ordine della costituzione che tutelava i due gruppi etnici ed escludeva l’unione dell’isola con la Grecia o con la Turchia. Londra ottenne basi militari, mentre Grecia e Turchia potevano far stazionare sull’isola due contingenti di soldati. Coloro che avevano creato la situazione complessa di Cipro ne diventavano i tutori, applicando una sorta di legge del contrappasso per la popolazione cipriota. Un castello di carte che, al primo soffio di vento, si frantumò. L’arcivescovo Makarios, eccentrico leader greco-cipriota legato ai comunisti nonostante la carica religiosa, tentò nel 1963 di modificare la costituzione per forzare l’ostruzionismo dei turchi. Il risultato fu la guerra civile, che costò la vita a circa cinquecento persone. La tensione sull’isola, come sempre, s’intrecciava a interessi più grandi. Ed erano entrambi membri della Nato, elemento non trascurabile in tempi di Guerra Fredda. La soluzione di compromesso fu, infine, l’invio del United Nations Force in Cyprus (UNFICYP), missione di pace dell’ONU, che dal 1964 è dislocata sull’isola. La situazione resse per un po’, ma il golpe dei militari in Grecia fece temere alla Turchia che l’enosis fosse alle porte. Nuovi incidenti tra le comunità, nuove minacce d’invasione di Atene e Ankara. Makarios, in rotta con i militari golpisti greci, tentò una via cipriota di soluzione della crisi, ma era troppo eccentrico questo prete che governava con i comunisti e, seppur Makarios fosse sulla linea dei paesi non-allineati, Washington e Londra temevano che Cipro finisse nella sfera d’influenza sovietica. Ancora agenti segreti e militari, ancora ingerenze. Il 15 luglio 1974 Makarios venne rovesciato da un colpo di Stato: fu l’inizio della fine dell’unità di Cipro. Il 20 luglio le truppe turche approdarono nel nord dell’isola. Già due giorni dopo si giunse a un armistizio e le parti in conflitto iniziarono le trattative a Ginevra. Il 23 luglio cadde la giunta militare di Atene, il 19


colpo di stato contro Makarios fallì. Sebbene il vero motivo per l’attacco turco fosse superato, il 14 agosto Ankara ordinò la prosecuzione dell’operazione militare. Non volevano più andare via. L’esercito turco, durante la sua avanzata, espulse con brutale violenza la popolazione greco-cipriota. In migliaia morirono, più di mille e cinquecento persone scomparvero nel nulla e circa 160mila ciprioti greci divennero profughi che per decenni non avrebbero più rivisto le loro case. Parte dei ciprioti greci reagirono con cruenti tumulti nei confronti dei turchi dell’isola, molti dei quali furono costretti alla fuga nelle due basi militari britanniche. Nel 1975 uno scambio di popolazione decretò il processo di separazione etnica dei due gruppi che esiste ancora oggi. Le Nazioni Unite dichiararono una zona d’interdizione (buffer zone), di circa 4 chilometri, per tutta la lunghezza dell’isola, per interporsi tra i due schieramenti. La zona settentrionale di Cipro venne dichiarata repubblica di Cipro Nord, riconosciuta solo dai turchi. La situazione è ancora questa. L’ultima capitale divisa d’Europa, recita un cartello nei pressi del Ledra Palace, negli anni Settanta uno degli alberghi migliori della città, dove coppie di anziani inglesi venivano ad annusare il Mediterraneo, in fuga dalla brughiera. In mezzo a spie di mezzo mondo. Adesso è un rudere, tenuto in vita dallo stesso motivo che lo ha ucciso: il check-point che collega la zona turca a quella greca di Nicosia. A ricordare i tempi bui restano un casco blu della missione Onu Unficyp e il memoriale dei desaparecidos greco ciprioti. Più di 1500 persone inghiottite nella notte dell’invasione dell’Cipro da parte dell’esercito turco. Sono foto, in bianco e nero, in una vetrina che rende ancora più sfuggente gli sguardi di quei volti, fantasmi di un passato che sembra ormai lontano. Non per loro, però. Ti guardano. Uomini, donne e bambini. T’interrogano. Vogliono giustizia. Tutto intorno, chiacchiere e frastuono. Turisti che 20


passano da un versante all’altro, famiglie greche e turche che s’incrociano nel corridoio tra le due frontiere, sotto lo sguardo sperso in una siesta lontana del casco blu dell’Honduras. Il cartello, infatti, andrebbe aggiornato. Nicosia è divisa ancora politicamente, ma ormai i valichi, dal 2004, sono aperti. Resta la cicatrice di quel muro, che limita da una parte e dall’altra la terra di nessuno. Un muro che sembra fatto in fretta e furia, come se ognuno avesse preso i primi oggetti che gli capitavano a tiro. Era il 1974, una calda estate come solo quelle del Mediterraneo sanno essere. Il 20 luglio le truppe turche arrivarono sull’isola, per impedire quella che i greci chiamano enosis, il ricongiungimento tra Cipro e la Grecia. I militari di Ankara occupano la parte settentrionale del’isola. Si spara, si muore, si scompare. E si costruisce un muro, mentre l’isola viene divisa in due. Una cicatrice la divide a metà, nel centro, la terra di nessuno. Mentre la vita attorno al muro lentamente ricominciava, nella terra di nessuno il tempo resta come imprigionato in una clessidra di pietra. Le macchine abbandonate per strada, le tavole ancora imbandite e la biancheria ancora stesa ad asciugare, anche se nessuno ritirerà quei panni. L’unica cosa viva sono le mine anti uomo, che nessuno avverte quando le guerre finiscono. Restano anche gli sguardi dei desaparecidos, a chiedere ai turisti di fermarsi un attimo. Giusto il tempo di una risposta. Sevgul Uludag la noti subito. Arriva trafelata, alla guida di un fuoristrada, vestita come una rock star. Capelli a spazzola, smalto viola e scarpe da ginnastica. Un sorriso acceso come un faro. Una giornalista in gamba. Premiata da Reporters sans Frontiere e dalla International Woman Media Foundation per le sue inchieste e per il suo coraggio. Il lavoro, ostinato e meticoloso, che l’ha resa famosa è quello sui desaparecidos. “Ho cominciato a occuparmi delle persone scomparse nel 2002. A quel tempo il Comitato per le Persone Scomparse non si riuni21


va da due anni. Il comitato è misto, composto da turco-ciprioti e greco-ciprioti. E da un rappresentante della Croce Rossa Internazionale. Il tutto sotto l’egida delle Nazioni Unite. Fondato nel 1981, “non è mai servito a niente”, racconta Sevgul, giusto per rendere l’idea di come affronta le questioni, senza giri di parole. Sale in macchina in fretta, c’è poco tempo. “Oggi ci sono due funerali. Uno nella zona greca e uno in quella turca. Altre due storie possono finire, altre due famiglie avranno una tomba su cui piangere”. I funerali sono sempre tristi, ma quelli di persone scomparse da anni hanno un qualcosa di surreale. Di ingiusto. “Dal 2002 al 2004 ho lavorato a casi di scomparsi in entrambi i versanti. Ho preferito concentrarmi sull’aspetto umanitario della vicenda, lasciando da parte le implicazioni politiche. Il dolore non è turco o greco, il dolore è di tutta l’umanità”. È un fiume in piena, s’interrompe solo per ricordare che nella zona turca meglio guardare prima di scattare foto, perché molte zone sono militari ed è un reato. In qualche situazione, il passato ritorna. “Il problema delle persone scomparse è complesso. Non ci sono solo i 1550 greco-ciprioti, ma anche circa 500 turcociprioti. Prima dell’invasione turca, infatti, ci furono i pogrom degli estremisti greci a metà degli anni Sessanta - spiega Sevgul - migliaia di famiglie distrutte. Che per anni si sono sentite rispondere dalle autorità di smettere di cercare, di rassegnarsi. Loro non potevano farlo. Quando non hai una tomba su cui piangere, quando non hai una verità da raccontare, i tuoi morti diventano un tormento. Ti senti di averli traditi, di non aver potuto salvarli e neanche dargli la pace”. Una storia che Sevgu avrà raccontato mille volte, ma senza risultare retorica. Il fuoristrada sembra fare manovra da solo, la giornalista continua a parlare. Parcheggia di fronte a una moschea, che conserva interamente la vecchia struttura di una chiesa cristiana. Città vecchia di Famagosta, le antiche mura a picco sul Me22


diterraneo. Dopo l’arrivo dei turchi anche i luoghi di culto hanno conosciuto la conquista. Il piazzale è gremito di gente comune, militari e autorità. Sevgul arriva come una star, acclamata da tante persone, ma ignorata dalle autorità. “Non mi amano. Per i turchi sono una traditrice, per i greci una ficcanaso che ricorda a tutto il mondo che ci sono desaparecidos anche dalla parte turca”, racconta Sevgul, mentre stringe mille mani e porta la corona di fiori che ha scaricato dalla macchina. “Nel 2002 ho cominciato a dare voce ai parenti delle persone scomparse. Raccoglievo storie da una parte e dall’altra. Per i greci è stato uno choc sapere che c’erano anche delle famiglie turche che avevano vissuto la stessa tragedia. Per i turchi, soffocati dalla propaganda, è stato un’occasione per ascoltare le storie delle famiglie greche. Decisi di pubblicare le storie in contemporanea: una greca e una turca - continua le giornalista - e il mio lavoro cominciò a smuovere le acque. Anche Kofi Annan, all’epoca segretario generale dell’Onu, s’interessò alla vicenda. Era il 2004 e c’era aria di riunificazione, a causa del referendum. Inoltre il clima politico nella parte turco-cipriota cambiò e cominciò a filtrare un po’ di luce. La Turchia pensava all’Europa e la questione di Cipro si faceva spinosa. Sempre nel 2004, l’anno della svolta, si aprivano i check-point e le ricerche divennero più facili. Rimasi colpita da come la condivisione del dolore avvicinava queste famiglie, divise dal muro e dalla storia. A quel punto decisi di andare oltre, nonostante le minacce di morte e le pressioni dei politici che boicottavano il mio lavoro. Volevo vedere se la stessa empatia poteva toccare tutti coloro che sapevano. E che stavano zitti dal 1974. A quel punto, d’accordo con le famiglie degli scomparsi delle due parti dell’isola, venne istituita una linea telefonica. Chiunque, garantito dall’anonimato, poteva chiamare e dare indizi utili al rinvenimento delle salme. Era come se si fosse rotto un tabù e alcuni cominciarono a parlare”. 23


L’imam guida la preghiera, mentre due soldati turco-ciprioti portano una piccola bara di acciaio, avvolta in una bandiera della Turchia. Una parata di autorità rende onore alla vittima, mentre i parenti se ne stanno in disparte, piangendo in silenzio. Come per una persona che è morta il giorno prima e non quarant’anni fa. “Questo funerale è il risultato di questo lavoro. Ce ne sono stati altri e, sono sicura, altri ne verranno. Oggi trova la pace Mustafà, un ragazzo turco-cipriota scomparso nell’aprile 1964. Venne rapito con un’altra persona, era un commerciante. Aveva un supermercato e la sera che è scomparso percorreva la strada da Famagosta a Nicosia. Nessuno sapeva nulla della sua sorte. Uno dei miei lettori greco ciprioti, l’anno scorso, mi telefonò e mi disse che voleva mostrarmi un posto dove un turco cipriota venne sepolto nel 1964. L’ho incontrato e mi ha mostrato tre posti dove, con l’aiuto del comitato, si è cominciato a scavare. Tre cadaveri turchi in un posto, Mustafà in un altro posto. Oggi non vengono sepolte solo le sue ossa, oggi viene sepolto anche il dolore della sua famiglia. E diventa un funerale collettivo, perché queste storie sono le storie di tutti i ciprioti. Greci e turchi”. Il funerale è finito. Mustafà ha trovato posto in una zona speciale del cimitero, accanto ad altri scomparsi. Le autorità li chiamano martiri, i loro familiari solo per nome. Sevgul sale in macchina e si riparte, bisogna andare dall’altra parte dell’isola. C’è un altro funerale. Un ragazzo greco, questa volta. Aveva venti anni e la foto che i suoi parenti portano vicino alla bara. Una piccola bara d’acciaio. Se non ci fosse la bandiera greca, se non ci fossero le autorità greche e i militari greci, se al posto di un imam non ci fosse un pope ortodosso sembrerebbe di stare al funerale di Mustafà. E invece è quello di Ghiorghios, ucciso assieme al fratello nel 1974, mentre scappava con la sua famiglia per sfuggire ai rastrellamenti dei turchi. Anche lui viene definito martire, anche i suoi parenti abbracciano Sevgul e la ringraziano. 24


“Andrò avanti, con l’aiuto delle famiglie degli scomparsi che mi proteggono. In alcuni villaggi ci sono ancora gli assassini che hanno sotterrato i cadaveri delle persone che hanno ucciso. Farebbero di tutto per bloccare le ricerche. Ma si sento al sicuro, perché le famiglie sono con me - conclude la giornalista - e sono insieme tra di loro. Solo così questo Paese avrà un futuro, una storia condivisa. Adesso vanno avanti i colloqui per la riunificazione, ma non serviranno a nulla se prima non si riunifica la storia di Cipro. Per questo il dolore, identico per i turchi e per i greci, servirà a indicare un futuro assieme. Come è accaduto per Maria e Sevilay”. Sono Maria Georgiadou e Sevilay Berk. Greca la prima e turca la seconda. Ma non si capisce guardandole, mentre si abbracciano e si baciano come due ragazzine. “Non le fate sentire troppo importanti, sono ancora vanitose!”, scherza Ali, il marito di Sevilay. Con Yorgos, il marito di Maria, si tengono a braccetto, in disparte, osservando divertiti le consorti un po’ emozionate per via dell’intervista. Sono amici, si vede. Di quelle amicizie profonde, cementate da esperienze condivise. Negli anni Settanta Maria ha perso il padre, la madre, il fratello e la sorella. Sevilay i genitori, negli anni Sessanta. Scomparsi nel nulla. “I miei genitori, Shefika e Husein, tornavano in macchina da Famagosta a Bachalar. Io e i miei tre fratelli li aspettavamo a casa. Era l’11 maggio 1964. Non sono mai arrivati - racconta Sevilay - in quel momento, avevo 18 anni, sono diventata adulta. Tutto in una notte. Abbiamo perso tutto e siamo andati a vivere da uno zio. Senza sapere nulla di cosa fosse accaduto ai miei genitori. Ho tormentato il rappresentante turco del comitato per le persone scomparse, ma mi ha sempre detto che non si sapeva nulla. Il 23 aprile 2003, appena hanno aperto i check-point, sono andata a cercarli. Per caso ho incontrato un vecchio amico dei miei, Tasos, un greco cipriota che non vede25


vo da anni. Mi ha detto che non solo sapevano, ma che esisteva addirittura un dossier su di loro e che c’era una mappa sul luogo dove si potevano trovare i cadaveri dei miei genitori. Secondo questi documenti i loro corpi vennero sepolti in un dirupo non lontano dal loro villaggio d’origine, Sono tornata al comitato e mi hanno minacciata. Erano sepolti in una fossa comune, con cadaveri di greci. Nessuno aveva interesse a tirar fuori i fantasmi del passato. Il governo non ha mai dato il permesso per scavare, ma nel 2005 il proprietario del terreno ha chiesto l’autorizzazione per edificare. Permessi che gli sono stati accordati, senza alcun rispetto per quella fossa comune. A quel punto sono saltate fuori delle ossa, che lui ha consegnato alla polizia. Loro non hanno mai passato quelle ossa agli specialisti. Io e i miei fratelli, mentre c’erano i lavori, abbiamo scavato con le mani e abbiamo trovato delle ossa. Ricordo una calza di nylon nera, come quelle che aveva mia madre il giorno che è scomparsa. Non sapremo mai se sono sue, perché le ossa sono troppo piccole per l’esame del dna, ma ricordo che io e mia sorella ci siamo guardate e siamo scoppiate a piangere, stringendo forte una calza vecchia di quarant’anni. Solo mio marito mi da la forza di andare avanti nella battaglia legale per costringere la polizia turca a consegnarci le ossa. Intanto giro per le scuole con Maria, perché i bimbi sappiano. E perché nessuno uccida mai anche la loro giovinezza”. Maria avrà ascoltato la storia di Sevilay tante di quelle volte da averla imparata a memoria. Eppure piange. Come fosse la sua. “Vivevamo in un villaggio chiamato Kythrea, ma che ora si chiama Deghirmenlik. Non eravamo ricchi, ma felici. Da noi c’erano solo tre famiglie turche, ma eravamo in una zona a maggioranza turca. Queste però sono cose che ho imparato a notare dopo, prima si cresceva tutti assieme e non ci si badava”, racconta Maria, non prima di aver preso in giro Sevilay 26


che attacca un grande gelato, “mio padre allevava pecore con le quali produceva un ottimo halloumi, il nostro formaggio tipico. Io vivevo già con mio marito e i miei bimbi piccoli quando è scoppiato l’inferno. L’invasione turca ci ha colti separati. Mio padre era rimasto con la mia sorella più piccola al paese, mentre mamma era con me e mia sorella in città. Mio fratello era stato richiamato alle armi. Abbiamo fatto di tutto per convincere mia madre a restare con noi, ma lei non voleva saperne nulla, doveva tornare da papà e da mia sorella. Ricordo che mi ha guardato in cucina, mentre preparava del cibo. Mi ha sorriso e ha detto “sta tranquilla Maria, al paese ci conoscono tutti, nessuno ci farà del male”. Non l’ho mai più vista, sospira, interrompendosi un attimo, per ricevere una carezza del marito Yorgos. “Era il 20 luglio, il 15 agosto ho saputo che li avevano uccisi. Un amico di famiglia ci ha raccontato che avevano lasciato il loro posto su uno degli ultimi bus in fuga dal villaggio ad alcuni militari greco-ciprioti in fuga. Mi ha detto che mia madre voleva aspettare il ritorno di mio fratello. Anche di lui non si è saputo più nulla. La ricordo bene mia madre... sentiva il dolore degli altri come se fosse suo. Avrà visto il terrore negli sguardi di quei ragazzi militari, braccati, tali e quali suo figlio. Avrà pensato che rischiavano meno di loro, in fondo al paese la conoscevano tutti. Invece ci hanno raccontato che li hanno uccisi in casa, uno per uno. Mio padre, mia madre, mia sorella. Quando nel 2003 sono potuta tornare al paese sono andata in quella che era la mia casa. C’era una famiglia di curdi, fatti arrivare dalla Turchia. Hanno capito il mio dolore e mi hanno accolta con gentilezza. Secondo alcune testimonianze i cadaveri sono stati sotterrati all’ombra della vite. Mio padre l’ha curata come una figlia quella vite. La famiglia curda, negli anni ha fatto dei lavori. Mi hanno giurato di non aver trovato nulla. Gli credo, ma continuo a cercarli. Con loro ho perso 27


tutto, anche le foto dei miei bimbi da piccoli. Ho bisogno di ritrovare il mio passato. Per lasciarmelo alle spalle per sempre”. Sono passati 35 anni. Il 24 aprile 2004, sull’onda dell’adesione della parte greco-cipriota all’Unione Europea, la popolazione tutta di Cipro venne chiamata alle urne per pronunciarsi con un referendum sulla riunificazione dell’isola. I ciprioti turchi accettarono con il 65 percento dei voti il cosiddetto Piano Annan, dal nome dell’allora segretario delle Nazioni Unite. Il 76 percento della comunità greco-cipriota, però, votò no, preoccupata di dover dividere i proventi degli incentivi Ue con i turchi. La migliore possibilità presentatasi fino ad ora di superare la divisione dell’isola era stata perduta. Oggi il governo greco-cipriota e quello turco-cipriota sono impegnati, da due anni, in un round di negoziati senza posa. Sembra davvero che il clima sia cambiato, che ci sia la volontà di lasciarsi alle spalle tutti gli interessi degli altri e di cominciare a lavorare al bene di Cipro. Ma il muro uccide ancora. “Ammetto che non pensavo fosse così pericoloso, ma anche se l’avessi saputo l’avevo promesso ai miei figli. Vi porterò fuori da questo inferno nel quale hanno trasformato l’Iraq, gli avevo detto. Loro mi guardavano sicuri che tutto sarebbe andato per il meglio, si fidavano di me. Certe volte, quando guardo la cicatrice di mio figlio e rifletto su come sono ridotto penso di averli delusi”. Alì Fahad non ha la faccia buona. Fisico tarchiato, pochi capelli, sguardo da duro, baffoni neri come la notte. La moglie sorride sempre, mentre prepara il tè e riceve gli ospiti nel piccolo appartamento arredato in modo impersonale. La casa, nei pressi del lungomare di Larnaca, l’hanno ottenuta dal governo greco-cipriota, assieme allo status di rifugiati politici. Alì, sua moglie e i loro tre bimbi. Undici, otto e cinque anni. Tutti attorno al papà, che siede sul divano. Un quadretto familiare 28


perfetto, se non ci fosse quel trespolo di ferro che serve ad Alì per tenere alta la gamba destra, spappolata dal calcagno al tallone da una mina anti uomo. Un elemento innaturale, che l’abbraccio della famiglia di Alì rende meno duro ma non meno stridente. “Venivamo da anni terribili e, forse, ho avuto un calo d’attenzione. Mi sono rilassato, a un soldato non dovrebbe mai capitare”, racconta Alì. L’uomo non è un rifugiato come tanti, figlio disconosciuto di un Paese in guerra. Alì è sempre stato uno che la guerra l’ha fatta. Alla parete c’è una foto enorme: Alì in divisa che stringe la mano a Saddam Hussein. Un generale della Guardia Repubblicana, i fedelissimi del rais. “Quando gli Stati Uniti e tutti gli altri hanno invaso l’Iraq abbiamo provato a difendere la nostra terra, ma c’era troppa differenza di forze in campo. Molti dei nostri si preparavano alla guerriglia, ma io non ne volevo sapere. Il governo iracheno era stato rovesciato e da quel momento eravamo un Paese occupato e non volevo relazionarmi con tutti i tipi strani che sono arrivati in Iraq. Ho subito deciso di lasciare il Paese, ma è cominciato un incubo”. Alì e la sua famiglia scappano in Siria prima, in Giordania poi. Non lo dice, ma come gerarca del regime aveva disponibilità economiche negate a tanti innocenti in fuga dalla guerra. Contando su protezioni politiche o amicizie personali in giro per il Medio Oriente riesce a trovare ospitalità, anche in Turchia per un periodo. “Alla fine però dovevamo sempre scappare, perché la mia presenza metteva nei guai i miei amici. Mi cercavano i servizi segreti di mezzo mondo. Nel 2007, dopo quattro anni di fuga, mi hanno costretto a tornare in Iraq”, racconta Alì, mentre moglie e figli lo ascoltano in silenzio, pendendo dalle sue labbra. “La situazione era insostenibile. La casa era perduta, ma abbiamo trovato accoglienza in casa di un parente. Dopo qualche tempo la notizia della mia 29


presenza si è sparsa: troppo pericoloso restare a Baghdad”. In quanto generale della Guardia Repubblicana, nell’Iraq del dopo Saddam la vita di Alì valeva meno di niente. “Mi cercavano gli Usa, i fondamentalisti venuti dall’estero, gli sciiti e i curdi. Tutti volevano uccidermi”. In fondo Alì sa di aver fatto qualcosa, all’epoca del regime di Saddam, per meritarsi tutto questo odio. “In Iraq, dopo il 2003, ti ammazzano per niente. Per il resto, che dire, eseguivo gli ordini”. In perfetto stile da Processo di Norimberga Alì taglia corto, con uno sguardo che ha un solo significato: di questo non parlo. “Ho deciso di scappare ancora, investendo gli ultimi soldi che mi erano rimasti. Un amico, dalla Siria, ha detto che poteva ospitarmi per un po’, poi mi avrebbe messo in contatto con qualcuno che mi avrebbe portato a Cipro, nella zona turca racconta l’ex generale iracheno - da là, a sentir lui, era molto facile passare nella zona greca, quindi nell’Unione europea. Così avrei potuto ottenere lo status di rifugiato politico”. La famiglia di Alì si mette in viaggio di nuovo, all’inizio del 2008. Riesce ad arrivare in Siria, vivendo nascosti. Riesce anche a procurarsi i soldi necessari per il viaggio di cinque persone: 15mila euro. “Tutti quelli che conoscevo mi hanno aiutato”, racconta Alì, sorvolando sul denaro incassato durante il regime. “Il 4 dicembre del 2008, dopo un anno da incubo, siamo riusciti a partire per Cipro. L’organizzazione, che ho contattato a Damasco, mi ha assicurato che avrebbero pensato a tutto loro. All’arrivo nell’isola avrei trovato un altro membro della banda che avrebbe portato me e la mia famiglia fino a un punto del muro dove è facile passare. Dall’altra parte avrei trovato ancora un altro tizio che ci avrebbe portato fino a Nicosia dove avrei potuto chiedere lo status di rifugiato per tutti noi”. Non è andata così. “Durante il viaggio nessun problema e, arrivati a Cipro Nord, abbiamo trovato un furgone che ci aspettava. Eravamo venti persone, alcuni iracheni (ai quali non 30


ho mai rivelato la mia identità), palestinesi e ceceni - dice Alì - io temevo che qualcosa potesse andare storto, ma tranquillizzavo tutti, ostentando sicurezza. I miei figli mi guardavano, capisce. Sono sempre stato il loro eroe. Ma quella maledetta notte qualcosa è andato storto. Era la notte tra il 4 e il 5 dicembre. Il tizio che guidava il furgone ci ha portati in aperta campagna. Quel buio pesto non mi piaceva. Ho combattuto nella guerra con l’Iran, ho combattuto in Kuwait e contro gli Usa. So riconoscere il pericolo, ma il tizio pakistano ci continuava a dire che era tutto a posto. Mi sono fidato. Ho sbagliato”. La moglie di Alì tira a sé, stringendolo in un abbraccio, il figlio piccolo. Come a proteggerlo dai ricordi. Il bimbo ha una cicatrice sulla tempia destra. “Mia moglie teneva il grande per mano, mentre io mi tiravo dietro i più piccoli. Affondavamo nel terreno, era faticoso camminare. Faceva freddo, tanto freddo, ma non c’era ghiaccio. In quel momento mi sembrava una cosa bella, invece mi avrebbe potuto salvare la gamba. È stato all’improvviso. Ho capito subito di aver pestato una mina e di averla innescata. Ho tentato di lanciare lontano da me i bimbi, ma il più piccolo è stato colpito da una scheggia alla testa. Io ho sentito un dolore lancinante, la vista mi si è offuscata. Ricordo solo le urla di mia moglie e la faccia di mio figlio. Poi sono svenuto”. Gli altri figli toccano la cicatrice del piccolo, mostrandolo come un pupazzo e ridendo con lui, come solo i bambini sanno fare delle tragedie. La moglie di Alì, invece, si asciuga una lacrima e continua il racconto. “Ero disperata, pensavo fossero morti entrambi. Gli altri mi hanno aiutato e, quando hanno girato il corpo di mio marito, ho visto che aveva il piede ridotto a un grumo di sangue - dice la donna - mio figlio invece strillava e aveva una macchia di sangue sulla testa, ma era vivo. Ho guardato la guida che era isterico e continuava a dire che dovevamo muoverci o altrimenti sarebbero arrivate le guardie di frontiera. Gli ho detto di aiutarci, invece 31


di dire idiozie! Ma è scappato. Proprio così, ci ha abbandonati là, come animali braccati”. Al buio, in un Paese sconosciuto, con due feriti e in una zona minata. Un incubo divenuto realtà. Il gruppo è rimasto là, preparandosi al peggio. L’esplosione, però, aveva attirato davvero l’attenzione di una pattuglia greco-cipriota che è accorsa con un’ambulanza sul posto. Da quel momento Alì e il piccolo sono stati ricoverati in ospedale e curati. Hanno ottenuto la casa e lo status di rifugiati. “Solo che adesso temiamo di perdere tutto”, dice Alì. “In molti a Cipro parlano di rispedirci a casa, ma in Iraq ci ucciderebbero. Io voglio guarire, trovarmi un lavoro e rifarmi una vita qui con la mia famiglia”. Il tema dei rifugiati politici, a Cipro, è al centro di un aspro dibattito. “Il problema è che, attraverso un’accurata campagna dei media, si è riusciti a far passare un messaggio: tutti i richiedenti asilo sono bugiardi. Fingono storie cariche di dolore, ma sono in cerca di lavoro come tutti gli altri. Di un lavoro che finiscono per togliere ai ciprioti. E la gente ci crede”. Doros è un’attivista che si batte per il rispetto dei diritti umani nell’isola del Mediterraneo. Dirige il Kisa Center, una specie di network di avvocati, operatori sociali e attivisti che tenta di migliorare la situazione, legale e sociale, dei migranti a Cipro. Nel loro ufficio, una palazzina nel centro storico di Nicosia, sembra di essere a Babele: uomini, donne e bambini provenienti da tutto il mondo affollano il cortile e lo animano di chiacchiere frizzanti. “A Cipro, al di là dell’assistenza sanitaria gratuita, manca tutto per coloro che hanno ottenuto lo status di rifugiati - spiega Doros - non c’è una politica reale d’inserimento di queste persone. Alcuni di loro, in attesa di sapere se la loro domanda è stata accettata oppure no, aspettano fino a otto anni, muovendosi come fantasmi. Ricevono un piccolo sussidio mensile e fanno lavoretti saltuari, ma non riescono davvero a rifarsi una vita”. I flussi di migranti sono note32


voli, a Cipro, vista la prossimità tra la zona turca e quella greca. Un muro separa due mondi opposti. Solo che ci sono le mine. “Quello che è capitato ad Alì e alla sua famiglia, per fortuna, riguarda una minoranza di persone”, spiega il direttore del Kisa Center. “L’aspetto inquietante, però, è che questo genere d’incidenti è in aumento e soprattutto in zone che non risultano minate. Non so che pensare. Secondo alcuni i trafficanti di essere umani, che sono privi di qualsiasi scrupolo, mettono mine anche dove ce ne sono per scoraggiare quelli che vorrebbero passare senza pagare loro. Altri sostengono che sia la polizia stessa a porre le mine, per rendere il confine impermeabile ai migranti. Oppure, come capita, le mine negli anni si spostano. Ma per me, questa è l’ipotesi meno credibile. Anche se spero di sbagliarmi”.

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CAPITOLO 2 Belfast, la guerra dei murales Il tragitto da Dublino a Belfast non restituisce nessun senso di confine. Un moderno bus, una macchina noleggiata, un treno. Qualsiasi mezzo di trasporto regala un percorso che si fa stereotipo: prati verdi al punto da sembrare verniciati, borghi che sembrano nati attorno al pub, cavalli e pecore che si aggirano liberi nel paradiso sognato degli animali. Nessuna frontiera, nessuna barriera. L’unico elemento che segna un cambiamento è legato alle bandiere, come in un Risiko per ragazzi troppo cresciuti. Il tricolore irlandese, che a Dublino è parte integrante dello scenario, si sfuma nella bandiera lealista fino a giungere, quasi all’apice di una muta, a trasformarsi nell’Union Jack, la bandiera. Una cesura che si palesa senza nessuna, apparente, soluzione di continuità. Una differenza notevole rispetto a tanti altri luoghi del mondo divisi da muri e barriere, ma che non per questo rende le anime di Belfast meno contrapposte. Qui la storia pesa come un macigno. Sono state almeno tremila e cinquecento le vittime dei Troubles, i ‘disordini’, come vengono eufemisticamente chiamate le violenze che dagli anni Sessanta agli anni Novanta hanno squassato l’Irlanda del Nord fino all’Accordo del Venerdì Santo del 1998. Militari britannici e milizie paramilitari protestanti (Ulster Volunteer Force e Ulster Freedom Fighters su tutte) leali alla corona di Londra contro militanti cattolici e repubblicani dell’Irish Republican Army (Ira), che puntavano all’unione dell’Ulster l’Irlanda del Nord - all’Irlanda indipendente dagli anni Venti. Trenta lunghi anni, caratterizzati da attentati, rappresaglie, 35


rastrellamenti e stragi. Una su tutte: la bloody sunday, la domenica di sangue. Era il 30 gennaio 1972. Più facile dire quando, meno dire dove. Per gli irlandesi sarà sempre Derry, per i protestanti Londonderry. Una marcia per i diritti civili dei cattolici. Il 1° Battaglione del Reggimento paracadutisti di Sua Maestà aprì il fuoco sui dimostranti uccidendone quattordici, cinque dei quali colpiti alle spalle. Uno dei testimoni oculari è stato il giornalista italiano Fulvio Grimaldi che raccontò come i manifestanti fossero disarmati. Una strage lontana, della quale restano il dolore dei parenti delle vittime, un film di Paul Greengrass e una canzone degli U2. Anche sul nome, forse, si è trovato un accordo. Dal 1998, ciascun cittadino nato in Irlanda del Nord è libero di scegliere la propria cittadinanza e, se nati a Derry-Londonderry, di indicare la cittadina con il nome che preferiscono. Di quei tempi restano anche i muri. I primi sono nati alla fine degli anni Sessanta. Dopo quasi trenta anni, la commissione inglese incaricata di fare chiarezza sul massacro del 1972 ha accertato le responsabilità dei militari britannici. E restano anche le croci. La storica contrapposizione tra i coloni protestanti giunti dall’Inghilterra, che avevano fatto di Belfast un fiorente polo industriale, e i cattolici arrivati da ogni parte d’Irlanda in cerca di un lavoro alla fine dell’Ottocento erano al culmine. Le autorità ritennero che il modo migliore per evitare scontri tra le comunità fosse quello di costruire dei muri che tenessero separate le due comunità. Non un unico, grande muro, come in altre zone del mondo, ma un dedalo di barriere che circondano le ‘isole’ identitarie, che costellano a macchia di leopardo Belfast. Ettore Mo, in un reportage del 1998, ne contava 26. Oggi, per qualcuno, sono più di quaranta. Alcuni sono fatti di mattoni, altri di lamiera e filo spinato. Dividono ancora un milione di protestanti da mezzo milione di cattolici e alcuni hanno anche 36


il coraggio di chiamarli peace lines, come se separare fosse sinonimo di pacificare. Arrivando in città, però, la divisione non è visibile al primo impatto. Belfast è al centro, dopo l’Accordo del 1998, di una grande operazione di rilancio turistico. A cominciare dalla zona dei docks, i magazzini e i cantieri lungo il fiume Feirste (Logan per i protestanti) che dà il nome alla città nell’antica lingua gaelica degli irlandesi: Bel-Fast, foce del fiume Feirste. I vecchi capannoni, in uno dei quali venne costruito il Titanic, hanno lasciato il posto a strutture avveniristiche come il centro congressi Waterfront Hall e alle gite in battello. In centro, poi, la vita ferve attorno alla cattedrale di Sant’Anna, circondata da rumorosi pub (come il celebrato Crown Liquor Saloon) e colorati locali gay, o nei pressi dell’imponente City Hall, dove fa bella mostra di sé un’improbabile ruota panoramica. Basta allontanarsi, a piedi, dalle sfavillanti luci del centro per respirare la divisione. West Belfast, su tutte. La dicotomia storica è simboleggiata da due strade: Falls Road, simbolo dei cattolici, e Shankill Road, simbolo dei protestanti. Adesso i check-point che si aprono lungo il corso dei muri sono aperti, almeno di giorno, ma le barriere sono ancora in piedi. La nuova Belfast tenta di monetizzare anche il suo passato di sangue. Al punto che alcuni vecchi militanti dell’Ira, che hanno accettato la smilitarizzazione delle milizie nel 1998, si offrono come tassisti per un tour della memoria, lungo i percorsi simbolo degli anni dei Troubles. Sono facilmente riconoscibili per via dei tatuaggi che, per i militanti dell’una e dell’altra parte, diventavano un elemento identificativo, come il modo di pronunciare la ‘h’, il cognome o il tifo per i Celtic (cattolici) o i Rangers (protestanti) di Glasgow, il derby scozzese che identifica anche le divisioni nord irlandesi oppure la passione (o meno) per i tradizionali sport gaelici. 37


Il tour, disponibile anche a bordo di surreali bus, non può che cominciare dai murales. In tutto il mondo Belfast è legata a questo modo di raccontare il conflitto. Disegni colorati, di ottima fattura, che parlano di stragi e massacri, di storia e politica. Gli uni di fronte agli altri, quasi a urlarsi in faccia la differenza. Sono in tutti luoghi chiave. Uno strumento potente, come ha capito molto presto Danny Devenny. “All’inizio degli anni Settanta ero in carcere, a Long Kash. Mi sentivo fortunato, perché ero classificato come prigioniero politico: potevo ricevere visite, guardare la televisione, leggere libri. Non era così per gli altri, trattati come animali. Mi vergognavo rispetto ai compagni torturati e brutalizzati. Io e gli altri decidemmo che dovevamo fare qualcosa”. Fortunato lo era stato per davvero, Denny. Era stato arrestato nel 1973, per una rapina in banca a Carryduff per finanziare l’Ira, alla quale aveva aderito giovanissimo. Prima del 1976, le autorità britanniche ad alcuni riconoscevano lo status di prigioniero politico che dava dei vantaggi. Dopo il 1976 non più e si applicava l’internamento senza processo ai militanti dell’Ira e anche a tanti innocenti. “Quando ho aderito all’Ira era in corso una campagna violenta, fatta di conflitti a fuoco e bombe”, spiega Devenny. “In carcere mi sentivo impotente, volevo aiutare i miei compagni. Noi privilegiati ci dovevamo battere per migliorare, almeno, le condizioni carcerarie dei militanti. Ma non sapevo come fare. In quel periodo ho cominciato a pensare a metodi di lotta differenti, ma non meno importati. M’ispirai ai palestinesi e ai loro murales, come quelli di Naji al-Ali, il grande disegnatore che aveva creato il personaggio di Handala, il bimbo di spalle che osserva il conflitto. I primi murales li ho fatti in prigione”. Da allora Denny non si è più fermato, disegnando più di 1500 murales da Belfast fino a New York. Uscito dal carcere nel 1976, continua la sua lotta con mezzi 38


differenti. “Quando sono uscito i murales erano ormai molto diffusi; io usavo i murales per dare corpo alle immagini politiche che mi premevano. Ho cominciato con i grandi punti di riferimento internazionali della nostra lotta, dipingendo Ho Chi Min e Che Guevara, poi sono passato a raccontare gli episodi della nostra storia. In quegli anni teneva ancora banco la teoria dei primi ribelli irlandesi, come Michael Collins, secondo cui solo la lotta armata portava risultati concreti. Io e tanti altri come me ci siamo convinti che i murales non fossero meno importanti. Sono un mezzo economico e non violento di promuovere gli ideali politici che permette di raggiungere un gran numero di persone. Una volta è venuta la tv a riprendermi mentre dipingevo un murales: la sera almeno 40 milioni di cittadini britannici hanno visto quel servizio. È facile capire l’importanza di quello che io e gli altri sapevamo di fare: per un risultato del genere erano bastati un muro e un pennello”. Tutto il mondo, alla fine, ha conosciuto il conflitto nord irlandese anche attraverso i suoi murales. Devenny, poi, è diventato una specie di simbolo, apprezzato e celebrato come un artista internazionale. “Io non sono un artista e non voglio essere rappresentato come tale: io sono un attivista politico”, risponde secco Devenny. “Non amo gli artisti: quando avevamo bisogno del loro appoggio, nelle carceri e sulle barricate, non si è visto nessuno”. Una battaglia politica che si combatte ancora. “Oggi le battaglie le possiamo fare in Parlamento, attraverso i nostri delegati. Voglio che i miei figli e i miei nipoti crescano in un mondo così, senza violenza. I murales, però, non hanno perso valore. Raccontano la storia di queste strade, la sofferenza delle mia gente. E parlano ancora, promuovendo i valori positivi. Come la boxe, un’arte che ha un grande seguito tra gli irlandesi. Con i miei murales ho celebrato i mitici boxeur nati tra queste strade, per dire ai nostri ragazzi che loro erano come 39


voi e ce l’hanno fatta. Contro la divisione, la disoccupazione e la droga. Io lotto ancora, ma come diceva Bobby Sands: secondo il mio ruolo. Non importa se questo ruolo sia grande o piccolo, perché nella lotta per la libertà ciascun ruolo è importante come un altro”. A Bobby Sands è dedicato forse uno dei murales più noti di Belfast, quello che occupa una parete della sede del Sinn Fein, il braccio politico dell’Ira ormai a pieno titolo coinvolto nel gioco democratico. Sands è morto in carcere, prima di compiere trent’anni, a causa dello sciopero della fame che lui e tanti suoi compagni iniziarono nel 1981 nel carcere di Long Kash, lo stesso di Devenny. Giornalista e poeta, Sands si batteva per i detenuti politici, come Denny. Lui è morto, ma ha finito per ispirare altre forme di lotta, come quella di Denny, ed è proprio un murales che rende Bobby Sands immortale. Più della sua tomba, una tra le tante, nel cimitero di Milltown, uno di quelli di Belfast a non essere diviso da un muro. Perché anche da morti cattolici e protestanti non ne vogliono sapere di stare assieme. Anche se sono molto simili, in un certo senso. Se l’alter ego di Falls Road è Shankill Road, con i suoi murale protestanti, Mark Irvine è l’alter ego di Denny Devenny come autore di murales. “Sono nato nel 1972 e ricordo la mia infanzia come un inferno: barricate e sparatorie nelle strade, polizia ovunque”, racconta Mark. “Ti fermavano, armati fino ai denti, chiedendoti chi eri, come ti chiamavi, perché ti trovavi in quella strada. Non c’era nessuno che non avesse perso almeno un parente, non c’era una bomba che non creava nuovo dolore. Sono cresciuto in mezzo a quel odio e a quel terrore, ma i murales mi affascinavano”. Solo che Mark decide che il fascino che i murales esercitavano su di lui, poteva essere usato in modo costruttivo. “Mi sono sempre rifiutato di disegnare murales aggressivi, legati ai temi della lotta armata. Non sono costrut40


tivi: la mia gente ha la violenza addosso, dobbiamo lavorare su immagini nuove, positive, perché i miei figli crescano pensando a costruire il loro futuro, non odiando qualcuno per il mio passato. Qui ci sono mille problemi: il lavoro, la casa, la droga. E nelle zone cattoliche i problemi sono dannatamente uguali ai nostri. Su questo bisogna lavorare, magari tutti insieme”. Mark l’ha fatto. Incontrando Denny e costruendo una collaborazione proficua. “Ho conosciuto Denny perché entrambi lavoravamo a un progetto per gli adolescenti di questa città. Per il centenario di Belfast ci hanno chiesto se, simbolicamente, volevamo fare una foto assieme. È stato un attimo: ci siamo guardati e ci siamo messi in posa ridacchiando. Da allora lavoriamo assieme a tanti progetti. Il più importante è stato quello di un murales dedicato ai Beatles, a Liverpool, quando la città è stata capitale della cultura nel 2008. Un segnale forte, del quale si è parlato molto. Esattamente quello che volevamo”. Una bella amicizia, un bell’esempio. Ma quanto concreto? “Tanti sono ancora divisi, per le strade e nella testa. Però oggi posso andare in giro nel mio quartiere e convincere la gente che voglio coprire un murales dell’odio con uno nuovo. Magari lo dedico alla Belfast operaia, dove non c’erano protestanti e cattolici ma sfruttati. Ecco, questa è l’idea: guardiamo a quello che abbiamo in comune, magari alle problematiche, e usiamo la potenza dei murales per immaginare un futuro differente”. Camminando per Shankill Road, in effetti, la tristezza e il grigiore sono un pugno nello stomaco. In tanti punti è rappresentato il battaglione di volontari dell’Ulster, che nella Prima Guerra mondiale si coprirono di gloria al fronte per la loro Gran Bretagna. Solo che viene da pensare a quanto Londra sia grata a queste persone che, in armi, presidiano una lealtà, un’appartenenza che per adesso gli ha regalato solo un conflit41


to brutale e tanta povertà. L’Orange Hall, un teatro che ha più di cento anni, è polveroso e cadente. Simile in modo incredibile alla libreria pubblica di Falls Road. Quanto si somigliano questi due simboli della cultura, tenuti in ostaggio dall’odio e dalle divisioni. Dopo l’Accordo del 1998 in molti hanno sperato che le cose potessero cambiare. Pochi mesi dopo la firma, però, alcuni dissidenti dell’Ira non accettarono la fine delle ostilità. Un gruppo che faceva capo a Mark McKevitt e a Bernadette Sands, sorella di Bobby, sceglie il nome di Real Ira e decide di continuare la lotta. Il casus belli lo offre un assalto di un gruppo protestante che, a luglio del 1998, da fuoco a casa Quinn, un attivista cattolico. Tra le fiamme muoiono i tre figli dell’uomo, tre bambini. Real Ira decide di sfruttare l’onda emotiva per raccogliere accoliti e piazza un’autobomba carica di tritolo nella cittadina di Omagh, uccidendo 28 persone. Dopo quell’attacco la violenza è andata progressivamente diradandosi. Fiumi di birra, come la nera Guinness, ha continuato a scorrere nei pub. Il contesto, senza dubbio, non è neanche lontanamente paragonabile all’epoca dei Troubles o ai colpi di coda successivi all’accordo del 1998. La questione, però, è lontana dall’essere risolta, almeno nei cuori delle persone. Per rendersene conto basta scorrere le cronache del 2009. L’8 marzo, ad Antrim, a nord ovest di Belfast, i soldati inglesi di stanza in Irlanda del Nord (dopo il 1998 ne sono rimasti 5mila) decidono di ordinare qualche pizza, da consumare nella caserma Massereene, magari guardando una partita di calcio in televisione. In fondo è sabato sera anche per loro. La pizzeria invia il ragazzo delle consegne; all’ingresso della base lo aspettano in quattro. Il furgoncino rallenta e accosta. Scendono due garzoni, perché le pizze sono venti. In un attimo si materializza un camioncino, che passa a tutto gas, con il 42


portello laterale aperto. Fuoco serrato, di arma automatica. Sull’asfalto restano senza vita i soldati Mark Quinsey, 23 anni, di Birmingham, e il soldato Patrick Azimkar, 21enne di Wood Green, a nord di Londra. Altri due soldati restano feriti, come i fattorini della pizzeria. Poche ore dopo squilla il telefono della redazione di Dublino del Sunday Tribune; una voce artefatta si accredita come portavoce di Real Ira e rivendica l’attacco. Neanche il tempo per i media britannici e irlandesi di realizzare quello che era accaduto che, nel villaggio di Craigavon, contea di Armagh, l’attenzione di una pattuglia di polizia durante una ronda di routine viene attirata da movimenti sospetti nei pressi di una scuola superiore. La contea è stata calda in passato e il villaggio ha una comunità cattolica e una protestante che non si amano molto. L’edificio scolastico è nella zona di Lismor Manore, feudo cattolico. L’agente Stephen Paul Carroll, 48 anni, e il suo partner decidono di dare un’occhiata. Cadono in un’imboscata e Carroll viene freddato con un colpo di pistola alla nuca. Poche ore dopo l’omicidio viene rivendicato da Continuity Ira, l’altra ala dei dissidenti irlandesi in Ulster. Un botta e risposta immediato, nel giro di due giorni, come se un gruppo avesse sentito l’immediato bisogno di replicare al colpo dell’altro, per non abbandonare il campo da gioco. I leader politici nord irlandesi, protestanti e cattolici, si schierano con il premier britannico nel condannare le azioni isolate di militanti irriducibili. “Nessuno porterà indietro l’orologio della storia”, dichiarano con una voce sola. A maggio, però, la violenza torna per le strade di Derry/Londonderry. I Rangers Glasgow vincono il titolo e i sostenitori protestanti, ubriachi, si riversano per le strade. Una parola di troppo, uno sguardo troppo duro scatena una sorta di caccia al cattolico. Ne paga le conseguenze Kevin McDeid, impiegato comunale di 49 anni, pestato a morte. Kevin era sceso in strada, assieme alla moglie Evelyn, per recuperare i 43


propri figli che erano per strada e che i genitori volevano riportare a casa. I picchiatori, che hanno mandato anche la moglie in ospedale e hanno picchiato a sangue anche un passante che ha tentato di fermarli, avranno letto il giorno dopo sui giornali che Kevin lavorava da anni ad un progetto di dialogo tra le comunità. Avranno letto che Evelyn, pur sposata ad un cattolico, è protestante. Non ci sono solo cattolici, dunque, che continuano a odiare. Un esempio sono le marce ‘orangiste’, che si abbattono ogni anno come un flagello sull’Irlanda del Nord. Il 12 luglio, ogni anno, i protestanti commemorano la battaglia del fiume Boyne tenutasi nel 1690, che sancì la supremazia dei protestanti sui cattolici durata fino al ritorno degli irlandesi a fine Ottocento. L’Orange Order, un’organizzazioni filo massonica, commemora ogni anno l’evento, marciando nelle città nord irlandesi, anche nelle zone cattoliche. Non passa anniversario senza gravi scontri, tra le due comunità o tra i cittadini e la polizia. Il turismo risolverà anche questo problema? Nel 2006 sembrava di si, perché lo stesso ordine sembrava orientato a rendere la ricorrenza una festa folkloristica, sul modello del carnevale di Notting Hill a Londra. Non è andata così e anche quest’anno ci sono stati scontri e violenze. L’odio rimane, pericoloso e assassino, anche se nascosto sotto la cenere. Sono pochi, gli estremisti, magari non hanno più l’appoggio delle comunità, come sostengono i politici dell’una e dell’altra parte. È molto probabile che questi ultimi abbiano ragione, almeno per il momento. Real Ira e Continuity Ira, secondo l’intelligence di Londra, possono contare su una dozzina di cellule clandestine, in grado di muoversi in modo indipendente. Un totale di circa 200 militanti attivi, più una rete di circa 2mila simpatizzanti. Pochi, ma ben armati. Michael McKevitt, il leader dissidente che aveva dato vita a 44


Real Ira, nell’Ira ricopriva il ruolo di armiere. Con un accesso privilegiato agli arsenali nascosti del gruppo. Armi leggere e pesanti, in quantità, più quel che resta dell’esplosivo Simtex che il colonnello Gheddafi regalava ai militanti irlandesi negli anni Ottanta. La storia ha voltato pagina, al punto che Gheddafi oggi è un buon amico dell’Occidente. L’Irlanda ha aderito al Trattato di Lisbona, come la Gran Bretagna (sterlina a parte) e i confini sono sempre meno significativi. McKevitt finisce i suoi giorni in un carcere di massima sicurezza in Inghilterra, ma la guerra non è finita per tutti. Il problema non è tanto quello dei gruppi armati, ma l’area dei simpatizzanti. Loro la guerra l’hanno dentro. All’inizio di settembre, a Belfast, la polizia è dovuta intervenire sparando pallottole di gomma per disperdere un gruppo di circa 200 persone - cattolici e protestanti - che avevano scatenato una rissa gigante. Episodi così accadono molto, troppo spesso. L’odio non è stato cancellato con la firma dell’accordo del 1998 e in tanti chiedono ancora giustizia. Nel 1998, come corollario dell’accordo di pace, l’allora premier britannico Tony Blair istituì una commissione d’inchiesta guidata da Lord Saville, incaricata di fare chiarezza sulla bloody sunday del 1972. Sono passati più di dieci anni, ma il 24 settembre scorso un Lord Saville amareggiato ha annunciato l’ennesimo rinvio della pubblicazione delle conclusioni dell’indagine. La nuova scadenza è stata fissata per Natale, ma il comitato Bloody Sunday Trust, composto dai parenti delle vittime del ’72, è sempre più disilluso nei confronti di quella che è già passata alla storia come la commissione d’inchiesta più costosa e più duratura della storia britannica. Fare giustizia è importante, per tenere quei simpatizzanti lontani dalle armi e dall’idea di una storia che avanza senza fermarsi a dare un nome ai colpevoli. Una mano anonima, nel solco della tradizione, poche ore dopo l’attacco alla caserma 45


di Antrim, ha disegnato un nuovo murales a Falls Road: “Fuck you and your pizza. Brits out�. I muri di Belfast sono ancora in piedi e non cadranno presto, ma se devono restare possono essere colorati di nuovi murales.

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CAPITOLO 3 Israele e Palestina, diritto contro un muro La sveglia suona all’alba. Il lavoro, quando c’è, o la scuola sono molto vicini, ma adesso ci si impiega delle ore per raggiungerlo. Per lavarsi bisogna fare molta attenzione: l’acqua è poca e il pozzo è finito dall’altra parte. Bisogna camminare per chilometri prima di arrivare a un pozzo, oppure pagarla delle cifre spropositate. Una colazione veloce e via, in macchina o a piedi. Pregando che il check-point non sia chiuso Altrimenti niente scuola, niente lavoro. Nella migliore delle ipotesi ci saranno code lunghissime per passare, sperando che non ci sia qualche tragedia da dover guardare, come una donna costretta a partorire in strada perché non la fanno passare. Altre volte può capitare che i ragazzini si mettono a tirare sassi o vernice, così poi magari quelli cominciano a sparare. Altre volte ancora può capitare di assistere all’umiliazione di una donna, costretta a togliersi il velo davanti a tutti. È capitato, nel campionario delle umiliazioni quotidiane, addirittura che un musicista fosse schernito dai soldati, costretto a suonare il suo violino, sotto la minaccia delle armi. Mai dimenticare i documenti, poi, una specie di ossessione. Perché altrimenti finisce male. Di fronte a storie come queste sembra meno doloroso anche il fatto che gli ulivi coltivati da sempre siano finiti dall’altra parte, oppure siano stati sradicati. Benvenuti in Palestina. Questa è la giornata tipo di qualsiasi palestinese della Cisgiordania. Questo è il volto più terribile dell’occupazione, quello che digrigna i denti ogni giorno che nasce, sempre uguale a se stessa. Sempre uguale. C’è qua47


si da sperarlo, altrimenti domani andrà peggio, come direbbe la giornalista israeliana Amira Hass. L’occupazione è in atto dal 1967, i primi profughi sono fuggiti dalle loro case nel 1948, ma forse nulla ha ferito l’anima dei palestinesi come la costruzione del muro che circonda la Cisgiordania. Il muro della vergogna, o la barriera di separazione, come la chiamano gli israeliani, in una terra sulla quale anche il modo di chiamare le cose segna delle divisioni. Tutto ebbe inizio nel 2000. Il governo israeliano, guidato dal primo ministro laburista Ehud Barack ritenne che non esisteva più un interlocutore palestinese con il quale negoziare una pace. Punto e basta. Bisognava solo decidere come separarsi da loro per sempre, in spregio ai millenni di convivenza tra musulmani, cristiani ed ebrei in questa benedetta terra santa. Alzare un muro, ecco la soluzione, una divisione permanente: noi e loro, anche se quei confini sono così dannatamente labili. Ma Barack era già dimenticato. La sagoma del generale Ariel Sharon si stagliava all’orizzonte, l’eroe di guerra pronto a girarsi dall’altra parte in Libano nel 1982, in modo che le milizie maronite potessero massacrare impunemente migliaia di civili palestinesi inermi nei campi profughi di Sabra e Chatila. Sharon decise di lanciare un messaggio chiaro a tutto il mondo: è finito il tempo delle trattative. Il 28 settembre 2000, poco prima di essere eletto primo ministro al posto di Barack, il vecchio generale passeggia sulla Spianata delle Moschee, a Gerusalemme, terzo luogo più sacro per l’Islam nel mondo. La provocazione è la goccia che fa traboccare il vaso delle frustrazioni delle generazioni più giovani di palestinesi, quelli che hanno guardato agli Accordi di Oslo del 1994 come a un nuovo inizio. Nei sei anni successivi nessuna di quelle promesse è stata mantenuta, né dagli israeliani, né dalla casta del potere di Arafat, né dalla comunità internazionale. I giovani palestinesi non credono più a nessuno. Co-min48


cia la Seconda Intifada, la sollevazione popolare. Solo che a differenza della prima non ci sono le pietre, ma i mitragliatori pesanti. Un bagno di sangue, migliaia di vittime. E di attentatori suicidi, l’arma estrema. Tanti giovani arabi si radicalizzano, la storica laicità del popolo palestinese viene spazzata via dalla disperazione di una vita profuga e occupata, che non vale nulla. Meglio la morte, tra le file dei nemici. Siano anche donne, vecchi e bambini, una differenza che non vedono i soldati israeliani e che decidono di non vedere più neanche loro. Il muro, ecco cosa ci vuole per fermarli, dichiara Sharon al mondo. La barriera difensiva, il muro della vergogna. La prima pietra viene posata il 16 giugno 2002. Quando sarà terminato, il muro sarà lungo 730 chilometri. Per ora ne sono stati eretti 413, ma il suo percorso è mutato decine di volte, in particolare tra il 2004 e il 2005, per decisioni della stessa Corte Suprema israeliana e per le pressioni dell’opinione pubblica europea. Blocchi di cemento, alti fino a otto metri. Torrette di guardia, filo spinato e trincee che vigilano sul corretto funzionamento delle più sofisticate misure di sicurezza realizzate dall’uomo, con i più moderni sistemi a raggi infrarossi. Alla fine del 2004, per costruirlo, erano già stati sradicati almeno cento mila alberi di ulivo e di limone palestinesi, demoliti trecento chilometri quadrati di serre e 37 chilometri di condutture per l’irrigazione. Il muro, nel 2004, sorgeva su 15mila dunum (1 dunum = mille metri quadri) di terra confiscata e il progetto prevede la confisca di altri 120150 mila dunum, oltre alla demolizione di migliaia di case palestinesi che si trovano nella ‘zona di sicurezza’ e che quindi le autorità militari israeliane confiscano. Il muro aveva già isolato 36 fonti d’acqua sotterranee e più di 200 cisterne dalle comunità e altri 14 pozzi sono stati demoliti e deviati (in favore delle colonie illegali israeliane) perché situati nella zona cuscinetto. Quando sarà terminato il muro, in alcuni punti, 49


penetrerà come una lama affilata fino a 23 chilometri nel ventre della Cisgiordania, oltre la Linea Verde che segna il cessate il fuoco del 1967. Quella stabilita dalle Nazioni Unite. Già, l’Onu. Sempre più costretta nel ruolo della vecchia zia, che in famiglia tutti sopportano a stento e che nessuno ascolta, lasciandola borbottare in un angolo del salotto. Accade da anni, rispetto al conflitto israelo-palestinese. Sono decine le risoluzioni che condannano l’occupazione da parte dell’esercito israeliano dei territori che le Nazioni Unite assegnano ai palestinesi. Tutte inascoltate. Il muro non fa differenza. Il meccanismo è sempre lo stesso, come quello di una sgangherata compagnia teatrale che mette in scena da anni lo stesso copione. Nell’ottobre 2003, su iniziativa di un gruppo di paesi arabi, la questione del muro in Palestina arriva all’esame dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. L’Assemblea, il 21 ottobre 2003, adotta la risoluzione ES/10-13, che condanna la costruzione di un “Muro” nel “territorio palestinese occupato”. Questa decisione non è vincolante e venne respinta dallo Stato di Israele. L’8 dicembre 2003 l’Assemblea vota la risoluzione ES/10-14, che chiede un parere consultivo sulla costruzione del muro alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja, supremo organo legale delle Nazioni Unite. “L’edificazione del Muro che Israele, potenza occupante, è in procinto di costruire nel territorio palestinese occupato, ivi compreso l’interno e intorno a Gerusalemme Est, e il regime che gli è associato, sono contrari al diritto internazionale”, recitava la sentenza emessa dalla Corte il 9 luglio 2004. L’Assemblea Generale dell’Onu, il 20 luglio 2004, ascoltato il parere dei giudici, approva la risoluzione ES/10-15, che “esige che Israele, potenza occupante, rispetti i suoi obblighi giuridici come essi sono enunciati nel parere consultivo”. Il testo viene approvato con 150 voti a favore, compresi tutti quelli del50


l’Unione Europea. Sei i contrari, tra i quali Israele e Usa, e dieci i Paesi astenuti. Le risoluzioni dell’Assemblea, però, non sono esecutive e non sono vincolanti. Lo sono, invece, le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dove però arriva puntuale l’esercizio del potere di veto da parte degli Stati Uniti d’America a bloccare ogni testo di condanna d’Israele. Nei rari casi in cui il veto non è arrivato, Israele ha disatteso comunque le ingiunzioni delle Nazioni Unite. La Corte Suprema israeliana, giocando d’anticipo sul parere della Corte Internazionale di Giustizia, deliberò il 30 giugno 2004 la liceità della costruzione del muro di separazione, ma l’obbligo di apportare alcune modifiche del tracciato nei punti in cui questo violava i confini dei Territori Palestinesi occupati. La stessa Corte israeliana, il 15 settembre 2005, all’unanimità, giudicava illegale una parte della barriera di separazione riferendosi a quella parte edificata in territorio occupato. Il governo israeliano, però, non ha dato ascolto neanche alla sua suprema istanza del diritto, modificando solo in alcuni punti il tracciato e non eliminandone le violazioni dei territori che le Nazioni Unite assegnano alla Palestina in base alla Linea Verde del cessate il fuoco del 1967. Tutta carta straccia. Il muro è ancora là, come un enorme serpente grigio, che i riflessi del sole rendono simile a un bizzarro animale preistorico. Il tutto finalizzato a includere nella zona al riparo dal muro le decine di colonie illegali ebraiche. Il movimento dei coloni israeliani, fondamentalisti che si ritengono in missione per conto di Dio, non concepisce l’idea di uno Stato palestinese. Per loro i precetti religiosi sono chiari: il Grande Israele va dal fiume Giordano al Mediterraneo, come simboleggiano le due strisce azzurre della bandiera israeliana sopra e sotto la Stella di David. Il diritto internazionale vieta qualsiasi forma di colonizzazione illegale di un ter51


ritorio occupato, ma il piano di Sharon era quello di creare uno status quo tale da modificare i confini del 1967 all’eventuale tavolo delle trattative. Per questo si ruba la terra, gli alberi e l’acqua ai palestinesi. Il numero degli attentati suicidi palestinesi in territorio israeliano è drasticamente diminuito in questi anni. Per alcuni in quanto la strategia o le disponibilità logistiche dei miliziani palestinesi sono rispettivamente cambiate e diminuite, per altri perché il muro impedisce fisicamente gli attacchi, rendendo impossibile ai miliziani l’infiltrazione in territorio israeliano. La verità, questa sconosciuta, finisce per lasciare il tempo che trova. Nel senso che lo Stato d’Israele era libero di costruire un muro, ma lungo i confini che la comunità internazionale gli riconosce. Potevano esserci considerazioni morali, magari, ma nessuno avrebbe potuto negare che quello era il legittimo esercizio di un diritto di sovranità. Differente diventa la questione quando la costruzione del muro comporta l’esproprio di terre e risorse che il diritto internazionale assegna al futuro Stato palestinese. Elemento ancora più grave in considerazione del fatto che questa violazione avviene in difesa del movimento dei coloni. Uno Stato che si ritiene l’unica democrazia del Medio Oriente dovrebbe impedire che questi estremisti occupino le terre degli altri, non intervenire per tutelarli violando i diritti dei palestinesi. Il muro, comunque, c’è e tante comunità palestinesi pagano un prezzo altissimo. Alcuni casi sono diventati simbolici, come quello delle città di Tulkarem, Qalqiliya, e Gerusalemme Est, dove i palestinesi sono circondati dal muro, chiusi in novelle enclavi che ricordano il Sudafrica dell’apartheid. Betlemme, però, non può non avere un significato speciale. Anni fa, in occasione del Natale, una vignetta pubblicata da un giornale arabo fece il giro del mondo: i re Magi, in marcia verso la grotta della natività, erano impegnati a scavare un 52


tunnel sotto il muro per passare dall’altra parte e raggiungere Gesù. La satira, spesso, coglie in un tratto il senso di mille parole. Bilal Jado è un ragazzo palestinese di 21 anni, alto e forte. Vive in una fattoria alle porte di Betlemme, in mezzo alla campagna e agli animali, dove la sua famiglia risiede da generazioni. Il viso di Bilal s’illumina quando mostra orgoglioso le terre coperte di ulivi dove è nato, ma s’incupisce quando indica il muro. Alto, freddo, grigio. Il muro è apparso all’improvviso nella vita di Bilal e della sua famiglia. “Ovviamente, sapevamo quello che stava succedendo, ma non pensavamo che sarebbe arrivato così presto”, racconta Bilal. “Una mattina sono venuti qui alcuni uomini in abiti civili. Hanno annunciato alla mia famiglia che i lavori per la costruzione della barriera stavano per cominciare nella campagna attorno a casa nostra. Hanno offerto un indennizzo per abbandonare la terra dove tutti i miei familiari ed io stesso siamo nati. La sera mio padre ci ha riuniti tutti in cucina. Ci ha chiesto cosa ne pensassimo, ma in realtà tutti conoscevamo già la risposta. Per quanto la nostra vita potesse diventare dura - dice Bilal -nessuno di noi voleva lasciare la nostra casa. Qualche giorno dopo la visita di quelle persone, sono arrivati i bulldozer e i camion. Adesso c’è quello che potete vedere guardando fuori”. Dalla veranda della casa di Bilal, all’ombra di rampicanti che sembrano eterni, il muro si vede in tutta la sua lunghezza. “Noi cerchiamo di continuare a vivere normalmente”, spiega il ragazzo, “ma niente è più come prima”. Il muro in questa zona rientra nel tratto della barriera chiamato Jerusalem envelope, pensato per annettere a Gerusalemme gli insediamenti israeliani sorti attorno a Betlemme. La fattoria degli Jado resta all’interno della barriera e viene separata da Betlemme. E la famiglia di Bilal, nove persone in 53


tutto, resta sospesa in una sorta di limbo amministrativo. “La nostra posizione è particolare”, spiega Azem, lo zio di Bilal, mentre guarda malinconico le terre che appartenevano alla sua famiglia e che adesso sono state requisite, “viviamo in territorio israeliano, ma non abbiamo i documenti. I funzionari israeliani ce lo hanno spiegato: loro annettono le terre, non le persone che ci vivono. Quindi non siamo in possesso dell’ID Card (documento di riconoscimento che la municipalità di Gerusalemme rilascia ai residenti con il quale possono entrare in città ndr) e perciò non possiamo andare a Gerusalemme. Ma, allo stesso tempo, il muro ci separa da Betlemme e, quando i lavori saranno terminati, non potremo più andare a far la spesa in città: saremo da questa parte del muro. Non più cittadini di Betlemme, non ancora cittadini di Gerusalemme. Contiamo sulla solidarietà di amici che hanno i documenti per fare compere e soprattutto per vendere i prodotti della fattoria… per vivere insomma”. “Per il governo israeliano - continua zio Azem - è come se non esistessimo, anche se comunque dobbiamo pagare le tasse. A volte, ci viene in mente che forse il muro lo costruiscono con i nostri stessi soldi. Ma dalla nostra casa non ci muoviamo”. Quanto sia cambiata la vita della famiglia Jado lo si capisce dal piccolo Zyad, il fratellino di 8 anni di Bilal. Due anni fa, per andare a scuola, il bimbo impiegava venti minuti. Giusto il tempo di trotterellare, con uno zainetto troppo grande per lui, dietro al fratello che portava le pecore al pascolo e di raggiungere poi Betlemme. Adesso Zyad è costretto a compiere un giro tutto attorno al muro per raggiungere la scuola più vicina dove gli è consentito andare. C’impiega due ore. “Lo devo accompagnare”, racconta Bilal con un atteggiamento paterno che stride con i suoi 21 anni, “troppa strada da fare da solo. Perdo tanto tempo, ma per il suo bene lo faccio. Io ho smesso presto di studiare, ma Zyad deve continuare. Ho co54


minciato subito a occuparmi delle pecore e mi è sempre piaciuto girare per queste terre, mi sentivo libero. Potevo rilassarmi e godermi l’aria fresca, ma adesso devo stare attento perché i lavori continuano ogni giorno e la mattina troviamo un tratto nuovo di muro. Tempo fa mi potevo anche distrarre, perché tanto le pecore conoscevano perfettamente l’area attorno alla fattoria. Adesso anche loro sono smarrite, Sharon - aggiunge Bilal scoppiando a ridere - dovrebbe scusarsi anche con loro”. Sembra che in futuro, una volta finiti i lavori di costruzione, verranno predisposti dei cancelli per l’attraversamento del muro. I pass saranno rilasciati a chi dimostrerà di avere una necessità assoluta di doversi recare a Betlemme. Vivendo del lavoro della loro fattoria, la famiglia Jado difficilmente godrà di questo permesso. “Non credo che al governo israeliano interessi il fatto che ho tutti i miei amici dall’altra parte”, racconta Bilal. “Per ora, facendo dei chilometri e aggirando il muro nella zona dove non è stato terminato, riesco a raggiungere Betlemme, ma alla fine resterò lontano da tutte le persone che conosco da sempre, dai ragazzi con i quali sono cresciuto e che per me sono come fratelli”. Bilal si fa strada attraverso gli ulivi per mostrare la strada che percorre la sera dopo il lavoro per incontrare i suoi amici. Dopo una mezz’ora buona di cammino tra sassi e alberi rimasti, visto che i lavori per la costruzione del muro hanno comportato l’abbattimento di centinaia di piante, incontra un gruppo di coetanei che passano il tempo a chiacchierare vicino al muro. “Non c’è lavoro”, spiega Bilal quasi a cercare di giustificare i suoi amici, “non hanno nulla da fare e allora vengono qui, per stare assieme”. Sono in tanti e si assomigliano. Tutti ripetono le stesse accuse: “gli israeliani ci rubano la terra e abbattono i nostri alberi che rappresentano la nostra identità, ci chiudono in un ghetto”. Si sfogano tirando sassi contro la barriera, guardati a vista da uomini armati che presidiano lo svol55


gimento dei lavori. Si sfogano scrivendo sul muro minacce e slogan e, uno di loro dotato di particolare fantasia, ha disegnato le orme di un paio di piedoni enormi che scavalcano il muro. “Puoi chiudere qualcuno oltre un muro”, spiega Bilal con un sorriso amaro, “ma non puoi impedirgli di fantasticare. Io penso che, a fatica, potrei accettare di vivere in questo modo. Potrei accettare di fare i salti mortali per fare la spesa. Potrei accettare di fare dei chilometri per raggiungere un luogo che in linea d’aria dista pochi metri. Potrei accettare d’incontrare i miei amici da qualche altra parte, ma quello che proprio non riesco ad accettare è il fatto che qualcuno ha cambiato il mio orizzonte. Da quando sono nato l’unico viaggio che potevo permettermi era quello immaginario che compivo guardando libero l’orizzonte. Oggi questo muro me lo impedisce. No… questo non lo accetterò mai”. I muri, da sempre, non servono a niente. Non hanno mai fermato le idee, ne hanno rese solo più complessa la circolazione. Il Jerusalem Hotel è un’istituzione della città tre volte santa. Una birra consumata nel suo bar è una tappa obbligata, in un luogo dove è passata e passa la storia e i personaggi più interessanti. Come Nafez. “Mi dica cosa rappresenta per lei questo disegno”, chiede un agente della sicurezza israeliana a un palestinese dopo avergli porto un foglio di carta dove è disegnata una brocca, “un papero, per me è un papero”, risponde placido il palestinese. “E allora secondo lei cosa sarebbe questa?”, replica l’agente israeliano senza perdere la testa indicando uno dei due manici. “Il becco signore”, risponde il palestinese. “E questo per lei cosa rappresenta?”, dice il militare innervosendosi e indicando il secondo manico. “Il secondo becco del papero signore!”. Quella che potrebbe sembrare una storiella è solo un esempio della fantasia di un non-violento che resiste a modo suo a uno degli innumerevoli interrogatori che un 56


palestinese subisce quasi ogni giorno, con tanto di test psicologici. Nafez Assaily racconta un episodio di una vita in un Paese difficile, un Paese in guerra, ma lo fa con un sorriso disarmante. Nafez Assaily ha dedicato la sua vita alla scelta della nonviolenza ed è rigenerante trovarsi di fronte a una persona che dà voce alla ragione, in una zona in cui da troppo tempo parlano solo le armi. “La mia storia comincia nel 1986”, racconta Nafez, “quando ho fondato il Lownp (Library on Wheels for Nonviolence & Peace). Tutto è partito da una scelta non-violenta. Giravo per i villaggi arabi più sperduti, con il mio furgoncino. Alle famiglie mi avvicinavo chiedendo di poter lasciare dei libri per bambini da leggere ai loro piccoli, così senza avere nulla in cambio. Non era un regalo, ma un prestito. Dopo una settimana tornavo e chiedevo i libri indietro, lasciandone dei nuovi. Così ottenevo due risultati: da una parte i bambini leggevano e aumentavano le loro conoscenze, dall’altra parte riuscivo a entrare in confidenza con le famiglie, conoscevo i loro problemi. Loro si fidavano e si confidavano, a quel punto mi davo da fare per dare loro una mano. Non mi sono mai fermato davanti a niente, neanche quando dovevo raggiungere i posti più impervi. Arrivavo in macchina fino a dove era possibile, poi caricavo i libri su un mulo e cominciavo ad arrampicarmi su per le stradine. Adesso il muro ha reso tutto più complesso, ma io continuo. Sono testardo come il mio mulo”. Nafez racconta la sua storia con autoironia, che non diventa mai retorica. Dietro i suoi occhiali che gli conferiscono un’aria da maestro elementare, fumando una sigaretta dietro l’altra, ride di gusto delle sue trovate sul cammino della non-violenza. “Una volta i militari israeliani hanno abbattuto tutti gli alberi di ulivo di una comunità”, continua l’educatore di strada, come ama definirsi Nafez, “allora ho radunato le famiglie coinvolte e ho 57


detto loro che la risposta non era la violenza, ma la perseveranza. Bisognava ripiantare gli alberi. La prima volta tutte le piante sono state sradicate nuovamente, ma la seconda volta abbiamo agito diversamente. Per piantarle abbiamo aspettato la Festa della Terra in Israele, giorno in cui tutti piantano alberi. Ho invitato le persone a piantare alberi e nessuno poteva dirci nulla, perché c’era la festa. I soldati alla fine hanno accettato di lasciare gli alberi al loro posto in cambio dell’impegno a non piantarne di nuovi. Un buon risultato, ottenuto senza bisogno di lanciare pietre che avrebbero dato la scusa per attaccare la popolazione”. “Il conflitto di questa terra segue uno schema triangolare che andrebbe rovesciato”, spiega Nafez afferrando con le sue grandi mani un blocco di appunti e cominciando a disegnare figure geometriche, “il vertice alto è sempre l’occupazione. I due vertici bassi possono cambiare e lo hanno fatto durante questi anni. Possono esserci i movimenti armati da una parte e la popolazione civile dall’altra. Questo triangolo è velenoso, perché l’occupazione schiaccia i militanti e i civili ne pagano le conseguenze. Io propongo un triangolo differente: ai vertici bassi devono esserci la non-violenza e la popolazione civile. Questo garantisce l’appoggio dell’opinione pubblica internazionale e israeliana. Così si vince!”. L’entusiasmo di Nafez è tale che quello che dice, nella sua semplicità, in una terra contesa dove tutto sembra difficoltoso, riesce a sembrare possibile. “La situazione è durissima”, dice il palestinese facendosi serio, “la disoccupazione è terribile, io per primo avevo due biblioteche stabili, ma ho dovuto chiuderle perché non coprivo le spese. L’esercito israeliano adotta una strategia dura che mira a disgregare il nucleo familiare palestinese umiliando il padre davanti a sua moglie e ai suoi figli. Nella cultura araba è gravissimo. Inoltre il padre è spesso un uomo in difficoltà, senza lavoro e questo finisce per renderlo frustrato e magari 58


violento con la moglie e i figli. Ma non riusciranno a farlo, perché le famiglie palestinesi sono molto unite. Allora provano a diffondere la sfiducia reciproca tra i palestinesi, per dividere la comunità, portandoli a sospettare l’uno dell’altro. Questo purtroppo riesce meglio, perché il tam tam tra la nostra gente è fortissimo e questo fa circolare in fretta le voci su uno di noi. Ma io ho fiducia nel futuro. La società israeliana, così militarizzata, rischia di sgretolarsi. I divorzi per violenze domestiche sono sempre di più. Questo perché i militari, provati da un servizio così duro, tornano a casa cambiati. Tutto questo non può durare”. Nafez ha la sua ricetta per cambiare le cose. “Io punto tutto sui bambini e faccio sempre un gioco con loro”, racconta con l’eterno sorriso, “se chiudi le ultime due dita della mano, la forma ricorda quella della scritta Allah. Quindi spiego ai bimbi che non devono fare del male a nessuno, perché Dio è ovunque, anche quando non si vede. Cerco di lavorare con loro insegnando che tutti abbiamo dei diritti e dobbiamo farli valere. Vi faccio un esempio: l’altro giorno hanno dichiarato che tutte le macchine illegali a Hebron, dove vivo e lavoro, dovranno essere distrutte. Quasi tutte le famiglie ne hanno una, che serve loro per andare a lavorare. I bambini mi chiedevano perché accadeva e io ho deciso di portarli dal capo della polizia a chiedere di persona. Così si fa! Il 35 per cento della popolazione palestinese ha meno di 18 anni. È sul futuro che dobbiamo investire: faremo partire corsi di teatro per aiutarli a elaborare il dramma della violenza, corsi d’informatica per permettere loro di migliorare se stessi senza dimenticare i progetti di svago, per rilassarsi. Ma soprattutto mi servono i soldi per comprare un camioncino nuovo, il mulo non può bastare. Chiedo ai bambini di pregare ogni sera, prima di andare a letto, per 15 minuti: 10 per le sofferenze che l’occupazione infligge alla popolazione palestinese e 5 per Allah… serve 59


anche questo”, conclude con un sorriso beffardo Nafez. Per strada si vedono i lampeggianti delle camionette militari e si sente il sibilo delle sirene, ma a volte fanno meno paura. C’è anche chi ha deciso di resistere alla costruzione del muro combattendo, con mezzi differenti. Da un lato il mito vivente della street art, il graffitaro inglese Bansky, l’iconoclasta che tiene riservata la sua vera identità per parlare a nome dell’umanità intera. Dei tanti disegni con i quali il muro, dalla parte palestinese, è sbeffeggiato per la sua grigia ottusità, la bimba di Bansky che si libra leggera come la libertà, attaccata a un palloncino, è un’immagine forte come l’esplosione di una bomba. Un fragore differente da quelli che ogni settimana scuotono il villaggio di Bi’ilin, dove ogni venerdì i palestinesi e gli attivisti internazionali marciano compatti per manifestare contro la costruzione di un altro pezzo di muro. Altre case distrutte, altri alberi abbattuti, altre risorse idriche e altra terra rubata. Altri ancora combattono via internet. Tempo fa, per iniziativa di un gruppo di ragazzi olandesi, è nato il sito www.sendmessage.nl, dove tutti potevano esprime un messaggio di solidarietà che poi qualcuno avrebbe scritto sul muro. Ma non mancano, per fortuna, anche le voci critiche in Israele. Micheal Warshawski, per esempio, è un intellettuale che coltiva il dubbio come un bene prezioso, contro ogni potere. Nel suo ufficio a Gerusalemme, tra nubi di fumo di sigaretta e centinaia di tazze di caffè, questo uomo dinoccolato, con baffi e capelli bianchi, Warshawski gestisce il suo Alternative Information Centre. “La frontiera non è un luogo fisico, è un’idea”. Warschawski parla a voce bassa. Da sotto i baffi dà l’impressione di poter lanciare anche le accuse più pesanti senza scomporsi. “Può essere ermetica, sigillata o può essere un posto vivo, che respira. Uno dei compiti dei militanti, di tutti quelli che si battono per cambiare le cose deve essere quello di far respirare le frontiere”, sostiene l’autore israelia60


no, “rendere i confini permeabili alle idee, rimuovere i blocchi dati dalle contrapposizioni semplicistiche: ebrei contro musulmani, arabi contro israeliani. “In italiano avete solo un termine per indicare l’ebreo, ma i francesi ne hanno due: juif e hebreux”, dice Warschawski costretto a spiegare il gioco di parole, “ed etimologicamente hebreux significa proprio questo: guida, passatore. Non dobbiamo più essere juif, ma hebreux”. Dopo l’ennesima sigaretta, Warshawski, continua: “Non dimenticherò mai l’interrogatorio che subii da un ufficiale israeliano (poi diventato capo del Mossad). Mi disse che davamo fastidio, perchè eravamo una terra di nessuno. Lui era abituato al bianco e al nero, disse proprio così. Diventate bianchi, cioè israeliani e potrete fare tutto quello che volete, perché godrete dei diritti di una democrazia. Oppure diventate neri, cioè palestinesi e non avrete alcun diritto, ma non potete restare così, grigi. Non capiva che noi offrivamo un servizio, ci definivamo un elenco telefonico bilingue. A tutti quelli che avevano voglia di capire l’altro noi offrivamo un servizio, li mettevamo in contatto. La sua logica militare restava spiazzata, ma la sua posizione rispecchia l’idea israeliana di frontiera. Non è fisica, è mentale”. Mentre fuori scorre la vita di Gerusalemme, tra arabi ed ebrei che calpestano le stesse vecchie pietre da millenni, Warschawski sottolinea come “il concetto israeliano di frontiera è molto più vicino all’idea che ne ha la cultura americana: spazi da conquistare. Non hanno un limite fisico, basta pensare che non esiste un riferimento geografico ai confini d’Israele nei testi e che i trattati con Egitto e Giordania sono stipulati facendo riferimento ai loro di limiti, non ai nostri. La critica più pesante che Sharon ha mosso a Rabin dopo Oslo è proprio questa: aver cercato di porre confini a Israele. Per quelli come l’attuale premier Netanyahu la guerra d’indipendenza del 1948 non è mai finita”. 61


In occasione del ventennale della caduta del muro di Berlino, il 9 novembre 2009, alcune centinaia di palestinesi hanno dato vita ad una manifestazione di protesta in Cisgiordania, utilizzando un camion per abbattere una parte della barriera eretta dagli israeliani per separare i due territori. I manifestanti sono stati rapidamente dispersi dall’intervento dei soldati israeliani che hanno usato i gas lacrimogeni per fermare la protesta. Una breve in cronaca, sovrastata dai festeggiamenti per la ricorrenza berlinese che hanno occupato palinsesti radiotelevisivi e pagine dei giornali. Un gesto disperato, senza alcuna utilità pratica. Questo, però, è un pensiero razionale, di quelli che si fanno quando non si è fuori dalla stanza chiusa. Quando sei chiuso dentro, invece, faresti qualunque cosa perché gli altri si accorgano di te, della tua prigionia, come in reazione a una crisi di claustrofobia. Un urlo, rimasto inascoltato, lanciato nel soverchiante berciare festante delle celebrazioni di Berlino. Roger Waters, bassista dei Pink Floyd, nel 2006 si è recato nei pressi del muro in Cisgiordania, in occasione di un concerto in quella terra sempre meno santa e sempre più stretta. Ha scritto, con lo spray, sul muro: “Tear down the wall” (Tirare giù il muro), riferendosi alla canzone cult del suo gruppo Another brick in the wall, dell’album The Wall, del 1979. A Berlino ha portato bene, chissà che non funzioni anche in Palestina.

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INTERMEZZO Un mondo di muri Una delle barriere più antiche è quella che divide la regione del Kashmir, nel cuore dell’Asia. Aggiungere di più è pericoloso, in quanto l’aggettivo indiano o pakistano finirebbe per indicare una scelta di campo. Quando si divide, anche le parole diventano esplosive. La seconda guerra mondiale era appena finita. L’immenso subcontinente indiano fremeva d’indipendenza. Ancora un volta nella Storia è stato il colonialismo il motore di un conflitto che, decenni dopo, continua a irradiare i suoi effetti sulle popolazioni civili di una regione. L’Impero britannico, dal 1846 al 1947, pose le baionette dei suoi soldati a sostegno della dinastia induista dei Dogra, che ebbe inizio con il maharajah Gulab Singh. Nomi esotici, che rievocano atmosfere da romanzi di Salgari o di Verne, ma che più prosaicamente raccontano delle solite scelte, fatte nei saloni tattici di un ministero delle Colonie, senza alcun riguardo per la storia e il futuro di un popolo e di un’area. In Kashmir, infatti, intorno alla metà del XII secolo, era divenuto un sultanato musulmano, dopo essere stato per secoli un centro importante per l’induismo prima e il buddismo poi. Un regno islamico, dunque, fino al 1820, quando arrivarono i sikh e lo conquistarono. Secoli di fede musulmana, però, non si cancellano con un colpo di spugna e la situazione rimase tesa. Fino a quando la regione restò sotto l’egida della corona dei Windsor, tutte le differenze vennero tenute sotto controllo con la brutalità del dominio coloniale. Finita la Seconda Guerra mondiale, però, si pose il problema dell’indipendenza del subcontinente indiano. Londra non aveva più 63


quella forza che, per secoli, aveva permesso alla Gran Bretagna di gestire un Impero immenso. Le bombe naziste l’avevano lasciata ferita, indebolita. Un piccolo avvocato, Mohandas Ghandi, era diventato il mahatma, la grande anima. La sua strategia non violenta riuscì a disarmare i bastoni degli inglesi, mettendoli con le spalle al muro. I tempi erano maturi: il subcontinente si preparava all’indipendenza. Una delle preoccupazioni più grandi di Ghandi era quella di vedere i britannici riuscire nel loro piano più pericoloso: dividere musulmani e induisti, mettendoli gli uni contro gli altri, per controllarli meglio. Divide et impera, un adagio vecchio come il mondo, ma buono per qualsiasi conquistatore. Il primo ministro Atlee, succeduto a Churchill, annuncia che il potere passerà nelle mani degli indiani. Il 14 agosto 1947 l’India è indipendente. Londra, però, ha seminato molto in profondità i semi della discordia e la Lega Musulmana, partito islamista, punta a creare nel subcontinente indiano uno stato fondato sui principi dell’Islam e svincolato dall’induismo. Nasce il Pakistan, ma la tensione sale e il Kashmir si trova a essere conteso tra i due stati. Il maharajah fantoccio controllato da Londra, induista, si trova seduto sul trono di una regione a maggioranza islamica. Il maharajah decide di unirsi all’India, ma il Pakistan non accetta la sua scelta e truppe di Islamabad invadono la regione, seguiti subito da un contingente indiano. Violenze e combattimenti insanguinano il Kashmir fino al 1949, quando intervennero le Nazioni Unite per porre fine al conflitto. Al Palazzo di Vetro di New York, a volte, animati dalle migliori intenzioni, finiscono per comportarsi come i colonialisti. Righello e matita ed ecco trovata la soluzione: due terzi all’India, un terzo al Pakistan. L’Onu impose, anche, la Linea di Controllo (LOC) per vigilare sul cessate il fuoco. Il Kashmir è diviso non solo dalla politica, ma anche da una barriera fisica. Il Consiglio di Sicurezza ordina 64


al Pakistan di ritirare le truppe dalle zone che aveva occupato e all’India di indire un referendum che permetta l’ autodeterminazione della popolazione locale. Le Nazioni Unite creano anche la United Nations Military Observer Group in India and Pakistan (Unmogip), missione che deve vigilare sulla situazione. Il Pakistan non si ritira e l’India non indice la consultazione popolare. Da allora, non è cambiato praticamente nulla. L’India e il Pakistan rivendicano la sovranità sul territorio, gruppi separatisti combattono per la creazione di uno Stato indipendente. Anche la Cina ha rivendicato, nel 1959, il possesso di una porzione del territorio della regione del Ladakh, ma le truppe di Mao sono state battute. Dal 1948 al 1965 sono state emanate cinque risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e due della Commissione delle Nazioni Unite per cercare di risolvere la controversia. Sempre uguali: cessate il fuoco, smilitarizzazione della regione e referendum popolare. Nel settembre del 1965 la parola torna alle armi, ma l’Onu riesce di nuovo a imporre un cessate il fuoco e a pilotare lo scontro verso il tavolo negoziale. Il 1 gennaio 1966 il premier indiano Lal Bhadur Shastri e il presidente pakistano Ayub Khan firmano il trattato di Tashkent, con l’ccordo per una risoluzione pacifica del conflitto. Sembrava che, dopo tanto dolore, il Kashmir potesse conoscere un periodo di pace e stabilità. La tregua, però, non resse a lungo. Nel 1971 il Bangladesh, sostenuto dall’India, dichiara la sua indipendenza dal Pakistan e ancora una volta scoppia un conflitto che finisce nel 1972, quando il primo ministro indiano Indira Gandhi e il suo omologo pakistano Zulfikar Ali Bhutto firmano un accordo di pace a Shimla, con cui in sostanza reiterano gli accordi presi a Tashkent. Da allora la situazione è come congelata, mentre gruppi di guerriglieri continuano a combattere contro i militari indiani e pakistani nella zona. Si calcola che, solo dal 1989 al 2002, siano state 60mila le vittime del conflitto. In gran parte civili. 65


Negli ultimi anni il governo pakistano, messo sotto pressione dagli Stati Uniti, ha tentato di controllare le milizie islamiste. I colloqui di pace con l’India, nel 2005, segnano il punto più alto delle speranze di pace in Kashmir. Per la prima volta dal 1949 viene riattivata una linea ferroviaria che attraversa la Loc, ma il ritorno del terrorismo rende di nuovo incandescente le relazioni tra India e Pakistan, entrambe dotate di armi nucleari. Per l’India, però, non si parla di muri solo rispetto al confine con il Pakistan. Anche con il Bangladesh, dal 2006, il grande paese asiatico è diviso da una barriera metallica, sormontata da filo spinato, che corre per i quattromila chilometri del confine. Secondo il governo indiano la barriera è l’unica soluzione possibile per controllare un confine poroso, dal quale passano armi e droga, migranti e contrabbandieri. Il gigante indiano vuole proteggere la sua nuova ricchezza dal piccolo vicino dal quale, secondo fonti governative, sarebbero arrivati in India 20 milioni di immigrati clandestini bangladesi. Il Bangladesh è uno degli stati più poveri del mondo, flagellato spesso da disastri ambientali che mietono migliaia di vittime. Come detto, nel 1971, proprio l’India ha supportato l’indipendenza del piccolo paese asiatico, ma oggi New Dehli chiude la porta in faccia al povero vicino, che non serve più per destabilizzare il nemico storico Pakistan. Per i servizi segreti indiani, inoltre, il Bangladesh è una delle porte d’ingresso dei fondamentalisti musulmani che colpiscono in India. Centinaia di persone che abitavano i villaggi di confine sono state scacciate con la forza e, secondo fonti non governative, sono circa duecento le persone che ogni anno perdono la vita nel tentativo di passare il confine. A dicembre del 2008, nello spirito di quella che possiamo chiamare la ‘diplomazia dei treni’, per la prima volta dal 1965 (quando il Bangladesh era ancora annesso al Pakistan) un convoglio passeggeri ha passato il confine 66


tra India e Bangladesh. Dopo il 1971, con l’indipendenza del Bangladesh, la linea passeggeri non era stata ripristinata e, nel 2001, i rapporti tra New Dehli e Dacca erano arrivati sull’orlo del conflitto con la vittoria dei nazionalisti in Bangladesh. Ciclicamente i governi di India e Pakistan promettono di trovare una soluzione, ma l’importanza strategica (per la sua posizione) e quella politica (in due stati dove la religione è utilizzata per la gestione del potere) del Kashmir continuano ad allontanare la pace. In quanto ad anzianità, subito dopo la barriera che divide India e Pakistan, viene la linea di demarcazione tra le due Coree. Se il Kashmir è, per certi versi, un’eredità del colonialismo, la divisione della penisola coreana è un retaggio della Guerra Fredda. L’alleanza tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti cominciò a vacillare subito dopo la fine della Seconda Guerra mondiale. Lo spirito di Yalta, dove gli alleati avevano spartito il mondo mentre la barbarie nazista non era ancora sconfitta, segnava chiare sfere d’influenza per la superpotenza comunista e per quella capitalista. Solo che il controllo non faceva sentire né Mosca né Washington al riparo dalle mire espansionistiche, vere o presunte, del rivale. Altri stati, altri popoli divennero pedine di un’enorme partita a scacchi dove avevano tutto da perdere. Questo fu il caso della penisola coreana, dove le persone parlano la stessa lingua e condividono, fino al secondo conflitto mondiale, la stessa storia. Nel 1910 la penisola venne conquistata dal Giappone che la perse nel 1945. La Corea venne divisa in due zone d’influenza, sul modello di Berlino: a nord del 38° parallelo il controllo era dei sovietici, a sud degli statunitensi. La separazione venne, nel 1948, sancita dalla nascita di due stati indipendenti, l’uno guidato da un esecutivo comunista l’altro da un governo di stampo capitalista. Un sistema neocoloniale, con due stati satelliti delle super67


potenze le quali cominciavano a temersi a vicenda. Nel 1950 le tensioni della penisola coreana esplodono e le armate della Corea del Nord invadono la Corea del Sud. Le Nazioni Unite sanzionarono Pyongyang, capitale della Corea del Nord, con l’invio di un contingente militare guidato dagli Stati Uniti e del quale facevano parte diciassette paesi. Era la prima missione militare sotto l’egida dell’Onu e per la prima volta vennero utilizzati i cosiddetti ‘caschi blu’, al comando del generale statunitense Douglas MacArthur, veterano della guerra del Pacifico. La guerra costò la vita a due milioni di persone. Con il sostegno della Cina, solo cinque anni dopo la carneficina della Seconda Guerra mondiale, il pianeta si trovò di nuovo sull’orlo di un conflitto globale. Non accadde, ma la penisola coreana restò divisa come dieci milioni di famiglie di coreani. L’armistizio venne firmato nel 1953 e venne istituita la Zona Demilitarizzata Coreana (Zdc) che divide i due paesi, ancora formalmente in stato di guerra tra loro. Un angolo acuto, con la parte ovest a sud del 38º parallelo, e la parte est a nord dello stesso. È lunga 248 e larga quattro chilometri, ed è il confine più armato del mondo. Un confine che ha come cristallizzato il tempo nella zona settentrionale della Corea, mentre la zona meridionale si è caratterizzata per uno sviluppo economico brutale, che ha fatto di Seoul una delle ‘tigri asiatiche’ che hanno inciso profondamente sull’economia mondiale degli ultimi decenni. Nella Corea del Nord, tra ottusità del regime e isolamento internazionale, aggravato dalle sanzioni, si muore di fame. Le due Coree non si rivolsero la parola fino agli anni Settanta, quando grazie al mutato scenario internazionale Seoul e Pyongyang si riconobbero a vicenda. Nel 1971 i rappresentanti coreani della Croce Rossa, sia del sud che del nord, aprirono il primo convegno tutti assieme, ben ventisei anni dopo la divisione. Ambedue i governi hanno cooperato cercando di 68


favorire la riunione delle famiglie che dovettero separarsi a causa della guerra. Nel 1972 i due governi raggiunsero un accordo sui principi della riunificazione e annunciarono i risultati nel Comunicato congiunto Sud-Nord. Nel 1985, con la mediazione della Croce Rossa, cinquanta membri per parte delle famiglie separate passarono il confine per ritrovare i loro cari. Negli anni Novanta la Corea del Nord ha subito il contraccolpo della dissoluzione dell’Unione Sovietica. Nel 1990 si tennero i Colloqui tra i primi ministri di entrambe le parti che nel 1991 hanno prodotto il Fondamentale Accordo Sud-Nord. Si è riconosciuto che il Sud e il Nord erano in “uno speciale periodo di relazioni” nel procedimento verso la riunificazione. “La Dichiarazione Congiunta sulla Denuclearizzazione” è stata firmata ed è entrato in vigore nel febbraio 1992. Tale accordo tra Nord e Sud avrebbe potuto avere degli ottimi risultati, ma il tentativo della Corea del Nord di utilizzare le armi nucleari come merce di scambio diplomatica ha fatto rivivere le tensioni nella penisola. Per allentare e rompere le tensioni sulla base di una fiducia reciproca, le due Coree si sono accordate nel luglio 1994 per sostenere un summit di colloqui fra Kim Young-sam, presidente della Corea del Sud e Kim Il-sung, leader della Corea del Nord. Ma la morte improvvisa del Kim Il-sung, sostituito dal figlio, ha rallentato i colloqui. Il governo di Kim Dae-jung (1998-2002), in Corea del Sud, ha inaugurato un’altra era della riconciliazione e della cooperazione con la Corea del Nord, tanto che l’uomo politico di Seoul, nel 2000, è stato insignito del premio Nobel per la Pace. Il Presidente Kim ha visitato Pyongyang nel 2000 per sostenere, primo in assoluto, un summit con il presidente nord coreano, Kim Jong-il. La congiunta Dichiarazione storica del 69


15 giugno è stata firmata mettendo in rilievo la promozione della comprensione reciproca, attraverso lo sviluppo dei rapporti fra le due Coree e attraverso una riunificazione pacifica. I progetti di interesse reciproco sono stati discussi e si sono favorite le riunioni delle famiglie separate in incontri sia a Seoul che a Pyongyang. Alla fine di maggio 2010, però, sono tornati a suonare i tamburi di guerra. L’affondamento della corvetta della marina militare sud coreana Cheonan, il 26 marzo 2010, con la morte di 46 membri dell’equipaggio, ha riacceso le ostilità tra Seul e Pyongyang. La commissione d’inchiesta della Corea del Sud incaricata di indagare i motivi dell’affondamento hanno accusato la Corea del Nord, che ha sempre smentito. I megafoni lungo il confine sono stati riaccesi e lanciano messaggi di propaganda dall’altra parte, con un fracasso che al solito zittisce la ragione. Gli attentati negli Stati Uniti del 2001 bloccarono i colloqui, dopo che l’amministrazione Usa guidata dal presidente G.W.Bush inserì Pyongyang nell’Asse del Male. Nel 2003 erano ripartiti i colloqui per la riunificazione. L’esecutivo di Pyongyang, rispetto a quanto accaduto alla Libia, contava di barattare l’abbandono del suo programma nucleare con un reinserimento nella comunità internazionale. Un simbolo dei colloqui divenne il settore ove prese avvio la guerra: la zona di confine limitrofa alla città di Kaesong, oggi in Corea del Nord, che è diventato un complesso industriale cogestito dai due paesi. Il nord forniva la manodopera, il sud la tecnologia. Ma il progetto si è bloccato, come quello delle riunificazioni familiari e dei treni di collegamento tra i due paesi. La Corea del Nord, secondo l’intelligence di Seoul, ha compiuto dei test missilistici. Anche nucleari. È uno di quei momenti storici nei quali quei quattro chilometri di larghezza della zona smilitarizzata sembrano infiniti. Per muri e divisioni legati a dinamiche storiche, ce ne sono 70


altri che sono quanto mai attuali. È il caso della barriera tra Messico e Stati Uniti. La frontiera tra i due stati nordamericani è lunga più di tremila chilometri, da costa a costa. Per alcuni è la barriera di separazione, per altri il muro messicano, per altri ancora il muro di Tijuana, chiamato così per la cittadina del Messico simbolo del confine con gli Usa. Per i messicani sarà sempre il muro della vergogna. Nato da un’idea semplice nella sua drammaticità: il way of life degli States è minacciato dal flusso di immigrati messicani disperati che attraversano il confine in fuga dalla fame e dalla criminalità organizzata. Una sorta di porta del paradiso, non solo per i messicani, ma per tutte le popolazioni del centro America che, con qualsiasi mezzo e a qualunque prezzo, raggiungono il Messico per partecipare a quel modello di società libera e piena di opportunità che le televisioni satellitari propagandano ogni giorno. Solo che trovano quella porta chiusa. Il progetto nasce nel 1994, durante la prima amministrazione Usa guidata da Bill Clinton, e si articolava in tre fasi: il progetto Gatekeeper in California, il progetto Hold-the-Line in Texas e il progetto Safeguard in Arizona. Chilometri di lamiera metallica sagomata, alta fino a tre metri, vennero piazzati da Tijuana a San Diego. Fari potentissimi illuminano la notte e la rete è dotata di sensori elettronici e di strumentazione per la visione notturna, collegati via radio alla polizia di frontiera statunitense, oltre ad un sistema di vigilanza permanente, effettuato con veicoli ed elicotteri armati. Nel caso si creasse qualche crepa nel sistema di sorveglianza, ci pensano i volenterosi minuteman, privati cittadini armati fino ai denti che si offrono volontari per la caccia all’immigrato. Tecnicamente dovrebbero limitarsi all’avvistamento e alla segnalazione alla polizia, ma non sono pochi i casi nei quali questi zelanti patrioti si sono resi protagonisti di vere e proprie cacce all’uomo. Anzi al migrante, che per loro non è la stessa cosa. 71


Questi personaggi si muovono nelle zone dove non c’è la barriera, in quanto le lamiere sono state poste nei centri abitati dell’immensa linea di confine. Il resto è deserto, dove sempre più spesso vengono rinvenuti cadaveri di disperati uccisi dal caldo, dalla fame, dalla sete o dagli animali. Perdersi, nel deserto, è molto facile, anche perché i trafficanti di esseri umani non si fanno scrupoli ad abbandonare i migranti in mezzo al nulla. Secondo i dati ufficiali, lungo il confine tra Stati Uniti e Messico, sono morte in totale 1.954 persone dal 1998 al 2004. Sono molti di più, almeno se si contano le migliaia di croci semplici, fatte con due assi di legno, che mani pietose inchiodano alle lamiere dalla parte del Messico, per ricordare un padre, una madre, un figlio o un marito che hanno provato ad andare dall’altra parte, reclamando anche per loro una minima parte di quella grande ricchezza che si trova a soli pochi chilometri da tanta povertà. E sembrano di più contando i tanti John Doe, come le autorità statunitensi chiamano le salme non identificate, che affollano gli obitori delle cittadine di frontiera. A ottobre del 2006 il presidente Usa Gorge W. Bush ha firmato la legge H.R. 6061, già approvata da tutte e due le Camere del Congresso Usa. Il piano prevede la costruzione di un muro lungo 1123 chilometri per blindare ancora di più il confine con il Messico. Adesso la questione è nelle mani dell’amministrazione Obama, figlio di un uomo arrivato dal Kenya. Ma all’epoca i muri non c’erano. Anche l’Africa nera non è esente dalla perversa tentazione di erigere muri e barriere. Negli spazi sconfinati della savana deve fare un certo effetto trovare una rete alta da qualche decina di centimetri fino a tre metri, attraversata per tutta la sua lunghezza da elettricità ad alta tensione. Accade al confine tra Botswana e Zimbabwe. Un confine immenso, da quale passavano animali in transito alla ricerca di cibo e migranti in cerca 72


di lavoro. Nel 2003 il governo del Botswana ha deciso di dire basta. In realtà i primi tentativi di erigere un confine in uno spazio immenso è degli anni Cinquanta e Sessanta, prima e dopo l’indipendenza dalla Gran Bretagna, per proteggere i pascoli, ma solo dal 2003 i cinquecento chilometri elettrificati sono diventati una realtà stabile. Anche grazie ai finanziamenti dell’Unione Europea, che ha grossi interessi commerciali in Botswana, nonostante la barriera sia causa di gravi crimini ambientali e di disastrose conseguenze per le popolazioni della regione. Il reticolato, infatti, tocca il KavangoZambesi Transfrontier Conservation Area, uno dei più grandi bioparchi del mondo, popolato di specie a rischio di estinzione. Il governo del Botswana ha sempre detto che la causa principale della costruzione della rete è il tentativo d’impedire il diffondersi di epidemie come l’Afta Epizotica portata dagli animali provenienti dallo Zimbabwe, dove non sono garantiti controlli efficaci. Secondo molte organizzazioni non governative, però, l’epidemia più temuta dal Botswana è quella dell’Aids, virus di cui sono ammalati tanti dei migranti provenienti dallo Zimbabwe, molti dei quali finiscono bruciati vivi sulla rete elettrificata. In alcuni periodi dell’anno, in passato, il governo del Botswana è arrivato a espellere fino a 2500 migranti illegali al mese provenienti dallo Zimbabwe. Ar-rivano spinti dalla fame che attanaglia il Paese gestito come un regno medievale da Robert Mugabe, attratti dalle miniere di diamanti, dal turismo e dalle risorse dell’allevamento che fanno del Botswana uno dei paesi più ricchi dell’Africa. Una ricchezza che non vogliono dividere con nessuno. Altre situazioni sono in bilico, a cavallo di un muro. L’Arabia Saudita, ad esempio, è da tempo tentata di costruire un muro al confine con lo Yemen. La rivolta dei ribelli sciiti nello Yemen settentrionale, che secondo Riad sarebbe finanziata dall’Iran, avversario per la supremazia regionale e simbolo 73


dello sciismo contro il simbolo dei sunniti (l’Arabia appunto), mina la sicurezza della monarchia degli Saud, impegnati da sempre a reprimere le richieste della minoranza sciita al suo interno. Ma l’Arabia Saudita, nel progetto originale, pensa a una barriera che ne blindi i confini in generale. Sarebbero oltre 9mila chilometri, in mezzo al deserto.

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CAPITOLO 4 Sahara Occidentale, un muro tra le dune Tra il 6 e il 9 novembre ci sono tre giorni e quattordici anni. E un muro, anzi due. Il primo, che ha spento nel 2009 le sue macabre 34 candeline, e il secondo che nel 2009 ha festeggiato il ventennale della caduta. Mentre nel 1989 cadeva il muro di Berlino, nel 1975 venivano gettate le basi per il muro che divide il Sahara Occidentale dal suo popolo, i saharawi, i ‘figli del deserto’. Il 6 novembre 1975 il re del Marocco Hassan II ordina alla sua gente di occupare il Sahara Occidentale. Non c’è un modo differente di dirlo, anche se il giornalismo e la politica sembrano diventati delle fucine di equilibrismi lessicali. Tante persone non sanno neanche dov’è il Sahara Occidentale, vittima di una di quelle occupazioni che non trovano mai spazio nelle pagine degli esteri. Confrontando tra loro atlanti e mappe geografiche si nota una strana differenza: il Marocco in alcune pubblicazione ha una superficie come raddoppiata, che si dimezza altrove. Ecco, il Sahara occidentale è quel territorio che viene o meno assimilato al Marocco, come in un Risiko impazzito, dalla frontiera meridionale marocchina lungo la costa occidentale dell’Africa. L’avanzata a tappe forzate del 1975 di 350mila ‘volontari’ marocchini venne chiamata Marcia Verde: tutti brandivano ritratti del monarca di Rabat, copie del Corano e le insegne dell’Islam (di colore verde) e attraversarono le frontiere disegnate dalle Nazioni Unite dopo l’abbandono da parte della Spagna della sua ex colonia, chiamata all’epoca Sahara spagnolo. Il dittatore iberico Francisco Franco, che morì pochi giorni dopo la Marcia Verde, era agonizzante. Ma75


drid, in quei giorni, era concentrata sulla transizione morbida alla democrazia. Non aveva più il tempo di occuparsi di quel territorio che aveva occupato dal 1884 e nel quale, nel 1970, avevano scoperto un interessante giacimento di fosfati che non avrebbe fatto in tempo a sfruttare. Voleva farlo al posto suo il re Hassan II, che da sempre rivendicava la sovranità marocchina su quelle che i marocchini chiamano provincie del Sahara. Lo aveva giurato, racconta la leggenda, sul letto di morte di suo padre dopo l’indipendenza del Marocco conquistata dalla Francia nel 1956. Lo slancio delle Nazioni Unite verso la fine del colonialismo si era tramutato in dottrina. Il 14 dicembre 1960 l’Onu votò la risoluzione n. 1514, con la quale riconosceva il diritto all’indipendenza per le popolazioni dei paesi colonizzati e, nel 1963, il Sahara Occidentale fu incluso nell’elenco del Palazzo di Vetro dei paesi da decolonizzare e due anni dopo l’Assemblea Generale dell’Onu riaffermò il diritto all’indipendenza del popolo Saharawi, invitando la Spagna a metter fine alla sua occupazione coloniale. Hassan II - sentendo che il tempo stringeva - riunì in gran segreto i suoi più stretti collaboratori annunciando l’imminente colpo di mano. Settecento funzionari pubblici vennero formati in gran fretta per occupare le istituzioni del Sahara Occidentale e tramutare l’occupazione in un’annessione nel minor tempo possibile. Quando il re del Marocco ritenne che tutto era pronto, il 16 ottobre 1975, mentre Franco agonizzava, annunciò a tutto il mondo il suo progetto. Avrebbe ‘liberato’ il Sahara Occidentale restituendolo alla monarchia di Rabat. La retorica della liberazione per celare un’occupazione non l’ha inventata certo Hassan II, però il sovrano (la cui famiglia viene fatta risalire dalla tradizione al Profeta Mohammed) riuscì ad aggiungere allo sfondo religioso (pure questo non inedito) una vocazione anticoloniale che trasse in inganno molti osservatori dell’epoca. Liberava il Sahara Occidentale dagli spagnoli o lo occupa76


va? La risposta, purtroppo, arrivò subito. La Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja, organo delle Nazioni Unite, si pronunciò sulla questione allarmata dalle dichiarazioni di Hassan II e stabilì che pur esistendo legami storici di sottomissione delle tribù saharawi con la corona marocchina prima dell’arrivo degli spagnoli, era innegabile il diritto all’autodeterminazione della popolazione del Sahara Occidentale. Il pronunciamento dell’Onu convinse Hassan II ad accelerare l’occupazione, in modo poi da far valere lo status quo in un secondo momento. D’accordo con il governo della Mauritania, che voleva annettere un terzo del Sahara Occidentale, la zona meridionale, in un vertice segreto a Madrid con il confuso governo spagnolo, il re del Marocco ottenne la garanzia che la Spagna non si sarebbe impicciata. Ebbe inizio l’operazione Fath, ricordata poi come Marcia Verde. Centinaia di mezzi si incolonnarono verso sud, carichi di tonnellate di materiali e di viveri necessari all’operazione. Treni, aerei e navi parteciparono alla fase logistica dell’invasione e già il 23 ottobre1975 il primo convoglio di marciatori prese posizione a Tarfaya. All’alba del 6 novembre si mosse il grosso della colonna di coloni disarmati ma decisi ad arrivare a destinazione, sotto gli occhi sbalorditi e incapaci di intervenire dei militari spagnoli che si ritiravano. L’unica resistenza che l’occupazione incontrò fu quella del Fronte Polisario (Frente Popular de Liberación de Saguía el Hamra y Río de Oro - dal nome storico dei territori saharawi), organizzazione politico-militare nata nel 1973 con lo scopo di ottenere l’indipendenza del Sahara Occidentale. Sono gli eredi di quel Movimento di Liberazione del Sahara, fondato a metà degli anni Sessanta, che per primo aveva applicato i criteri della guerriglia in un territorio desertico, ma che era stato represso nel sangue dalle milizie di Franco. La lotta di resistenza del Fronte Polisario non regge l’urto delle armate marocchine che seguono l’avanzata dei coloni civili. 77


Sono almeno 160mila i saharawi costretti alla fuga verso il confine con l’Algeria, sotto il tiro dell’aviazione del Marocco che non fa economia nell’utilizzo del napalm. I profughi trovano rifugio nei pressi della città di Tindouf, in Algeria, in cinque campi profughi. Sono ancora là, dal 1975. Il Fronte Polisario non cessa la lotta e, il 26 febbraio del 1976, proclama la Repubblica Araba Saharawi Democratica (Rasd), con l’aiuto dell’Algeria e di altri 76 stati che la riconoscono come legittima autorità del Sahara Occidentale. Anche le Nazioni Unite riconoscono l’autorità alla Rasd di rappresentare il popolo saharawi. Anche la Mauritania che, nel 1979, travolta da un golpe militare, si ritira e lascia nelle mani del Fronte Polisario i territori che aveva occupato anni prima. Il re del Marocco è furioso e ordina l’invasione anche dei territori che aveva lui stesso riconosciuto alla Mauritania. Il Fronte resiste e, il 6 settembre 1991, su pressioni delle Nazioni Unite, entra in vigore un cessate il fuoco che tutto sommato resiste ancora oggi. L’Onu istituisce la Missione delle Nazioni Unite per l’organizzazione di un referendum nel Sahara Occidentale (Minurso) e nomina un Inviato speciale del Segretario Generale per la questione del Sahara Occidentale. Compito dell’Inviato e della Minurso sarà il monitoraggio del cessate il fuoco e l’organizzazione del referendum, base dell’accordo tra le parti, che applicando il principio dell’autodeterminazione dei popoli permetterà alla popolazione del Sahara Occidentale di decidere il proprio destino. L’ineffabile Hassan II reagisce subito: le ricchezze del territorio occupato sono i giacimenti di fosfati e i fondali marini noti per essere tra i più pescosi del mondo. Oltre la linea del fronte al momento del cessate il fuoco non c’è che l’hammada, un tipo di deserto con aree consistenti in terreni aridi, brulli, altopiani rocciosi e con presenza di pietrisco dalle forme aguzze. Più degli altri tipi di deserto ha delle escursioni termiche più elevate, con temperature altissime di giorno e gelide di notte. La vegetazio78


ne, salvo la presenza di acqua superficiale, è fatta di sterpaglie. Quello i saharawi possono tenerselo, per Rabat. Il governo marocchino consolida il sistema di otto muri costruiti nel deserto, a partire dal 1984, per segnare il confine del Sahara occupato. Per tutti coloro che sono figli delle moderne società urbanizzate il concetto di orizzonte resta un’idea vaga, almeno prima di vedere per una volta nella vita il deserto del Sahara. Difficile descrivere la vertigine che può suscitare il senso dell’immensità, quando ti abbraccia come una madre premurosa. Nel Sahara Occidentale, invece, all’improvviso sulla linea dell’orizzonte si leva questa mostruosità contro qualsiasi legge di natura. Una barriera per lo sguardo, per la mente, per l’anima. Tutto quello che resta al di qua del muro, per i saharawi, è il Sahara liberato, ma è una magra consolazione, in quanto è pressoché inabitabile. Otto sistemi di muri, di sabbia e pietra, sorvegliati da centinaia di migliaia di militari marocchini che hanno posato un numero tale di mine anti-uomo da fare della zona una delle più minate al mondo: secondo alcune ONG sono almeno sette milioni le mine piazzate a difesa del muro. L’ultima tragedia è avvenuta il 10 aprile 2009, in occasione della Marcia mondiale per la condanna del Muro della Vergogna, organizzata dall’associazione delle donne saharawi. I dimostranti, che attraversano la distanza tra i campi profughi di Tindouf e il muro a bordo di fuoristrada, devono fermarsi ad almeno 500 metri dai sistemi di fortificazione marocchini. I membri del Fronte Polisario possono garantire che quella zona è stata sminata. Questa volta, però, qualcosa è andato storto e alcuni giovani saharawi hanno proseguito nella marcia. Due di loro, Brahim Husein Labeid e Salem Mohamed Larusi, insieme ad altri si sono avvicinati troppo per lanciare sassi verso i soldati marocchini ma hanno calpestato uno degli ordigni. Brahim, sedici anni e residente nel campo di rifugiati di Dajla, ha perso una gamba. 79


Queste manifestazioni si tengono ogni anno e sono l’occasione per i saharawi di rinsaldare il loro rapporto con quella solidarietà internazionale che è ormai rimasta l’unica fonte di sopravvivenza. Arrivare a Tinduof è disarmante: una città senza anima, una base militare a circa duemila chilometri a sudovest di Algeri. Da sempre torre di guardia della tensione storica tra il Marocco e l’Algeria si presenta come un grande alloggiamento per i militari di servizio e le loro famiglie. Nessun segno, anche minimo, dell’umanità algerina. I saharawi sono tenuti nel deserto, nei loro campi profughi. Utili per anni al governo di Algeri nella sua polemica infinita con quello di Rabat, ma mai integrati davvero. Italiani, spagnoli, qualche attivista dell’Europa del Nord. Si vola tutti assieme e, giunti in aeroporto, via subito vero i campi. L’arrivo, di notte, è atteso da una moltitudine di persone, radunate presso il Comune del campo di Auserd. Un edifico basso, di colore rosso, riscaldato da mille sorrisi di benvenuto. Ogni famiglia, nella sua tenda, ospita i volontari che può. Loro lasciano ai dimostranti le loro case, fatte di fango. Dormiranno all’aperto. Il giorno dopo la sveglia suona alle sei e mezzo. Nessuno vuole perdersi il giorno più atteso, quello della grande manifestazione. È ancora notte, ma dagli altoparlanti dell’amministrazione di Auserd, dietro una porticina azzurra, prorompe la voce di Khandoud, un leader vero, di quelli che non hanno bisogno di divise o incarichi ufficiali per avere il rispetto di tutti. Con un sorriso, dietro i suoi baffoni e gli occhiali da sole, mente da istrione consumato. “Fra cinque minuti si parte, yalla yalla!”. Urla sorridendo, mentre un’alba rosa scaccia le stelle luminose come fari che puntellano la notte dell’hammada. Tutte le famiglie del campo si affannano perché i loro ospiti devono partire. The e caffè, burro e marmellata di mele con biscotti vengono serviti su un tavolino 80


basso rettangolare. Molti di loro non verranno: le jeep sono poche ed è più importante che vedano coloro che possono tornare nei paesi di provenienza e raccontare. Ahmed, il piccolo di casa, è triste. Voleva venire anche lui, ma non si può. Ha tredici anni e sogna di fare il medico. Molti, prima di lui, l’hanno potuto fare grazie all’Algeria che pagava il viaggio a Cuba o in Unione Sovietica per studiare. Ma quello è un altro mondo, del quale è rimasto solo il muro. Aggrediamo il deserto. È impressionante guardare questi uomini silenziosi, guidare a velocità folle su un terreno che definire accidentato è poco. Volti scolpiti dal sole e dalla sabbia, che qui diventa come l’aria: è ovunque. Ogni ruga sotto i loro turbanti neri racconta una storia. Vedono strade che un altro occhio non vedrebbe mai. Se non nasci qui non puoi recuperare. La Land Cruiser Toyota corre a cento chilometri all’ora, vecchia ma tenuta bene. Il gruppo di internazionali, nei rimorchi, sobbalza a ogni buca. Progressivamente, avvicinandosi al Sahara occidentale dall’Algeria, comincia a comparire una vegetazione sempre più ricca. Nomadi al pascolo con mandrie di cammelli guardano tra il divertito e lo sbalordito la carovana di jeep. Dopo sei ore di jeep estrema, con gli autisti che si fanno sempre più audaci e in un attimo trasformano la colonna in un ventaglio, si arriva al punto di raccolta dei circa centocinquanta manifestanti. Una sabbia rossiccia, un forno roccioso con dei rilievi maestosi sullo sfondo. Ti fa sentire di passaggio. Non fuori posto, di passaggio. Khandoud si fa serio: “I miei ragazzi hanno messo in sicurezza un corridoio, quello che vedete è il muro dei marocchini. Siamo a un chilometro e mezzo. Una pista, da questo punto fino al posto più vicino possibile al muro, è stata sminata...ma fate attenzione”. All’orizzonte, il muro. Che non c’entra niente, che non può essere là, piantato in mezzo a quell’immensi81


tà, ottuso e incombente. Lungo 2500 chilometri, di altezza variabile dai due ai quattro metri, con centotrentamila uomini dell’esercito marocchino a presidiarlo. Come una faglia geologica, solo che è opera dell’uomo. Al Marocco il muro costa un milione di dollari al giorno. Solo chi ha visitato il Marocco, lontano dalle rotte turistiche, possono venire in mente tutte le cose che si potrebbero fare per il Paese, per i suoi giovani e i suoi disoccupati, per le sue donne con tutti quei soldi. Khandoud pianta una bandiera della pace nel deserto. Non mi era mai sembrata così bella. In lontananza, lungo la sommità del muro, si vedono i soldati marocchini muoversi veloci. “Ci guardano con i binocoli”, dice Khandoud e non resiste: parte un gesto dell’ombrello verso il muro, ma contemporaneamente grida sorridendo “Viva la pace”. Poi fa due passi indietro e si avvia verso la zona non sicura. Per un minuto si fa silenzio. Lui si volta e con un sorriso degno di Omar Sharif dice “Cerco mine”, mentre si chiude la patta dei pantaloni militari dopo aver fatto pipì. Al ritorno le sei ore di viaggio sono spezzate da un’enorme tenda. È un banchetto, per ringraziare gli amici venuti da lontano. Carne di cammello alla griglia, insalata di verdure, frutta e acqua per tutti, oltre all’immancabile the. La festa è piena di canti e delle urla tradizionali modulate delle donne saharawi. Qualcuno intona Bandiera Rossa che per alcun saharawi è l’inno italiano. I campi profughi, da sempre, sono sostenuti dall’Arci che avrà raccontato un’altra Italia. C’è anche un circolo Arci, ricostruito nel mezzo del deserto del Sahara tale e quale fosse a Sesto Fiorentino o a Brescello. Di feste, però, ce ne sono poche. Il presidente della Mezzaluna Rossa saharawi, Yahia Bouhemiane, ha lanciato nei mesi scorsi l’allarme per la situazione umanitaria dei rifugiati nei campi di Tinduof. Con il passare del tempo e forse anche a causa della crisi economica, i profughi sono sempre 82


più lasciati soli e gli aiuti internazionali, dai quali i campi di Tinduf dipendono, stanno diminuendo. Immaginare come possa diminuire il dispensario di Nasra è un’operazione impossibile. Con il suo velo rosa e soffice, attorno a un viso dolce e ambrato, accoglie i visitatori sulla soglia dell’ospedale che gestisce nel campo profughi di Auserd. Ognuno dei cinque campi profughi ha un ospedale come questo e Rabuni, il campo profughi che funge da capitale, ospita quello nazionale. Solo che è molto distante e difficilmente raggiungibile, quindi il lavoro di ogni centro è vitale. Nasra si muove leggera con il suo camice bianco verso la farmacia generale dell’ospedale. Lei è una di quelle che ha potuto, in passato, studiare gratis a Cuba e ci tiene a sottolineare che la massima parte delle confezioni proviene dall’isola caraibica. Molti anche i farmaci dell’Unione europea, ma il senso di vuoto che rimanda l’immagine degli scaffali lindi è assoluto. Il parto rimane una delle principali cause di morte per i bimbi e le donne saharawi. La sala parto è composta da un vecchio lettino ginecologico e un armadio sgangherato, ma è molto pulita. Sul fresco corridoio con l’intonaco scrostato si affacciano tre camere. Nella prima c’è Alima. Ha novant’anni e vegeta in un coma irreversibile da mesi. La camera è completamente impregnata dall’odore del thè. Alima occupa l’unico letto, ma la stanza è piena di gente. Nasra spiega che nessuno dei parenti la vuole lasciare sola nell’ultimo viaggio. Sono tutti accampati in camera, su un enorme tappeto, attorno al fornello da campo perennemente acceso. Figli e nipoti, nuore e generi, sorelle e fratelli di Alima sono con lei. Giorno e notte. La seconda stanza è occupata da una donna che ha appena messo al mondo una splendida bambina. Anche qui c’è tutta la famiglia, ma si ride e si scherza, si respira allegria. L’ultima camera ospita solo una donna e un bambino. È Aziza che veglia il 83


suo piccolo Alì, di pochi mesi, affetto da gravi malformazioni all’apparato respiratorio. Qui non ci può stare nessuno per il pericolo di una infezione. Nasra spiega che le patologie più diffuse tra i piccoli saharawi sono quelle legate ai problemi respiratori e gastro-intestinali. Diarrea, infezioni intestinali, asma e denutrizione: tutti problemi facilmente risolvibili con strutture e farmaci adeguati. Aziza sorride dolcemente, non capisce niente di quello che diciamo. Ed è meglio così. Secondo Nasra il piccolo Ali ha una scarsissima aspettativa di vita, ma la mamma lo coccola e lo mostra con orgoglio, chiede di fotografarlo. Gli occhi di Ali sono grandi e neri, guarda tutto quello che si muove attorno a lui con curiosità. Assapora la vita, a modo suo. I saharawi vivono così, appesi alla speranza della cooperazione internazionale e nell’attesa della diplomazia. La Minurso, ogni anno, è candidata alla chiusura per i tagli alle spese dell’Onu e potrebbero non essere rimpianti considerata la bravata per la quale si sono fatti notare alcuni caschi blu che, ubriachi, hanno devastato nel 2008 il sito di Lajuad, sperduto nel deserto del Sahara, ricco di antichissime pitture rupestri, che ritraggono bufali, giraffe ed elefanti. Un luogo mistico per i saharawi, che chiamano i rilievi decorati da millenni ‘montagne del Diavolo’, alle quali attribuiscono un valore sacro. Per anni nella funzione di Inviati Onu si sono succeduti vecchi diplomatici, anche di fama, come lo statunitense James Baker III, senza ottenere alcun risultato. Ogni volta la stessa storia: quando l’Onu tenta di censire gli aventi diritto al voto, dal Marocco arrivano migliaia di coloni verso i territori occupati e per impedire un voto falsato il referendum viene rinviato. Negli ultimi anni, dopo un’attesa interminabile, alcuni giovani saharawi hanno ripreso le manifestazioni nelle città del Sahara Occidentale occupate dal Marocco. Il 2005, in particolare, è stato considerato l’anno della Seconda Intifada saharawi: cortei, cariche 84


della polizia, migliaia di arresti e attivisti che spariscono nelle carceri marocchine. Nulla è cambiato. Ad Hassan II, sul trono di Rabat, è succeduto il figlio Mohammed VI nel 1999. Nulla è cambiato. A marzo del 2008, dopo anni di gelo, i rappresentanti della Rasd e quelli del Marocco hanno dato vita a una tavola rotonda gestita dall’Onu a Manhasset, nei pressi di New York. Le delegazioni si sono viste per cinque volte, ma senza raggiungere un accordo. Il Marocco rimane sulla sua posizione: la concessione di una larga autonomia all’interno della sovranità della corona di Rabat. La Rasd, dal canto suo, vuole il referendum senza trucchi e senza gli incentivi statali e le esenzioni fiscali con le quali il governo marocchino spinge la popolazione a colonizzare il Sahara Occidentale. Il Marocco, da anni alleato strategico degli Usa nella ‘guerra al terrorismo’ e dell’Unione Europea nella lotta all’immigrazione clandestina è un partner troppo prezioso per i potenti della Terra. I saharawi, secondo quanto ormai pensano tutti gli osservatori internazionali, dovranno rassegnarsi. Anche perché le condizioni umanitarie dei campi sono davvero tragiche, mentre con grande sconcerto degli anziani, le giovani coppie di profughi saharawi cominciano a costruirsi casi in fango, sedentarie rispetto alle tende, che i vecchi hanno sempre tenute pronte per essere smontate in caso di partenza verso le case lontane. Grazie alla Croce Rossa, da qualche anno, sono possibili almeno le visite temporanee da una parte e dall’altra del muro per ricongiungere le famiglie divise nel 1975. Almeno 400 dei 500 prigionieri marocchini che vivevano da anni nei campi saharawi sono stati rilasciati. Della guerra resta un museo triste, dove fanno bella mostra di se le mine anti-uomo di produzione italiana. Chissà se Ahmed vuole fare ancora il medico o se, come i marocchini sostengono da tempo, fa parte di quella generazione che si avvicina all’integralismo islamico, sconosciuto al 85


popolo saharawi, che non ha neanche le moschee per pregare. Nei campi, infatti, come nella tradizione delle popolazioni nomadi, ci sono solo dei cumuli di pietre orientati verso la Mecca. La rabbia che questi giovani provano, lasciando da parte il delirio marocchino della presenza di al-Qaeda nei campi profughi saharawi, è vera. Ed è legata sempre più a un mondo che non si occupa più di loro. Dimenticati da tutti. Alla fine di ottobre del 2009, all’improvviso, alcuni mezzi d’informazione riscoprono la questione del Sahara Occidentale. La Train Foundation, con sede a New York, ogni anno conferisce il Civil Courage Prize, onorificenza che premia colui o colei che si sia distinto per una ferma resistenza pacifica alle ingiustizie anche a rischio della propria vita. Il premio del 2009 è stato assegnato ad Haminatou Haidar. Una donna coraggiosa, già premiata con il premio Robert Kennedy per i diritti umani e candidata al premio Nobel per la Pace. Una donna saharawi. Haminatou ha il fisico minuto, un volto sottile e sorridente, incastonato dal velo e dal suo inseparabile paio di occhiali. “Questo premio mi dà il coraggio di continuare la lotta nonviolenta che ho condotto sin da quando avevo 23 anni”, ha dichiarato Haminatou, ora che ne ha 43 di anni. “Il popolo Saharawi accoglie valori universali come la democrazia, il rispetto dei diritti umani, la tolleranza religiosa, l’uguaglianza delle donne, eppure la nostra battaglia non è ben conosciuta. Questo premio rappresenta un importante riconoscimento per il contributo di una sola persona, ma è tutto il popolo Saharawi che lotta per la libertà e l’indipendenza” ha proseguito. L’ultima violenza da parte della polizia marocchina l’ha subita quando le hanno comunicato la vittoria del premio. Gli agenti del re del Marocco le hanno fatto sapere che l’avrebbero arrestata appena avesse rimesso piede in Marocco. Haminatou è 86


partita lo stesso, sprezzante delle conseguenze. Come ha sempre fatto. L’hanno arrestata, la prima volta, nel 1987 e l’hanno rilasciata nel 1991. Non prima di essere stata torturata. È stata arrestata una seconda volta, nel 2005, mentre era ricoverata in ospedale per le percosse subite dai poliziotti marocchini durante una manifestazione pacifica. Venne portata, ancora una volta nel famigerato Carcel Negro di El Ayoun, dove migliaia di prigionieri politici saharawi hanno subito ogni genere di violenza, come denunciato da tutte le principali organizzazioni non governative internazionali che si battono per il rispetto dei diritti umani, Human Rights Watch e Amnesty International su tutte. Nella motivazione del premio si legge che Haminadou viene insignita del riconoscimento per “la sua coraggiosa campagna contro gli abusi e le sparizioni dei prigionieri di coscienza”. Situazione che lei conosce bene, visto che nel 1987 nessuno venne avvisato del suo arresto e non subì alcun processo. In tanti la ritennero svanita nel nulla. Nel 2005, per fortuna, grazie alle pressioni del Parlamento Europeo, venne rilasciata e il premio ricevuto è stato un piccolo modo per non far dimenticare il destino del popolo saharawi. C’è poco da festeggiare, però. Il 3 novembre scorso, in occasione di una visita ufficiale in Marocco, il Segretario di Stato Usa Hillary Clinton ha dichiarato incontrando la stampa internazionale a Marrakech: “È importante per me riaffermare, qui in Marocco, che non c’è nessun cambiamento nella politica Usa sulla questione del Sahara Occidentale”. La posizione di Washington è sempre stata in linea con quella di Rabat, nonostante anche l’ultima risoluzione n°1754 del 30 aprile 2007 delle Nazioni Unite ribadisca che il destino del Sahara Occidentale debba essere deciso da un referendum della popolazione locale, ma senza brogli sul numero degli aventi diritto al voto. Parole, quelle della Clinton, che suonano come una marcia funebre per tutti i saharawi che hanno salutato con 87


gioia l’elezione di Barack Obama quale presidente degli Stati Uniti d’America. È facile immaginare, vicini gli uni agli altri, i saharawi nel piccolo circolo Arci in mezzo al deserto, i profughi dei campi profughi di Tindouf mentre ascoltano queste parole alla radio. Fuori, intanto, la luce delle stelle brilla come una speranza nella notte sempre più nera dell’hammada.

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CAPITOLO 5 Ceuta e Melilla, una rete tra due mondi La letteratura classica poneva le Colonne d’Ercole, limite invalicabile dell’uomo, presso lo Stretto di Gibilterra. Limite dell’umana conoscenza, oltre il quale c’era il divino, negato ai comuni mortali. Il mito racconta che l’infaticabile eroe greco, giunto di fronte al monte alla fine del mondo, lo separò in due parti chiamate Calpe e Abila, le due Colonne. Nei pressi delle quali incise: “nec plus ultra” (non più avanti). Un monito per tutti gli umani. Oltre quelle colonne, nell’intento didascalico di tutti i miti, si avvertiva il genere umano che vi era la fine del mondo civilizzato. Per certi versi è ancora così, visto che quel monito esiste ancora, ma solo per i marocchini e tutti gli altri disperati che tentano di raggiungere l’Unione Europea attraverso la via più facile di tutte: le enclavi spagnole di Ceuta e Melilla in Marocco. Oltre il limite c’è il progresso, però, e migliaia di persone continuano a tentare di attraversare per migliorare la propria vita. Oltre le Colonne, per Dante c’era il Purgatorio e per Platone Atlantide. Alla fine, superandole, Cristoforo Colombo ci troverà l’America. La parola enclave suona dolorosa, come una vecchia frattura. Sussurra memorie balcaniche, echi di Srebrenica e dintorni. Niente di tutto questo. L’eco di Ceuta e Melilla è solo quello di uno degli ultimi prodotti del colonialismo europeo in Africa. La parola francese enclave ha origine nella terminologia diplomatica dall’aggettivo tardo latino inclavatus che significa “chiuso a chiave”. Nel caso di Ceuta e Melilla, però sono tutti gli altri ad essere chiusi fuori. Ceuta venne ceduta, 89


nel 1668, dal Portogallo alla Spagna e da allora è un territorio (autonomo) spagnolo. Melilla invece venne conquistata dagli spagnoli nel corso della Reconquista, nel 1497. Anche lei gode di autonomia e, come Ceuta, è un porto franco dedito ai commerci e al turismo. Due realtà cristallizzate in una logica di secoli fa, come fa notare il Marocco che reclama la sua integrità territoriale, ma che sarebbero finite ai margini della storia se non fosse nata l’Unione Europea. All’improvviso per migliaia di migranti quelle erano diventate due porte (chiuse) sul lavoro, lontano da fame, guerre e carestie. Vicine, dannatamente vicine. Molto più sicure delle isole Canarie (anche loro territorio spagnolo) o della traversata dello Stretto di Gibilterra che pur nel tratto più limitato dista solo quindici miglia marine dalle coste dell’Andalusia. Un tratto breve, dove le correnti sono forti però. Per non parlare dei tentativi di arrivare, magari dal Senegal, alle Canarie a bordo di piroghe in balia dell’oceano. Ceuta e Melilla erano là, oltre la rete. Molto più sicuro, certo. Almeno fino al 28 settembre 2005. Quella notte, profittando della distrazione delle guardie, più di seicento persone erano saltate fuori dalla notte, con delle scale e tutto quello che avevano potuto arrangiare, per riuscire a saltare dall’altra parte. Le guardie di frontiera aprirono il fuoco sui disperati che tentavano di scavalcare la recinzione metallica alta più di sei metri di Ceuta: sei di loro rimasero uccisi. Mai è stato chiarito se dal fuoco spagnolo o marocchino. Misteriosa ma identica la dinamica che, pochi giorni dopo, portò all’uccisione di altri tredici migranti nella zona di Melilla. L’unica certezza è che Spagna e Marocco concordarono l’invio immediato di rinforzi per le guardie di frontiera. Le Colonne erano tornate a segnare un confine invalicabile. Eppure, quando lo passi fisicamente, se non ci fosse il mare faresti fatica a cogliere la discontinuità del colore della terra, 90


della luce del sole, dei riflessi mediterranei della luce. Almeno fino all’ingresso a Ceuta o a Melilla, dove tutto parla di Spagna in un’ostentazione nazionalista da far invidia ai tempi del caudillo Francisco Franco, che proprio qui aveva perso un testicolo combattendo contro i ribelli marocchini e che da qui lanciò la Guerra Civile contro il diritto e la democrazia repubblicana spagnola. “Per dare un’idea di quanto è cambiata la situazione qui basta un dato: nel 2007 solo due persone riuscirono a passare dall’altra parte. Prima la media era di 20, 25 persone al giorno”, racconta Mohammed Bouissef Rekab, madre spagnola e padre marocchino, scrittore e docente di letteratura spagnola a Ceuta e a Tetuan. Figlio delle due culture: marocchino di nascita e formazione, ha scelto di raccontare le sue storie usando la lingua spagnola. Un ponte, un legame tra la cultura europea e quella marocchina, che percepisce i problemi dei migranti, ma che riesce a fare suo anche il punto di vista degli spagnoli. Nei suoi racconti e nei suoi romanzi ricorrono spesso i luoghi e i volti della migrazione, i sogni e le paure di coloro che lasciano la loro vita per gettarsi verso un futuro migliore. Seduto in un caffè di Ceuta, lungo il Paseo de Revellin, la grande arteria pedonale, parla dietro i suoi occhiali, nei quali si riflettono e di sfumano le onde del mare, le donne velate e le donne spagnole. I limiti si fanno tenui. Come si può raccontare la migrazione? “Non inventando nulla, parlando solo di quello che c’è, che esiste e che nessuno può negare. Quasi tutta la letteratura sull’argomento, soprattutto in Europa, si limita alla narrazione del ‘viaggio’, spesso solo in senso fisico”, racconta, “io cerco di raccontare lo stato d’animo, le sensazioni che finiscono nel grande affare che rappresenta l’immigrazione. Nessuno parte se non è costretto, e nessun riuscirebbe a passare se non esistesse una rete internazionale - spiega lo scrittore, mentre lo sguardo si fa duro - Ufficialmente 91


tutte le autorità, in Marocco come in Spagna, parlano di una grave piaga da guarire. Ma senza un cammino di complicità, che arricchisce i trafficanti come gli imprenditori spagnoli che hanno la loro manodopera a basso prezzo, con la complicità corrotta dei poliziotti. Solo che questi disperati vanno dati in pasto alle opinioni pubbliche, terrorizzate prima e ingannate poi, dall’idea del migrante. Si rende questo viaggio difficile, disumano. Solo per motivi di convenienza politica, non perché si vogliano cambiare le cose”. Le reti metalliche, ora arricchite di filo spinato, sono triplicate (9,7 chilometri quella attorno a Ceuta e 8,2 chilometri quella attorno a Melilla) e sono state innalzate. Poliziotti e militari spagnoli, tra turisti in ciabatte, si aggirano discreti ma numerosi nel centro della cittadina. “Un’operazione di marketing politico, le rotte si sposteranno e basta. La disperazione è sempre più forte della paura”, racconta Rekab. Un taxi per passare dal Marocco si trova subito in città. Prenderlo in plaza de Africa, però, ha un altro sapore. Sono dieci minuti, fino a un cartello che indica, sulla destra, il Marocco. Come se si trattasse di un quartiere come un altro. La frontiera è segnata da una rete bislacca, che parte da terra e s’infila nell’acqua fino a un certo punto. Come uno di quei lavori che si facevano durante l’ora di Educazione Tecnica alle medie inferiori, ma realizzato male. Un timbro su un passaporto al quale nessuno dice di no e si apre una terra di nessuno. Poche centinaia di metri e un’ora di fuso orario. Tutt’attorno il passaggio è incorniciato da colline ondulate, sulle cui sommità si muovono veloci decine di persone, soprattutto donne con gli abiti tradizionali ricchi dei mille colori del Marocco. Sulle loro spalle grava il peso di immense balle di mercanzie. Alcuni di queste pile di merce arrivano a pesare settanta chili. Sono le cosiddette ‘mujeres mulas’ (donne mulo) o ‘portadores’ (portatrici). A decine di migliaia, all’alba di ogni gior92


no, formano colonne lunghe fino a due chilometri al posto di frontiera di Buitz, sotto un sole cocente per passare dalla parte marocchina. Nei fagotti c’è ogni genere di merce: dalle magliette agli impianti stereo. Caricano tutto sulle spalle. Le merci sono dei ricchi commercianti di Ceuta che le mandano dall’altra parte per farle vendere nei suq delle città turistiche marocchine: Tangeri, Tetuan, Chefchaouen. I doganieri non battono ciglio, perché lo status di zona franca di Ceuta e Melilla permette una tolleranza impossibile altrove. Il Marocco, per la sua rivendicazione storica, non riconosce Ceuta come città spagnola e questa situazione crea quel limbo giuridico nel quale sono sorti i 260 depositi che ogni mattina ricevono le donne marocchine. Caricate come animali da soma che si affrettano dall’altra parte perché, per ogni viaggio, guadagnano cinque euro. Le più veloci possono fare fino a quattro viaggi al giorno, mettendosi in tasca venti euro che è la loro parte di un business enorme, calcolato in sei milioni di euro all’anno. Un affare al quale non sono estranei neanche i doganieri marocchini, che assistono distratti a questo andirivieni, almeno quando la loro bustarella è arrivata puntuale. A maggio del 2009 in molti hanno parlato di questa situazione. Due donne sono morte soffocate, schiacciate dal peso del loro carico. Per un po’ le autorità dell’una e dell’altra parte hanno promesso di cambiare le cose, ma per il momento tutto tace, anche per non scontentare i mercanti di Ceuta. Molti politici spagnoli hanno definito ‘inumano’ questo genere di commercio e ‘inaccettabili’ le condizioni di lavoro di queste donne. Umano e accettabile, invece, è lasciare morire di stenti degli esseri umani in un deserto pieno di mine. Questo infatti, secondo una denuncia di Medici Senza Frontiere di ottobre del 2005, era accaduto a coloro che avevano tentato di saltare le reti assieme ai migranti uccisi. Espulsi dalla Spagna, erano stati consegnati alle autorità 93


marocchine. La polizia di Rabat, dopo maltrattamenti di ogni genere, ha condotto i sin papeles in una zona desertica, a circa 600 chilometri a sud della cittadina di Oujida, al confine con l’Algeria. Niente acqua, niente cibo. Niente medici per le ferite causate dal tentativo di scavalcare le reti e dalle botte della polizia. In una zona che la tensione storica tra Algeri e Rabat e la lotta di resistenza del Fronte Polisario dei saharawi contro il Marocco ha disseminato di mine anti uomo (cfr. capitolo 4). Msf, nel comunicato dell’epoca, denunciava la violazione dell’articolo 3 della Convenzione contro la tortura e altri comportamenti degradanti verso i prigionieri, siglata sia dalla Spagna che dal Marocco. Ma dove si fermano i migranti in attesa di passare dall’altra parte? Alcuni pagano per aspettare in case gestite dai trafficanti nelle città marocchine, altri si ammassano alla periferia di città di frontiera come Oujida e infine, i più disperati, si nascondono tra gli alberi dei monti Hacho e Jebel Musa attorno alle enclavi spagnole. La polizia marocchina, però, se qualcosa va storto con i trafficanti che li pagano o se la Spagna mette pressione al governo marocchino, ordina delle retate che si trasformano in barbari pestaggi. La situazione, dopo i fatti del 2005, è mutata. La Spagna di Zapatero ha fatto le cose in grande: telecamere a infrarossi sorvegliano i dintorni delle reti 24 ore su 24, torri di vedetta puntellano il perimetro, più di 1200 tra poliziotti e soldati presidiano la zona. Meno di cinquecento persone si trovano nel Centro de Estancia Temporal de Immigrantes (Ceti), la prigione a porte aperte allestita dal governo spagnolo nell’enclave di Ceuta per i migranti in attesa di rimpatrio (alcuni sono dentro da due anni) o di conoscere l’esito della loro domanda di asilo, che nel 70 percento dei casi sono respinte da Madrid. Possono uscire se vogliono, ma non possono lasciare l’enclave. Secondo i dati 94


del Ceti, dopo il massacro del 2005, il decremento dei migranti che hanno passato la frontiera ha seguito un trend del 45 percento all’anno, ma qualcuno non demorde. Come ‘los tirgres del Monte’, un gruppo di 53 migranti indiani che, una volta nel Ceti, preoccupati dal possibile rimpatrio, sono scappati dal centro rifugiandosi sul monte Renegado, nei pressi di Ceuta. Molti giornali ne hanno parlato, attirando di nuovo l’attenzione sui migranti delle enclavi spagnole in Marocco. Tende e capanne di legno tra gli alberi sono la loro casa, come novelli Robinson Crusoe. Vivono di espedienti, piccoli lavori in nero in città, l’acqua prelevata da una fonte nel boschetto. Da mesi, anni. “Non abbiamo passato l’inferno del viaggio per arrenderci adesso”, dichiaravano a chi chiedeva il loro parere. “Non ci faremo rimandare a casa come tutti gli altri che erano con noi nel Ceti”. Il viaggio uguale per tutti. Un aereo dall’India per l’Africa. Da Bamako, in Mali, fino a Tamanrassset, in Algeria e poi su, fino a Ghardaia prima di passare la frontiera con il Marocco. Alla fine altri 3mila euro per Ceuta, dopo che alcuni in totale ne hanno sborsati fino a 12mila, indebitando per anni la famiglia in India che ha venduto tutto per farli partire. Fino al 2006 i migranti in attesa di vedere esaminata la loro richiesta d’asilo venivano portati in Spagna. Per loro era l’occasione giusta per far perdere le loro tracce. La nuova norma voluta dal governo Zapatero, invece, impone l’attesa a Ceuta o nelle isole Canarie se l’arrivo avviene là o anche se avviene sulle coste spagnole. Le tigri, alcune delle quali sono in viaggio da tre anni, non mollano però. Quando i giornali hanno parlato di loro anche l’opinione pubblica spagnola si è indignata. Due cineasti spagnoli hanno girato un documentario su di loro e, come non accadeva da un po’, si sono tenute manifestazioni di solidarietà con la loro lotta in più occasioni nel corso del 2009. Una delle tigri, aiutato da un’associazione di Ceuta, ha creato perfino un profilo Facebook del suo grup95


po, dove in migliaia hanno aderito per sostenerne la lotta. La vita è dura, però, in questa baraccopoli incastrata tra una discarica e un canile. Alcuni hanno accettato il rimpatrio, altri resistono. Nell’indifferenza di quegli stessi marocchini che, per anni, sono stati i protagonisti di un esodo biblico verso l’Europa, lasciando villaggi interi abitati solo da donne, vecchi e bambini. Loro che per primi hanno conosciuto l’esclusione, si sono girati dall’altra parte. Negli anni Settanta, per Melilla, vennero siglati accordi tra il governo spagnolo e quello marocchino per la libera circolazione degli abitanti della provincia di Nador, in Marocco, all’interno dell’enclave che si trova in quella amministrazione. Nel 1985, però, in onore alla Comunità Europea, la Spagna ci ripensa promulgando la prima legge organica sullo status dei cittadini stranieri residenti nel Paese. All’improvviso 12mila marocchini a Melilla si trovarono ad essere stranieri a casa propria. La situazione venne sanata dopo violenti scontri, ma il 1992 segnò l’inizio di un’altra crisi di fronte ai primi flussi massicci di migranti subsahariani. Il rappresentante locale di Madrid reagì allo scontento popolare per l’arrivo di questi disperati con arresti ed espulsioni arbitrarie. Il Marocco, però, non voleva saperne di prendersi cura di loro. Queste persone, per giorni, rimasero nella terra di nessuno. Una situazione così non era più accettabile e l’avvio del processo di integrazione euro mediterraneo, sancito dagli accordi di Barcellona del 1995, incrementò gli incentivi al Marocco al fine di controllare l’afflusso dei migranti. I migranti presero a nascondersi, come detto, nei boschi che per Melilla significa il monte Gurugù. “Il Marocco è pronto a tutto per rafforzare la cooperazione con l’Unione Europea, in cambio di investimenti, armamenti e appoggio politico sulla questione del Sahara Occidentale (cfr. capitolo 4). Il governo di Rabat non esita a 96


uccidere africani e reprimere attivisti. Ottengono visti Ue solo i migliori, quelli che hanno ottimi titoli di studio, impoverendo sempre più questo continente”, raccontava tempo fa in un’intervista del 2008 Balga, presidente dell’associazione marocchina Pateras de la vida (zattere per la vita), nata nel 1988 quando erano i marocchini a tentare di attraversare lo Stretto di Gibilterra a bordo di zattere di fortuna. “Tetouan vi piacerà, è una meraviglia!”, urla contento al volante Ahmed, cercando di sovrastare il volume della musica che proviene dall’autoradio della sua Mercedes anni Ottanta. “La gente del nord del Marocco è uguale agli europei: aperta e socievole. Mica come quelli del sud, chiusi e provinciali”, racconta il tassista. È proprio vero che esiste sempre qualcuno più a sud di te. “Noi non emigriamo, chi ce lo fa fare? Io ho la mia casetta, il mio lavoro. Qui tutto cresce in fretta, c’è piena occupazione da noi. Quelli che emigrano sono quelli del sud, che non hanno lavoro e gli africani che non sanno fare niente”. Tutto il litorale che corre tra Ceuta e Tetouan è un enorme cantiere: migliaia di operai, stravolti dal sole a picco, costruiscono alberghi, villaggi turistici, ristoranti e piantano alberi. “Ecco, qui sorgerà un grande albergo, qui un meraviglioso hotel”, racconta Ahmed, con un brillio negli occhi che neanche gli occhiali da sole riescono a celare. Il tutto mentre guida con una mano sul volante e una sul poggiatesta del passeggero. Indica fiero cantieri che sembrano appartenergli, per l’orgoglio con il quale li racconta. “Tutta roba di prima scelta sa”, fa notare, “tutta roba europea. I fondi sono spagnoli. Grandi catene alberghiere e imprese edili, grande business, qualità occidentale. Sarà bellissimo!”. L’entusiasmo di Ahmed corre veloce come la macchina. È impercettibile la distanza che separa il suo entusiasmo per lo sviluppo della sua terra da quello per il fatto che tutto sembrerà ancora più europeo. Ed è in questi cantieri, in questi investimenti, che sta la risposta alle 97


domande su Ceuta e su quelle Colonne d’Ercole di nuovo erette? Soldi in cambio di controllo, semplicemente un business al posto di un altro. Quegli stessi imprenditori che per anni hanno guadagnato sulla pelle dei migranti lo fanno ancora, solo in un modo differente. Con la benedizione del governo spagnolo e marocchino, che hanno entrambi da guadagnare. E il tour forsennato compiuto dal ministro degli Esteri spagnolo in Africa negli ultimi anni, imitato peraltro dai ministri di Italia e altri paesi europei, acquista un senso nelle palme piantate dagli operai per fare ombra ai turisti fantasma che arriveranno a frotte, come assicura Ahmed mettendo su una cassetta di Adriano Celentano, convinto di far felici i suoi passeggeri europei. Di tutto questo grande affare nessuno aveva avvisato Sambo Sadiako, 30 anni, senegalese. L’ultima vittima conosciuta delle reti. Il 7 marzo 2009, all’alba, lo hanno trovato morto dissanguato tra i rotoli di filo spinato nel quale si era incastrato nel tentativo di saltare dalla parte giusta della vita, violando le Colonne d’Ercole dei disperati.

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CAPITOLO 6 L’Iraq liberato, chiuso tra nuovi muri Suleimanya è un incubo. Un carosello impazzito di auto, clacson e smog, si avviluppa senza posa, dall’alba al tramonto, per le strade della città dell’Iraq settentrionale. Anche se sarebbe più corretto dire città curda, meglio ancora cantiere. È tutto un costruire, ristrutturare, decorare in un trionfo di Made in China. Il palazzo del governatore di Suleimanya è uguale agli altri: ex palazzo dei tempi del regime, è stato occupato dai nuovi padroni, l’alleanza tra Unione Patriottica del Kurdistan (Puk) e Partito Democratico del Kurdistan (Pdk). Dopo il 1991 hanno combattuto tra loro, poi hanno capito che il potere è meglio spartirselo. Il governatore Dana Ahmed Majed riceve in uno studio lungo e largo. Faccia da duro, è uno che ha combattuto ai tempi della guerra tra Pdk e Puk. Adesso si gusta il potere, vestito con cura, mentre sul computer alle sue spalle passa una presentazione della Suleimanya che verrà, molto lontana dalla realtà, che è fatta di corruzione e familismo. L’unico problema sembra questo Partito Curdo dei Lavoratori (Pkk) che non ne vuol sapere di deporre le armi. Da un anno, l’aviazione turca bombarda i Monti Qandil, nei pressi del confine tra Iraq, Turchia e Iran. “Se io arrivo in Danimarca, tanto per fare un esempio, armato fino ai denti, secondo lei cosa mi fanno? Mi arrestano! Le democrazie moderne fanno così. Questa gente non può rimanere qui e continuare la lotta armata”, dice Majed. Per la grande maggioranza della popolazione del Kurdistan iracheno, però, i guerriglieri curdi sono degli eroi. “È diverso”, risponde con un sorriso 99


tagliente sotto i baffi curati, “noi non andavamo all’estero a combattere. Lo facevamo in Iraq. Adesso poi, dopo quello che noi curdi abbiamo ottenuto qui, è assurdo non capire che l’unica strada per la libertà è la democrazia. Non dico che li cacceremo via, ma se non la smettono dovremo intervenire per disarmarli”. Non la pensano tutti così. Mola Bakhtyar è un mito per i curdi iracheni. Ha guidato i suoi uomini all’inseguimento delle truppe di Saddam in fuga verso Baghdad nel 2003. Adesso, anche lui in giacca e cravatta, si occupa dell’ufficio politico del Puk. “Abbiamo fatto tanto per avere delle leggi che ci tutelassero... adesso dobbiamo rispettarle”, ammonisce Bakhtyar. “Abbiamo già troppe macerie per continuare a distruggere. È il momento di costruire, in primo luogo con i Paesi vicini. La Turchia e l’Iran, certo. Anche loro. Il Pkk deve capire che va lasciata strada alla diplomazia internazionale, anche se la Turchia non deve più passare in armi il confine come ha fatto l’estate scorsa”, dice l’ex guerrigliero. “La strada è nota: la democrazia. Ma vale per tutti. Se non andasse così, beh... non esiterei un attimo a riprendere il fucile e a tornare in montagna. Quello che bisogna evitare è un conflitto intestino al mondo curdo. Il nostro popolo non capirebbe”. Lasciando la città, direzione nord, si cominciano a intravedere le prime alture. L’anima del Kurdistan, dove la gente è legata a doppio filo alle sagome dei suoi monti, spesso rivelatisi un rifugio sicuro dalle repressioni del passato e del presente. La strada verso i monti Qandil si colora di verde, mentre il profilo del monte Titano segna uno spartiacque tra l’anima urbana e quella rurale della società curda. “Sembra una donna stesa, vedi? Il naso, la bocca, il seno”, sottolinea Kawa, il giornalista curdo che ci accompagna. La strada si complica: sempre meno asfalto, sempre meno case. A Rania si cambia auto. Una vecchia jeep arriva scricchiolando. Scendono due uomini: saranno loro a portarci sui monti Qandil, per incontra100


re i guerriglieri. Non solo quelli del Pkk, ma anche quelli del Partito per una Vita Libera in Kurdistan (Pjak), il gruppo di curdi iraniani nato nel 2004. Uno tarchiato, l’altro smilzo e secco. Sorrisi e strette di mano. Senza il kalashnikov, uno si sentirebbe a casa. Dopo i primi chilometri di silenzio è la musica a rompere il ghiaccio. “È un canto della guerriglia”, risponde il guidatore. L’aspetto più ironico della vicenda è che entrambi gli accompagnatori sono del Puk, ma il Pkk non lo vedono affatto come un nemico. “Non potremmo mai prendere le armi contro i nostri fratelli”. In lontananza un checkpoint dei governativi. Ci fanno scendere. L’autista passa al posto di controllo, mentre l’altro fa da guida lungo un fiumiciattolo che passa alle spalle del posto di blocco. Il governo del Kurdistan iracheno non vede di buon occhio chi si reca sui monti Qandil. Dopo il passo la strada diventa sempre più impervia. Gli unici abitanti sono pastori. In prossimità di una roccia che si alza verso il cielo come un dito inquisitore, l’autista annuncia: “Questa pietra segna il confine tra la zona sotto controllo dei partiti curdi iracheni e il Pkk”. Un confine che esiste solo nelle scelte politiche che ormai allontanano la leadership curdo-irachena dal Pkk. Ma che non esiste nella mente dei curdi, che abbatterebbero con ogni mezzo i confini che li sparpagliano in quattro stati da cento anni. In lontananza spunta il volto di Abdullah Ocalan. Apo, per tutti i curdi. Un ritratto enorme, adagiato sul fianco di una montagna. “I turchi l’hanno bombardato qualche giorno fa”, racconta divertita la guida, “dopo qualche giorno era di nuovo al suo posto. Li provochiamo!”. Dopo ore di sassi, sterrati e strade impervie, spunta un altro check-point. Questa volta con la bandiera del Pkk. “Ci dovete consegnare i cellulari. Vi verranno restituiti al ritorno”, annuncia il capo posto, un omone grande e grosso con due baffi enormi. Le divise stazzonate, le 101


radio tenute in vita da pile legate con del nastro adesivo, la guardiola fatta di mattoni raffazzonati, ma il check-point rende un’idea di efficacia. Un guerrigliero più giovane ci consegna, in cambio dei telefoni, una ricevuta spiegazzata. Arriva un camioncino. Si parte a velocità sostenuta, ci sono quattro miliziani. Due di loro sono donne. Ridono e scherzano. Poco dopo ecco una fattoria, dove tutta la famiglia viene fuori per salutare gli ospiti. “Siete ospiti nostri e della famiglia di Ibrahim. Tra un po’ torneremo per fare quattro chiacchiere”. Comincia il rito del the e degli sguardi incuriositi dei bimbi di casa, mentre solo un miliziano resta di guardia. Tutt’intorno recinti dove sono ricoverati gli animali, muretti a secco e prati verdi. Le montagne come una corona. “Viviamo bene qui, non ci manca niente”, racconta Ibrahim, “ho un piccolo spaccio e le bestie ci danno quello che ci serve. Ma da quando sono iniziati i bombardamenti, a dicembre dello scorso anno, non viviamo più. Tante famiglie sono scappate, centinaia. E adesso vivono da profughe a Rania. Nessuno fa nulla per loro, il governo se ne frega. Fanno fare alla Turchia tutto quello che vuole, fregandosene dei curdi in Turchia, solo il Pkk ci difende!”. Una famiglia di guerriglieri? “Macché, siamo poveri contadini”. Poco dopo arriva un altro mezzo, con gli stessi uomini a bordo. Solo che questa volta con loro c’è un miliziano più anziano. “Awal Denis”, si presenta stingendo la mano con presa d’acciaio. “Essere awal è più importante anche dell’essere fratello e sorella”, spiega Denis. “Significa compagno, essere awal significa mettere l’uno la vita nelle mani dell’altro. Non ci sono cognomi qui, siamo tutti awal”. Anche per tenere al sicuro le famiglie dei guerriglieri. Comincia un garbato e serrato interrogatorio. Awal Denis vuol sapere tutto dei suoi interlocutori. “D’accordo, aspettate qui e vi verremo a trovare noi. Venire voi con noi? Non è possibile, tra un bombardamento e l’altro siamo sempre in movimento. La situazio102


ne è pericolosa, non permetteremmo mai che vi accadesse qualcosa. Darebbero subito la colpa a noi!”, conclude con un sorriso gelido. La televisione è sintonizzata su uno dei tanti canali satellitari curdi. L’argomento del giorno è uno solo: le manifestazioni in tutta Europa delle comunità curde per la denuncia degli avvocati di Ocalan. Il leader sarebbe stato torturato nell’isolafortezza di Imrali, in Turchia, dove si trova rinchiuso dal 1999. Nessuno fiata. Ormai è scesa la notte, ma all’improvviso spuntano i fari di un paio di pick-up. Ibrahim salta fuori, per ricevere gli ospiti. Sono awal Bryar e awal Agri, rispettivamente delegato politico e delegato militare del comitato centrale del Pjak. “Il Pjak è nato nel 2004. Il suo congresso ha eletto sette delegati al comitato centrale, che coordina tutte le attività del movimento. Politiche, militari e sociali”, spiega awal Bryar, occhialetti da intellettuale e baffoni neri, seduto per terra con le gambe incrociate. “Vi chiedete perché proprio il 2004? Secondo molti - spiega il dirigente del Pjak - la nascita del nostro gruppo è legata all’invasione dell’Iraq. Gli Usa si servirebbero di noi per destabilizzare il regime iraniano. Non è così! Non siamo mai stati finanziati da Washington e non lo accetteremmo mai. Gli Usa, insieme a Israele, forniscono i droni (aerei senza pilota) che individuano i movimenti dei guerriglieri del Pkk e del Pjak sulle montagne. Passano i dati alla Turchia che bombarda la nostra gente. Potremmo mai allearci con loro? Questa è la versione del governo di Teheran, che ha tutto l’interesse a mostrarci come agenti al soldo di una potenza nemica”, dice awal Bryar, aggiustandosi gli occhialetti e non alzando mai la voce. “Il 2004 ha segnato solo il compimento di un lungo processo di presa di coscienza del popolo curdo in Iran. Noi subiamo, come tutte le altre minoranze iraniane, la repressione del 103


centralismo persiano da decenni. Ahmadinejad non è che l’ultimo passaggio”, spiega il guerrigliero. “Solo che, dopo l’invasione dell’Iraq e la sostanziale indipendenza del Kurdistan iracheno, gli stati confinanti hanno avuto paura di un effetto domino tra i curdi dei loro Paesi. E hanno incrementato la repressione. L’autodifesa è stata un passaggio necessario. Molti di noi avevano combattuto per anni nelle file del Pkk e l’arresto di Ocalan ha spinto tanti giovani verso la lotta armata. La repressione in Iran ha fatto il resto “, conclude Bryar, spegnendo la centesima sigaretta e sorseggiando l’ennesimo tè. Agri, il delegato militare, annuisce per tutto il tempo. La postura a gambe incrociate è una sofferenza per il suo fisico massiccio. “La strategia della Turchia e dell’Iran è chiara: vogliono militarizzare la zona al confine, spingendo la popolazione civile ad abbandonare la regione. Per toglierci il nostro supporto vitale: la nostra gente. Per questo motivo bombardano e costruiscono il muro al posto di frontiera di Haji Omran, al confine tra Iran e Iraq. Queste operazioni non hanno alcun risultato pratico: spingono solo la gente ad andar via”. La mattina dopo, di buon ora, le montagne Qandil sono avvolte da una fitta foschia. Il muro risalta nel grigiore generale con i suoi paletti rossi. Una barriera di cemento per un tratto, una rete metallica per la parte ancora in costruzione. Non più di cinque chilometri, per il momento. Ma gru e betoniere dimostrano che non sono finiti i lavori. “Dovete fare in fretta, abbiamo pochi minuti”, dice Sidwar, la guida. “Vedete quella base militare? Ci sono gli americani, là dentro. A poche centinaia di metri dal confine con l’Iran... si possono guardare negli occhi”. Una strada sterrata e contorta conduce a Lawji, minuscolo villaggio devastato dai bombardamenti. “Ecco gli obiettivi militari dei turchi!”, esclama awal Roj, che si aggira tra le macerie, scalciando pezzi di un letto e il telaio di una finestra. La scena è desolante: un asino si aggira solitario tra quel che 104


resta di case abitate da persone come tante. Un cd, una mappa, un libro di scuola. Tutto quello che resta di abitazioni innocue. Un cratere segna il punto dove è caduta una bomba. Schegge di un razzo, taglienti come lame, sono ancora ben visibili. Porte e finestre contorte, spinte in una posa innaturale verso l’interno. Come se un vento cattivo si fosse accanito, senza pietà, su quelle costruzioni. Tra le macerie awal Roj lascia un mazzetto di fiori. Con un bigliettino. “Lo lasciamo in ogni casa distrutta. C’è scritto un vecchio proverbio curdo che dice ‘il lupo è lupo quando ha il coraggio di combattere con un lu-po, non quando combatte un agnello’. Questo è quello che pensiamo dei turchi”. Dal villaggio bombardato si torna indietro. Verso le linee sicure per i guerriglieri. Una piccola radura, un circolo di pick-up. Al centro del cerchio awal Bozan. Basta uno sguardo azzurro ghiaccio perché i miliziani attorno a lui si muovano all’istante. Alto e robusto, capelli sale e pepe. Sorriso aperto, ma non caldo. “Non amo parlare di me e del mio passato”, dice secco, “vi dico solo che sono nel Pkk da diciotto anni e sono il vice comandante del Kck. Il Kck è un sistema al quale fanno riferimento tutte le organizzazioni curde: militari, politiche, sociali, economiche. Ha un compito di coordinamento, ma ciascun gruppo è libero di decidere. Questo è importante, perché rispetta il principio del nostro leader Ocalan: l’emancipazione dei singoli per il bene collettivo”. Quindi il Pjak ha aperto un secondo fronte sulle montagne Qandil, riuscendo a mettere d’accordo Iran e Turchia nel combattervi, di testa sua? “Certo, nessuno può impedire alla gente di difendersi. Se il loro processo di emancipazione ha portato alla lotta armata, è giusto così. Per i curdi, dopo il 2003, la pressione si è fatta enorme. Tutti gli stati hanno temuto che il Kurdistan iracheno diventasse la base per una rivolta in Turchia, Iran e Siria. Quei governi 105


hanno reagito di conseguenza. E noi ci siamo dovuti difendere”. Solo un’autodifesa, dunque. Questo significa che sulla vostra aspirazione all’indipendenza si sbagliano. “Certo che si sbagliano. La nostra strada è chiara, come l’ha indicata Ocalan. Noi puntiamo a una confederazione, che segni la fine degli stati nazionali e del nazionalismo. Se si risolve il problema curdo si pacifica il Medio Oriente. Se si pacifica il Medio Oriente si risolvono i problemi di questo tempo”. Usate le armi, però. E per alcuni anche gli attentati contro i civili. “Non è vero - risponde battendosi il pugno destro nel palmo della mano sinistra - lo sanno tutti che il Pkk colpisce solo obiettivi militari. Per difendere la sua gente dagli attacchi turchi. Gli attentati contro obiettivi civili in Turchia non sono opera nostra. Possono essere i servizi segreti turchi, oppure elementi curdi fuori controllo. Ma noi no. La stampa ci addossa queste responsabilità per screditarci e nessuno riporta anche il nostro parere”. Perché i media internazionali dovrebbero avercela con voi? La figura di Ocalan, per anni, è stata considerata quella di un leader importante. Poi è diventato un terrorista. “Sul carisma di Ocalan non hanno alcun effetto le cose che vengono dette e scritte. Basta pensare alle folle che, spontaneamente, sono scese in piazza per difenderlo dalle torture che subisce. Arafat, per esempio. Prima terrorista, poi Nobel per la pace, poi terrorista. La stampa fa gli interessi del potere e il potere, in questo periodo storico, ha bisogno di fare di Ocalan un terrorista”, risponde awal Bozan. “Il capitalismo mostra il suo volto peggiore, perché attraversa una crisi molto grave. Il Pkk, in questa regione, è l’unica reale forza di popolo, che si pone tra gli interessi degli Usa e dell’Ue e le potenze regionali, Iran e Arabia Saudita su tutte. Siamo un problema, perché fino a quando esisteremo noi dice sorridendo il dirigente curdo - il progetto del Grande Medio Oriente degli Usa non si potrà realizzare. Noi non sia106


mo in vendita. Non abbiamo bisogno di molto per vivere. Quel poco che ci serve ci arriva dai curdi della diaspora, che da tutto il mondo sostengono la nostra lotta. E dalla gente comune, che divide con noi quel poco che ha. In tanti ci davano per finiti quando hanno catturato illegalmente Ocalan... adesso può tornare a casa e dire a tutti che il Pkk è ancora qui. E non smetterà di lottare fino a quando i curdi saranno oppressi”. Il tempo è finito, awal Bozan saluta con un cenno del capo, mentre i suoi uomini si stringono attorno a lui. I pick-up vanno via in fila indiana, tra queste montagne che appartengono al silenzio. Il Kurdistan, con la sua storia particolare, è sempre stato diviso da barriere tra i paesi nei quali è incastonato con la forza. Barriere linguistiche, culturali, politiche. Oggi, al confine tra l’Iran e l’Iraq quello barriere sono diventate visibili, solide. Sono uscite dalla mente per materializzarsi, come una cicatrice, tra queste splendide montagne. Baghdad, invece, racconta un’altra storia. Millenaria. Non c’è bisogno di scomodare il mito esausto delle Mille e una notte per raccontare una città dove popoli, lingue, religioni e costumi si davano appuntamento per contaminarsi gli uni con gli altri. Bastava passeggiare la sera, lungo il corso del Tigri, per perdersi tra i mille piccoli ristoranti che offrivano il pesce migliore, cucinato alla al-baghdadi, alla maniera di Baghdad, aperto al certo e bloccato in griglia, cotto al forno. Una delizia. Sono tante le cose che la guerra, dopo l’invasione delle truppe internazionali nel 2003, ha distrutto a Baghdad. I ristorantini sul Tigri non sono quella più importante, ma una delle più simboliche lo è di sicuro. Perché tutti i cittadini e i visitatori venivano qui e a nessuno importava che tu fossi sunnita o sciita. Oggi non potrebbe più accadere, perché Baghdad è stata divisa da alte mura che dividono i quartieri dei sunniti da quelli degli sciiti. 107


Un muro c’era, già, in effetti. Il Muro della Vittoria, il monumento reso celebre da mille immagini della capitale irachena bombardata, occupata, offesa e divisa. Concepito nel 1985, l’arco con le due spade incrociate celebrava una vittoria irachena nella guerra contro l’Iran che in quel momento sembrava certa, grazie all’aiuto finanziario e bellico degli Usa al Saddam Hussein dell’epoca, il buon amico, il paladino della lotta contro gli ayatollah di Teheran. La guerra, però, finì nel 1988 e l’Iraq non aveva nessuna vittoria da celebrare, ma solo un milione di morti da piangere. I pugni che reggono le spade vennero modellati sulle mani dello stesso Saddam, ingranditi di quaranta volte. Le lame ricurve richiamano il modello in uso nel VII secolo, come dovevano essere quelle brandite da Saad Ibn Abi Waqas, che sconfisse i persiani. Le spade sono state costruite con il metallo fuso delle pistole dei soldati iracheni caduti in battaglia. Dai polsi delle mani che reggono le spade pendono reti, piene degli elmetti dei soldati iraniani, crivellati di pallottole. I soliti bene informati sostengono che, nel progetto originale, le reti dovessero contenere i teschi dei soldati iraniani. Non ci sono però, e il Muro della Vittoria (che è in realtà un arco) è ancora là mentre, almeno sulla carta, le truppe Usa hanno completato il loro ritiro dalle strade della capitale irachena il 30 giugno 2009. Adesso sono asserragliate nella Zona Verde, quartiere proibito del potere di Saddam prima, degli americani adesso. Ma si sono lasciati alle spalle cumuli di macerie e i muri di Baghdad, le barriere di cemento che dividono i quartieri in modo settario, in base alla confessione religiosa. Il più noto è quello che divide il quartiere di A’adhamiya, sunnita, da quello di Sleikh, sciita. I commercianti li utilizzano per affiggere la loro pubblicità, il governo per esporre dei manifesti che invitano il popolo iracheno a essere unito, per un futuro senza divisioni. Chiedere questo affiggendo manifesti su una barriera di separazione confessionale restituisce tutta l’assurdità della guerra. E dei muri. 108


Quello di A’adhamiya è stato il primo, lungo cinque chilometri, tirato su dalla Seconda Brigata Combat team della 82^ divisione aerotrasportata dell’esercito Usa. Alto poco meno di quattro metri, ha visto la luce il 10 aprile 2007. “Non vogliamo costruire dei muri comunitari a Baghdad. Il nostro obiettivo è di unificare la città, non dividerla”, commentò il generale William Caldwell, all’epoca portavoce dell’esercito Usa in Iraq, dimostrando ancora una volta quale abisso esista tra la visione dei fatti da parte dei militari e il buon senso della gente comune. Bisognava fermare le squadre della morte, sunnite e sciite, che si producevano in massacri nei quartieri dei ‘nemici’. Solo che nessuno ammette che prima dell’arrivo degli statunitensi non c’erano le squadre della morte. Pochi giorni dopo più di sette mila abitanti di Baghdad, sunniti e sciiti, marciarono assieme chiedendo la rimozione delle barriere religiose, come le chiamavano loro. I muri, però, sono ancora là. Al-Jazeera International ha prodotto, realizzato e trasmesso un documentario di struggente bellezza. Baghdad, City of Walls, girato nell’aprile 2009, diviso in quattro parti, racconta le storie dei cittadini di Baghdad, le loro vite stravolte dalla guerra e dai muri. “Non riesco a credere che questo sia accaduto nel ventunesimo secolo”, dice davanti alla telecamera della giornalista del network arabo Maysoon Abd al-Hamid, 57enne ingegnere di Baghdad, nato e cresciuto nel quartiere di A’adhamiya. “Viviamo in una prigione a cielo aperto, in gabbia come animali. I muri hanno tagliato la mia vita e quella dei miei vicini. Hanno ridisegnato la mia città”. Non c’è solo A’adhamiya, però. Lo stesso destino è toccato a Sadr City, il più grande quartiere sciita della capitale irachena. Si chiamava Saddam City, perché il regime voleva umiliare fino in fondo gli sciiti, che avevano osato ribellarsi nel 1991, credendo alle false promesse Usa dell’epoca. 109


Saddam aveva invaso il Kuwait e una coalizione internazionale attaccò l’Iraq. Per colpire il regime dall’interno, gli sciiti vennero convinti a sollevarsi contro il regime, ma la realpolitick trionfò e a Washington decisero di abbandonarli al loro destino. Dopo la caduta di Saddam, nel 2003, gli sciiti hanno ribattezzato il quartiere Sadr City, in onore di uno dei più amati tra i loro imam. Ma poi arrivò l’attentato alla moschea d’Oro di Samarra, febbraio 2006. Uno dei più importanti mausolei sciiti del mondo, con la sua cupola dorata, venne distrutto in un attacco suicida. Per molti quello è stato il simbolo del massacro interconfessionale tra sunniti e sciiti. Ma chi ha dato fuoco alle polveri? Non si conosce ancora la verità, ma sia Samarra che Sadr City sono cinte da muri. Altri muri sono nati a Ghaziliyah, Khadra e Ameriyah, nella zona occidentale di Baghdad, tutte aree sunnite. Altri tre muri circondano il distretto meridionale di Rashid. Il governo iracheno, per tentare di rendere meno duro l’impatto di queste barriere sulla vita degli iracheni, nel 2007, ha commissionato ai migliori artisti del Paese scene di vita quotidiana da dipingere sui muri. Come se bastasse disegnare una donna che serve un the o un uomo che fuma il narghilè per rendere meno invasivi i muri settari. Anche il muro di Berlino venne, negli anni, utilizzato per i più svariati disegni e lo stesso accade in Palestina, per non parlare dei murales di Belfast. Ma sono tutte scritte che chiedono di abbatterli i muri, non di farseli piacere.

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POSTFAZIONE Non chiamatemi John Doe di Mustafa Barghouthi con Francesca Borri Perché è amaro e affilato dirlo, ma il vero pericolo, in guerra, è che ci si abitua. Le prime volte, un checkpoint incendia indignati: ma rapida, subentra una sorta di aritmetica istintiva del male minore: difendere quell’anziano da uno sputo è regalare il pretesto per una chiusura. E si è contaminati così, inavvertiti, da una gramigna di tolleranza, via via più larga - perché ogni giorno è giorno e rosario di infinite ingiustizie minime: fino a riscoprirsi pazienti a un checkpoint, distratti come davanti a un semaforo rosso. Ed è qui invece che un’occupazione, una guerra vince: quando si converte in sfondo e paesaggio - quando la mattina a Qalandia, le tre ore che sono i tredici chilometri tra Ramallah e Gerusalemme, si litiga non per travolgere quelle inferriate, ma perché la fila proceda ordinata. E perché è esattamente questo invece, l’obiettivo vero: costringerci a consegnare non un semplice documento, ma con quel documento la nostra identità stessa: ribaltarci da popolo unito in accumulo di arabi che accidentalmente si ritrovano a abitare sparsi tra queste colline - costringerci a credere la vita questa normalità che non è che normalizzazione. E allora non solo il giornalismo, ma anche la pace si fa con la suola delle scarpe: perché la guerra ha bisogno di indifferenza, per diventare guerra - ha bisogno di racconto, per diventare crimine: ma così la pace: ha bisogno di racconto e sguardo, per diventare giusta, parola e luce. Per non essere solo la quiete del più forte, la rassegnazione - uno sguardo vergine di stanchezza, e angoscia e disillusione, uno sguardo illeso di slancio e sogno, rivendicazione, che non conosca abitudine e anestesia. 111


E perché anche questo Muro in realtà, è un Muro che non è stato raccontato abbastanza - anche questo un Muro che non è stato ancora incontrato. Perché hanno contato accurati la lunghezza e i chilometri, e visto l’inflessibile sgomitolarsi di una saracinesca, lì dove io ho visto però, nell’ombra, anche mille brecce e passaggi: perché ogni notte è notte di caccia e spari, lungo il Muro, mentre operai palestinesi attraversano clandestini per lavorare in Israele, sottopagati e senza alcuna tutela, ogni notte la retorica della sicurezza si svende alle lusinghe dell’economia - e in quei passaggi, quegli operai ho visto tutta l’Europa di Schengen, e un cimitero chiamato Mediterraneo. E perché hanno controllato rigorosi le mappe e i catasti della terra confiscata, e visto terra palestinese lì dove io ho visto, però, anche cemento palestinese: e perché è un Muro costruito con il cemento di un cementificio riconducibile al sottobosco del nostro governo - e in quel cemento, in quella collaborazione allora, ho visto tutte le Oslo e Vichy, e élites della storia, e pretesi processi di pace che non sono che riformulazioni di un dominio coloniale mai finito. E perché hanno descritto costanti le macerie, e visto ulivi divelti e case livellate via, lì dove io ho visto però, anche e soprattutto ruspe di ideologia: perché è un Muro che ha fondamenta salde di propaganda e disinformazione, non odio ma piuttosto ignoranza, per la maggioranza, un Muro come ogni muro, presidiato non da soldati, ma da scuole e università, e giornali e televisioni - e in quell’inerzia intellettuale che annuncia la diserzione morale, allora, ho visto tutto l’Occidente e la sua libertà di parola, ma sempre e solo all’interno di un unico e indiscusso linguaggio. E perché hanno studiato attenti, ancora, gli effetti sui palestinesi, e visto un paese collassare in ghetti, lì dove io ho visto, però, anche gli effetti sugli israeliani, e la loro vita collassare in carceri di diffidenza e paura: perché di là dal Muro, da ogni fortino si spia un deserto dei tartari - e in quell’ipocondria 112


come sola forma di salute, non ho potuto che vedere tutta la vostra fragilità, e l’Altro non più una ricchezza ma un problema. Perché avete denunciato in tanti, giusti, Israele e il suo apartheid: ma lì dove io ho visto anche voi: perché sono cinque anni che secondo la Corte Internazionale questo Muro deve essere abbattuto - e in quel parere solo timidamente consultivo, allora, in questi ultimi sessant’anni impuniti di risoluzioni e inchieste, invece che condanne e tribunali, in questo assedio di Gaza a sanzione di elezioni regolari non ho potuto che riconoscere tutte le vostre crociate per l’esportazione della democrazia. Perché questo Muro non è un muro solo israeliano. E perché non è un muro, ma una filosofia - progettato dalla sinistra, costruito dalla destra, non è che l’icona di società imperniate su Hobbes e la paura dell’altro, sulla difesa invece che la paura per l’altro, e tutta la cura, la delicatezza per chi amiamo, e il desiderio di vivere insieme: nient’altro che individui, avrebbe detto Martin Buber, che si affermano distinguendosi da altri individui, scavando distanze classificazioni, e mai invece persone, che si affermano al contrario nell’incontro e scambio con altre persone, e il contatto, la contaminazione. Ed è in questo, allora, che il Muro si fa non tecnica, ma valore, metafora prima che cemento: nell’illusione che la libertà e la sicurezza siano l’autonomia, l’autosufficienza invece che la relazione, l’inclusione l’integrazione - in una tirannia del merito e della competizione in cui il singolo è parametro di tutto, destinato a dominare o subire. Perché se oltre i muri si accampano invisibili i poveri in divisa di ogni tempo e latitudine, immediatamente riconoscibili nelle forme tradizionali dell’emarginazione, dall’altro lato si insedia inedita, e più sottile, la povertà in borghese della solitudine, in un’apparenza di pace che non è che continuazione della guerra con altri mezzi: perché la pace autentica è convivialità delle differenze, non la separazione 113


ma la condivisione, sosteneva il vostro don Tonino Bello: non la semplice distruzione delle armi, né l’equa distribuzione dei pani a tutti i commensali della terra - non organizzare mense, ma aggiungere posti a tavola. E allora è un Muro, questo, che non mi fa prigioniero, ma al contrario - cittadino del mondo. Perché quanta Palestina, e quanta Israele in realtà, lungo la strada verso Belfast, quanto dei nostri stessi ulivi, e rocce e colline in quel paesaggio in cui l’unica discontinuità è incuneata artificiale dalle bandiere. E quanta nakbah, a Cipro, quanto sionismo in quelle case che si chiamavano Kythrea e adesso si chiamano Deghirmenlik, quanta intifada in quei funerali tutti uguali - quanto di ogni guerra se ogni guerra, scriveva Cesare Pavese, non è che una guerra civile: perché ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione. E quanta Gaza in Sambo Sadiako, riportato morto invece che ucciso, quanto del suo genocidio minimizzato a embargo in questi verbi al participio, sempre privi di soggetto, responsabilità. E quanto Arafat in Ocalan, prima martire poi terrorista - e quanta, quanta Palestina in quella clinica precaria e viva dei saharawi, in cui i malati non sono soli, e si parla anche a chi non è capace di ascoltare, e si ama anche chi non è capace di riamare - quanta Palestina, quanto Darwish, in questa bellezza ostinata che ancora sa osare, e giocare in perdita, senza aspettarsi niente in cambio: quanta immunità, in questa umanità. Ricorda Michel Warschawski: l’ebreo è colui che passa, che attraversa: colui che sceglie il confine, e l’inquietudine il dubbio: perché a volte il confine è un limite da tutelare, quando protegge la propria autonomia autodeterminazione, indipendenza, ma altre volte è un limite da attraversare, quando separa a tenuta stagna - e abitare il passaggio, allora, abitare il confine, il solo luogo in cui è possibile espandere la propria libertà: perché non è il luogo in cui il mondo finisce, ma in cui si è costretti all’indagare costante sulla pro114


pria identità, in rapporto all’identità dell’Altro - il luogo della propria libertà, non solo di quella altrui. Ed è in questo consentirmi cittadino di ogni conflitto, avrebbe detto Edward Said, trasversale a ogni confine, che questo Muro mi rende il vero ebreo rimasto in questa terra.

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RINGRAZIAMENTI Sarà perché è il mio primo libro, ma mi sembra di averne un altro da scrivere per metterci tutti coloro verso i quali mi sento in qualche maniera in debito. E ne dimenticherò tanti, ma da qualche parte devo cominciare. Allora grazie. A mio padre, che mi ha insegnato ad amare in silenzio A mia sorella, che mi ricorda sempre di rimanere vivo, fuori e dentro A Francesca, che è arrivata quando non l’aspettavo più. Ad Alessandra, che nasconde un vocabolario magico dal quale trarre sempre la parola giusta A Sara, che ha capito sempre perché partivo A Livio, che mi ricorda sempre di coltivare il dubbio A Francesca Borri, che mi ricorda sempre che scrivere è un dovere A Giovanna, una lettrice che tutti meriterebbero Ad Annalisa, che tenta sempre di far quadrare i conti della mia vita A Maso, che mi ha permesso di realizzare un sogno A Nicola Sessa, che mi ha fatto guardare con occhi diversi A Rosario Esposito La Rossa, che in questo libro ha creduto dal primo giorno A Mustafà Barghouti, che mi ha onorato della sua presenza. A mia nonna, che mi ha insegnato a resistere Ad Adolfino, che mi ha sempre aspettato. Fino all’ultimo giorno A tutti gli altri. 117



INDICE

Introduzione....................................................................................7 Prefazione (di Nicola Sessa).........................................................11 Capitolo 1: Cipro, l’ultimo muro d’Europa..................................17 Capitolo 2: Belfast, la guerra dei murales....................................35 Capitolo 3: Israele e Palestina, diritto contro un muro................47 Intermezzo: Un mondo di muri....................................................63 Capitolo 4: Sahara Occidentale, un muro tra le dune..................75 Capitolo 5: Ceuta e Melilla, una rete tra due mondi....................89 Capitolo 6: L’Iraq liberato, chiuso tra nuovi muri.......................99 Postfazione: (Barghouti e Borri).................................................111 Ringraziamenti............................................................................117

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Finito di stampare nel mese di Novembre 2010 presso la tipografia Seristampa - Palermo


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