Napoli in un orto

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Inpentola 2



Rosa Orfitelli

NAPOLI IN UN ORTO

Marotta & Cafiero editori


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©Marotta & Cafiero editori Via Andrea Pazienza 25 80144 Napoli www.marottaecafiero.it ISBN: 978-88-88234-96-0

Disegni di Gennaro Monforte


A Chiara che mi ha sempre spronata a scrivere, sperimentare, annusare, osservare. A Diego, che si definisce “emigrante volontario”, ma vuole coltivare l’importanza del gusto legato alle sue radici affettive. A quanti amo, non q.b. (quanto basta), ma in modo smisurato… Grazie, con tutto il cuore.



Prefazione

La corazza tra noi e il brutto!

Ore 05:00, ancora non spunta il sole, ormai è segno che si avvicina l’inverno e come spesso accade arriva con esso un po’ di strana malinconia; poi pensi al ciclo necessario delle stagioni, alla benefica rigenerazione della natura e vai con la mente alla ricerca dei ricordi profumati, quelli legati alla memoria delle cose buone, ai colori delle campagne, per chi ha avuto il privilegio di giocarvi da piccolo. Invece, come accade sempre più spesso, sono in attesa di un “amico contadino”, che con molta preoccupazione e qualche iniziale titubanza, mi porterà a vedere l’ennesima discarica che minaccia il suo coltivato, la sua frutta, i suoi ortaggi. Ancora un incendio di rifiuti tossici, ancora fumo e puzza di veleno che si attaccano sulla pelle, tra i capelli, sui vestiti. Devi lottare per non farla entrare nei ricordi, non li vuoi perdere. Sei costretto a fare spazio nella mente alla mappa della terra malata, mentre osservi la colonna di fumo nero, più scuro della notte che sta per abbracciare case, paesi, abitanti, campi… e con rabbia ti chiedi quanti occhi stanno vedendo la stessa cosa, quanti polmoni stanno respirando il frutto del guadagno illecito, e come fanno ad entrare nel corpo della campagna nostra. 9


Ecco, spunta il sole, ed insieme la forza dei ricordi si fa luce, i miei ricordi profumati, delle cose buone, dei sapori giusti, il profumo di quella terra, fresca, che solo chi ha usato la zappa sa respirare. Questa è la corazza tra noi e il brutto, per non perdere la memoria, per impedire all’animo di sentirsi lontano dal luogo per cui ha lottato, per non vivere lontano da dove esisti, insieme alla tua comunità, ai racconti senza tempo, alle storie di chi non conosci, ma che esistono nella piazza, nella strada, nella campagna, nell’orto dietro l’angolo. In questi momenti, e grazie alla forza gentile di Aldo, dell’entusiasmo inesauribile di Ciro e al circolo di Legambiente “la Gru”, proprio nel cuore di quella che denominammo “la terra dei fuochi”, mi arriva la prima stesura di un libro, il libro di Rosetta. In uno di questi tristi sopralluoghi, di questo rosario di cave, discariche, cemento e monnezza, questo libro mi ha riempito il cuore di sapori buoni, un tuffo in cose profumate e genuine, nella ricchissima vita semplice. Ad ogni pagina una storia di ingredienti saggi e umani, di persone capaci di fare comunità, condivisione, appartenenza, ricostruendo parole e sapori declinati in un ciclo naturale che ti stupisce, quasi non ci credi che il buon cibo, la buona lettura, il racconto, esistano ancora. Un orto che racchiude l’anima di ricette e ricordi, concimato a festa con lo scorrere della quotidianità, senza pretese, con ingredienti crudi e nudi, cotti e condivisi attraverso il profumo di quando si alza il coperchio della pentola, un vapore caldo saporito, che esce dalle pagine e ti avvolge, che non inquina nessuno, fatto con il frutto del lavoro di tanti per molti. Ad ogni ricetta di questo libro ti appassioni nel seguire un geniale calendario del vivere semplice, del buon senso, riempiendo una cassetta di bontà da utilizzare per arginare la deriva del cibo spazzatura, della distorsione da consumo, contro la follia dell’usa e getta, per quantificare lo spreco di alimenti che ogni anno buttiamo in di10


scariche (circa 500 euro di cibo commestibile per un nucleo di quattro persone) contro il delirio da predazione, per frenare la deriva del regime della “merendina”. Perché solo se consumi vali!?! Le pagine di Rosetta sono ricette di conciliazione fra tempi sbagliati e memorie cancellate, ricordandoci gli ingredienti della buona Terra. “A terra preferisce durmì… ca avè a che fà cu ’e scieme.” Una verità racchiusa nelle pagine del libro, inserita in un cesto di parole che fanno parte degli ingredienti delle ricette, vanno gustate insieme, per avere la dimensione di quanta ingiustizia stiamo iniettando nelle nostre vite e nei nostri territori. Una verità che va raccontata sempre con più forza perché i nostri orti rischiano di sparire sotto i colpi dell’ecomafia, che continua a scaricare tonnellate di veleni sotto le campagne, e che qualche volta riesce anche a farla franca. È di questi giorni la notizia dell’avvenuta prescrizione di un processo denominato Cassiopea, le cui indagini hanno portato alla luce il marcio della corruzione e del traffico dei rifiuti Nord - Sud, tonnellate di veleno iniettato nelle vene della terra. Prescrizione per i tempi lunghi del sistema processo, della memoria corta di una nazione che si distrae troppo facilmente. Una prescrizione che non è una sconfitta di pochi, ma una colpa di tanti. L’anima di Napoli, di una terra in un orto, quanta vita gira intorno ad un ortaggio, quanto lavoro, quanta speranza; dal momento in cui si pianta a quando si raccoglie passano i giorni e i mesi. Tutto ciò è raccontato nel libro che ho deciso di rileggere più volte e questa volta in compagnia di mia moglie, una vera colonna, uno scrigno di coerenza e forza, che si adopera in tutti i modi per non dirmi che quando torno a casa i miei abiti puzzano di discarica, che cerca di non leggere nei miei occhi il riflesso del degrado, descrivendomi il suo lavoro, la progettazione ecosostenibile, il bello possibile, mentre ci aggrappiamo ai profumi della sera. E questa sera leggeremo una bella ricetta profumata, inviteremo a cena il libro di Rosetta. 11

Raffaele Del Giudice


Introduzione

L’Araba Fenice

Le “parietarie” e “le graminacee”, responsabili della mia perenne allergia, non hanno scalfito la mia passione sconsiderata per il mondo delle piante. Non hanno neppure attenuato la mia frequentazione di boschi e parchi, né tanto meno mi hanno impedito di contribuire a sistemare aiuole, orti e piccoli giardini in contesti, essenzialmente, periferici. Anche in primavera, quando la vegetazione esplode nella sua fantasmagorica varietà di colori e profumi, sollevando e diffondendo, però, nuvole di polline che accentuano le conseguenze della rinite allergica. Nei vari decenni ho provato quasi tutti i rimedi possibili, antistaminici, spray nasali, vaccino, con alterna fortuna; mi mancava l’omeopatia. Perché non provare? Tra parecchio scetticismo ed una punta di speranza mi sono recato da Rosetta, la mia amica omeopata, spinto anche dalla gioia di rivederla. Rosetta è stata per la mia famiglia una presenza amica dalla prima ora; colei che, più di tutti, ha accompagnato le gravidanze difficili di mia moglie (Rosa anche lei!) ed ha seguito i primi passi dei nostri 12


figli, Cristiano e Luca, con affetto sincero e la delicatezza che la contraddistingue. Non sempre la vita è stata generosa con lei, ma ha saputo sempre affrontare le numerose difficoltà con coraggio e forza d’animo, risorgendo continuamente, novella Araba Fenice. Nulla le è stato regalato. Ma i dolori, le fatiche, le contrarietà non hanno allentato la sua generosità e sensibilità e nemmeno la carica di ironia e di ilarità che contagia e coinvolge gli interlocutori delle sue frequenti narrazioni. Ci accomuna l’origine umile e popolare, una sintonia valoriale, il desiderio di una vita semplice e comunitaria, una disponibilità all’ascolto, l’attenzione verso gli ultimi, un’affinità spirituale.1 Chiaramente il suo approccio con la medicina è particolare, ma ancora più particolare è la sua relazione con i pazienti. Sì, pazienti, perché bisogna aspettare un bel po’ prima di accedere al suo studio. Un’attesa abbondantemente ripagata da un’accoglienza a braccia aperte; dopo poco qualche tossina accumulata si diluisce e scorre via. Raccontarsi reciprocamente è il primo approccio. Una medicina globale che parte da una conoscenza complessiva del soggetto che non viene sezionato in organi ed apparati. In questo contesto è nata l’idea del libro. Rosetta aveva letto ed apprezzato il mio libro “Il Giardino del Liceo. Un ponte tra le generazioni” e, prendendo spunto dal mio amore per le piante, ha cominciato a raccontarmi aneddoti che narrano di una cucina semplice, povera, sull’onda della tradizione, basata essenzialmente sull’uso di ortaggi e verdure in genere. Le periodiche sedute alla ricerca di una soluzione alla mia allergia, si aprivano con i racconti di Rosetta. E lei, con il suo linguaggio colorito, il brio espressivo e con gli occhi che, difficilmente, nascondevano la sottile commozione, mi faceva rivivere la tradizione di un popolo, povero ma generoso, che sembra aver smarrito, almeno sembra, la proverbiale solidarietà sotto i colpi di una modernità che ha portato individualismo e poca attenzione all’altro e alla natura. Una solidarietà che si consumava attorno ad una mensa sobria ed ospitale. 13


Perché non raccogliere queste piccole storie? Farne un libro. Un libro di una memoria alimentare che può essere recuperata. Un libro che mostri il legame inscindibile tra alimentazione e salute. Un libro capace di riproporre l’amore per la propria terra. Un libro che consegni alle nuove generazioni un barlume di speranza. Tante sollecitazioni interessanti, ma anche qualche perplessità. Sarà infine la pressione all’interno della famiglia, in particolare della nipotina Chiara, a convincere definitivamente Rosetta a cimentarsi. E così prende corpo la struttura del libro. Un racconto, una ricetta, la scheda di un ortaggio, seguendo il ritmo delle stagioni. Mangiare è certamente un fatto naturale, ma ad un atto così semplice sono connessi molti sentimenti e, talvolta, anche qualche ossessione. In genere desideri ed emozioni personali e comunitarie accompagnano il consumo di un cibo. Ma la frenesia e la fretta di una vita convulsa, la solitudine di un modello sospettoso ed avaro, ma, soprattutto, la dieta occidentale fatta di cibi industriali e raffinati, con prevalenza di carne, grassi e zuccheri aggiunti, hanno creato un forte contrasto tra alimentazione e salute. Abbiamo perduto questa semplice ed elementare consapevolezza. Eppure già Ippocrate affermava: “Che il cibo sia la tua unica medicina!” E recenti studi confermano che le malattie più frequenti e deleterie che affliggono il mondo occidentale si possono prevenire con una sana e accorta alimentazione. “La grande percentuale di tumori attribuibili alla natura dell’alimentazione occidentale è, come abbiamo visto, un segnale di degrado delle abitudini dietetiche di una società che ha perso contatto con la nozione stessa di sana alimentazione e che concepisce l’atto del nutrirsi esclusivamente come un’azione destinata ad apportare energia all’organismo, senza riguardo per il suo impatto sulla salute.”2 Verdura e frutta sono state sempre più allontanate dalle abitudini alimentari della popolazione occidentale e si fa fatica a trovare qualche bambino o qualche giovane che guardi con simpatia a questi alimenti essenziali. “I vegetali non sono semplicemente una fonte di vitamine e minerali: contengono anche diverse migliaia di composti fitochimici che svolgono un ruolo fon14


damentale nella capacità di queste piante di contribuire al mantenimento della buona salute.”3 Una sapiente e ben orchestrata pubblicità, l’atmosfera che circonda i cibi industriali che Pollan definisce “sostituti pseudoalimentari”, la loro preparazione e le modalità di offerta, la loro accurata collocazione nei templi del consumo moderno, i supermercati, divenuti luoghi del tempo libero, hanno determinato una diseducazione del gusto, privilegiando solo parte delle nostre papille gustative, e facendo prevalere aspetti marginali ma accattivanti nelle scelte alimentari. E Pollan nel suo più recente libro afferma: “Non mangiate niente che la vostra bisnonna non riconoscerebbe come cibo. I cibi odierni vengono progettati a tavolino, con il preciso scopo di farci comprare e mangiare di più, facendo leva su alcuni automatismi evoluzionistici: la nostra preferenza innata per il dolce, il grasso ed il salato.”4 Alimentazione ed agricoltura rappresentano un binomio inscindibile. È la comparsa dell’agricoltura ad avviare nel solco della storia la nostra civiltà e a garantire la sopravvivenza e la prosecuzione della nostra specie fino ai nostri giorni. Inutile negare che una certa follia dell’uomo moderno, sotto una sconsiderata guida della politica e dell’economia, ha creato le condizioni di una pericolosa crisi dell’agricoltura e dell’agricoltura di qualità. La campagna italiana è assalita dal cemento e alla terra si chiede uno sforzo produttivo intensivo, stressandola con tecniche e prodotti di origine chimica che ne determinano, nel tempo, la sterilità. Tutto ciò ha una ricaduta anche sul paesaggio, vanto dell’identità nazionale, che appare trasformato e sempre più fragile. La nostra regione, la Campania, ha subito le ferite più profonde per queste, ma anche per altre scelte scellerate. La fertilità del suolo campano, che ha consentito agli antichi di parlare di Campania Felix, avrebbe dovuto suggerire la scelta della vocazione agricola per la nostra regione. Se l’agricolutra fosse stata individuata come uno dei settori primari e trainante per l’economia dell’intero territorio italiano, questa terra, la nostra terra, avrebbe dovuto essere considerata una risorsa nazionale, da salvaguardare come patrimonio comune. 15


La Campania era concordemente celebrata dagli autori antichi come regione tra le più belle e fertili d’Italia. Ne parlano Polibio, Virgilio nelle “Georgiche” e Plinio il Vecchio, nella “Naturalis Historia”, che tra l’altro scrive: “Come parlare, anche se solo della costa campana, e di quella sua amenità fiorente e splendida, che mostra come la potenza creatrice della natura in un momento di grazia si sia concentrata in un solo luogo? E tutta quella vivificante e ininterrotta salubrità; quella mitezza del clima, i campi così fertili, colli così ridenti”. Dopo l’unità d’Italia furono queste considerazioni a suggerire il nome Campania per l’attuale territorio della nostra regione, anche se dal punto di vista fisico sarebbe stato appropriato il termine Montania.5 La natura vulcanica del suolo, fornendo il corredo di quasi tutte le sostanze necessarie alla crescita e allo sviluppo delle piante, lo rende particolarmente fertile. Nozioni che sono andate sfumandosi col trascorrere del tempo e che non hanno trovato ospitalità in una visione politica ed economica un po’ rozza e sicuramente poco lungimirante. Ma ha avuto il suo peso anche un imbarbarimento complessivo della popolazione, evidenziato dall’incapacità di gustare la bellezza, dal poco impegno per conservare l’integrità del territorio, dal non riuscire a capire che bello ed utile possono viaggiare insieme. Ad ogni modo, c’è di più e c’è di peggio. Una triade perversa, gli industriali del nord, alleati con la camorra e alcuni corrotti amministratori locali, attraverso la tecnica del “giro di bolla”, com’è stato accertato dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere, e com’è stato denunciato, più volte, da Roberto Saviano, con il grande business dei rifiuti tossici, ha trasformato la Campania nel secchio dell’immondizia delle imprese del Nord. “Un’intera area, tra la provincia di Napoli e Caserta, inquinata e avvelenata.Un’unica distesa di frutteti, serre, campi di ortaggi, tutto coltivato con concime a base di diossina. Un mix di rifiuti tossici e veleni. Tanti. Da mettersi le mani nei capelli; insalate al cianuro, finocchi da sballo, ma anche zucchine impazzite, mele alla diossina e pesche miracolate. Nella pancia di quella che una 16


volta era la Campania Felix, la camorra ha vomitato di tutto: polveri da abbattimento dei fumi di industrie siderurgiche, ceneri da combustione, olio minerale, morchie oleose di verniciatura, vernici di scarto, fanghi prodotti da trattamento di depurazione dell’acqua di industrie chimiche. E ancora inchiostro di scarto, melme acide, feci animali, letame, urina di ogni tipo, fanghi velenosi e tossici, ceneri, scorie di alluminio. E per finire cromo, rame, zinco, cadmio in quantità industriale. Neanche un premio Nobel per la chimica sarebbe stato capace di mettere insieme un cocktail così micidiale e come ciliegina sulla torta tonnellate e tonnellate di percolato, la peste del nuovo millennio.”6 Questo quadro fosco e desolante dipinto da Peppe Ruggiero dovrebbe generare rabbia e indignazione nei cittadini campani, in maggioranza gente per bene, nei confronti di questi traditori della propria terra, che hanno devastato il territorio che sarà calpestato dai loro figli e nipoti. Nello stesso tempo dobbiamo individuare strategie culturali e politiche per partecipare al recupero e alla conservazione del territorio ancora disponibile, perché, anche se in tempi certamente non brevi, Napoli e la Campania possono risorgere! Bisogna chiedere, innanzitutto, la bonifica dei territori devastati, finanziando e utilizzando la ricerca che la Facoltà di Agraria sta portando avanti. Ma chi pagherà questa bonifica lunga e complessa? Una cattiva interpretazione del “federalismo” potrebbe addossare il danno esclusivamente a chi ne ha subito la beffa. I responsabili di questo ecocidio, per lungo tempo lasciato sotto silenzio, non possono rimanere impuniti; responsabili diffusi su tutto il territorio nazionale e, pertanto, questa bonifica dovrebbe diventare una vera e propria questione nazionale. Contemporaneamente bisognerà difendere a denti stretti la parte di territorio salvato alla devastazione ed ancora utile per l’agricoltura, evitando disegni perversi di eventuali cementificazioni e di utilizzazioni improprie. Bisogna accentuare la pratica della confisca dei beni alla camorra e accelerare l’assegnazione a quelle cooperative giovanili coraggiose che rappresentano la speranza e il riscatto della nostra storia e della nostra terra. Fornire loro sostegno ed assistenza e incanalare i loro prodotti in un circuito più vasto possibile. 17


Ci sono, infine, piccoli lembi di territorio, frammenti dispersi in varie direzioni, spazi incolti, che possono essere recuperati creando “piccoli orti urbani”, microesperienze di resistenza contro propositi speculativi, per sperimentare tecniche di agricoltura biologica, per avvertire la gioia di trasferire “un po’ di anima e sudore napoletano” alla terra madre, per conservare un patrimonio di saperi e sapori antichi che non sono andati completamente perduti. Curare un orto è un’occasione per fare esercizio fisico e produttivo all’aria aperta, in compagnia di persone con cui si vogliono seminare gocce di speranza per il futuro, ma rappresenta anche un’attività redditizia; secondo la National Gardening Association, settanta dollari investiti in un orto producono una quantità di cibo pari a settecento dollari di spesa al supermercato.7 Congruentemente, mi pare importante la moltiplicazione dei GAS (Gruppi di Acquisto Solidale), gruppi di persone che si organizzano e si collegano ai luoghi di produzione biologica locali per creare filiere corte di consumi, abbattendo perdite e sprechi, incentivando un’agricoltura di qualità, salvaguardando il benessere del territorio e conservando un patrimonio di tradizione e di cultura. Anche in Africa, dove per altri problemi, il deserto avanza e la fame cresce, spesso nell’indifferenza colpevole dei paesi ricchi e spreconi, dietro l’impulso di splendide persone, come il premio Nobel per la Pace 2004, Wangari Muta Maathai, si comincia a pensare alla realizzazione di mille orti, per arginare l’espansione delle monocolture e salvaguardare la biodiversità locale. Anche Rosetta con il suo libro contribuisce a questa strategia, e il titolo “Napoli in un orto” è la dichiarazione esplicita del suo pensiero, ancor di più se si considera la sua volontà di contribuire con la vendita di questo libro a creare un piccolo orto biologico in terra di Scampia. Aldo Bifulco

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Il significato della stagionalità

Rispettare la stagionalità dei prodotti della terra non è una delle tante mode più o meno in voga del guru di turno, è il ritorno alle radici, è preservare la memoria del proprio popolo, è tornare al “senso” delle cose, al rispetto della natura e dell’altro, è rispetto per il proprio corpo che racconta ciò di cui ha bisogno ad un popolo di sordi profondi. Ricordare cosa la stagione offre è non perdersi nel delirio di onnipotenza del globale, che appiattisce mente e anima: devi innanzitutto consumare, e velocemente, perché è vietato fermarsi a pensare. Ricordare la stagionalità dei prodotti è un atto di amore e rispetto verso se stessi, per cui un calendario semplice, in cui è segnato in grassetto ciò che va esaurendosi nell’arco del mese, può essere un piccolissimo aiuto a riflettere su come ci nutriamo, per poter cambiare qualcosa anche per le generazioni future e per riprendere il senso vero delle cose con cura dei doni ricevuti e gratitudine verso madre terra. LEGENDA RICETTE

j : ogni faccina indica una persona r : ogni orologio indica 15 minuti

k : ogni coltello indica un livello di difficoltà

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Gennaio Michele e zia Rosa

“O

ggi è proprio freddo, i bambini sono tornati da scuola con le dita blu e i nasi paonazzi! “Zì Rò è freddo secco, fa bene, i bambini si devono abituare, è freddo che non fa danno…” “Sarà, ma le mie ossa non sono d’accordo! Domani è Sant’Antuono Abate, faranno le lampe; Tonino giù ha già preparato la spalliera del letto tutta tarlata per fare un bel fuoco.” “Zì Rò, sarebbe bello avere qualcosa da arrostire con il fuoco, ma più che scaldare la carta oleata della sugna, per fare odore, non c’è niente! Quando dicono che Sant’Antuono s’annammuraie d’o puorco, in senso dispregiativo, mi viene da ridere: mica era fesso Sant’Antuono, del porco non si butta via niente, nemmen’e pile! A proposito d’e pile, zia Rosa mia, parliamo di un fatto importante: oggi è 16, quindi periodo critico fino al 27... ma una cutenella con virzo e riso ce la possiamo permettere? A me, lo sapete, vanno bene due zuppierelle che ci faccio pranzo e cena da re!” 20


“Michele, io già avevo detto a Maria di prendere una bella cotica e me la sto conservando nello straccio di tela, sulla finestrella, scrupolosamente. Domani ti preparo verza e riso con la cotica, ai bambini due tubetti con l’uovo, perchè la verza non la vogliono.” “Zia Rò, quelli perciò sentono freddo e diventano blu: non sanno mangiare! Come si fa a chiamare puzza virzo e riso c’a cutenella? ‘Sti criature hanno bocca e naso sbagliati, ma voi siete speciale, piena di risorse, con quella cotica nello straccio avete acceso la ‘lampa’ nel mio cuore: già vedo la mia zuppierella!”

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RICETTA

Riso e verza Persone: j j j j Tempo: r r r r Difficolta’: k

Ingredienti:

1 verza, 320 g di riso, 3 cucchiai di olio extravergine, pecorino grattugiato, 1 cotica di maiale (optional), aglio, sale q.b. N.B. per molte famiglie partenopee il “piatto cucinato”, cioè il primo piatto, è sempre stato piatto unico del pranzo. In questo caso, soprattutto d’inverno, l’aggiunta di una cotica non crea gravi danni alla dieta.

Procedimento:

lavare le foglie della verza e asportare la parte centrale bianca più doppia. Spezzettarle e lessarle per 20 min quindi scolarle e metterle in un tegame in cui si sarà soffritto l’olio con l’aglio tagliato piccolo piccolo e sale q.b. Cuocere 20 min (se piace va aggiunto peperoncino) con l’eventuale cotica sgrassata con il coltello, a cui si sarà provveduto a bruciacchiare i peli sulla fiamma. La cotica andrebbe cosparsa, all’interno, di pecorino e un pezzettino di aglio, arrotolata e stretta con lo spago. Quando è il momento di calare il riso nel tegame con la verza, si toglie la cotica, si taglia lo spago e la si riduce a fette doppie in ogni piatto dove verrà aggiunta la minestra di riso e verza. Per ultimo si cosparge la minestra con romano grattugiato. La tradizione vuole che si mangi un po’ “riposata” per 5-10 min. 22


SCHEDA

LA VERZA

Alla famiglia delle Brassicaceae appartengono i “broccoli” e i “cavoli”, alimenti che spesso vengono trattati con diffidenza e non suscitano entusiasmo, specie in età giovanile, ma che rappresentano, invece, un vero toccasana. Da apprezzare per le virtù terapeutiche, in particolare perché contengono sostanze che diminuiscono notevolmente il rischio di tumori. La verza o cavolo-verza, è una varietà di cavolo, simile al cavolo cappuccio. Il suo nome deriva dal latino “viridis” (verde) per via del suo colore.

Breve storia

La verza rappresenta la varietà probabilmente più vicina al cavolo selvatico, originario delle regioni costiere mediterranee e, quindi, una delle specie coltivate da più lungo tempo. Conosciuta fin dall’antichità era considerata sacra ai Greci. 23


Il greco Teofrasto (372-287 a.C.), padre della Botanica, ne parla nei suoi trattati. Anche nel mondo romano, con Plinio e Catone, si parla dell’importanza e della coltivazione della verza. In particolare Catone attribuiva la proverbiale salute di ferro dei Romani proprio al largo uso di verza che essi facevano nelle loro diete. In ogni caso, essa ha rappresentato, per secoli, uno degli alimenti principali degli equipaggi delle navi, proprio per rinforzare il magro regime alimentare durante i lunghi viaggi. Viene menzionata nel XVI secolo per la prima volta in Lombardia. Ora viene coltivata in varie zone d’Italia, specie nelle regioni centro settentrionali. Forse anche per questo è detta “cavolo di Milano”. È una pianta invernale che viene raccolta da ottobre a maggio; da aprile a maggio cessa la raccolta della verza per far posto al cavolo cappuccio, simile alla verza, ma di diversa consistenza e tipicamente primaverile, più dolciastro e adatto per essere cucinato in umido. Le verze migliori migliori sono quelle che hanno subito la prima gelata.

Botanica

Nome comune della pianta Brassica oleracea sabauda; è una varietà di cavolo, simile al cavolo cappuccio, ma a differenza di questo presenta foglie grinzose, increspate con numerose sottili nervature diffuse, mentre quella centrale è molto più pronunciata e di colore bianco. Le foglie esterne sono rivolte in fuori, quelle interne, di colore giallastro, sono raccolte a palla ma meno strettamente embricate di quelle del cavolo cappuccio. La forma della parte edule (denominata testa o palla) può essere sferica o subsferica, appiattita o conica. Il peso varia da 1 a 2 kg. Il sapore è intenso e caratteristico e le foglie sono croccanti. 24


Il cavolo verza è una pianta biennale con radice fittonante non molto profonda, possiede un breve fusto eretto, di lunghezza raramente superiore a 30 cm. Resistente al freddo, fiorisce solo nel secondo anno di vita. Per poterla mangiare viene raccolta prima della fioritura da ottobre in poi. Il cavolo verza si semina in autunno o a fine inverno in terreno ben lavorato, fresco, molto ben concimato e si trapianta quando le piantine hanno emesso la quarta foglia, all’incirca dopo quaranta giorni.

Proprietaû

Essa è una miniera di energia vitale. Contiene tutte le vitamine tranne la B12, e, in particolare, vitamina E e acido folico. La ricchezza del cavolo verza in zolfo, arsenico, calcio, fosforo, rame, iodio può spiegare le sue virtù digestive, rimineralizzanti, ricostituente cerebrale e riequilibratore generale. La sua clorofilla ne fa un antianemico. Il succo fresco ha la proprietà di cicatrizzare e quindi molto utile in casi di ulcera. Contiene un raro principio attivo (gefarnato) che ha il potere di rinforzare la mucosa dello stomaco proteggendola dagli acidi. Non contiene glutine, perciò è utile per la celiachia. Inoltre 200 g di cavolo verza contengono 44 calorie. Essendo molto sazianti sono utili anche per una dieta ipocalorica. Forse pochi sanno che è molto efficace per prevenire e curare le dermatiti e lo zolfo in esso contenuto costituisce un rimedio per la pelle grassa, acne e alcuni eczemi. Per questo motivo è usata anche in cosmesi. Esiste qualche controindicazione per coloro che hanno problemi di ipotiroidismo o affetti dalla sindrome del colon irritabile. Accurati studi hanno dimostrato che il cavolverza, grazie alle sue proprietà, in particolare alla presenza di al25


cune sostanze dette indoli, è da considerarsi protettivo nei confronti di alcuni tumori, soprattutto quelli dell’apparato digerente e urinario.

Curiositaû

La minestra maritata deriva dal fatto che gli ingredienti di carne e verdura si maritano in un’esplosione di bontà e gusto. Durante le festività, nei mercati rionali di Napoli si possono acquistare le verdure tipiche per preparare la minestra, ovvero cicoria, scarulelle, verza e borragine. In qualche variante si usa anche la catalogna (puntarelle). La carne è tipicamente di maiale con tracchia e salsicce. Nell’antica Roma i cavoliverza si usavano per scacciare la malinconia e la tristezza, ma anche per tamponare gli eccessi, infatti i Romani, buongustai per natura, li mangiavano crudi prima dei banchetti per aiutare l’organismo ad assorbire meglio l’alcol.

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Broccoli scuri (“vrucculilli”) Broccoli castellani Carciofi Carote Cavoli Cardi Cime di rapa (broccoli baresi) Cicoria Finocchi Friarielli Funghi champignon Lattuga Porri Scarola Spinaci Verza Zucca

(*) N.B. Gli ortaggi in grassetto rappresentano quelli che stanno per esaurirsi nel mese di gennaio.

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Febbraio Servizio di guardia medica notturno

I

l medico girava già da un po’ nel dedalo di vicoli di Casoria vecchia; i numeri civici dei palazzi erano stati cancellati dall’usura del tempo, così come il colore dai muri, che risultavano quasi tutti in pietra viva di tufo, esposta più come nudità carenziale che come elemento architettonico. Finalmente l’apparizione del numero civico in questione, intravisto alla flebile luce di un accendino. L’odore di cavoli permeava le scale scoscese in modo così violento che l’olfatto iniziava a non percepirlo più. La richiesta di visita domiciliare indicava febbre e dolori addominali in un ragazzino. Il dottore entrando in casa comprese subito che era giunto alle origini dell’odore di cavolo, poiché nella casa esso era ancora più forte. La signora lo accolse con visibile sollievo, soprattutto perchè era un uomo, e lei aveva espressamente chiesto un medico “masculo” per il suo bambino! 28


Il sanitario era già totalmente rassegnato ad ascoltare ulteriori assurdità: avrebbero contribuito ad arricchire la lista di quelle già accumulate in diversi anni di lavoro in guardia medica. Arrivò nella camera da letto dei genitori il “bambino”: un armadio quattro stagioni di diciannove anni! La signora dovette intuire i pensieri del medico seguendone lo sguardo, poiché si affrettò a sottolineare: “Sapete dottò, per noi mamme anche se i figli si fanno vecchi sono sempre bambini”. Il medico iniziò a visitare il ragazzo di un metro e novanta per cento chili di peso: la lingua era sporca e la pancia mostrava segni di spasticità. Chiese alla madre del ragazzo se questi avesse mangiato cibi particolarmente pesanti da creare l’intasamento intestinale riscontrato. “No, dottò, mio figlio mangia sano, cucinato a dovere! Oggi, per esempio, perchè non stava bene, gli ho fatto pasta e cavoli e frutta, stasera cavoli all’insalata.” Il medico chiese il perchè di tanto cavolo. “L’ha detto la televisione che chi mangia il cavolo non piglia i virus e il cancro! E io ai miei figli ci tengo!” Il dottore aggiunse che il cavolo era ottimo, faceva bene, ma non si poteva definire cibo leggero per chi ha problemi intestinali. “Dottò, ma non è così” rispose la donna “perchè io pasta e cavoli la faccio bollita e l’alleggerisco con le pummarulelle!”

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RICETTA

pasta e cavolo PERSONE: J J J j TEMPO: r r r DIFFICOLTA:’ k

INGREDIENTI:

1 cavolo, 3 cucchiai di olio extravergine, 1 ciuffo prezzemolo, aglio, 320 g di pasta mista, pepe o peperoncino (se piace si aggiungono 3 pomodorini del “piennolo”), sale q.b.

Procedimento:

soffriggere l’olio e l’aglio tagliato piccolo, aggiungere acqua e portare ad ebollizione. Lavare il cavolo e tagliarlo a pezzetti. Quando l’acqua bolle calarlo nella pentola con il ciuffo di prezzemolo e il sale, quindi cuocerlo per 30 min fino a ridurlo quasi in crema, con l’aiuto del cucchiaio di legno. Prima di calare la pasta aggiungere al cavolo un pò di acqua e quando bolle, versare la pasta e cuocere a fuoco lento, con il coperchio, il tutto. Se piace ai cavoli è possibile aggiungere all’inizio 2-3 pomodorini del “piennolo”. Quando la minestra è pronta si scodella e si aggiunge pepe o peperoncino.

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SCHEDA

IL CAVOLFIORE

Il cavolfiore (cavolisciore in dialetto) è simbolo di frugalità e semplicità, difficilmente lo si ritrova nelle mense di rappresentanza, e per questo lo si usa come sinonimo di “cosa priva di valore” in molte comuni espressioni, come per esempio: non vale un cavolo, non ti do un cavolo, è una cavolata, ecc. Niente di più falso, perché grazie al perfetto equilibrio dei suoi numerosi componenti esercita un’azione benefica sulla salute di tutto l’organismo. È una brassicacea e possiede tutte le virtù di questa famiglia; contiene principi anticancro, antibatterici, antinfiammatori, antiscorbuto; è depurativo e rimineralizzante. Sono molte le ragioni, quindi, per una sua completa rivalutazione. Rimane, comunque, il problema che si tratta di un alimento dalla digestione laboriosa e perciò non molto adatto a una merenda. Da ciò è nato il detto ci sta come un cavolo a merenda quando si vuol sottolineare come qualcuno o qualcosa non siano adatti a un ruolo o a un luogo. 31


Breve storia

Il nome è dal latino caulis-floris (fusto-fiore). Se ne sostiene l’esistenza già dal VI secolo a.C. Le notizie più sicure risalgono al XII secolo in Spagna dove si descrivono alcune varietà introdotte dalla Siria. Nel XVI secolo vengono riportate notizie sulla sua coltivazione in Turchia ed in Egitto. In Italia la sua introduzione è certamente venuta dall’isola di Cipro, per opera dei Veneziani. Divenne coltura da pieno campo dopo il 1883, che ne segnò l’inizio dell’esportazione a mezzo dei vagoni ferroviari. Attualmente il primo produttore mondiale è la Cina, seguita dall’India. In Europa, l’Italia si colloca al secondo posto dopo la Francia e al quinto nel mondo. Fra le regioni, la Campania è al primo posto. Questa varietà di cavolo è probabilmente un discendente dei broccoli che si è spostato verso il Medio Oriente con la caduta dell’Impero Romano, per poi tornare in Europa. Il cavolo, ortaggio capostipite di molte altre verdure, è molto presente sia nella storia dell’alimentazione che nelle tradizioni letterarie antiche e medioevali

Botanica

Il nome scientifico è Brassica oleracea L.var.botrytis. Presenta una radice fittonante poco profonda, un fusto semplice e basso che porta all’estremità alcune foglie che racchiudono e nascondono la gemma apicale che comincia a comparire solo quando il diametro raggiunge i 4-5 cm. Sono stati necessari sforzi considerevoli per selezionare questo cavolo con infiorescenze così abbondanti e privi di clorofilla, a causa del loro sviluppo sotto uno spesso strato di foglie. La parte edule in effetti non è il fiore, ma la gemma 32


terminale ripetutamente divisa (corimbo) e per questo motivo viene portato come esempio del “frattale” (una figura geometrica in cui un motivo identico si ripete continuamente su scala). L’essere commestibile è dovuto all’assenza di sclerenchima e di vasi legnosi nel peduncolo della gemma che si presenta tenera. Il cavolo è una pianta biennale e i veri fiori sono gialli, si aprono di pomeriggio e sono maturi il mattino dopo. I frutti sono delle silique. Si riproduce esclusivamente per semi. Le migliori produzioni si ottengono in zone a clima fresco, umido e con assenza di gelate. Resiste mediamente alla salinità. Per evitare forti attacchi di parassiti, è una coltura che non va ripetuta sullo stesso terreno soprattutto se non vengono eliminati i residui della vegetazione dopo la raccolta. In Italia viene seminato in vivaio e quindi trapiantato in pieno campo. In commercio ha un particolare successo il Cavolfiore gigante di Napoli, con la sua struttura grossa, convessa, compatta, di un allettante colore bianco.

Proprietaû

È un alimento ricco di sostanze benefiche, oltre a protidi, lipidi, glucidi, fosforo, calcio e iodio, potassio, zinco e rame contiene molte vitamine del gruppo C e in misura minore quelle dei gruppi A e B. Tra tutti gli ortaggi commestibili, la famiglia a cui appartiene il cavolo è quella che contiene la più grande varietà di molecole fitochimiche con proprietà antitumorali, in particolare sostanze chiamate glucosinati. Il cavolfiore ha un basso valore calorico (25 kcal/100 g), un basso contenuto di grassi e bassissimo colesterolo. Bisogna segnalare, però, la presenza di prodotti “gozzigeni” che interferiscono nell’utilizzazione organica dello iodio, rendendolo indisponibile per la sintesi degli ormoni tiroidei. 33


Il cavolo è elogiato da Pitagora come “ortaggio dalle mille virtù” e Diogene, vissuto fino a 83 anni, viveva in una misera botte e si nutriva quasi esclusivamente di cavoli. Marco Porcio Catone, noto come Catone il Vecchio, molto diffidente nei confronti della classe medica, considerava il cavolo un rimedio universale contro tutte le malattie, una fonte di giovinezza cui attribuiva il merito della sua buona salute e virilità (ebbe un figlio a 80 anni).

Curiositaû

Il cavolo, al pari della cicogna, ha consentito agli adulti di svicolare dalle domande imbarazzanti dei bambini. Una volta i genitori, per un malinteso senso del pudore, raccontavano ai figli che i bambini nascevano sotto i cavoli. Forse questa favola era stata ispirata dall’aspetto tondeggiante del cavolo, quasi un utero vegetale. D’altronde la convinzione che i primi uomini siano nati dal mondo vegetale è antichissima: fino a pochi decenni fa nel Malabar si narrava che vi fossero alberi i quali non producevano frutti, ma uomini e donne. Queste leggende si trovano anche in India e nei paesi arabi.

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broccoli scuri carciofi carote cavoli cardi cime di rapa (broccoli baresi) cicoria finocchi friarielli funghi champignon lattuga porri scarola spinaci verza zucca

(*) N.B. Gli ortaggi in grassetto rappresentano quelli che stanno per esaurirsi nel mese di febbraio.

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Marzo

Omaggio alla bellezza

L

e due giovani donne si aggiravano tra i vari banchi di frutta, verdura, pesce, del mercatino di zona: erano sorridenti perchè quel turbinio di colori sui banchi invitava naturalmente all’ottimismo e all’allegria, così come le voci dei venditori che si sovrapponevano in una sfida all’ultimo “fiato” di note e tonalità che rievocavano antiche nostalgie, lotte, speranze. Quella luminosa mattina di marzo, tra i colori della terra e del mare, ti portava totalmente nelle viscere, nella carnalità, nella passionalità del sud, di un sud non solo italiano ma universale, come un unico ombelico comune. Le due donne chiacchieravano tra loro mentre sceglievano, con l’attenzione dell’estimatore di brillanti, la verdura e gli ortaggi. Una delle due, con grandi occhi verdi, dichiarava un chiaro accento veneto mentre si stupiva di trovare in marzo carciofi tanto belli, con sfumature dal verde bosco al viola e porporino. Con aria scherzosa e sorniona la donna chiese al venditore come potessero crescere carciofi così belli in una terra infestata dalla “monnezza”: erano forse carciofi alla diossina? Il venditore risentito: 36


“Signorì, non scherziamo proprio, queste sono le carcioffole russulelle di Pasqua, sono le ultime a nascere, tenere come le creature piccole. Fatte arrostite con il primo aglio, sale e olio, la diossina la uccidono!” Intanto il venditore aveva composto un mazzo con quattro carciofi “russulelle” con al centro dei fili di aglio ancora sottile e un ciuffo di prezzemolo fresco e profumato. Il giovane tese la composizione verso la ragazza con gli occhi verdi e l’accento veneto: “Signorì, permettete? Un omaggio alla vostra bellezza!”

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RICETTA

carciofi arrostiti PERSONE: J J J J TEMPO: r r .r r DIFFICOLTA’: k

INGREDIENTI:

8 carciofi, aglio, prezzemolo, pepe, sale, olio extravergine q.b. L’ideale sarebbe cuocerli sulla brace, ma vengono buoni anche nel forno (certo non è la stessa cosa).

Procedimento:

lavare i carciofi premendoli su un piano per allargare le foglie e metterli a sgocciolare, sempre a testa in giù dopo aver tagliato il gambo alla base. I gambi vanno puliti della corteccia esterna e a pezzetti, andranno posti al centro del carciofo insieme ad aglio, prezzemolo, sale e pepe. Si posizionano i carciofi sulla brace in fila sulla griglia, o nella teglia da forno (in questo caso, dentro verrà aggiunto un bicchiere d’acqua). Al centro di ogni carciofo si verserà un po’ d’olio. La cottura è di 40 min. Se fatti alla brace bisogna asportare le foglie bruciacchiate esterne prima di metterli sul piatto da portata. I carciofi arrostiti si conservano bene anche 2-3 giorni.

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SCHEDA

IL CARCIOFO

La considerazione di questo importante ortaggio delle nostre terre, sia sotto il profilo storico e dell’immaginario popolare, come nei confronti delle sue proprietà, appare piuttosto contraddittoria. L’aspetto austero lo ha fatto diventare simbolo della severità, emblema della difesa contro le insidie esterne. Ma già gli antichi avevano scoperto che sotto quelle “spine” c’era un cuore tenero e dolce. Per un certo tempo è stato considerato semplicemente come afrodisiaco (inesistente) e solo più tardi è stata dimostrata la sua importanza come pianta medicinale. Non si sa perché, malgrado le sue molteplici qualità, sia diventato sinonimo di “persona sciocca”. Per fortuna ci ha pensato Pablo Neruda a rivalutarlo con la sua “Ode al carciofo”. 39


Breve storia

Il carciofo, nome dialettale “carcioffola”, deriva dal cardo selvatico, Cynara cardunculus L., che cresce spontaneamente nelle regioni temperate, attraverso processi di selezione. Già 2000 anni fa si cominciarono ad apprezzare le sue proprietà e culle della coltivazione furono la Sicilia e l’Etruria, dove si sperimentò una varietà senza spine. Secondo Columella (I sec. a.C.) il terreno veniva cosparso di cenere, da cui il nome Cynara. In Europa si diffuse rapidamente; nel XVI secolo era conosciuta in Francia, Belgio, Gran Bretagna dove fu introdotto durante il regno di Enrico VIII. Sul finire del 1600, l’isola di Jersey divenne famosa proprio per i suoi carciofi con alghe. Il termine carciofo prende origine dall’arabo “al-kharsshuf”. L’Italia è il primo produttore mondiale, la Sicilia la prima regione, seguita dalla Puglia e dalla Sardegna. La Campania figura al 5° posto come produzione, ma tra i primi come quantità esportata.

Botanica

Il carciofo (Cynara cardunculus, var.scolymus) appartiene alla famiglia delle Asteraceae. È una pianta perenne con un apparato radicale profondo e fittonante. Tendenza all’eterofillia, infatti le foglie basali sono grandi e lobate, a volte spinescenti, quelle lungo il fusto, intere o leggermente dentate. Entrambe di colore verde-grigio nella pagina superiore e verde-glauco in quella inferiore, che è inoltre rivestita di numerosi peli. Il fusto eretto e robusto, alto da 50 a 120 cm, come i rami principali, termina con un’infiorescenza a capolino di forma 40


varia. Il capolino, che nella pianta giovane costituisce la parte edule, è formato da un ricettacolo discoidale e carnoso, protetto all’esterno da brattee. Quando il capolino matura, le sue brattee si divaricano e lasciano apparire numerosissimi fiori di colore azzurro-violetto, ermafroditi, e dotati di un calice trasformato in pappo, costituito da un ciuffo di peli che restano aderenti all’achenio quando matura. Fiorisce in estate. Per la moltiplicazione si ricorre alla semina solo se si vogliono ottenere nuove cultivar, ma l’ortocultore non ricorre a tale mezzo in quanto il carciofo ottenuto da seme fiorisce solo al secondo anno. Il sistema più diffuso è quello che utilizza il pollone o carduccio, uno dei tanti germogli che si formano alla base della pianta madre (con quattro o cinque foglie). L’elevata adattabilità consente buoni risultati anche sui suoli argillosi, torbosi e leggermente salmastri. Tra le varietà più famose va ricordata il carciofo “Paestum” (IGP Indicazione geografica protetta).

Proprietaû

È un alimento molto energetico perché molto ricco di carboidrati. È ricco di fibre e gli sono riconosciute da lunghissimo tempo capacità medicinali. I principi attivi del carciofo, concentrati soprattutto nelle foglie, sono la “cinarina” (principio amaro) e alcuni flavonoidi derivati dalla luteina; la pianta è ricca di molti enzimi, di “inulina” (idrato di carbonio tollerato molto bene dai diabetici), potassio e manganese. Nonostante il carciofo vero e proprio, cioè l’infiorescenza, possieda alcuni benefici effetti, l’impiego fitoterapico e medicinale prevede soprattutto l’uso delle foglie, del fusto e/o delle radici della pianta. 41


Le proprietà del carciofo sono: - coleretico, aumenta la secrezione della bile e epatoprotettore (antitossico): si raccomanda in caso di dispepsia o colica biliare e di insufficienza epatica ed è molto indicato in caso di epatite; - ipolipemizzante, riduce la concentrazione del colesterolo e di altri lipidi nel sangue e quindi si raccomanda molto in caso di arteriosclerosi; - ipoglicemizzante, è adatto ai diabetici in quanto favorisce la diminuzione del livello di zucchero nel sangue; - diuretico, depurativo stimolando la diuresi è molto utile in caso di albuminuria e di insufficienza renale.

Curiositaû

Agli Arabi andalusi il carciofo ispirò un simbolo galante, come ci ricordano i versi del poeta Ben al-Talla, vissuto nell’XI secolo, nei quali il frutto, la alcachofa, è di genere femminile: “Figlia dell’acqua e della terra, la sua abbondanza si offre a chi la sospetta chiusa in un castello di avarizia. Sembra, per il suo biancore e per l’inaccessibile rifugio, una vergine greca nascosta in un velo di spade.”

Nel nostro paese non ha evocato immagini così delicate. Con Emanuele Filiberto i duchi di Savoia avevano spostato alla metà del XVI secolo la capitale da Chambéry a Torino, volendo estendere il loro dominio nella penisola: una strategia che doveva svilupparsi lentamente per non suscitare sospetti e reazioni nelle grandi potenze del tempo e nel Papato. Si racconta dunque che un giorno il Duca sussurrasse ai ministri questa frase, forse inventata durante il Risorgimento: “L’Italia è come un carciofo, bisogna mangiarla foglia per foglia”. 42


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asparagi barbe di frati (agretti) barbabietole carciofi cavoli cime di rapa cicoria fave finocchi friarielli lattuga porri ravanelli spinaci verza zucca

(*) N.B. Gli ortaggi scritti in grassetto rappresentano quelli che stanno per esaurirsi nel mese di marzo.

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Aprile Vero e falso

L’

operaio dell’acquedotto armeggiava con tubi e chiavi d’arresto fin dalle prime ore del mattino. L’aria era fresca, solcata dal trasgressivo vento di aprile che non rispettava nemmeno il berretto che completava la divisa dell’uomo, che era entrato nel cortile del palazzo con un’aria di sufficienza, quasi seccato dall’incombenza cui doveva assolvere. Man mano che la vita condominiale andava arricchendosi di voci, rumori e presenze, l’uomo mostrava un’espressione sempre più rilassata, che lasciava trapelare un misto di curiosità ed interesse per quel variegato mondo della periferia di Napoli. La prima a calcare la scena fu Donna Vicenza, la vecchina che occupava il terraneo ai lati del cortile. Comparve dinanzi all’operaio già tutta composta nei suoi semplici vestiti, sui quali non mancava mai di aggiungere un grembiule grigio, il capo sempre ordinato da una treccia arrotolata sulla nuca e due occhietti azzurrissimi che non perdevano mai la propensione al sorriso. Donna Vicenza emanava 44


sempre un sottile odore di muffa donatole dal terraneo umidissimo in cui abitava: lei non lo percepiva, ormai era parte di se stessa, mentre lo percepì subito l’operaio che si voltò a cercare la provenienza dell’odore e incontrò gli occhietti ridenti della donna, che lo salutò chiedendogli spiegazioni circa la sua presenza lì. Lentamente, ma nemmeno tanto, l’odore di muffa, fu sostituito da quello del caffè proveniente dalle case poste sul ballatoio al primo piano. Da una di esse si affacciò una giovane donna che con un sorriso giocoso augurò a Donna Vicenza la buona giornata. Subito dopo la donna si rivolse ancora alla vecchina dicendole: “Più tardi preparo un po’ di finto brodo ai bambini e il finto ruoto al forno, con i frutti novelli per noi: Donna Vincè mangiamo insieme?” “Vabbè signò, allora io vado a prendere i vostri bambini e veniamo sopra.” Passate un paio di ore, l’operaio iniziò a sentire un profumo che stimolava non poco l’appetito che l’uomo cercava di smorzare con un’ennesima sigaretta. Stava per terminare il suo lavoro quando Donna Vicenza tornò nel cortile con i due bambini che l’uomo la mattina aveva intravisto mentre andavano a scuola ancora assonnati. La madre sentì le loro voci e si affacciò sul cortile per accoglierli, ringraziare Donna Vicenza che li aveva condotti a casa e ricordarle che il “finto ruoto al forno” era pronto per essere mangiato. In quel momento l’operaio dell’acquedotto si fece coraggio e si rivolse alla donna dal sorriso bello per dirle: “Signò scusate, io stamattina ho sentito che facevate il finto brodo vegetale e il finto ruoto al forno. Qua c’è un odore che fa svegliare i morti: allora che c’è di vero in quello che avete cucinato che fa questo profumo?” La donna scoppiò a ridere divertita, riflettè un attimo e rispose: “Che c’è di vero? È cibo semplice, naturale, cucinato con vero amore. Volete favorire?”

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RICETTA

“finto” ruoto al forno persone: j j j j tempo: r r r r r r difficolta’: k

A Napoli c’è un po’ la cultura del “finto”che ha radici ben più lontane delle attuali imitazioni dei modelli di alta moda o accessori definiti, in gergo, “parallele”. Il “finto” culinario nasce dalle poche risorse economiche che, dovendo fare a meno di cibi come carne, pollame, pesce, ripetevano ricette gustose usando solo una parte degli ingredienti. È il caso di questa ricetta che nasce, originariamente, come spezzatino di agnello, piselli e patate al forno, che la popolazione adattò a “finto” ruoto (tegame tondo per cottura al forno).

Ingredienti:

1500 g di patatine novelle, 500 g di piselli freschi, 2 cipollotti novelli, 5-6 pomodorini, 6 cucchiai di olio extravergine (o 1 cucchiaio di strutto), pecorino grattugiato, sale q.b.

Procedimento:

pulire le patate grattugiando la pellicina, se sono piccole lasciarle intere e unire nel “ruoto” ai piselli, ai cipollotti affettati sottili, ai pomodorini tagliati a metà, all’olio o allo strutto, sale, 3 bicchieri d’acqua. Cuocere al forno (non ventilato) per 1 ora. A fine cottura aggiungere pecorino grattugiato e, volendo, pepe. 46


SCHEDA

I PISELLI

La pianta di “pisello” rappresenta uno dei legumi più importanti ed è praticamente coltivata in tutto il mondo, dalla Russia alla Cina, dagli Stati Uniti alle Indie. In Europa è la Francia a detenere il primato con una produzione che raggiunge il 40%. In Italia è l’Emilia Romagna la regione che ne produce di più, ma anche in Campania la produzione è rilevante. I piselli sono coltivati su larga scala soprattutto per la conservazione, inscatolamento e surgelazione. La pianta di pisello fruttifica in pochi mesi ed è apprezzata anche nei piccoli orti per l’eleganza della pianta, la bellezza dei fiori e la delicatezza dei semi.

Breve storia

Il pisello è uno dei più antichi legumi che si conoscano ed i reperti archeologici, per quanto poco numerosi, lo fanno 47


risalire all’età della pietra. Le località che hanno dato i natali a questo legume sono tutte collocate lungo l’arco della costa del mediterraneo, con l’aggiunta di tutta una fascia che collega il Medio Oriente al nord dell’India. Considerando tempi più recenti si sa che gli antichi Romani ne facevano uso; ci sono testimonianze scritte, come le numerose ricette di Marco Gavio Apicio, raffinato gastronomo e buongustaio, vissuto all’epoca della nascita di Gesù Cristo. Occorrerà, però, arrivare al Medioevo per registrare un uso più frequente e sistematico, specialmente da fresco, rientrando negli interessi dei medici della Scuola Salernitana, la più antica e illustre istituzione medica medievale. I piselli giunsero in Francia nel XVII secolo, portati alla corte francese dall’Italia, ad opera di un certo Audiger, maggiordomo del Colbert, ministro del Re Sole. A proposito di Luigi XIV di Francia, si ricorda che era ghiottissimo di piselli e ne faceva di frequente scorpacciate, tanto da essere costretto a mettersi a letto per lenire i disturbi che ne derivavano. In effetti solo se consumati in dosi esagerate e di frequente i piselli possono scaricare gas intestinali ed inibire l’attività di particolari enzimi dell’apparato digerente con conseguenti disturbi, specie al pancreas.

Botanica

Il pisello (Pisum sativum) è una leguminosa della famiglia delle Fabaceae. È una erbacea annua che nelle forme spontanee comprende numerose varietà. Le radici fittonati affondano nel terreno piuttosto superficialmente, allargandosi per 30 cm dall’asse centrale. Esse presentano delle radici laterali portanti numerosi tubercoli con la presenza di particolari batteri simbionti del genere Rhizobium capaci di fissare l’azoto atmosferico e renderlo 48


utile per il terreno. Il fusto è caratterizzato da una serie di internodi e nodi, da cui fuoriescono le foglie e le infiorescenze. Le foglie del pisello sono alternate, pennate, verdi o variegate, con una, due o tre paia di foglioline di cui le superiori si trasformano in viticci. I fiori, riuniti a due o a tre, portati da lunghi peduncoli ascellari, sono vistosi, bianchi o giallastri. Simili a quelli di tutte le leguminose, i fiori dei piselli, come in moltissime specie, sono ermafroditi, e per la loro particolare morfologia favoriscono un’impollinazione autogama. Fu per questo che Mendel scelse la pianta di pisello per i suoi esperimenti sulla trasmissione ereditaria dei caratteri. I frutti sono baccelli verdi allungati e contengono semi, in quantità e grandezza varia, sferoidi o leggermente appiattiti, lisci o rugosi, verdi, gialli o del colore dell’avorio. I semi sono la parte edule della pianta. Una volta interrati, hanno un tempo di germinazione, fino alla fuoriuscita della plantula dal terreno, pari a 8-10 giorni.

Proprietaû

Questo antichissimo legume è un alimento molto energetico, il più elevato tra i vegetali, misurato in calorie, va dalle 76 kcal dei semi freschi alle 306 dei semi secchi. Questo alimento, che ha giustamente meritato l’attribuzione di “carne dei poveri”, è particolarmente adatto all’alimentazione degli sportivi e degli studenti, specialmente nelle stagioni più rigide o nei periodi di maggiore affaticamento. I piselli, come tutti i legumi, non sono ricchi solo di proteine di alto valore nutritivo, ma anche di fibre, di carboidrati, di grassi essenziali, di sali minerali (in primo luogo di ferro e magnesio) e di vitamine, tra le quali, la più importante, la tiamina, che serve a tonificare il sistema nervoso. 49


Insomma, se accomunati ai cereali (sottoforma di pasta o riso) i piselli costituiscono un’accoppiata formidabile. Mangiare piselli, nella giusta misura, giova anche alla salute del sistema circolatorio. Come tutti i legumi, infatti, essi esplicano un notevole effetto anti-colesterolo, grazie al notevole contenuto di fibre e, inoltre, hanno alte qualità protettive contro i processi degenerativi, l’arteriosclerosi e il cancro dell’intestino. Giovano anche a chi ha problemi di iperglicemia e ai diabetici, perché favoriscono l’assorbimento graduale degli zuccheri. I piselli rappresentano, dunque, uno scrigno prezioso per la salute degli uomini.

Curiositaû

I numerosi e bene ordinati semi del pisello hanno ispirato, come d’altronde le lenticchie o i chicchi d’uva, i simboli della ricchezza e della fecondità. Consacrati al dio Thor, erano il cibo prediletto di Thunar. La fama dei piselli come cibo indigesto per i dispeptici fu a tal punto ingigantita che a Napoli gli impresari di pompe funebri usavano dire ai loro creditori “a pesiello pavammo” (pagheremo al tempo dei piselli), perchè erano certi che in quel periodo gli affari sarebbero andati a gonfie vele.

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asparagi barbe di frati (agretti) barbabietole rosse cavolo cappuccio cipolle novelle fave lattuga lattuga cappuccio (incappucciata) porri piselli patate novelle ravanelli spinaci zucchini

(*) N.B. Gli ortaggi scritti in grassetto rappresentano quelli che stanno per esaurirsi nel mese di aprile.

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Maggio San Pasquale e... i talli

“M

adonna mia, spostarsi con gli autobus a Napoli è ’na faticata... guagliò mi fai un po’ di posto per sedermi?” “Signò io mi alzo proprio, perchè a voi non basta nemmeno un posto solo!” “Grazie ninnì, comunque tu mi vedi adesso che mi sono gonfiata, ma io da ragazza ero secca come un chiuovo.” “Mo site nu crocco signò, sempre in ambito di ferramenta siete rimasta!” “Nun sfottere! Ho deciso che inizio la dieta. Già oggi mi sono preparata ’na bella zuppetella e tall ’e San Pasquale, sana, fresca ed economica.” “Mi scusi signora, ho ascoltato per caso la conversazione con il giovanotto: mi ha incuriosito questa zuppa di tarli...” “Tallo, tallo, e’ tarli sono un’altra cosa e non ci azzeccano niente con San Pasquale! Sono le foglie degli zucchini, quelle pelose, che si 52


sfilettano, si bollono e insieme ai cucuzzielli ancora piccoli e agli sciurilli chiusi si fanno con il pomodoro e scorzette di formaggio... e che vi mangiate! Solo che pulire le foglie è scocciante, ci vuole pazienza e oggi nessuno vuole più perdere tempo... ’e giovene so’ sfaticate! “Signò, io non so vedè nemmeno la differenza tra una foglia di zucchini e una di margherita, figuratevi! Queste sono cose dei vecchi.” “Guagliò tu non sai quante cose belle ti perdi, altro che vecchi... ma vedite che tiatro cu ’sti muccusielle! ‘A terra non invecchia mai, è giovane estate e inverno, ma se uno vuole melanzane a dicembre e finocchi a giugno non capisce niente quando accatta e quando mangia, la terra si scoccia, preferisce dormire che avere a che fare cu ’e scieme.” “Mica so’ scemo io, dico chellu ca penzo.” “Scemo no, ma ignorante sì: tu mangi roba di plastica!”

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RICETTA

zuppa di talli di San Pasquale Persone: j j j j Tempo: r r r r difficolta’: kk

Ingredienti:

1 kg di talli (foglie di zucchini con fiori ancora chiusi e piccoli zucchini alla base), 4 cucchiai di olio extravergine, aglio, 4 pomodorini a pezzetti, croste di formaggio a pezzetti, pecorino grattugiato, sale q.b.

Procedimento:

pulire le foglie di zucchini sfilettandole alla base, così come i gambi dei fiori chiusi, fare a pezzetti i piccoli zucchini attaccati alle foglie. Lavare bene e lessare in acqua bollente 30 min. Scolare la verdura e conservare 4-5 mestoli dell’acqua di cottura. In un tegame alto soffriggere aglio e olio, aggiungere pomodori e cuocere 10 min. Dopo aggiungere i talli lessati e le scorzette di formaggio, salare e cuocere, aggiungendo l’acqua conservata, per 20 min. Spegnere e aggiungere pecorino grattugiato. Servire su fette di pane biscottato al forno su cui si verserà un filo di olio extravergine.

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SCHEDA

I TALLI DI SAN PASQUALE

Bisogna, innanzitutto, mettere un po’ d’ordine nel vocabolario. Tallo, in botanica, rappresenta il corpo vegetativo indifferenziato, cioè di quelle piante che non presentano la distinzione tra radice, fusto e foglie. Ma sta anche a significare “germoglio”: è questo il senso che ci interessa. I Talli di San Pascale o di San Pasquale? I primi sono associati ad una pianta erbacea, la Cicoria o Radicchio (Cichorium intybus), della famiglia delle Asteraceae. Un pianta dai bei fiori azzurri diffusa su tutto il territorio nazionale, che non presenta particolari esigenze rispetto alla natura del terreno e si adatta alle diverse condizioni climatiche e che ritroviamo spesso anche nei prati e nei campi incolti. I Talli di San Pasquale sono, invece, quelli da cocozzielli, ortaggi di maggio (quando cade la ricorrenza di San Pasquale). Per qualsiasi coltura erbaceea si utilizzano molti più semi di quelli che il terreno può nutrire. Non tutti i semi germogliano in modo completo; i talli sarebbero queste piante raccolte con i fiori, le foglie e le piccole zucchine non completamente sviluppate. 55


Per tale ragione possiamo riferirci, allora, alla “zucchina” per elaborare la scheda.

Breve storia

Non si sa esattamente quale sia l’origine, pare che esista allo stato spontaneo in America settentrionale. La coltura di questo ortaggio risale, comunque, all’antichità. La zucchina divenne oggetto di culto presso gli Egiziani, in particolare presso l’antico ordine di Iside, dea che partorì Orus, grazie proprio all’unica cosa che le aveva lasciato il defunto marito: un campo di zucchine. Apprezzata dal popolo greco; presso i Romani fu selezionata quella con le strisce orizzontali. Nel Medioevo fu considerato uno dei prodotti culinari delle ricche tavole degli infedeli. Nel settecento le zucchine furono la base di un ricettario del cuoco personale di Luigi XVI. Oggi sono diffuse in molti mercati italiani ed esteri.

Botanica

Zucchina non è il diminutivo di zucca, è una pianta annuale o biennale, il cui nome scientifico è Cucurbita pepo (nome dialettale cocozziello) e appartiene alla famiglia delle Cucurbitaceae. È una specie monoica con fusto solcato e angoloso, spesso raccorciato, ruvido per peli e viticci ramosi. Le foglie rigide e marmorizzate su entrambe le pagine, sono cuoriformioblunghe, a cinque lobi acuti, assai grandi e lungamente picciolate. I fiori unisessuali, solitari alle ascelle delle foglie, presentano un piccolo calice e una grande corolla campanulata di colore giallo-arancio. I fiori maschili presentano 56


cinque stami congiunti in una colonna centrale, quelli femminili presentano un ovario infero suddiviso in tre o cinque placente con corto stilo e tre stimmi. Il frutto è un peponide di forma più o meno allungata con buccia di colore verde che, talvolta, presenta delle striature chiare. La raccolta delle zucchine si effettua quando il frutto è appena allegato e ancora accompagnato dal residuo del fiore situato all’estremità del peponide. Dalla pianta originaria sono state ottenute molte cultivar. Tra queste va menzionata la nano verde striato di Napoli, una pianta di piccole dimensioni, cespugliosa, precoce.

Proprietaû

Basso valore calorico (34 kcal per 100 g), contiene il 95% di acqua. Vitamina A, C, carotenoidi con azione antitumorale. Molto utili per astenie, infiammazioni, insufficienze renali, dispepsie, enteriti, dissenterie, stipsi, affezioni cardiache. Fin dall’antichità venivano utilizzati per favorire il sonno e il rilassamento della mente. Buono per la pelle, favorisce l’abbronzatura e ne combatte l’invecchiamento.

Curiositaû

- Sembra un ortaggio insignificante, ma la creatività culinaria meridionale, soprattutto partenopea, è riuscita ad elaborare piatti gustosi e prelibati. Basta ricordare le zucchine “a scapece”, termine di origine spagnola “escabeche”, fritte e aromatizzate in aceto. E si è inventata perfino la parmigiana di zucchine. Nel celtico Nord Padano, a parte l’associazione alla polenta, pare che l’uso più frequente siano le zucchine… lesse; 57


- molto usati i suoi fiori, noti come fiori di zucca, che, nella tradizione romana, vengono farciti di mozzarella e alici, impastellati e fritti; - i fiori maschili, una volta compiuta la liberazione del polline, non servono piÚ alla pianta, vengono raccolti, fritti o preparati in altri modi costituendo una ghiottoneria delle nostre mense; - il parente piÚ prossimo della zucchina è la patata da cui differisce per un solo cromosoma.

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asparagi bietole barbe di frati (agretti) barbabietole rosse cavolo cappuccio carote cetrioli fagiolini fave lattuga incappucciata piselli peperoncini ravanelli spinaci talli di zucchini zucchini

(*) N.B. Gli ortaggi scritti in grassetto rappresentano quelli che stanno per esaurirsi nel mese di maggio.

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Giugno Il benessere delle cose semplici… condivise

T

rovare un orto simmetrico, curato, splendente di colori ricchi di vita, nella periferia sovraffollata di Napoli, può essere un’esperienza addirittura commovente e lo stupore crea quasi un rapporto di soggezione con l’ortaggio: hai paura di distruggerlo mangiandolo senza gustarlo o cucinandolo senza attenzione. La signora Carmela ci metteva l’anima nel coltivare i prodotti di stagione con tutte le prerogative di un prodotto bio, ma lei questo non lo sapeva: si regolava solo con le leggi apprese fin da bambina, di cui la più importante consisteva nel rispetto della terra e dei suoi ritmi. Quella mattina era intenta a raccogliere fagiolini e li ripartiva in cestini posti a mo’ di sentinelle ai bordi dell’orto. Don Luigi, il marito, dotato d’ironia direttamente proporzionale alla caparbietà, osservava con una certa preoccupazione tutti i cestini colmi di brillanti fagiolini e intanto scrutava l’orologio. Ore 12:00 e nessun odore di cibo nell’aria. 60


“Carmè ma oggi non si mangia?” “Perchè qualche volta si’ stato digiuno? Mo vado a preparare!” fu la pronta risposta della moglie emessa al di sotto di un vecchio cappello di paglia a falde larghe che il marito insinuava avesse sottratto a uno spaventapasseri. “Non per farmi i fatti tuoi Carmela, ma che cucini?” “Pasta e fagiolini. Luì, fresca, saporita, con tutte le vitamine! La gente butta l’acqua dove scalda i fagiolini e non sa che butta il meglio, perchè la pasta cotta in quell’acqua è ancora più buona.” “Carmè, tu sai che la pasta fatta così, con la grattata di ricotta secca mi piace tanto, ma mi preoccupa veder tutti quei fagiolini: se con la scusa che fa bene vuoi abbuffare solo me, poi me li fai schifare come hai fatto con gli zucchini. Ti ricordi?” “Luì, chissà quanta gente desidera questa roba fresca, sana, semplice, e tu ti lamenti pure.” “Per carità Carmè io ringrazio il Padreterno per questa grazia di Dio, ma è meglio ancora se si divide con gli altri l’abbondanza del tuo raccolto: non vorrei fare la cura dei fagiolini!”

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RICETTA

pasta e fagiolini Persone: j j j j Tempo: r r r r difficolta’: k

Ingredienti:

500 g di fagioli, 4-5 pomodorini, 1 cipolla, pecorino grattugiato, basilico, 320 g di bucatini, sale q.b.

Procedimento:

pulire, lavare e lessare i fagiolini. Conservare l’acqua di cottura. Preparare il sugo con olio e cipolla fatta appassire a fuoco lento. Aggiungere pomodori a pezzetti e basilico. Dopo 5 min aggiungere al sugo i fagiolini lessati e cuocere altri 10 min. Spezzare i bucatini in tre parti e cuocerli nell’acqua dei fagiolini salata. Scolarli e saltarli con i fagiolini nel sugo. Aggiungere pecorino e peperoncino.

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SCHEDA

I FAGIOLINI

Con questo nome generico indichiamo i baccelli immaturi dei fagioli. Baccelli teneri, verdi, che vengono raccolti prima della maturazione e consumati con i semi ancora in embrione.

Botanica

Si tratta di una cultivar di fagiolo. Dal punto di vista botanico il nome scientifico è Phaseolus vulgaris ed appartiene alla famiglia delle Fabaceae o Leguminose. Nelle cultivar da fagiolini i legumi sono generalmente lunghi, sottili, carnosi e con semi piccoli. Vengono chiamati anche “cornetti o tegolini”. Normalmente il baccello presenta un tessuto membranoso che, in corrispondenza della nervatura dorsale e del margine ventrale, ben presto diventa duro e costituisce il cosiddetto “filo”. Le varietà in cui questo tessuto è assente o ri63


dotto, il legume rimane carnoso e si presta ad essere consumato come fagiolino.

Proprietaû

Pur essendo un legume, l’apporto alimentare del fagiolino lo avvicina molto ai comuni ortaggi. Intanto perché la quantità di acqua si aggira intorno al 90% e ciò li rende poveri di calorie, adatti per diete dimagranti. Ancor più se si considera il basso tenore di amidi. Sono, invece, ricchi di sali minerali, potassio, ferro e calcio, di vitamina A, B1, B2 e C. Il loro consumo è consigliato in caso di anemia e di diabete. Sono ricchi di fibre e consigliati in caso di stipsi. Sono sconsigliati, invece, a chi soffre di gastrite, colite e insufficienza epatica.

Curiositaû

- I fagiolini hanno ispirato un’usanza toscana, secondo la quale le giovani in età da marito intrecciavano coroncine di fiori e fagiolini appena colti. Se ne adornavano i capelli e durante le tre notti di plenilunio, al sorgere della luna, danzavano in cerchio nella radura di un bosco. Alla terza notte la coroncina che era meno appassita indicava colei che entro un mese avrebbe incontrato il futuro sposo; - una varietà di fagiolini particolari sono i “Cherokee trail of tears”, tramandati di generazione in generazione ed ora diventati piuttosto rari. È interessante il racconto che li accompagna. Nel 1838 il popolo dei Cherokee fu costretto dal governo americano a lasciare le sue terre per trasferirsi in Georgia. Fu una marcia forzata che decimò la popolazione. Morirono 4000 su 15000. 64


Gli Indiani chiamarono questa marcia “The trial of tears” (marcia delle lacrime). Tra le cose più preziose che portarono con sé ci furono i fagiolini, una varietà rampicante, molto prolifica e resistente; - Fagiolino Fanfani è una maschera bolognese risalente al 1877. Povero e affamato, generoso con i poveri e severo con i ricchi. Con la tipica cuffia bianca in testa, appare come un monello bolognese capace di farsi giustizia da sé, usando l’inseparabile bastone; - da segnalare un paradossale conflitto “a sinistra” determinato dai cosiddetti “fagiolini Terraequa”, fagiolini solidali proveniente dal Burkina Faso. Conflitto tra Unicoop Tirreno e la onlus Movimento Shalom di San Miniato che promuovono l’operazione e i redattori di “Liberazione” che considerano l’operazione dannosa per l’economia locale e per l’ambiente.

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barbabietole rosse bietole cavolo cappuccio carote cetrioli fagiolini fiori di zucca lattuga incappucciata melanzane piselli peperoncini peperoni pomodori ravanelli rucola sedano bianco talli di zucchini zucchine zucchine lunghe (cucuzzella)

(*) N.B. Gli ortaggi scritti in grassetto rappresentano quelli che stanno per esaurirsi nel mese di giugno.

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Luglio Rinfrescata alla casa

“S

e vuoi buttare una maledizione a qualcuno devi augurargli di tenere i pittori in casa....”

“Jà, signò, non scherziamo, volete mettere come è bella la casa dopo una pittatella: fresca, ariosa, pulita!” “Per carità, dopo è pure più bella, ma noi napoletani abbiamo l’abitudine di fare una rinfrescata alla casa nei mesi più caldi dell’anno, quando si dovrebbe pensare a rinfrescare i poveri cristiani già abbattuti dal sudore. Dico io se stavamo sulle Alpi uno aspettava pure luglio, ma a Napoli non è possibile! Polvere e sudore ti tolgono le forze, pure voi vi stancate di più, è vero?” “Signora mia, la pagnotta è pagnotta! Al Sud per un lavoro onorato non si lavora, si fatica. Il lavoro è normale, la fatica ti spezza le gambe, ti fa vedere le palummelle... ma se uno tiene famiglia e vuole lavorare onestamente, questo c’è e dobbiamo ringraziare Dio.” 67


“Avete ragione maestro e non potete credere quanto mi dispiace sentire che i napoletani sono sfaticati, che non vogliono fare niente. Ma dove lo trovate in Italia il pane fresco anche la mattina del primo dell’anno? Qua la gente pensa la notte per il giorno a come guadagnarsi la zuppa e deve pure essere chiamata sfaticata. Comunque è ora di mangiare: vado a prepararvi ’na bella pasta con gli spollichini. Ci ho messo dentro pummarurelle, accio, aglio e origano: vi farò consolare!” “Grazie signò, troppo disturbo, ma accettiamo volentieri perchè viene un odore troppo bello... con questo calore!” “Perciò ho preparato pure una bella giarra fredda di vino, gassosa e percoche: ce la siamo meritata!”

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RICETTA

pasta e spollichini Persone: j j j j Tempo: r r r r r r difficolta’: k

Ingredienti: 320 g di pasta mista, 700 g spollichini, 1 spicchio d’aglio, prezzemolo, sedano, 4 pomodori maturi, 4 cucchiai di olio extravergine, sale q.b. Procedimento: la sera prima sgranare i fagioli dai baccelli e metterli a bagno in acqua fredda. Il giorno dopo metterli a lessare con lo spicchio di aglio, il sedano a pezzetti, il prezzemolo e i pomodori a pezzi. Cuocere a fuoco lento almeno 1 ora. A fine cottura aggiungere l’olio prima di calare la pasta mista. La minestra deve essere né secca né brodosa, quindi regolare l’acqua da aggiungere.

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SCHEDA

IL FAGIOLO

In molte regioni tropicali e subtropicali, dove le proteine di origine animale sono piuttosto scarse, le popolazioni locali ricorrono da millenni alle proteine vegetali. Le leguminose rappresentano una delle fonti principali. Anche in occidente, specie nei periodi piuttosto difficili, i fagioli, per l’alto contenuto proteico, sono stati considerati “la carne dei poveri”. Con il rapido diffondersi di diete vegetariane, la considerazione di questo legume è salita di livello nella scala sociale. In alcuni monasteri, nei periodi in cui per precetto era proibito mangiare la carne, i fagioli e gli altri legumi servivano a contenere la carenza proteica. In certi ambiti e per un certo tempo, il fagiolo è stato considerato, perciò, simbolo di mortificazione, umiltà e castità. Di ben altro parere era il popolino che, anzi, gli attribuiva potere afrodisiaco. È ormai acquisito che l’associazione tra i fagioli e i cereali, come già avevano capito gli andini che li associavano al mais, 70


rappresenta un piatto completo ed equilibrato, ma anche estremamente gustoso.

Breve storia

Di “fagioli” si parla anche nell’antichità. Virgilio nelle Georgiche lo definiva cibo “vile”, cioè comune, poco pregiato. I cosiddetti “fagioli dell’occhio” originari dell’Africa e dell’Asia, erano ben conosciuti dai Greci e dai Romani. Nella Roma antica, il fagiolo, considerato impuro, aveva un ruolo nei Saturnali, perchè come tutti i legumi era associato al ciclo naturale della vita e della morte. Anche nel Medioevo era considerato cibo di poco pregio, come testimonia Isidoro di Siviglia nella sua enciclopedia. Altra storia per i fagioli che consumiamo oggi; erano coltivati nel Messico già 7000 anni fa e giunsero in Europa nel XVI secolo, per opera di Spagnoli e Portoghesi in seguito ai loro viaggi alla conquista delle Americhe. Le nuove specie di fagioli, più carnosi e vellutati, furono subito sperimentate negli orti vaticani. Tra esse dobbiamo ricordare il Phaseolus vulgaris, quello più comune e di cui si conoscono quattordicimila varietà, e il Phaseolus lunatus o fagiolo di Lima o anche “baggiana” da cui deriva il termine baggianata. Papa Clemente VII li donò ad alcuni toscani, che li accolsero, sia i signori che i popolani, con favore, anzi entusiasmo. E da qui cominciò la diffusione in altre direzioni, come Trentino e Friuli. A sua volta Caterina de’ Medici, andata in sposa a Enrico II, re di Francia, portò con sé anche un sacco di fagioli che conquistarono la corte francese. Attualmente in Italia il fagiolo è abbondantemente coltivato, specie in Piemonte, Campania e Lazio. 71


Botanica

Il fagiolo, “fasulo” in dialetto, il cui nome scientifico è Phaseolus vulgaris L., è una pianta annuale, che fa parte della famiglia delle Fabaceae o Leguminosae. Si presenta con un apparato radicale ben sviluppato e con numerosi tubercoli con batteri azotofissatori che contribuiscono ad arricchire il terreno. La rotazione agraria e la pratica del sovescio sfruttano al meglio questa proprietà. Fusto sottile, rampicante e volubile che si avvolge a spirale in senso destrorso. Le foglie sono lungamente picciolate e composte da tre foglioline ovali, dotate di un marcato ingrossamento alla base del picciolo, detto pulvino. I fiori sono di circa 2 cm di colore bianco o roseo con la tipica morfologia delle papilionacee che determina l’autogamia, per cui la varietà si identifica con la linea pura. Il frutto è un legume o baccello allungato e peloso di forma e colore a seconda della varietà, le cui valve si separano con facilità per la presenza di un cordone fibroso lungo le linee di saldatura (filo) e hanno uno strato di tessuto fibroso (pergamena) entro ciascuna valva. I semi sono dotati di due grossi cotiledoni nei quali sono accumulate le riserve costituite di proteine e amido. I legumi si possono sgranare appena raccolti e mangiati freschi (spullecariélli) oppure conservati secchi.

Proprietaû

I fagioli contengono il 22,3% di protidi, un’altissima quantità di carboidrati, le vitamine A,B,C ed E, sali minerali, oligominerali, potassio, ferro, calcio, zinco e fosforo. Hanno la proprietà di tenere basso il livello dello zucchero, dei grassi e del colesterolo nel sangue, perché ricchi di lecitina, un fo72


sfolipide che favorisce l’emulsione dei grassi. Contribuiscono a tenere a bada il “peso” e sono alleati preziosi dell’apparato cardiaco e della circolazione del sangue. Non sono tuttavia facilmente digeribili, sicché si suole accompagnarli con erbe aromatiche che abbiano la funzione di favorire la digestione, dal finocchietto al rosmarino e al prezzemolo crudo. Li si sconsiglia invece a chi soffre di gastrite e di colite perché irritano l’apparato digerente.

Curiositaû

Il “trionfo del fagiolo”, dopo il periodo oscuro, è stato continuo e progressivo, non solo nella considerazione e nel gusto popolare, ma perfino nelle espressioni artistiche. - Alla fine del cinquecento il legume era diventato così popolare in tutta l’Italia che Annibale Carracci dipinse un celebre quadro, Il mangiafagioli, ora esposto nella Galleria Colonna a Roma; - alla fine del secolo successivo, Giovanni Battista Fagioli in una raccolta di versi dedicò una poesia al legume di cui portava il nome, “In lode de’ Fagioli”: Tutti i legumi abbassino la testa dando al Fagiolo il posto più eminente, che sublime fra loro alza la cresta.

- Tre secoli dopo Giovanni Pascoli lo celebrava nella poesia I due vicini e Eduardo De Filippo in Natale in casa Cupiello, proponeva pasta e fagioli come medicamento miracoloso.

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bietole carote cetrioli fagiolini fagiolini freschi (spollichini) fiori di zucca lattuga incappucciata melanzane peperoncini peperoni pomodori ravanelli rucola sedano bianco taccole zucchine zucchine lunghe (cucuzzella)

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Agosto Ferragosto leggero

“F

erragosto, se sei in città, è bello passarlo insieme senza spostarsi in zone turistiche: ovunque vai è un carnaio. Diventa una smazzata da esaurimento.” “È vero Vitù: io mi ricordo bene i ferragosto da bambina, la sera fuori i balconi ad ascoltare i megafoni con le canzoni della festa in piazza, lo scambio di fette di anguria dai balconi con i vicini. C’era forse più miseria, ma tanta semplicità, la voglia di sognare e sperare. Ho nostalgia di quel rigore: avevamo poco ma quel poco era vissuto con gioia.” “Rosettì, ma con tutta questa voglia di rigore, mica hai pensato di fare ferragosto a pane e acqua? Con il caldo che fa, sono d’accordo per qualcosa di leggero, ma saporito...” “Appunto: non facciamo il primo, accendiamo la brace giù da te per la carne, una bella insalata e una fetta di anguria, e va bene così!” “E una bella parmigiana di melanzane piena di basilico ci farebbe male?” 75


“Io lo sapevo che, come sempre, si parte dalla leggerezza e si arriva all’esagerazione: ma perchè la parmigiana di melanzane per te è leggera?” “Non lo so se è leggera, ma io la digerisco subito... e poi ho detto di fare qualcosa di buono e la parmigiana è molto buona! Rosè, visto che ormai ti sei già incazzata, rilancio: io e tuo marito avevamo pensato di fare anche un piattino di linguine con le vongole, ma tutto leggero leggero: il rigore non mancheremo di usarlo nel consumare tutto con gusto, così, come vedi, sarai accontentata! Non mancherà nemmeno il mellone rosso di cui hai tanta nostalgia: che vuoi di più?”

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RICETTA

parmigiana di melanzane Persone: j j j j Tempo: r r r r r r r r difficolta’: kk

Ingredienti:

1 kg di melanzane, olio per friggere, passata di pomodoro, cipolla, 400 g di provola o fiordilatte, 1 cucchiaio di olio extravergine, basilico, parmigiano grattugiato, sale q.b.

Procedimento:

lavare le melanzane, asciugarle bene, togliere il cappuccio verde e togliere una striscia di buccia viola per tutta la lunghezza anteriore e posteriore. Tagliare a fette regolari (che avranno un filo di buccia conservata per tutta la lunghezza) e friggerle in olio abbondante (olio di arachide). Metterle su carta assorbente ad ogni fritta. Preparare sugo con aglio e olio imbiondito, passate di pomodoro, sale, basilico. Cuocere 10 min. Porre nella teglia uno strato di melanzane fritte su cui si stende un po’ di sugo, fettine di provola o fiordilatte, foglie di basilico e parmigiano grattugiato. Ripetere gli strati fino a finire le melanzane sull’ultimo strato, solo sugo e parmigiano grattugiato. Passare al forno per gratinare e asciugare 20 min.

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SCHEDA

LA MELANZANA

La povera melanzana ha dovuto sopportare per secoli dicerie e cattiva fama, prima di salire agli onori della nostra mensa, come uno degli ortaggi più saporiti. Ma dev’essere cotta, perché mangiata cruda ha un sapore sgradevole ed è alquanto tossica. L’hanno chiamata “Mela di Sodoma” perché si credeva che fosse la causa di febbri e crisi epilettiche, ma anche “Mela dei folli”, perché secondo il medico arabo Ibn Botlan, essa generava “melanconici umori” e spingeva ad una lussuria smodata. E, come spesso succede, passando di voce in voce, di gente in gente la diceria si amplifica e la melanzana è diventata, per un lungo periodo, foriera di tutti i mali, turbe psichiche, disturbi intestinali, cefalee, peste… Forse anche la somiglianza con la “mandragora” non le ha giovato contribuendo ad avvalorare queste credenze. Perfino il grande Linneo nutriva dubbi e sospetti nei riguardi di questo frutto, tant’è che le affibbiò il nome “Solanum insanum”, da cui “mela-insana” e quindi “melanzana”. 78


Breve storia

La melanzana è conosciuta da oltre 2500 anni e trae le sue origini probabilmente dalle regioni dell’Asia sud-orientale, dalla Cina o dall’India dove sono state trovate alcune varietà spontanee. A quanto pare è rimasta sconosciuta sia ai Romani che ai Greci. Importata dalle grandi carovane arabe dall’Asia arrivò in Africa del Nord e fu adottata dai popoli del Mediterraneo. Questi la portarono con sé durante l’invasione della Spagna e piano piano si diffuse in Italia e in tutta l’Europa. Una diffusione timida e lenta per le dicerie che l’hanno accompagnata per tutto il Medioevo e oltre. Bisogna attendere ancora alcuni secoli prima di riscontrare alcuni apprezzamenti favorevoli. Eppure qualche segnalazione positiva era già stata adombrata da uno studioso fiorentino del 1550, Giovanvittorio Sederini, che in un trattato “Coltura degli Orti e dei Giardini”, indicava caratteristiche del frutto ed impieghi in ambito gastronomico. I dubbi e i sospetti nei riguardi del frutto, però, perdurarono un po’ dovunque fino al 1700 e solo più tardi l’ambiguo binomio latino “Solanum insanum” fu sostituito da “Solanum melongena”, cioè a forma di mela. L’utilizzazione come ortaggio, comunque, cominciò nel XVI secolo. Oggi il primato della produzione della melanzana spetta alla Cina, e l’Italia è al quarto posto. In Italia il 60% si produce nel meridione e di questo il 20% in Sicilia.

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Botanica

La melanzana, nome dialettale “molignana”, nome scientifico Solanum melongena L., appartiene alla famiglia delle Solanaceae, la stessa della patata, pomodoro, peperone e tabacco. È una pianta annuale, molto esigente in fatto di clima e temperatura. Richiede primavere dolci ed estati calde per acquisire vigoria e produttività. Ha una maggiore resistenza alla siccità rispetto alle altre piante da orto, dovuta ad una migliore capacità di controllo della traspirazione. Alta fino a 80 cm, ha fusto turgido ed eretto, molto ramificato, talora più o meno spinescente e ricoperto di peli bianchi e lanosi. Grandi foglie ovali finemente tomentose di colore verde cupo e fiori ermafroditi singoli o riuniti in piccoli racemi. I bei fiori, di colore viola, durano due o tre giorni ed una volta avvenuta l’impollinazione, si ha la caduta dei petali e l’ingrossamento dell’ovario che porta alla formazione del frutto. I frutti sono bacche carnose ricche di acqua, larghe, lisce, oblunghe o rotonde, di colore nero-viola, con polpa compatta, soda, bianca, contenente numerosissimi semi localizzati nella porzione centrale per tutta la lunghezza del frutto.

Proprietaû

Le bacche di melenzana contengono tra il 92-93% di acqua. È abbastanza basso il contenuto complessivo di sali e di vitamine. Tra i primi i più rappresentativi sono il calcio e il ferro, mentre fra le seconde la A e la C. Proteine e grassi sono rappresentati intorno all’1% e allo 0,2% rispettivamente. Il contenuto calorico è di circa 20 kcal per 100 g di prodotto. 80


Nella farmacopea essa era indicata col nome di mala insana, a causa della tossicità presentata dai frutti immaturi che contengono elevate quantità di solanina, un alcaloide che non viene distrutto dalla cottura. Oltre alle vitamine, sono stati riscontrati componenti caffeici come la solasunina, le antocianine, e le nasunine, tutte sostanze presenti nel pericarpo. I frutti avrebbero proprietà terapeutiche, colagoghe, diuretiche, ecc. simili a quelle delle foglie di carciofo. Melanzana e carciofo vengono, perciò, indicate come piante sinergiche.

Curiositaû

- La parmigiana di melanzane (da non confondere con le calabresi melanzane alla parmigiana) risale a due secoli or sono secondo Jeanne Caròla Francescani. Ne parlano Ippolito Cavalcanti e Vincenzo Corrado, autore del “Cuoco Galante”. Si chiama parmigiana perché si cucina alla maniera dei Parmigiani, cioè cucinare i vegetali a strati; - dobbiamo ringraziare i Padri Carmelitani che, nelle loro peregrinazioni successive al 1500, hanno consentito la diffusione della coltivazione della melanzana in Italia ed Europa, senza farsi condizionare (forse) dalla credenza popolare che il mangiare melanzane facesse diventare pazzi.

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bietole carote cetrioli fagiolini fagiolini freschi (spollichini) lattuga incappucciata melanzane peperoncini peperoni pomodori rucola sedano bianco taccole zucchine zucca zucchine lunghe (cucuzzella)

(*) N.B. Gli ortaggi scritti in grassetto rappresentano quelli che stanno per esaurirsi nel mese di agosto.

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Settembre La zucca del vicino...

“S

ignora Marì, vi posso chiedere una cortesia?” disse cortesemente la signora Anna con una voce sottile e riservata. “Signora Anna, ditemi tutto: a disposizione!” “Signò, oggi ho cucinato la zucca perchè a mio marito piace tanto...” “Che combinazione, pure io ho fatto la zucca, perchè fa bene, è rinfrescante per la pancia, e queste sono le prime che si aprono, le prime uscite... ma ditemi, e scusatemi se vi ho interrotta!” “Veramente, signora Marì, io lo sapevo già che anche voi avevate fatto la zucca, mio figlio ha sentito l’odore. Ma il problema è che quel disgraziato la mia non la vuole, dice che voi la fate più buona. Allora vi volevo chiedere la cortesia, prima che viene mio marito e ci intossichiamo a tavola, quando preparate per voi fate finta che per caso ne portate un piatto a me, così mio figlio mangia quello vostro: lui è contento, mio marito non se ne accorge, e noi 83


stiamo quieti tutti quanti. Avite pacienza ma ‘e figlie danno sulo probleme.” “Signora Anna, mi credevo che era! Per così poco vi fate tanti problemi: un guaio di questo tutti i giorni e ci metterei la firma. Quelli, i ragazzi sono così, spirito di contraddizione.” “Che poi dico io, la zucca la faccio come voi: cocozza è una, cocozza è l’altra, che differenza fa? Quello vuole sfrocoliare proprio a me!” “Signò, non vi pigliate collera: per i figli, e non solo per loro, la cocozza del vicino è sempre più buona!”

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RICETTE

pasta e zucca Persone: j j j j Tempo: r r r difficolta’: k

Ingredienti:

700 g di zucca, 4 cucchiai di olio extravergine, prezzemolo, aglio, peperoncino, 320 g di pasta mista, sale q.b.

Procedimento:

soffriggere aglio e olio. Adagiare la zucca a pezzetti, il prezzemolo tagliuzzato, girare un attimo, allungare acqua e sale e far cuocere fino a rendere la zucca cremosa. Allungare l’acqua nella zucca per cuocere la pasta mista (se occorre aggiungere di tanto in tanto un altro po’ di acqua), cospargere di prezzemolo tritato crudo e peperoncino e scodellare.

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SCHEDA

LA ZUCCA

La zucca è l’ortaggio che più di tutti ha colpito la fantasia e l’immaginario popolare. Le zucche e le favole rappresentano un connubio frequente. Come non ricordare la zucca che la fatina trasforma nella splendida carrozza che trasporterà la “Cenerentola “ di Charles Perrault al gran ballo fatale? Le zucche, dal punto di vista alimentare, vengono apprezzate meno rispetto ad altri ortaggi, ma pensare ad una fattoria o a un modesto orto familiare senza la presenza di una zucca, magari disposta in un cantuccio periferico oppure ad interrompere, con la polimorfa presenza, la monotonia dei filari geometrici di altri ortaggi, appare un non senso. Certamente, nel passato, hanno avuto una maggiore importanza, sfruttate per millenni dai popoli precolombiani che usavano i frutti e i semi come cibo, gli involucri svuotati dalla polpa ed essiccati come contenitori leggeri ed impermeabili atti a contenere e conservare cereali, sali, ma anche liquidi come vino o latte. Questa molteplicità di usi si è mantenuta nel tempo tanto che la zucca viene definita “il maiale 86


dei poveri”, perché come con i suini, di essa non si butta niente.

Breve storia

Dal materiale archeologico rinvenuto soprattutto a Ocampo e a Tehuacan nel Messico, in terreni di 5000-5200 anni a.C., risulta che le zucche vennero coltivate molto anticamente ai tempi pre-Incas. Nella stessa area sono state trovate due specie spontanee Cucurbita lundelliana e Cucurbita martineri, che si possono considerare progenitrici delle zucche coltivate. Gli Egiziani, i Romani, gli Indiani d’Oriente, gli Arabi, gli Africani del Niger ci hanno lasciato qualche traccia che documenta la conoscenza di zucche, però, molto diverse da quelle che ci sono giunte con i viaggi di Cristoforo Colombo alle quali, oggi, noi facciamo riferimento. Alla corte napoletana di Ferdinando IV di Borbone le zucche erano inserite nei menù preparati dal famoso cuoco Vincenzo Corrado. La zucca da cibo “povero” presente nelle tavole dei nostri nonni, si è piano piano evoluta a ingrediente di tutto rispetto a sostegno della creatività di tanti maestri dell’arte culinaria. Le zucche sono coltivate in Italia, specie in Lombardia, Emilia Romagna e Veneto.

Botanica

Il termine zucche si applica a generi diversi, ma tutti appartenenti alla famiglia delle Cucurbitaceae. Sono piante per lo più annuali, rampicanti o cespugliose con fusti muniti di cirri ramificati e di foglie semplici e grandi, sorrette da lunghi piccioli cavi. I fiori sono unisessuali con calice gamose87


palo a struttura pentamera e con corolla gamopetala campanulata, pure pentamera. I fiori maschili hanno solo cinque stami con le antere molto ricche di polline. Quelli femminili e quelli ermafroditi si riconoscono perché sotto il perianzio presentano un ovario infero, oblungo e discoidale . Il frutto è una bacca di tipo peponide, del peso variabile da pochi ettogrammi ad alcune decine di chilogrammi. Il suo esocarpo è liscio o verrucoso, talora di consistenza dura e tenace. Il mesocarpo è invece carnoso, tenero, compatto, fibroso di colore bianco, roseo, arancio più o meno intenso, ricco di amido e di cromoplasti. L’endocarpo fibroso e le grosse placente con molti semi appiattiti di colore e forma variabile. Le specie più importanti sono: cucurbita maxima (dialettale cocozza zuccarina); cucurbita moschata (vi fa parte la “zucca di Napoli” cocozza a turbante); cucurbita mixta; cucurbita lagenaria (cocozzella a fiaschella); cucurbita lagenaria vulgaris (cocozzella longa). La riproduzione avviene per semi.

Proprietaû

Il valore alimentare delle zucche è relativamente basso, dato l’elevato contenuto in acqua che va dal’85 al 90%. Contiene le Vitamine A e C , il betacarotene, sali minerali, potassio, calcio, fosforo e una certa quantità di zuccheri che la rendono gradevole. Nei semi di zucca si trovano, invece, in grandi quantità un olio semiessiccativo, che può essere anche commestibile, e proteine. I semi sono tossici per i vermi piatti come la tenia e gli ascaridi; sono innocui per gli uomini, anzi vengono mangiati abbrustoliti e salati (bruscolini o brustolini). 88


È un cibo facilmente digeribile ed ipocalorico, solo 16 kcal per 100 g di prodotto. Povera di lipidi e di protidi. In tempi in cui si ricorre spesso alla dieta essa rappresenta una soluzione molto valida.

Curiositaû

- Molti miti e cosmogonie americane, australiane e indiane prendono spunto dalla zucca; - ad Atene la zucca, consacrata alla Grande Madre, simboleggiava anche abbondanza e fecondità, prosperità e buona salute; - per contro in altri casi è stata rappresentata come l’emblema della brevità della vita e della felicità breve; - la zucca, con i suoi numerosi semi, in antichità è stata indicata quale simbolo della Resurrezione; - si parla della zucca nel canto XVIII della Divina Commedia; - il dizionario della Zanichelli fa derivare il termine zucca da “cocutia-testa”, poi trasformata in cocuzza e, quindi, zucca; - e la zucca come emblema del capo rientra in molti detti, fa freddo, copriti la zucca, ha battuto la zucca, si passa poi a zucca senza sale o aver sale nella zucca per indicare stupidità o intelligenza, con riferimento all’usanza antica delle famiglie contadine più povere che trasportavano o tenevano il sale in una zucca svuotata.

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bietole broccoli di rape carote cetrioli lattuga incappucciata lattuga lampascioni melanzane papaccelle peperoni pomodori rucola sedano bianco taccole zucchine zucca

(*) N.B. Gli ortaggi scritti in grassetto rappresentano quelli che stanno per esaurirsi nel mese di settembre.

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Ottobre Papaccelle e Vaticano

I

l profumo inondava letteralmente la tromba delle scale di un vecchio palazzo di Spaccanapoli; rispetto al buio del palazzo, da muri spessi e gli alti scalini, l’odore sembrava quasi emanare luce ed evocare rigogliosi paesaggi campestri. Gli studenti della facoltà di medicina che vivevano all’ultimo piano di quel palazzo, non potevano evitarsi la profonda ipersalivazione che l’aroma aveva provocato, anche come risposta di stomaci rigorosamente vuoti. Già sapevano, pur senza comunicarlo tra loro, che nella mansarda che occupavano non avrebbero trovato nulla più che gli avanzi della cena della sera precedente, e avrebbero cominciato a passarsi la palla circa i turni di chi doveva cucinare. Era già stancante il solo pensare alla consueta dinamica, figuriamoci realizzarla concretamente. Don Mimì, un simpatico pensionato cieco del piano di sotto, perdendo il senso della vista aveva affinato il restante sensorio in maniera esponenziale, aggiungendo qualche altra cosa non com91


pendiata dalle classificazioni anatomiche: la percezione delle altrui emozioni. Fu proprio questa percezione, unita alla sua squisita generosità di napoletano DOC, che gli fece porre nel piatto sei bellissime papaccelle, colorate e turgide come seni di giovinetta, profumatissime con il loro semplice ripieno. Don Mimì salì le scale con il piatto in mano con un equilibrio e una precisione che scarseggia in molti vedenti e semplicemente apparve sull’uscio degli studenti, la cui espressione stupefatta e affamata non sfuggì al pensionato. “Sono papaccelle, parenti dei peperoni, ma diverse, quelle che poi mettiamo sotto aceto per l’insalata di Natale, perchè sono più callose del peperone, e si accavallano con l’inizio dell’autunno.” Mentre gli studenti armati di posate iniziavano ad onorare il piatto, Don Mimì, che amava la compagnia e chiacchierare, iniziò a raccontare. “Vedete guagliù, io ci tengo molto a cucinare le cose nel loro periodo, cioè nel periodo della nostra terra. È un modo mio di mantenere salde le radici, e, attraverso questo, riesco quasi a vedere quello che mi succede intorno. Come le foglie fanno con il tronco, perché sono loro che ricevono le informazioni dalle radici, in ogni posto del mondo devi guardare le radici, sennò non capirai mai niente. Come mia sorella! Quella scema che da anni vive in Piemonte, pensa che “struppianno” le parole non fa capire che ha radici diverse. Lei i friarielli a nord li chiama “friggerelli” (è più educato), i panzarotti “crocchette” e alle papaccelle, per aggraziarle, ci ha tolto una “c”. Quando ha chiesto le “papacelle” in un negozio piemontese di frutta e verdura, le hanno risposto che certe cose bisogna cercarle in Vaticano! Voi che avreste pensato? Che mia sorella è cretina, perché ha dimenticato il significato delle proprie radici: allora se le merita “le cella del Papa.”

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RICETTE

papaccelle ripiene Persone: j j j j Tempo: r r r r difficolta’: kk

Ingredienti:

4 papaccelle, 1 cucchiaio di capperi, 100 g di olive nere snocciolate, 200 g di mollica di pane raffermo, 1 ciuffo di prezzemolo, 6 cucchiai di olio extravergine (2 per soffriggere, 4 per irrorare), sale q.b.

Procedimento:

lavare bene le papaccelle e con cura asportare la parte superiore (come un cappello) che sarà tenuta da parte. Lavare, dentro, le papaccelle, togliendo i semi e la parte bianca. Saltare in padella olio, aglio piccolo piccolo, mollica sbriciolata, capperi sciacquati con acqua e aceto bianco, olive snocciolate, prezzemolo tritato, sale. Riempire con il preparato le papaccelle, riposizionare sopra il “cappello” tolto prima, irrorare con olio extravergine. Cuocere in forno, 30 min, ad una temperatura moderata.

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SCHEDA

LA PAPACCELLA

La “papaccella” non è un peperone venuto male, magari perché nato in terra napoletana. La vera papaccella è una bacca piccola, schiacciata e costoluta, molto carnosa e saporitissima, ideale per le conserve sottaceto e sottolio. Oggi i mercati sono invasi da vari ibridi di varie dimensioni. Gli orti (le parule) in cui si coltivava un tempo la papaccella erano localizzati nei pressi di masserie, a Nord di Napoli, destinate alla produzione dell’aceto. La regione Campania, per evitare la sua scomparsa, ha recuperato il germoplasma e lo ha affidato a quei presidi che si impegnano a produrre in modo ecosostenibile, riducendo l’impatto ambientale e salvaguardando la biodiversità. La papaccella è stata insignita del premio per il miglior eco-packaging nell’ottava edizione del “Salone del gusto” organizzato da Slow Food a Torino nel 2010. La papaccella è un peperone della tipologia Topepo, varietà con frutti a trottola, morfologicamente simile al po94


modoro. Il nome deriva, infatti, dalla fusione dei due termini “to-mato” (pomodoro) e “pepo” (peperone): per marcare la somiglianza con i due frutti. Le notizie storiche, le caratteristiche botaniche, le proprietà che riguardano il “peperone” sono evidentemente riferibili anche alla “papaccella”.

Breve storia

Il peperone è una pianta orticola, portata in Europa dagli Spagnoli, dopo la conquista dell’America, assieme ad altri prodotti che provocarono un terremoto nei mercati e negli scambi commerciali. Pare che già tra il 5000 e il 6000 a.C. gli abitanti di alcune caverne ne facessero uso. Il peperone e il peperoncino si diffusero rapidamente, malgrado il re del Portogallo ne avesse vietato il commercio per non ledere il fiorente mercato del pepe, una delle poche spezie, tra l’altro costosissima, usata per insaporire i cibi ma anche per la sua conservazione. La diffusione è dovuta al fatto che, a differenza del pepe, peperone e peperoncino sono facilmente coltivabili anche alle nostre latitudini.

Botanica

Il nome scientifico del peperone (Capsicum annuum), forse, deriva dal greco “kaptein”, che vuol dire mordere, e ciò potrebbe ricollegarsi alla natura dell’ortaggio, sicuramente “mordente”, cioè piccante, in molte delle sue varietà; ma c’è qualcuno che tenta di spiegare il significato del nome associandolo al sostantivo “capsula”, con allusione alla forma caratteristica del frutto a capsula, a scatola (“capsa”, in latino). Si tratta di una pianta a coltivazione annuale il cui fusto varia dai 40 ai 90 cm di altezza, ramificato alla base. I 95


fiori sono bianchi e fiorisce da maggio a settembre. I frutti sono bacche carnose prima verdi e poi assumono diverse colorazioni, tra il giallo e il rosso, a seconda delle varietà. Essi contengono i semi attaccati ad un tessuto placentare bianco e spugnoso presso il peduncolo.

Proprietaû

Comunemente i peperoni vengono distinti in dolci e piccanti. Il gusto dipende dalla presenza di un alcaloide, la capsicina, che, quando è contenuta in quantità maggiori, dà al peperone un sapore più pungente. Spesso questa differenza è dovuta alle condizioni climatiche e ambientali in cui la pianta è cresciuta. Quando i peperoni giunsero in Europa dal Nuovo Mondo al seguito di Colombo, si trattava di frutti decisamente piccanti, tanto da guadagnarsi il nome di “pepe d’India”. Fu Josè de Acosta, storico spagnolo del secolo XVI, a fare una prima distinzione fra peperoni più o meno piccanti. Il contenuto energetico è mediocre. Povero di proteine e di idrati di carbonio, è quasi del tutto privo di grassi, tuttavia è assai ricco di vitamine. Peperone dolce 20-22 kcal, peperone piccante 24-28 kcal. Il peperone è un cibo molto carico di “energia solare”, non a caso viene definito “un concentrato elettromagnetico”. Stimola la funzione digestiva (grazie alla capsicina che stimola la secrezione di succhi gastrici) e la circolazione del sangue; è diuretico e disinfettante; ha proprietà stimolanti ed eccitanti; cura l’alcolismo e il mal di mare. Secondo le ultime ricerche in campo medico, giova ai reni e ai polmoni. La difficoltà di digestione che si riscontra talvolta deriva dall’intolleranza soggettiva alla pellicola che ricopre il frutto che è abbastanza consistente. Un espediente della nonna, con il quale è possibile limitare l’inconveniente della scarsa 96


digeribilità del peperone cotto, suggerisce di mettere alcuni pezzi di mela nel tegame in cui questi stiano cuocendo.

Curiositaû

La papaccella è un prodotto di nicchia in alcuni comuni a Nord di Napoli. Le “parule” si trovano nelle vicinanze di Brusciano dove molti abitanti hanno come cognome Papaccio. Le bacche vengono conservate sottoaceto di vino rosso (piccirillo) dai Ciutunari e conservate nei Rancelloni (grandi giare di terracotta). Le papaccelle sono l’ingrediente principe dell’insalata di rinforzo, tipica pietanza delle feste natalizie partenopee.

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bietole funghi lattuga lampascioni melanzane papaccelle pomodori rucola songino (valeriana) zucca

(*) N.B. Gli ortaggi scritti in grassetto rappresentano quelli che stanno per esaurirsi nel mese di ottobre.

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Novembre Teoria sul friariello e l’edilizia

L’

impalcatura era stata montata da più di due mesi per ristrutturare le facciate del palazzo e, dopo i primi chiari disagi, i muratori avevano familiarizzato con quasi tutti i membri del condominio. A dire il vero la familiarità era stabilita in modo diverso secondo piani ed appartamenti: con alcuni inquilini gli operai erano educati e quasi formali, attenti a non invadere la privacy, con altri scanzonatamente invadenti, soprattutto nella continua richiesta di caffè caldo, per sostenere meglio l’umido di un novembre troppo piovigginoso. In effetti il vociare e il canticchiare dei lavoratori edili smorzava quel clima pesantemente brumoso che poco risuona con il popolo partenopeo. Il contributo sonoro più generoso era fornito dal capomastro, Mastro Peppe, che non riusciva a tacere nemmeno a pagamento: richiamava all’ordine gli operai, esprimeva giudizi sull’operato professionale dei suoi uomini e sulla loro vita privata, sulle loro nonscelte politiche, sul loro tempo libero. 99


Il soggetto privilegiato di Mastro Peppe restava comunque il figlio Giovanni, un ragazzone di diciotto anni, che alla scuola aveva preferito il mestiere, volenteroso ed introverso, che lasciava trasparire il rossore del viso, quando il padre lo rimproverava, anche al di sotto di un’acne floridissima. Anche su quel rossore Mastro Peppe aveva da ridire, perchè “agli uomini non deve succedere!” Il momento migliore, ricco di aneddoti e proverbi, per i comizi di Mastro Peppe si realizzava con la pausa pranzo: ciascuno con il proprio pane e qualcosa da bere, con le gambe penzoloni dalle impalcature, ascoltava quanto il capomastro aveva da dire, da correggere, da raccontare. Il vocione dell’uomo li avvolgeva, li sosteneva: era evidente che era considerato con affettuoso rispetto da ciascuno di loro. Solo negli occhi di Giovanni si leggeva nervosismo e insofferenza, soprattutto nella pausa pranzo del martedì e del venerdì. “Giovà, a papà, pure stavolta hai fatto a modo tuo! Io me la devo prendere con mammeta che non mi capisce: ma come anche oggi prosciutto e provola? Allora sei tosto? Mi vuoi sfottere?” Silenzio rassegnato di Giovanni. “Signora mia, voi mi guardate, state pensando che sono un padre duro, che non capisce il figlio, ma non è così credetemi! Io lo volevo far studiare, ma lui ha detto che voleva fare il mestiere che prima di me hanno fatto mio padre e mio nonno. E va bè, fai come vuoi, tu sai i sacrifici che devi fare, ma se hai scelto! Però mi deve pure venire incontro! Lui lo sa che c’è un’usanza di famiglia che per noi è importante. Mio nonno l’ha trasmessa a mio padre e papà mio a me: da novembre a febbraio, i mesi più pericolosi per i lavoratori edili, la mia famiglia ha mantenuto l’usanza della “marenna” con i friarielli. Il martedì friarielli e una sasiccella, il venerdì, per rispetto al Signore, senza sasiccella, solo friarielli. Che vi devo dire signora mia, sarà perchè da novembre a febbraio il friariello è tenero, è buono perchè è la sua stagione, ma noi abbiamo sempre avuto lavoro in questo 100


periodo. Il friariello è a favore dei lavoratori edili! E questo mamozio di mio figlio che fa? Mangia pane e prosciutto, fottendosene della tradizione di tre generazioni: allora ci vuoi inguaiare? Signò, vi vedo perplessa, ma sapete cosa vi dico? Non è vero ma ci credo! E io l’usanza del friariello non la cambio.”

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RICETTA

friarielli Persone: j j j j Tempo: r r r r difficolta’: k

Ingredienti:

4 fasci di friarielli, aglio, peperoncino, olio extra vergine, sale q. b.

Procedimento:

pulire i friarielli togliendo le foglie esterne più dure e i gambi più doppi. Lavarli bene. In una padellona soffriggere aglio, olio e peperoncino; calarci dentro la verdura ancora intrisa di acqua. Girare spesso finché i friarielli saranno ridotti a metà per 20-30 min, lasciare asciugare la loro acqua continuando a girare nell’olio (richiedono un po’ d’olio in più). Non coprire perché assumerebbero un colore verde smorto. Per chi soffre di disturbi intestinali, vale la pena dare un bollo alla verdura e soffriggerla da parte. Il sale si aggiunge quando i friarielli hanno dimezzato il loro volume (metà cottura).

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SCHEDA

ûE FRIARIELLE

Non è un caso l’aver voluto mantenere il termine dialettale per questa scheda. Qualcuno afferma che esso derivi dal castigliano frio-grelos (broccoletti di inverno), ma molto più semplicemente sembra una derivazione del napoletano “frijere” (friggere). In ogni caso, il tentativo maldestro della traduzione in italiano (il ridicolo “friggiarelli”!) mi sembra che sottragga poesia e persino sapore a questo ortaggio. Esso rappresenta un po’ l’emblema delle verdure napoletane, una specialità tipica napoletana, infatti basta allontanarsi di pochi chilometri, nella stessa Campania, perché lo stesso termine “friarielli” venga associato ad un’altra verdura, peraltro molto gustosa, i peperoni verdi nani fritti. Possiamo farli rientrare nella generica categoria dei “broccoli”, definiti “l’ala anarchica” delle Brassicaceae. 103


Breve storia

La ricerca accurata sui rapporti tra cibo e salute hanno concentrato l’attenzione sui broccoli, ortaggi rimasti sconosciuti per lungo tempo ad eccezione del Sud Italia e la Grecia. La parola “broccoli” deriva dal latino brachium che significa ramo in riferimento alla forma arborea dell’ortaggio. Rimasero confinati in Italia, dopo il declino dell’Impero romano, poi si spostarono verso il Mediterraneo orientale e solo all’inizio del XVI secolo fecero la comparsa in Francia in seguito al matrimonio di Caterina de’ Medici con Enrico II. Successivamente furono i migranti italiani a portarli un po’ dovunque e, in particolare, in America dove oggi spopolano. A questa categoria possiamo ascrivere “i broccoli di rapa o cime di rapa” che molti fanno coincidere con i “friarielli”. La rapa è una pianta orticola coltivata essenzialmente per le sue radici. Il sapore non è esaltante, tanto da dare origine al detto “testa di rapa” per indicare un cervello un po’ evanescente. Solo la creatività dei napoletani (indicati con un po’ di sufficienza come i “mangiafoglie”), accentuata dal bisogno e dalla fame (la povertà aguzza l’ingegno!) poteva spingere a guardare questa pianta, dalla parte superiore, dalla cima e provare ad utilizzare le foglie e le infiorescenze non ancora aperte, fritte (per aumentare le calorie, allora l’esigenza era diversa da oggi che si tenta, invece, di diminuirle!) prima nella sugna, poi nello strutto ed infine, oggi, nell’olio, con un po’ di aglio e peperoncino. Già da soli, con il pane, una bontà; ma oggi i friarielli sono diventati la base di piatti prelibati, basta ricordare l’associazione con le salsicce. 104


Botanica

Anche se c’è qualcuno che insiste che ci sia una differenza, possiamo indicare i friarielli con il nome scientifico Brassica rapa subsp.sylvestris L., appartenente alla famiglia delle Brassicaceae (una volta chiamate Cruciferae). La pianta emette una rosetta basale di foglie e in fase riproduttiva sviluppa steli terminali con infiorescenze tenere e carnose che vengono utilizzate prima di aprirsi assieme alle foglioline che le accompagnano. I fiori gialli hanno la struttura tipica delle crocifere, con disposizione a croce degli elementi dell’involucro fiorale, di tipo regolare, a simmetria raggiata. I sepali sono quattro, separati gli uni dagli altri, alternatamene ad essi sono disposti i petali, pure in numero quattro e separati, opposti a due a due, per cui si hanno due formazioni sovrapposte, incrociate e scambiate. Gli stami sono in numero di sei, di cui quattro più lunghi e il pistillo ha l’ovario supero. Il frutto è una siliqua. I friarielli sono coltivati nella zona Nord-Est di Napoli (ahimè!) l’area più devastata da una scellerata politica industriale e dai rifiuti. Una volta erano coltivati anche al Vomero chiamato “o colle d‘e friarielle”.

Proprietaû

Per le sue caratteristiche di vegetare e produrre con basse temperature è considerato un ortaggio invernale. Come gli altri broccoli è ricco di vitamine A, B1, B2, C, PP, di sali minerali (fosforo, potassio, ferro e zinco) facilmente assimilabili perché poveri di ossalati. Presenta proprietà demineralizzanti, energetiche, antianemiche, disinfettanti, antireumatiche. Come gli altri broccoli durante la cottura emana un odore caratteristico dovuto 105


alla degradazione della sua componente solforata, la proteina “sulforafane” che ha proprietà anticancro e inibisce l’invecchiamento cellulare.

Curiositaû

Il fatto che i “friarielli” rappresentino una verdura fortemente caratterizzante il popolo napoletano è avvalorato dalla denominazione assunta da alcuni gruppi culturali e sociali comparsi di recente sulla scena politica partenopea. - Il Gas friarielli (il primo gruppo solidale di acquisto nato a Napoli nel 2001, che doveva chiamarsi “cocozzielli”, ma che giustamente ha dirottato su “friarielli”) che si occupa di diffondere l’acquisto di prodotti biologici, soprattutto locali, e di promuovere un’economia equa e solidale; - i Friarielli ribelli, recentissimo gruppo locale di guerrilla gardening, che si propone di combattere il degrado, con una pratica nonviolenta, pulendo e trasformando, periodicamente, scorci di territorio. Tra i componenti del Gas per un po’ di tempo si è sviluppata una curiosa discussione sulla “collocazione politica del friariello” e il risultato è stato che il “friariello è di sinistra”. Considerando l’umile origine, la sua storia e l’approdo attuale mi sento di condividere alquanto questo assunto.

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cicoria carciofi cavolo cime di rape funghi friarielli lattuga scarola songino verza zucca

(*) N.B. Gli ortaggi scritti in grassetto rappresentano quelli che stanno per esaurirsi nel mese di novembre.

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Dicembre La verdura fa bene... nella pizza

T

eresa osservava il disegno da ricalcare sul lenzuolo come i bambini osservano i disegni che il gelo e la brina compongono sui vetri: con occhi stupiti che rincorrono favole in cui streghe e fate diventano un unico fulcro di magia che tutto può modificare. Dopo tanti anni di disegni “trasportati” su fine biancheria, per impreziosire il corredo di future spose, Teresa conservava ancora la capacità di perdersi nei sogni che quei disegni evocavano, sogni mai rivelati, nascosti da un’apparente distaccata apatia, che solo una sottile luce negli occhi ed un timido sorriso potevano lasciare intuire, se osservati senza intrusione. Le sue mani, pur deformate da una vecchia artrite poco misericordiosa, conservavano dei tratti molto sinuosi e raffinati, mai intaccati dalla vecchia patologia reumatica. In quei giorni di dicembre, in cui imperversava freddo umido, Teresa non stava bene: tra i dolori, bronchite e crisi di iperglicemia, 108


non c’era da stare allegri ma, mentre la figlia si preoccupava di questo stato di malessere e si affannava ad informare il medico sull’evoluzione della cosa, la pacata, flemmatica apatia di Teresa non subiva alterazioni di sorta e i suoi disegni proseguivano con ostinata fermezza, estranei a qualcosa che non sembrava appartenerle. Nel tardo pomeriggio arrivò il medico, più volte sollecitato dalla figlia, a verificare lo stato di salute della disegnatrice: le misurò la pressione, auscultò le spalle, verificò il gonfiore articolare, misurò la glicemia, che risultò particolarmente alta. “Ma come mangia la signora?” chiese il dottore alla figlia di Teresa. “Dottore, non c’è niente da fare, mamma rifiuta tutto ciò che le fa più bene, soprattutto le verdure. Lei ama pasta, pane, la frutta più dolce, e i biscotti: ed ecco il risultato!” “No, no, non ci siamo proprio! La signora deve seguire un regime alimentare preciso. Signora, lei deve essere ragionevole, collaborare; perchè non vuole mangiare le verdure? Fa un po’ i capricci?” Teresa, che fino ad allora si era lasciata gestire senza alcuna partecipazione, sembrò rientrare in quel momento da un viaggio lontano. Osservava figlia e medico con curiosità ed ironia, come chi si chiede: “Ma questi che vogliono?” Il medico le ripeté la domanda: “Perchè non mangia le verdure che le fanno bene?” Teresa allora gli puntò in faccia gli occhi pieni di stupore per rispondergli: “Io non mangio verdure? Questo non è vero!” Allora la figlia intervenne per dirle che era assolutamente vero ciò che il medico diceva. A questo punto Teresa sfoderò tutte le energie possibili per ribadire le sue convinzioni “Io non mangio verdure? Perchè le scarole non sono verdure?” “Perché, mamma, tu mangi le scarole?” “Certamente, sempre, in mezzo alla pizza, e tolgo i passolini perchè sono troppo dolci, e mi possono far male!” 109


RICETTA

pizza di scarole Persone: j j j j Tempo: r r r r r r r r difficolta’: kk

Ingredienti:

350 g di farina, acqua tiepida, 5 g di lievito birra (meglio ridurre e aspettare di più), sale, un pizzico di zucchero, 3 scarole a “pagnottella”, 150 g di olive nere snocciolate, 1 cucchiaio di capperi ben sciacquati, 1 cucchiaio di pinoli, 3 alici in salamoia (sciacquate), 3-4 cucchiai di olio extravergine, 1 manciata di uva passa, sale q.b.

Procedimento:

impastare farina, acqua, lievito, sale, zucchero e metterle da parte a lievitare. Pulire e lavare molto bene le scarole e quindi lessarle per 20 min, scolare e soffriggerle con aglio, olio, olive nere, capperi, pinoli ed eventuali alici salate (molti aggiungono anche una manciata di uva passa per il gusto salato-dolce, ovviamente ammollata in acqua). Dividere la pagnottella lievitata in due parti. Stendere la prima con matterello (tondo o rettangolare secondo la forma del tegame da forno). Sotto il tegame spargere olio di oliva. Poggiarci la prima parte dell’impasto, sopra mettere le scarole saltate (non calde) stendere con il matterello il resto della pasta infornare 30-40 min a 180°. 110


SCHEDA

LA SCAROLA

La scarola veniva usata nei tempi antichi per il suo sapore amarognolo come pianta medicinale. Oggi, soprattutto, come insalata. Attualmente nel termine insalata si ingloba qualsiasi guazzabuglio di elementi e nutrienti di diversa natura, di sapori e aromi che pur nella mescolanza mantengono la loro specificità e visibilità. L’olio è l’ingrediente che mantiene uniti e separati i vari elementi che vengono esaltati con l’aggiunta di sale (da cui proviene il termine in-salata). Olio e sale che, comunque, vanno usati con parsimonia per la salute ma anche per preservare il gusto originario degli alimenti stessi. Il modo classico, però, di intendere l’insalata consiste nel piatto di foglie verdi, appena condite, e così concepita diventa la regina delle diete perché poco calorica, voluminosa e, quindi, capace di saziare. La scarola è la più importante delle indivie. Di queste si considerano soprattutto due varietà: quella classica detta crispum (l’indivia riccia), dalle foglie crespate, e quella latifolium, dalle foglie intere che si ripiegano verso il germoglio centrale (la scarola, appunto). 111


Breve storia

Non la si conosce allo stato spontaneo e la sua origine non è ben chiara. De Candolle e altri botanici ritengono che sia una varietà della specie spontanea mediterranea Cichorium pumiluna, altri ancora hanno idee diverse. Alcuni pensano che provenga dall’India (ed il termine “endivia” etimologicamente significa di origine indiana), altri ritengono che sia originaria del bacino mediterraneo e per la grande adattabilità si sia diffusa anche nei paesi dell’area temperata. Fu considerata dapprima pianta medicinale; nel corso del XVI secolo si affermò la sua utilizzazione a scopo alimentare quando, praticamente, ci si accorse che le sue proprietà organolettiche miglioravano sensibilmente con la tecnica dell’imbianchimento o e con l’aggiunta di altri ingredienti. Oggi è un ortaggio di largo consumo esportato nei paesi dell’Europa centrale e settentrionale. In Italia è coltivata in tutte le regioni, ma la Campania è buon seconda dopo la Puglia. In particolare viene prodotta nell’agrosarnese-nocerino e nella piana del Sele.

Botanica

Il nome scientifico dell’indivia scarola è Chicorium indivia latifolium; è una pianta annuale o biennale della famiglia delle Asteraceae. L’indivia presenta una radice che si approfondisce nel terreno con ramificazioni parallele che possono arrivare anche a 100 cm, un brevissimo fusto, una rosetta di foglie basali che formano un cespo piuttosto lasso. Per ottenere l’imbianchimento centrale, nel cuore, il grumolo viene raccolto e legato con fili di rafia, di ginestra o di 112


vimini. Lasciate per 3-15 giorni in assenza di luce le foglie perdono la clorofilla e diventano più bianche e più tenere. Se lasciata sviluppare la pianta passa allo stadio riproduttivo, il fusto si allunga (scapo fiorale anche di 1 m) e presenta delle infiorescenze a capolino di 18-20 fiori, ermafroditi, ligulati, bluastri. I frutti sono piccoli acheni di colore grigio muniti di pappo. La raccolta si fa quando la pianta è ben sviluppata ed un cespo deve pesare intorno ai 250 g. È una pianta autunnale-invernale, ma quando è sottoposta a giorni lunghi, con esposizione alla luce per più di 13 ore, essa ha la tendenza a maturare a fiore.

Proprietaû

La scarola viene apprezzata non tanto per le proprietà nutrizionali, quanto per quelle toniche, diuretiche e lassative. Presenta un elevato contenuto in acqua e un basso contenuto calorico, 15 kcal per 100 g di prodotto, tanto da essere consigliata in tutte le diete dimagranti. Tra i vari tipi di insalata è una delle varietà più ricca di principi attivi. Rimarchevole è il contenuto di Vitamina A e C e di sali (ferro, calcio, fosforo e potassio). Essendo ricca di potassio è ottima anche in caso di ipertensione.

Curiositaû

- Etimologicamente scarola deriva dal tardo-latino “escarius” che significa commestibile. Commestibile, ma non tanto gustosa se non viene accompagnata da ingredienti vari; - di qui il motto campano “dici sul’ scarol”, nel senso di sciocchezze o di concetti annacquati; 113


- per i malati basta accompagnarla con un filo d’olio, ma per farla diventare una vera leccornia l’arte culinaria, soprattutto partenopea, ha creato molte varianti tra cui: • scarole ’e fasul • scarola ‘mbuttunata • pizza ’e scarole. - In terra felix prefigura l’organo femminile.

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broccoletti neri broccoli castellani carciofi carote cavolo cime di rape finocchi cicoria lattuga porri scarola songino verza zucca

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E tredici …la patata: dedicato ad Aldo

No, non è un errore! È chiaro che non esiste il tredicesimo mese dell’anno, ma è proprio questo lo spazio più idoneo per la patata. “Sta sempre ’ntridece”, dicitura con cui il napoletano indica qualcuno o qualcosa sempre presente, calza a pennello per la patata, di qualsiasi colore, consistenza, gusto. A parte l’opinione del mio amico Aldo, per cui nutro un affetto incorruttibile da tempo, che desiderava per la patata uno spazio fuori schema, cioè fuori dal calendario prestabilito. Credo che questo tubero avrebbe più diritto di molte persone al Nobel per l’amore verso gli esseri viventi, per aver ridato speranza e forza di lottare per la vita in tempi di carestia, di miseria, di prigionia. Si è posto nella storia dei popoli con umiltà e timidezza, ma, al tempo stesso, con la tenacia delle cose più semplici. Sono centinaia le ricette che includono la patata, ma qui mi piace ricordarne una legata proprio alla semplicità della vita quotidiana.

G

Il gattò o gateau

li ospiti in casa di zia Nina si avvicendavano con una velocità incredibile, sia per consigli, per scambiare due chiacchiere o bere un caffè. Per un’iniezione o per una partita a carte. La padrona di casa amava essere circondata da per116


sone con cui parlare e, soprattutto, giocare. Il suo amore per le carte non era ricambiato da queste ultime, poiché quasi sempre zia Nina perdeva, ma questo non faceva altro che incitarla ad attendere la prossima “riperdita”. La stessa passione per gli ospiti non era assolutamente ricambiata da Vanda, la collaboratrice domestica di casa, che sbuffava ad ogni suonata di campanello e faceva mille smorfie alle spalle degli ospiti che spesso, tra una chiacchiera e una partita a poker, restavano a cena. Tutto ciò comportava un dispendio di risorse economiche non all’altezza di zia Nina alla quale Vanda indirizzava quotidianamente la frase: “Signò, qua ci sono i vizi dei generali e lo stipendio dei caporali!” A Vanda non piaceva cucinare: poche cose le riuscivano bene, in primis il gattò di patate, cavallo di battaglia di molte serate di partite a carte. Nella sua produzione culinaria la donna riciclava tutti i residui di salumi e formaggi abbandonati nel frigo ad un destino di degrado e la passione che metteva nel riciclo, per risparmiare, era ampiamente ripagata dall’ottimo risultato. Un giorno la moglie “nordica” di uno degli ospiti chiese a Vanda la ricetta del suo squisito “gateau”. La donna sgranò gli occhi come se avesse ascoltato una lingua straniera e rispose: “No, io non le faccio queste cose, vi sbagliate!” Allora la “nordica” spiegò che la ricetta riguardava quel cibo fatto con patate, formaggi, ecc. Vanda capì e rispose: “Ah, il gattò, e voi avete detto una cosa strana!” A questo punto la signora del nord spiegò alla colf che il nome gattò derivava dal francese gateau, che indica una torta, un dolce. Allora Vanda puntò le mani sui fianchi, fulminando con lo sguardo la signora, poi, rivolta a zia Nina disse: “Nientedimeno vi lamentavate pure della mia cucina: è cruro, è nzipeto, è sciacquato… vuje sapiveve che cucinavo pure francese e nun m’avite mai detto niente? Che ’nfamità a gente!” 117


RICETTA

gatto’ di patate Persone: j j j j Tempo: r r r r r r difficolta’: k

Ingredienti:

1 kg di patate, 4 cucchiai di pecorino grattugiato, 2 uova. Per l’imbottitura: salumi e formaggi avanzati (da preferire salame, mortadella, formaggio a pasta dolce, provoletta, fior di latte), qualche fiocco di burro, pane grattugiato, sale q. b.

Procedimento:

lessare le patate, schiacciare bene senza lasciare grumi, unire uova, formaggio grattugiato, sale e mischiare bene il tutto. Nella teglia porre alla base qualche fiocchetto di burro, stendere il primo strato di patate, porre al centro l’imbottitura di salumi e formaggio a pezzetti, ricoprire con il resto delle patate aggiungendo in superficie fiocchetti di burro e pane grattugiato. Cuocere in forno 30-40 minuti a 180° finché la superficie non risulta dorata.

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SCHEDA

LA PATATA

C’è una scena del film di Nanni Loy “Le quattro giornate di Napoli” che mi torna in mente pensando alla “patata”. Una vedova (la bravissima Regina Bianchi) madre di quattro figli, disperata, travolta dalla fame e dalla miseria, retaggio della guerra, vaga per la città e per conoscenti alla ricerca di una sistemazione precaria, provvisoria, magari anche diversa per i suoi figli. L’indomani incontra Gennarino (Cazzillo), il più grande, per le raccomandazioni di rito. Sbuccia parzialmente una patata e gliela offre. Gennarino azzanna vorace la polpa soffice e bianca, poi guarda il desiderio frenato della mamma e la invita a mangiarne un po’, la mamma l’addenta con delicatezza (solo per assaggiarla!) e la restituisce alla fame giovanile, solo temporaneamente bloccata. La patata è la stupenda mediatrice tra l’amore materno e quello filiale. In questa scena mi sembra che si racchiuda l’universo simbolico che ha accompagnato la storia della patata. 119


La patata, cibo dei poveri, cresce praticamente in qualsiasi terreno e ci impiega solo tre o quattro mesi per maturare, contro i dieci dei cereali. Il frumento ha origine in natura, ma poi viene trasformato dalla coltura, la patata è semplicemente gettata in pentola o sul fuoco ed è pronta per essere mangiata. La patata, cibo della guerra, anche perché rimane sottoterra tutto l’inverno per essere raccolta quando serve; nel corso della storia questa è stata una vera benedizione per i contadini, vittime dell’arroganza degli eserciti, perché non è facile saccheggiare dei tuberi che sono nascosti nel terreno.

Breve storia

È originaria delle Ande, del Cile in particolare; domesticata nella regione del lago Titicaca, si diffuse per tutta la regione andina e oltre. Costituì per molti secoli il pilastro della dieta inca, insieme al mais e i fagioli. Gli Inca ne svilupparono centinaia di varietà, ognuna adatta ad una diversa combinazione di terreno, sole e umidità. Gli europei scoprirono per la prima volta le patate intorno al 1530, quando gli Spagnoli si imbarcarono alla conquista dell’Impero inca, che si estendeva lungo la costa occidentale del continente sudamericano. Fu portata nel 1580 in Spagna e da qui passò nelle Fiandre e poi nell’Italia. Considerata più una curiosità botanica, venne prima utilizzata come pianta medicamentosa e solo più tardi come base alimentare. Fu il fondamentalismo religioso a tardarne l’utilizzo. Non era nemmeno menzionata nella Bibbia. Ma anche le strane teorie di alcuni erboristi che asserivano che la morfologia della pianta indicasse la malattia che poteva causare o curare; quello strano aspetto richiamava le mani deformi di un lebbroso e perciò poteva esserne la causa. 120


Il destino della patata è legato alla figura di uno scienziato francese, farmacista al seguito dell’esercito, Antoine Auguste Parmentier. Catturato dai Prussiani, durante la Guerra dei sette anni, nei tre anni di prigionia mangiò quasi esclusivamente patate, facendo esperienza che quel tubero non era velenoso, contrariamente alle altre parti della pianta, ma un alimento sano e nutriente. Nel 1771 fece in modo che la Facoltà della Sorbona di Parigi decretasse la bontà alimentare della patata. Ma per convincere il volgo ci voleva altro. Nel 1785, a un banchetto per il compleanno di Luigi XVI, Parmentier donò alla coppia reale un bouquet di fiori di patate; il sovrano se ne appuntò uno sulla mostrina e Maria Antonietta si mise una ghirlanda tra i capelli. Crollò l’ostilità verso la patata. Il re, più tardi, disse a Parmentier: “Un giorno la Francia vi ringrazierà di aver inventato il pane dei poveri!”8 La patata si diffuse e conquistò molti paesi europei e in alcuni, come l’Irlanda, una tipologia di patate selezionata come la più adatta al clima e al territorio divenne il cibo fondamentale. E furono proprio gli irlandesi a dover sperimentare, nella tarda estate del 1845, la vulnerabilità della dipendenza da un solo tipo di cibo e di patata. La peronospora della patata, Phytophtora infestans, arrivata dall’America a bordo, probabilmente, di una nave, in poche settimane, questo fungo crudele, sterminò le patate e coloro che si nutrivano di essa. La carestia delle patate fu la peggiore catastrofe ad abbattersi sull’Europa dopo la peste nera del 1348. La popolazione irlandese fu letteralmente decimata: in tre anni un milione di persone (su otto) morì di fame, altre migliaia divennero malate o cieche per carenza di vitamine, altri milioni furono costretti a cedere la proprio fattoria e, sradicati e disperati, emigrarono in America settentrionale.9 121


Attualmente vari tipi di patate vengono coltivati in tutto il mondo. L’Olanda è il primo esportatore. La Campania, fra le regioni italiane, è quella con la maggior superficie investita.

Botanica

Nel 1601 Clusius, un botanico di Leida, descrisse la patata e le diede il nome di Solanum tuberosum (nome dialettale “patana”). È una pianta erbacea perenne che fa parte della famiglia delle Solanaceae. È una pianta cespitosa dal fusto alto 40-80 cm, dotata di fusti sotterranei (tuberi) ricchi di amido. Foglie composte imparipennate di diversa grandezza. Fiori disposti in grappoli, con un calice verde formato da cinque sepali uniti e una corolla bianca, rosea o violetta, composta di cinque petali che formano un breve tubo e un largo lembo. Presentano all’interno cinque stami con antere ravvicinate ed un pistillo che porta uno stilo che termina con uno stimma. Il frutto è una bacca carnosa con piccoli semi pelosi. Questo e le altre parti della pianta contengono tracce di solanina, un alcaloide tossico che le rende non commestibili. La parte edule è il tubero che presenta all’esterno una porzione sugherosa, il periderma, detta buccia che presenta le lenticelle che servono per gli scambi aerei con l’esterno. Pezzi di tubero servono per la moltiplicazione (cloni) se portano almeno una gemma (occhio) per poter germogliare.

Proprietaû

Contiene circa il 70-80% di acqua e il 20-30% di sostanza secca. Di questa il 95-96% è costituita da amido. Povera di proteine, grassi e cellulosa. Presenta una buona quantità di enzimi e di vitamina C. 122


Interessa anche l’industria alimentare per la produzione di amido, destrine, fecola e glucosio, oltre che per la distillazione e viene utilizzata anche per l’alimentazione animale. Lascia il terreno in buone condizioni di fertilità, rilasciando potassio e fosforo, ma anche per l’aerazione al momento della raccolta, per gli spazi nel terreno occupati dai tuberi.

Curiositaû

- Gli indigeni della fascia andina la chiamavano Papa e gli spagnoli prima di arrivare al nome ultimo di Patata, l’avevano chiamata “turma de tierra” (testicolo di terra); - in Perù si credeva che la patata albergasse una dea chiamata Akso-mama e in suo onore si svolgevano riti sacrificali; - in Europa c’era l’usanza di seminarla il venerdì santo (scendendo simbolicamente insieme a Gesù negli inferi, la terra, ciò poteva essere benaugurante per il suo raccolto, la “resurrezione”); - secondo alcune credenze tradizionali la patata aveva virtù magiche, per cui essiccata e portata in tasca o appesa al collo proteggeva dai reumatismi; - con riferimento al suo aspetto poco attraente è nata la frase “spirito di patata”, cioè di scherzi sciocchi. Così “sei un sacco di patata” per indicare una persona goffa priva di agilità.

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Riflessioni

L

a diversità genetica promossa dalle popolazioni inca creando tante varietà, adattate a diverse condizioni ambientali, è stata una conquista culturale e un dono gratuito lasciato all’umanità. Niente a che vedere con la logica capitalistica perversa che accompagna alcuni settori dell’economia moderna, che stanno trasformando “un patrimonio comune” in una “proprietà intellettuale”, imponendo brevetti che sottraggono i semi agli agricoltori di tutto il mondo. Così fa la Monsanto, servendosi della tecnologia genetica, inserendo nelle sementi il famigerato gene Terminator. La logica della natura spesso contrasta con la logica dell’economia, e spesso le conseguenze possono essere disastrose. L’agricoltura è per definizione una semplificazione della complessità naturale, selezionando alcune specie ed evitandone altre. Ma la semplificazione estrema a cui spinge un’economia orientata al massimo profitto, senza tener conto delle ragioni e dei tempi della terra, e di cui la massima espressione è la diffusione della monocoltura, è veramente pericolosa. Pare che la lezione della storia, come la catastrofe irlandese, non abbia sortito effetto. Lo zoologo Edward Osborne Wilson scrisse: “La biodiversità è un insieme di esseri viventi che hanno impiegato miliardi di anni a evolversi. Si sono nutriti di tempeste, racchiudendole nei propri geni, e hanno creato il mondo che ci ha creato. Mantengono la stabilità di questo pianeta”. 124


C’è ancora tempo per prendere in mano il nostro destino. La biodiversità (e la complessità) rappresentano la migliore difesa della natura e con essa dell’umanità. Non mi pare ardita la traslazione in campo sociale di questo concetto a difesa della multietnicità, contro ogni forma di razzismo. Occorre però, come afferma Vandana Shiva, innanzitutto scongiurare il pericolo delle “monocolture della mente” che prospettano modelli culturali uniformi, stili di vita omogenei, quel pensiero unico che, particolarmente nell’economia, non consente sperimentazioni alternative e diverse che vanno riassunte nelle cosiddette “economie del dono”.

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Ringraziamenti

R

ingrazio di vero cuore quanti hanno collaborato e permesso la riuscita di questo progetto, in particolare Luca Bifulco, Enzo Esposito, Biagio Terracciano, Lucio Terracciano e Salvatore Tofano.

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Bibliografia

Per la realizzazione delle schede dei vari ortaggi sono stati utilizzati i seguenti testi: Bèliveau Richard, Gingras Denis, L’alimentazione anti-cancro, Sperling & Kupfer, Milano 2011.

Cattabiani Alfredo, Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante, Mondadori, Milano 1996. Enciclopedia, Il Mondo delle Piante, Motta, Milano.

Enciclopedia, Il Regno Verde, F.lli Fabbri Editore, Milano.

Enciclopedia, Le Piante che curano, De Agostini, Novara 2001.

Gusumpaur Federico, Vocabolario Botanico Napoletano, Luca Torre Editore, Napoli 1994.

Istituto per la diffusione delle Scienze naturali, Storia dell’agricoltura e dell’alimentazione in Campania, Istituto Grafico Editoriale Italiano, Napoli 2000. Pollan Michael, La botanica del desiderio, Il Saggiatore, Milano 2005. Rossopomodoro, Le nostre ricette, Vol 5.

Standage Tom, Storia commestibile dell’umanità, Le Scienze, Roma 2011. Valle Emilia, Il Peperone, Calderini edagricole, Bologna 2001. 128


Note

Queste brevi note sulla figura di Rosetta le ho volute condividere con mia moglie Rosa.

1

Richard Béliveau e Denis Gingras, L’alimentazione anti-cancro, Sperling & Kupfer Editori, Milano 2006, pag. 37.

2

3

Ivi, pag. 63.

Michael Pollan, Breviario di resistenza alimentare, BUR, Milano 2011, pag. 27. 4

Istituto per la Diffusione delle Scienze Naturali, Storia dell’agricoltura e dell’alimentazione in Campania, Istituto Grafico Editoriale Italiano, Napoli 2000, pag. 20-22. 5

Peppe Ruggiero, L’ultima cena, Edizioni Ambiente, Milano 2010, pag. 75-76.

6

7

Michael Pollan, Breviario di resistenza alimentare, pag. 155-156.

Tom Standage, Una storia commestibile dell’umanità, Le Scienze, Roma 2011, pag. 111-112.

8

Michael Pollan, La botanica del desiderio, Il Saggiatore, Milano 2005, pag.193 e pag. 216.

9

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Indice Prefazione - La corazza tra noi e il brutto! Introduzione - L’Araba Fenice Il significato della stagionalità

9 12 19

Gennaio - Michele e zia Rosa Riso e verza La verza Verdure di gennaio Febbraio - Servizio di guarda medica notturno Pasta e cavolo Il cavolfiore Verdure di febbraio Marzo - Omaggio alla bellezza Carciofi arrostiti Il carciofo Verdure di marzo Aprile - Vero e falso “Finto” ruoto al forno I piselli Verdure di aprile

20 22 23 27 28 30 31 35 36 38 39 43 44 46 47 51


Maggio - San Pasquale e... i talli Zuppa di talli di San Pasquale I talli di San Pasquale Verdure di maggio Giugno - Il benessere delle cose semplici... condivise Pasta e fagiolini I fagiolini Verdure di giugno Luglio - Rinfrescata alla casa Pasta e spollichini Il fagiolo Verdure di luglio Agosto - Ferragosto leggero Parmigiana di melanzane La melanzana Verdure di agosto Settembre - La zucca del vicino‌ Pasta e zucca La zucca Verdure di settembre Ottobre - Papaccelle e Vaticano Papaccelle ripiene La papaccella Verdure di ottobre

52 54 55 59 60 62 63 66 67 69 70 74 75 77 78 82 83 85 86 90 91 93 94 98


Novembre - Teoria sul friariello e l’edilizia Friarielli ’E friarielle Verdure di novembre Dicembre - La verdura fa bene... nella pizza Pizza di scarole La scarola Verdure di dicembre E tredici Gattò di patate La patata Riflessioni Ringraziamenti

99 102 103 107 108 110 111 115 116 118 119 124 127

Bibliografia Note

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SCHEDA DI AUTOCERTIFICAZIONE

CARATTERISTICHE Titolo: Napoli in un orto Autore: Rosa Orfitelli Formato: 14 x 21 Pagine: 135 Anno: 2011 ISBN: 978-88-88234-96-0 Prezzo: 10,00 €

DIRITTO D’AUTORE Licenza: Creative Commons Percentuale concessa all’autore: 10%

PRODUZIONE Tipografia: Zaccaria SRL (Napoli) Carta: Riciclata Revive Natural, 100 grammi Lavoratori: 14 (Autrice, 2 Editori, 3 Tipografia, 2 Legatoria, Grafico, Disegnatore, Ufficio Stampa, 3 Collaboratori) Costi di realizzazione: 1600 € Software utilizzati: Photoshop, QuarkXPress, Word

REPERIBILITÀ Biblioteca: Biblioteca Popolare per Ragazzi di Scampia Rete: www.marottaecafiero.it

POST-PRODUZIONE Utile: Gestito in modo responsabile con finanza etica. Progetti: Il 10% del prezzo di copertina sarà utilizzato per la creazione di un orto presso il centro diurno “La Gatta blu” di Scampia.




Finito di stampare nel mese di dicembre 2011 da Arti Grafiche Zaccaria


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