La cittĂ raccontata 5
Salvatore Tofano
SCAMPIA: LA LAGGENDA DELLA VELA CHE NON VOLEVA MORIRE E ALTRE STORIE
Marotta & Cafiero editori
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©Marotta & Cafiero editori Via Andrea Pazienza 25 80144 Napoli www.marottaecafiero.it ISBN: 978-88-88234-95-3
Copertina di Gennaro Monforte Disegno in copertina di Stof
A Roberto Saviano.
Prefazione
In un suo lavoro di recente tradotto in Italia, Alain Finkielkraut1, intellettuale francese giustamente famoso, riflette sugli sforzi che la comprensione della complessità del reale ci impone. Una comprensione, beninteso, che per essere davvero efficace deve coniugare l’interpretazione razionale con la facoltà di afferrare le cose, ricorrendo ad una penetrazione emozionale del mondo. Egli scrive: “Se vogliamo ricevere risposta, non è a Lui (a Dio, N.d.A.) direttamente, né alla Storia, moderno avatar della teodicea, che dobbiamo rivolgere la nostra domanda, bensì alla letteratura, forma di mediazione che non offre garanzie, ma senza la quale ci sarebbe per sempre preclusa la grazia di un cuore intelligente 2. Senza letteratura, potremmo forse conoscere le leggi della vita, ma certo non la sua giurisprudenza”.3 In effetti, se ognuno di noi elabora e descrive ciò che gli succede nella vita quotidiana facendo ricorso a piccole narrazioni, a cronache più o meno strutturate o improvvisate (“l’altra volta mi è capitato che…”, “hai sentito che fine ha fatto…”), è perché la nostra esigenza di dare senso all’esperienza è meglio accolta nelle forme di storie significative. È in esse che fatti, persone, idee si amalgamano in una trama unitaria, densa di logica e con un corredo emozionale vivifico, profondo, capace in potenza di guardare il nocciolo delle cose. Quando poi la storia acquisisce una struttura più consapevole e articolata, prendendo le sembianze del romanzo o co9
munque del racconto più elaborato, allora lo sforzo conoscitivo diviene di sicuro più meditato, un corposo itinerario di indagine nei significati multiformi dell’esistenza. È in questo impegno di comprensione che si inscrive il lavoro di Salvatore Tofano, un’esplorazione immaginifica del quartiere di Scampia realizzata con l’ausilio di diverse brevi storie. In esse personaggi, contesti ed eventi reali, ma anche immaginari, verosimili, fantasmagorici, interagiscono senza sosta, costruendo una realtà ricca, complessa, finanche contraddittoria, spesso sfuggente, ma per questo piena di vita e di senso. Si tratta del microcosmo con cui l’autore si confronta nel suo quotidiano, ma che ora egli riscopre con il suo sguardo colmo dell’energia tipica dell’ingegno narrativo. Per afferrare gli spunti che il libro di Tofano fornisce, facciamo ancora ricorso a Finkielkraut. Quando ci accostiamo ad un prodotto artistico, suggerisce l’intellettuale transalpino, più che interrogarci su una sua qualche utilità strumentale, dovremmo provare a capire “da quale automatismo di pensiero possa liberarci”.4 Un racconto letterario, insomma, è una porta liberatoria, valida ed efficace nella misura in cui ci affranca da schemi di pensiero rigidi, irremovibili, paralizzati, incapaci di cogliere la molteplicità del mondo, incapaci di penetrare e sciogliere gli enigmi e le aporie dell’esistenza. Non vogliamo certo gravare Tofano del peso del confronto con mostri sacri della letteratura internazionale, ma suggerire come la sua fatica letteraria abbia proprio il merito di raccontare Scampia – nell’intreccio tra il reale e l’immaginario – andando molto al di là di luoghi comuni, letture incerte e approssimative, giudizi e interpretazioni semplicistiche. Ecco, a suo modo il nostro autore ci aiuta a liberarci da alcuni automatismi del pensiero e ci permette di scoprire e decifrare gli aspetti più nascosti e variegati di un mondo articolato, pieno di criticità, ma ricco di energia come di incoerenze. 10
E Tofano non fa sconti, il suo sguardo si estende in ogni dove e illumina, senza barriere o remore, il bene e il male, il bianco e il nero, yin e yang. Trovano spazio, nelle sue illustrazioni, la droga come il Caffè Letterario, fervida attività culturale; il malaffare come il fecondo mondo dell’associazionismo, il giornale del quartiere o il periodico on line “fuoricentroscampia”; i disagi della vita quotidiana come la tensione utopica dell’arte di Felice Pignataro. Il tutto in un’atmosfera che spesso assume i toni di narrazioni oniriche, piene tra l’altro di quell’ironia che è il grimaldello di ogni desiderio di miglioramento. Prendono così corpo, tra le pagine scritte, le difficoltà, le speranze, le inquietudini, i timori, le aspirazioni che connotano l’esperienza nello spazio vissuto da Tofano e dai suoi concittadini. L’autore mette soprattutto in scena un processo di identificazione molto forte: egli ricostruisce e dà sostanza a quell’apparato simbolico, positivo o negativo che sia, con cui gli abitanti del quartiere possono definire l’appartenenza al proprio territorio. Sono i simboli (sganciati da semplici stereotipi o pregiudizi) con cui ci si può riappropriare, direi consapevolmente, dell’identità personale e collettiva, in pratica del più fecondo senso del sé. Ecco allora, ad esempio, le vele, ma anche il verde dei parchi, l’impegno, la cultura espressa nel territorio e quant’altro. Questa rivincita identitaria ha un portato poderoso, perché suggella una sincera e vivace autocoscienza. E tra i simboli del quartiere che Tofano riscopre ci sono i “fantasmi”, in qualche misura una rappresentazione metaforica dei cosiddetti “penultimi”: ovvero, non tanto gli appartenenti al cosiddetto sottoproletariato urbano, ma tutti coloro che vedono il loro potenziale intellettivo, culturale, relazionale svilito da un contesto avaro di opportunità socioeconomiche. Magari persone con un titolo di studio, competenze certificate, abilità interessanti, valori indiscutibili, che si confrontano, però, con un mondo inospitale che li costringe ad una vita di “silenziosa di11
sperazione” (tanto per citare Henry David Thoreau). Un’esistenza, detto per inciso, che può anche prendere traiettorie nocive, a volte irreversibili. Ad ogni modo, sono costoro, non di rado, i sotterranei protagonisti del libro. Protagonisti, una volta tanto! In definitiva, i penultimi sono gli abitanti idealtipici della periferia esemplare, quella che la letteratura sociologica spesso contrappone al centro urbano individuando la sproporzione tra le due zone della città in termini di occasioni e prosperità differenti. Un divario dovuto il più delle volte al concentrarsi nelle aree marginali di più fenomeni: un eccesso di abitanti con scarse risorse economiche, carenze infrastrutturali, ridotte opportunità occupazionali e di carriera, presenza inadeguata di agenzie e stimoli culturali, condanna sociale e scarso prestigio dei residenti.5 Parliamo quindi di una forte disuguaglianza della qualità della vita – a tutti gli effetti una forma di esclusione sociale – che reclama l’urgenza di piani di riqualificazione, per una ripresa socioeconomica ed una rinascita culturale (come peraltro emerge in un ricco dibattito che coinvolge gli stessi cittadini di Scampia).6 Ma è da questa stessa realtà avvilita che spesso emergono un vigore e una vitalità inaspettate, del tutto resistenziali. Quelle che la sensibilità letteraria di Tofano ci porta per mano a conoscere, donando anche al lettore la prospettiva di un “cuore intelligente”. Luca Bifulco
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Nota dell’autore
I diciotto racconti, più prologo, che seguono, vanno a comporre una breve raccolta di “short stories”, sospese tra cronaca ed invenzione letteraria, che, attingendo al genere gotico e fantastico, e senza disdegnare una sottile vena di umorismo, vogliono narrare di una Scampia poco presente nei mass media e che pure esiste: la Scampia del volontariato, delle associazioni, della gente per bene; la Scampia dei “penultimi”. Eventuali riferimenti a persone e fatti devono ritenersi puramente casuali. Laddove si è voluto raccontare o partire da realtà effettive di cronaca, le persone coinvolte sono state citate esplicitamente con nome e cognome. Da sottolineare che, anche in questo caso, spesso i racconti per esigenze narrative si sono discostati dallo effettivo svolgersi degli eventi per dare spazio all’immaginazione, consapevoli che il più delle volte l’inverosimile è più vero del vero. Un grazie, pertanto, alle persone fisiche reali coinvolte nella narrazione e a quanti hanno reso possibile il progetto di questo libro dedicato a Scampia, concorrendo, tramite la prenotazione di una o più copie, al reperimento dei finanziamenti necessari alla realizzazione dello stesso. E a quanti lo hanno pubblicizzato, tramite siti web, facebook e pubblicazioni cartacee. In particolare, si ringraziano: Martina Pignataro e Aldo Bifulco, che hanno seguito sin dall’inizio tutto il progetto, e Rosario Esposito La Rossa, l’editore, che ci ha creduto e mi ha incoraggiato. 13
Salvatore Tofano
Prologo (Fantasmi a Scampia)
Fantasmi / che non hanno voce / si trascinano nel deserto / tra mostri di cemento / che hanno mille occhi / e strade / che non hanno piazze / né vetrine / …strade vuote. / Fantasmi / che nessuno vede / perché il rosso del sangue / e il bianco / della polvere di neve / assorbono lo sguardo / e gli altri colori negano / a chi ha fretta / …e non ha sete. / Fantasmi di gente viva / che deve morire per lasciare agli altri / lo spettacolo dei morti / che si credono più vivi di chi è vivo. / Il silenzio come un tuono / copre ogni altro suono / e la voce di chi grida / gli si smorza in gola. / Fantasmi / che non hanno voce / e che nessuno vede / si trascinano / nel canto di chi ancora / non si arrende / e cerca / sguardi un po’ più attenti / …orecchie meno distratte.
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Bruno e Chiara
Quel cimitero a dirupo, digradante verso il mare, a ridosso del villaggio turistico, gli sembrò d’acchito di buon auspicio. Tutto ciò, che agli altri fa temere avverse conseguenze, a Bruno schiudeva fausti scenari. Non disdegnava, ad esempio, di partire di martedì o di venerdì, al gioco puntava sempre sul tredici o sul diciassette, amava passare sotto scale poggiate di traverso e sorrideva se un gatto nero gli passava davanti. A tavola, per divertirsi e irritare chi ci credeva, spesso urtava di proposito il contenitore del sale per farne cadere un pò a terra. Era solito ripetere che la superstizione è una puttana, perché ogni tempo e cultura ne ha una, e di conseguenza lei si adegua di volta in volta al padrone di turno. Negli anni aveva sviluppato come una superstizione a rovescio. “Tutto ciò, che agli altri porta male” diceva “a me porta bene!” Il posto era bellissimo. Tornava alla mente il Lucio Battisti di “acqua azzurra, acqua chiara…” e di “colline e praterie, dove corrono dolcissime le mie malinconie”. Di certo, Battisti doveva essere passato di lì insieme a Mogol. Il villaggio, immerso in un parco di ulivi direttamente sul mare, era a due passi dal Parco Nazionale del Cilento e a pochi chilometri da Scario e Policastro. 15
Sotto c’era il mare e sopra le montagne e tanto verde. Le camere erano dotate di ogni confort: aria condizionata e tv satellitare, safe box e fon, e soprattutto un preziosissimo minifrigo, dove Bruno avrebbe potuto conservare intatte le medicine, che, d’estate, portava sempre dietro per paura di eventuali intossicazioni da frutti di mare, che contro ogni ragionevole input continuava a divorare crudi e in grandi quantità. Nel pacchetto turistico c’era anche l’uso gratuito di barconi guidati da pescatori per accedere alle tante insenature e spiaggette naturali, raggiungibili solo via mare, che insistevano nelle vicinanze. Fu durante una di queste escursioni che Bruno conobbe Chiara, “galeotti” i delfini, che giocavano facendo gare di tuffi nell’acqua. Non era la prima volta che vedeva i delfini. Li aveva già visti al largo delle isole Tremiti, anche se non così da vicino. “Eccoli!… Eccoli!” gridò il pescatore, indicandoli col braccio teso. “Fanno i tuffi!” disse, sorridendo, la ragazzina lentigginosa dai capelli rossi, che gli si era avvicinata per veder meglio i due cetacei dal corpo affusolato, neri sul dorso, grigi sui fianchi, bianchi sul ventre, che si esibivano incuranti dei loro sguardi. “Non li vedo più” le disse Bruno dopo un po’. “No, si vedono ancora: sono laggiù!” corresse lei, indicandoli. “Sì, è vero, si vedono le loro caratteristiche pinne a mezzaluna.” “Che belli!” “Come ti chiami?” chiese Bruno. “Chiara” disse lei, tornando al suo posto, all’altro lato del barcone, accanto ai genitori. Si rividero la sera durante lo spettacolo degli animatori e poi la mattina dopo sulla spiaggia; e tutte le sere che seguirono. 16
Passarono i giorni, come avrebbe detto De Andrè, a chiedersi “un bacio e a volerne altri cento”. Bruno ne era convinto: si trattava di “un piccolo grande amore”. Perché allora quella domanda? Perché rovinare tutto per un sciocca domanda? Che le importava di sapere dove abitasse? Facile per lei, che abitava a Posillipo, uno dei quartieri più “in” della città, chiedergli: “Dove abiti?”. Poteva risponderle: “Abito a Scampia, nel megamercato dello spaccio di droga, dove c’è la hit dei morti ammazzati”? Cosa avrebbe pensato? Che era anche lui uno spacciatore? O, peggio, un drogato? In passato, gli era già capitato di rispondere che abitava a Scampia, ma ogni volta si era dovuto giustificare, assicurando che a Scampia non tutti si drogano, rubano o spacciano, che la maggior parte di chi ci abita è gente per bene. Nell’interlocutore restava il sospetto. Così gli era venuta quella che lui chiamava la sindrome Troisi. Massimo in “Ricomincio da tre”, stanco di ripetere a tutti che era un turista e non un emigrante, alla fine si era arreso e, anche se non era vero, aveva ammesso: “Sì, sono un emigrante!” Similmente, Bruno aveva realizzato che bastava rispondere che abitava da un’altra parte per evitare un inutile effluvio di banalità. Del resto, perché sprecarsi con chi è convinto del contrario e non vuole cambiare idea? Non la considerava una bugia, ma una strategia contestuale di igiene mentale. “Che hai?” chiese Chiara. “Perché?” “D’improvviso, ti sei rabbuiato e non mi hai nemmeno risposto.” 17
“Ah, già… mi hai chiesto dove abito.” “É un segreto?” “Conosci Scampia?” “Ne ho sentito parlare, ho letto e visto Gomorra.” “Ma ci sei mai stata?” “Sei matto!?!” disse lei. “Io ci abito.” Chiara lo guardò, arretrando, visibilmente scossa. “Dimmi che stai scherzando.” “No, non sto scherzando. Abito a Scampia!” E fu la fine di un amore.
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Aldo e i colori di Scampia
Scampia nell’immaginario mediatico è la metafora del degrado, essendo il quartiere immediatamente associato a spaccio, droga e omicidi vari. Eppure, a conoscerlo, è altro. O meglio, anche altro. C’è tanto verde, tanta vita associata e, soprattutto, ci sono tante persone alle quali non si può non voler bene. Una di queste è Aldo. La prima volta che Emilio lo vide era una domenica d’autunno e l’impressione più immediata fu che si trattasse di un folle: era lì fermo davanti a un corbezzolo e sembrava che stesse parlandogli. Emilio si fermò a guardarlo e dopo un po’ ebbe la sensazione che l’albero gli rispondesse, che l’uomo e l’albero fossero immersi in una tenera conversazione. “Il sole ottobrino deve avermi fatto un brutto scherzo” pensò Emilio “Mi sa che il folle, se c’è un folle, sono io”. Aldo era uscito di buon’ora per adempiere al suo rituale “viaggio” a bordo di quel che considerava il “più meraviglioso e sconosciuto” dei mezzi di trasporto: i piedi. Era convinto che passeggiare a piedi fosse l’unico modo per stare “con” e “tra” la gente, anche se, a dire il vero, a Scampia di gente per le strade non è che ce ne fosse molta: c’erano più cani randagi che persone. Del resto, dove e perché la gente dovrebbe passeggiare? 19
Più che a un quartiere, Scampia fa pensare a un deserto, popolato di giganteschi e fallici mostri di cemento pronti a ghermirti coi loro artigli; e le sue strade, più che a strade, fanno pensare a minacciose “lingue” di asfalto dalle quali fuggire, pigiando l’acceleratore a più non posso. Mancano del tutto piazze, negozi, vetrine, cinema, teatri, librerie e, soprattutto, un riparo dal sole e dalla pioggia. Aldo tutto questo lo sapeva, ma “sentiva” come una missione dentro, che nasceva da un innato amore per “l’altro”: “vivere” i luoghi, per quanto marginali o periferici, “creando” relazioni. Di conseguenza, tutto entrava in relazione con il suo sé più profondo, dal verde agli uccelli, dall’uomo al mistero del nostro transitare nel mondo. E i luoghi d’incontro, dove si concretizzavano le relazioni, erano i “crocicchi”. La parrocchia era un crocicchio, la sede del suo circolo ambientalista era un crocicchio, il centro socio-culturale era un crocicchio. Ogni luogo, dove poteva mettersi in relazione con “l’altro”, era un crocicchio. Giunto all’edicola, altro crocicchio, fu attratto da un branco di cani randagi, diversi l’uno dall’altro per razza, taglia e colore. Pensò che le “bestie” non hanno le nostre remore nell’accogliere “l’altro”, ma dovette subito ricredersi, perché, proprio mentre realizzava tale convincimento, quello che doveva essere il capo del branco ringhiò e si avventò al collo di un nuovo venuto, che aveva cercato di aggregarsi al gruppo. Poi, come accadeva nell’era paleolitica, quando branchi di sciacalli seguivano le orme dei cacciatori nomadi per rimediare qualche striminzito avanzo, il branco si mise a seguire un operatore ecologico, che si trascinava con scopa e carrello. Al passaggio di un’auto, alcuni randagi si misero ad abbaiare contro le ruote del veicolo. Aldo si chiese perché i cani avversassero tutto ciò che rotola e, senza darsi risposta, proseguì il suo “viaggio”. 20
Emilio, a distanza, continuava a seguirlo e ad osservarlo. Era autunno inoltrato e una cospicua pioggia di foglie ingiallite era andata a formare sui marciapiedi a lato del lungo vialone un soffice tappeto, che sollecitava una sensazione di quiete, che invitava al riposo. Aldo si fermò davanti ad uno dei tanti bagolari, da cui erano cadute le foglie, e gli sorrise per ringraziarlo di quella “pace”. Amava così tanto le piante che si soffermava come incantato a rimirarle: le conosceva ad una ad una e gli piaceva chiamarle per nome. Lo addolorava l’indifferenza dei residenti, non si capacitava della loro scarsa sensibilità. “Il verde è vita!” diceva. “Come si fa” si chiedeva “a non distinguere una pianta dall’altra? A dire che una pianta vale l’altra? Sono forse gli uomini uno uguale all’altro? Lo sono i cani?” Lo inorgogliva il dato che indicava Scampia come il quartiere più “verde” della città, anche se qualche amico, scherzando, gli chiedeva se il dato, invece che alla flora, si riferisse alle tasche dei residenti. Eccolo dunque fermo ad osservare la “tuta mimetica” disegnata dalle foglie, parte color ruggine e parte color verde smorto dei platani di via Baku e poi ad inspirare gli odori ed apprezzare i fruscii e i colori dei tamerici abbruniti di un parco poco distante. E ancora a godere dei siliquastri dalle foglie cuoriforme, chiazzate di giallo e impreziosite dal rosso dei fiori, o dei ginkgo biloba, degli eucalipti, dei lecci e delle magnolie, dei cedri, dei pini e delle palme. L’agrifoglio presentava già le caratteristiche bacche e lui, accarezzandole, si rammentò che di lì a poco sarebbe stato di nuovo Natale. “Più avanzano gli anni” notò “e più il tempo scorre veloce. La vita il più delle volte sembra contraddire i nostri desideri!” 21
Il corbezzolo, che in autunno vede un’esplosione di colori, col bianco dei fiori, il rosso dei frutti e il verde delle foglie, gli ricordò la nostra bandiera. “Non per niente il corbezzolo è conosciuto come l’albero risorgimentale!” disse fra sé. “Quanti colori!” esclamò Emilio, avvicinandosi. “Già…” rispose Aldo “peccato che nessuno se ne accorga!” “Quando si pensa alle periferie, il solo colore che viene in mente è il grigio.” “Perché siamo soliti annegare nel luogo comune.” “Permetta che mi presenti… Emilio!” “Diamoci del tu! Io sono Aldo!” Presentatisi, i due ripresero a camminare e si diressero verso la villa comunale di Scampia, dove Aldo voleva far “vivere” al “nuovo” amico l’esperienza per l’altro mai esperita del birdwatching, dell’osservazione degli uccelli nel loro ambiente naturale. Appostatisi, poterono ammirare il ticchettio caratteristico che accompagna il richiamo del pettirosso, e lo tzi tzi delle pispole, uccelli terricoli molto simili alle allodole, come pure il volo simile a quello della farfalla del verzellino. All’apparire di un occhiocotto, Emilio lo scambiò per una capinera, ma Aldo subito lo corresse: “Si tratta di un occhiocotto. Sia l’occhiocotto che la capinera hanno il capo nero ed un piumaggio che va dal grigio cenere al grigio scuro, ma il primo presenta un caratteristico anello orbitale rosso attorno agli occhi. Ambedue sono insettivori, si cibano di insetti”. Un saltipalo volò dal palo della luce, dove si era acquattato, e puntò come un falco sulla preda, che aveva adocchiato, divorandola. “É un saltipalo” spiegò Aldo “e si ciba anche lui di insetti”. Ogni volta che passava un uccello, Aldo lo indicava e ne ripeteva il nome. 22
E di uccelli ne passarono tanti: tardi, storni, verdoni, passeri, merli, perfino un codirosso spazzacamino dalla livrea nero fuliggine con strisce bianche sulle ali e coda rosso mattone. Aldo evidenziò che le strisce indicavano la sua appartenenza al genere maschile. “Scampia ha innegabili problemi di vivibilità, ma la ricchezza di flora e fauna è la spia evidente che l’unico responsabile del degrado, qui nel quartiere, è l’uomo!” Emilio lo guardò e, dopo un attimo di pausa, assentì con un cenno. “Nel quartiere” aggiunse Aldo “non c’è solo la sofferenza di quelli che non hanno studiato, non hanno casa nè lavoro, ma, anche e soprattutto, la sofferenza di quelli che io chiamo i penultimi, di quei giovani che pur avendo acquisito cultura, competenze, valori, titoli, non trovano dove spendere la propria sensibilità relazionale, finendo spesso vittime della droga.” “Vuoi dire che essi sono più fragili degli altri?” “Purtroppo, è così!” “A me sembra un paradosso.” “Perché?” “Sarebbe come dire che è meglio essere ultimi che penultimi.” “Lascia perdere: gli ultimi sono sempre ultimi!…” “…un giorno però saranno primi” aggiunse Emilio, ridendo. “Già!… Speriamo solo, però, che quel giorno i penultimi saranno almeno secondi!”
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Lo strano caso di San Ghetto Martire
Non mi piace raccontare fatti di cui non si hanno notizie certe e di cui non si conoscono le fonti: avrei preferito tenere per me questa storia. Ma come si fa?!? É una storia così pazzesca che sembra nata dalla fantasia di Edgar Allan Poe o di Ambroce Bierce e, di contro, così verosimile per luoghi, persone, dettagli, che non mi sento di respingerla tout court. Quel 26 febbraio 2006 c’ero anch’io al Carnevale del Gridas, lì a Scampia. Come l’anno precedente e quello prima, come tutti gli anni. Il carnevale del Gridas l’avevo visto nascere e Felice, il suo creatore, mi aveva sempre incuriosito, affascinato. Non ne condividevo a pieno le idee, l’utopia non era e non è merce per me. Di quell’uomo, però, ne respiravo l’autenticità, le convinzioni forti e radicate, la militante coerenza tra il dire e il fare, tra pensiero e azione. Ora Felice non c’è più, se ne è andato. Il carnevale però c’è ancora. Gli uomini muoiono, disse il giudice Falcone, ma le loro idee restano, sopravvivono alla morte dell’autore. Una fiumana di persone da via Monte Rosa si riversava in piazza della Libertà e già imboccava via del Gran Sasso. Sfilavano le maschere in cartapesta, cartone da imballaggio e gomma piuma, costruite utilizzando prevalentemente materiali di risulta. Alludevano agli spazi negati, ai luoghi di aggregazione che mancano nel quartiere, alle piazze sognate, ai soggetti istituzio24
nali che fingono di ascoltare e poi si perdono nei meandri del palazzo. C’era la “Macchina dell’Acqua” che vedeva contrapposte le opzioni pubblico/privato, la “Mongolfiera”, che tentava di liberarsi delle varie zavorre, la fantomatica e inaccessibile “Piazza Telematica”, fiore all’occhiello delle Istituzioni, il “ponte di Messina”, che supportava un bel po’ di camion carichi di denaro mentre la Sicilia se ne cadeva a pezzi, la “Banca Etica”, che invitava a un commercio equo e solidale, e lui “San Ghetto Martire”, protettore delle periferie, beatificato l’anno precedente in occasione del 1° Maggio a Scampia con i suoi ex voto, per grazia ricevuta e per grazia da ricevere. I detrattori di questo carnevale, spontaneo e marcatamente proletario, non nel senso di plebe quanto di popolo, erano e restano una sparuta minoranza, che sin dalle origini ne hanno sempre stigmatizzato il carattere politico. Qualcuno, specie in passato, alludendo alla partecipazione di alunni delle scuole elementari e medie, aveva parlato di “manipolazione”. La verità è che Felice parlava di “libertà” e libertà, come cantava Gaber, è partecipazione. Se ci fosse stata “manipolazione”, la manifestazione non avrebbe avuto decenni di vita, divenendo una delle poche tradizioni, se non l’unica, di un quartiere senza storia. Pare che Tonino Esposito quella domenica fosse andato anche lui al carnevale. Lo chiamavano ’o filosofo, non perché insegnasse e scrivesse libri di filosofia, ma perché amava dire la sua su tutto, pervenendo a volte a ipotesi di soluzione accettabilmente originali. In ottima salute, niente lasciava presagire che, giunto all’altezza della parrocchia della Resurrezione, sarebbe svenuto. Subito, come accade in questi casi, si era formato un pannello di persone. Qualcuno tentò di rianimarlo. I più si accalcavano, quasi a soffocarlo: si chiedevano cosa e come fosse successo. 25
Il professore Cammarera spiegò che l’Esposito era in ottima forma e che, quando il fatto era successo, questi stava camminando accanto a lui e gli stava dicendo che proprio non gli andava giù la “beatificazione” di San Ghetto Martire. “Un santo, eretto a protettore delle periferie” avrebbe argomentato “non farà mai niente, perché le periferie smettano un giorno di essere tali”. “Si troverebbe di fatto senza ragion d’essere” la filosofica motivazione. “Nun se parla accussì ‘e nu santo” mormorò rammaricato Grappetiello, già sbronzo nonostante l’ora mattutina. “O filosofo ‘stavota s’è pigliato troppa cunfidenza e San Ghetto Martire s’è offeso.” “Nun è stato nu svenimento! É stato San Ghetto Martire!” giurò sui figli Mariettiello, compagno di sbronza di Grappetiello “l’aggio visto cu chist’uocchie. San Ghetto s’è ngrifato comm’a na iatta, ll’uocchie se so’ fatte russe russe e c’è stato comm’a nu lampo. Dint’a nu mumento, ’o filosofo s’è scunucchiato e s’è afflusciato ‘nterra”. “Per piacere, non dite fesserie” esclamò, infastidito, il professore Cammarera “San Ghetto non è un santo vero, è solo una maschera!” “Nun sarrà nu santo overo, ma sempe santo è… e ogni devuzione merita rispetto!” Nel frattempo l’Esposito diede segni di ripresa. Guardava le persone che gli chiedevano come stesse, ma non sembrava essere in grado di percepire cosa gli stessero dicendo, né lo stesso suono delle parole. Giunta l’ambulanza, se lo portò via. Dell’episodio non vi fu traccia né sulla carta stampata né in tv. A dire il vero, dello stesso carnevale non c’era traccia sui grandi mezzi di informazione. Del resto, stampa e tv avevano creato il mostro, la Scampia del degrado, dove c’è solo spaccio e droga, e non avevano alcun interesse a mostrarne gli aspetti positivi, a nor26
malizzarne l’immagine. Meglio il silenzio. Chi non va in tv non esiste. Il carnevale non va in tv. Il carnevale non esiste. Questo il sillogismo della disinformazione, che stigmatizza Scampia. Silenzio assoluto sulle cose positive, prima pagina agli accadimenti che ne consolidano la negatività. Qualche tempo dopo l’Esposito fu dimesso dall’ospedale, ma privo di parola. Pur non essendogli stato diagnosticato alcun danno alle corde vocali, ’o filosofo non riusciva ad esprimere alcun suono. C’era come un blocco. Secondo qualcuno era la punizione di San Ghetto per aver parlato troppo. La moglie, disperata, aveva raccontato a una vicina che la notte l’Esposito si svegliava in preda ad incubi. Si era raccomandata di non dirlo a nessuno, ma un attimo dopo la cosa era sulla bocca di tutti. ’O filosofo fu visto aggirarsi in via Monte Rosa, sempre più smagrito e con gli occhi segnati, e stare fermo per ore davanti alla sede del Gridas. Sfuggiva gli altri, anche gli amici. L’unico col quale ancora si appartasse era il professore Cammarera. Gli scriveva su dei fogliettini i suoi timori, le paure, i pensieri più intimi. Pare si fosse convinto anche lui che San Ghetto avesse voluto vendicarsi. Aveva raccontato di uno strano “munaciello” che lo perseguitava nel buio della notte, apparendogli non appena chiudeva gli occhi. Aveva anche cercato di raffigurarlo. Il professore gli consigliò un bravo psicologo, ma lui disse che doveva assolutamente parlare con Mirella, la moglie di Felice, e che Mirella doveva intercedere presso San Ghetto, che San Ghetto doveva perdonarlo, fargli la grazia, ridargli la parola. Inutilmente il professore Cammarera gli ripetette che San Ghetto era solo una maschera, una cosa inanimata, incapace di azione e volontà: ’o filosofo aveva smesso di filosofare, non ne aveva più voglia. “Signora Mirella, voi mi dovete aiutare. Io non dormo più, non mangio più, non vivo più!” era scritto sul foglio, che, tremando, l’Esposito porse a Mirella. 27
“Che posso fare?” rispose la donna. Preso un altro foglietto dal bloc notes, che aveva con sé, l’uomo vi scrisse: Dovete parlare con San Ghetto, dirgli che sono pentito, che mi deve perdonare! “Ma San Ghetto non esiste!” “Esiste!” scrisse su un terzo foglietto l’Esposito, accompagnando col dondolio del capo e la mimica del volto quanto aveva scritto. “Vi dico che è solo una maschera! Se non mi credete, venite a toccare con mano” disse Mirella, invitandolo a seguirla. Riluttante, l’Esposito la seguì ed entrato nel laboratorio vide la maschera di San Ghetto Martire, adagiata sul pavimento, confusa tra le altre. La guardò, sussultò e, prostratosi, improvvisamente parlò. “San Ghetto Martire, famme ‘a grazia!” fu l’espressione, che gli uscì di getto. Grappetiello, quando lo seppe, gridò al miracolo. E non fu il solo. “Meno male ca nun era nu sant’overo!” sospirò, invece, Mariettiello, riferendosi al professore Cammarera. I più scettici, che poi erano la maggioranza, parlarono di pure coincidenze. Intervistata da Fuga di Notizie, un periodico locale, sull’eventualità di un miracolo, Mirella rispose: “Siamo seri, parliamo d’altro!”
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La leggenda della vela che non voleva morire
Lo sanno tutti, ma nessuno parla. Se non si è in confidenza, l’interlocutore nega, dice che non sa, che non gli risulta, che non è vero; eppure nelle vele, tra l’inizio degli anni ottanta e la fine degli anni novanta, era una presenza vitale, attiva, radicata: mi riferisco al fantasma della sepolta viva. La parola “fantasma” spaventa perché evoca la morte, i dannati che non hanno accettato la loro sorte e son rimasti tra i vivi a tormentarne le notti insonni, anime che vagano esigendo vendetta, debiti di sangue da pagare, il passato che torna. La “sepolta viva” era però una presenza amica, timida, vogliosa di farsi accettare ed è in quest’ottica forse che vanno spiegati alcuni accadimenti strani, che si verificarono in quegli anni. Una vecchia paralitica, che viveva da sola, una notte cadde dal letto: qualcuno la risollevò e la ripose tra le lenzuola; la vecchia non seppe spiegare chi, ma del fatto che fosse caduta nessuno dubitò, visti i lividi che aveva riportato nella caduta. La ragazza madre col figlio malato, che abitava quattro piani più sotto, licenziata su due piedi e disperata perché non sapeva come comprare le medicine, trovò tra le pentole un bel po’ di medicinali: come fossero finiti lì rimase un mistero. Il marito ubriaco, che ogni sera picchiava la moglie, puttana redenta che aveva tolto alla strada, l’ultima volta si beccò la maledizione della donna, che fino ad allora aveva preso le botte in 29
silenzio per paura di robusti supplementi: l’uomo rotolò per le scale, rompendosi l’osso del collo; non fu il vino né c’erano persone che lo avessero spinto. Chi me ne ha parlato non vuole essere citato; nel congedarmi, mi ha fatto giurare su ciò che mi è più caro che mai avrei fatto il suo nome. Questo mio informatore ipotizzò che la sepolta viva fosse una ragazza del nolano promessa a un boss, che si era innamorata, ricambiata, di uno studente: si incontravano in una chiesa sconsacrata; quando furono scoperti, il giovane fu ucciso sul posto, lei trasportata nel capoluogo e sepolta viva in periferia, nel cantiere dove poi sarebbero sorte le vele. Accanto a lei, nella stessa fossa, fu sepolta la testa del giovane, che gli era stata spiccata dal collo, mentre veniva sgozzato. “Così ti farà compagnia, starete insieme per sempre… come sposi” le disse il boss, prima che cominciassero a ricoprirla di terra, e, ridendo, aggiunse “Solo che non potrete fare gli schifosi, è sulo capa, nun tene l’arsenale; del resto è ‘nu studente e a ‘nu studente serve sulo ‘a capa!” In paese si sparse la voce che la ragazza fosse fuggita dopo l’assassinio dell’innamorato per non finire anch’essa ammazzata, ma nessuno ci credette, nemmeno la polizia, anche se dovette archiviare il caso tra quelli irrisolti. Della ragazza se ne occupò lungamente la trasmissione televisiva “Chi l’ha visto?”, senza risultati significativi. I fantasmi non hanno volto; eppure, chissà come, chissà perché, nelle vele si pensò a lei quando il fantasma fece le sue prime apparizioni. Cosimino, anni sette, di origini brindisine, secondo anno alle elementari, disegna una figura di donna con in mano una testa, che avanza in un fascio di luce. Alla maestra, che gli chiede chi è, risponde: “A signora c’a capa”, che tradotto vuol dire “la signora con la testa”. 30
Sollecitato da ulteriori domande, il bambino racconta che non sa di chi sia la testa, che la signora gli vuole bene, gli parla, lo aiuta nei compiti. Interpellata, la mamma attribuisce a fantasie infantili i racconti del figlio e rifiuta di rivolgersi allo psichiatra. “Con l’età gli passerà” si giustifica “forse gli abbiamo fatto vedere troppi film horror”. Nel quartiere si sussurra che le cose vanno bene alla famiglia del piccolo Cosimino, il padre racconta di piccole vincite al lotto, nelle vele si dice che molto probabilmente c’è lo zampino del fantasma. Sedici anni dopo, siamo nel 1997, Cosimino è prossimo alla laurea e da qualche tempo non abita più a Scampia: fa politica ed è tra i più fidati collaboratori dell’Assessore alla manutenzione urbana; Cosimino è tra coloro che vogliono l’abbattimento delle vele, convinto che, eliminate le vele, si eliminerà anche il degrado di cui esse sono assurte a simbolo. Strano destino quello delle vele, un emblematico fallimento, insieme intellettuale e amministrativo: il progetto originario era finalizzato al trasferimento in un edificio, che come vela galleggiasse sul vento, dell’atmosfera del vicolo. Gli odori forti della cucina, il calore delle persone, il chiacchiericcio del porta a porta, la decantata allegria e solidarietà del popolo napoletano; invece il tutto si tradusse nel concreto in un ammasso di scale e corridoi, di piloni e passaggi di cemento armato, promiscuità e droga, topi e malaffare. Molte le cause: in primis, rigide economie tese al risparmio, pareti e pavimenti che mostrarono presto crepe profonde, macchie di umido impregnate di muffa che disegnavano minacciose figure, incuria nella manutenzione, disinteresse nel richiedere le autorizzazioni d’uso, ascensori mai attivati, cumuli di rifiuti sparsi sulle scale, occupazioni di senzatetto che si insediarono al posto degli aventi diritto (spesso sotto l’ala protettiva della camorra). 31
Abbattute le vele, o comunque parte di esse, Scampia sarebbe risorta, almeno nelle intenzioni, con l’arrivo di un polo universitario, di un palazzetto dello sport, della protezione civile, di un cinema, giardini, piazze, luoghi di aggregazione. Durante i lavori preliminari di demolizione della vela F accaddero fatti strani: crollo di ponteggi, infortuni sul posto di lavoro, persino un morto; e, quando fu piazzato l’esplosivo, in tutto il quartiere si sentì il botto e l’odore acre dell’esplosione, ma la vela restò su. Uno scugnizzo tra la folla degli astanti disse, ridendo: “ ‘A botta ha fatto fetecchia!” Un vecchio gli fece eco, sbottando: “Ma allora questi casermoni non erano fatti così male, se non vanno giù neanche con la dinamite?!?” Molti, come ancora accade a Napoli quando si verifica qualcosa di inusuale, giocarono i numeri al lotto. L’impresa demandata tornò alla carica, si era ormai vicini al Capodanno e si voleva che il subentrante 1998 salutasse la vittoria sulla vela, ma questa al secondo botto andò giù solo per metà, lasciando l’altra metà come seduta su se stessa, spaccata in due sghembi tronconi: la vela sembrava chiedersi muta il perché di questo accanimento. Si poteva quasi ascoltarla: “Mi avete prima creata, decantata, poi abbandonata a cattiva manutenzione e a umanità disattenta”. Qualcuno pensò, e lo scrisse, che una maledizione aleggiasse sulle vele, una sorta di poltergeist, un incubo che veniva dall’io più profondo dei suoi abitanti, un nightmare, che si ribellava vomitando loro addosso il proprio odio. Dopo l’esplosivo si pensò di utilizzare un maglio d’acciaio di quattro tonnellate per completare l’operazione, ma il maglio si sganciò dal braccio della gru e andò ad incastrarsi, senza nemmeno scalfirlo, sul tetto del decimo piano. Come se non bastasse, decine di ratti apparvero come dal nulla e invasero le vele circostanti, terrorizzandone gli occupanti. 32
Un noto magnaccia, convinto di essere al riparo tra le pareti della propria abitazione, nel mentre defecava, se li ritrovò nelle braghe. Nell’opinione pubblica cominciò a farsi largo il dubbio che le vele fungessero da capro espiatorio, che le cause del degrado fossero altre. Un noto urbanista disse apertamente che abbattere le vele era “come prendersela con le cozze per combattere il colera”. Ma soprattutto si affermò la convinzione che le vele avessero un’anima. Cosimino quella sera volle recarsi tra i resti della vela, forse il dubbio aveva preso anche lui. La lampada del cantiere era fioca e imperava il buio; presa la torcia, cominciò a vagare tra le pietre e la polvere, addentrandosi nei locali semidistrutti, incurante del guardiano, che gli chiedeva dove andasse. Fino a pochi anni prima Cosimino ci aveva abitato in quella vela e l’aveva amata, anche se all’università spesso se ne era vergognato e aveva dato un falso indirizzo. Assorto, stava ripercorrendo le sue emozioni, quando sentì una voce: era il fantasma della sepolta viva. “Cosimino…” “Voi?” “Sì, io.” “Quanto tempo!” “Così mi ripaghi?” “Non capisco.” “Ti sono stata accanto, ho aiutato la tua famiglia, ho fatto sì che tu studiassi, che potessi emanciparti dal degrado di questi luoghi, e tu, come mi ringrazi? Buttandomi giù.” “É la vela che vogliamo buttare giù.” “Io sono la vela! La vela è il mio corpo, la materia attraverso la quale la mia anima prende forma, il mio campo d’azione, l’unica possibilità di esistere, di sentirmi viva.” 33
“La vela rappresenta il degrado, va abbattuta.” Cosimino fu visto uscire dal cantiere e tornarsene nella sua casa al Vomero, ma, dopo che anche gli ultimi resti della vela furono rasi al suolo, non fu più lo stesso: cambiò l’umore e ben presto si ammalò, lentamente i muscoli delle gambe non ebbero più forza e rimase avvinghiato a una sedie a rotelle, senza mai più uscire di casa. Qualcuno dice che nel palazzo si sia insediato il fantasma, brutalmente sfrattato dalla vela, e che questi voglia far esperire sulla propria pelle all’antico “protetto” cosa significhi l’essere “sepolti vivi”.
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Susetta Spinola di Scampia al Caffè Letterario del prof. Maiello
“Professore, accetterebbe una critica amichevole?” disse, dal fondo della sala, una voce di bimba. “Certo!” rispose incuriosito il prof. Maiello. “Lei fa discriminazioni di genere e quindi non fa cultura!” “Può darsi che non faccia cultura, ma di certo non faccio discriminazioni” replicò il professore. “Esclude dalle sue pubbliche letture un’intera enciclopedia di debolezze contemporanee” continuò perentoria e saccente la bimba. “Intanto” suggerì, visibilmente contrariato il professore “sarebbe bene che tu ti presentassi” “Mi chiamo Spinola, Susetta Spinola di Scampia!”7 “Puoi venire al microfono in modo che tutti ti possano vedere e ascoltare più chiaramente?” “Non c’è problema!” Un “oh” di meraviglia e di sconcerto accompagnò l’avanzare della bimba dal suo posto in fondo alla sala fino alla cattedra dei relatori. “Ma tu sei di carta!?!” gridò il professore, con gli occhi che gli fuoriuscivano dalle orbite. “Che fa, discrimina di nuovo?” sottolineò ironica Susetta. “Non è possibile, ho le traveggole” confidò, rivolto al moderatore, il prof. Maiello. 35
“É di carta!” confermò l’altro, asciugandosi la goccia di sudore, che gli stava scivolando sulla fronte per l’evidente imbarazzo. “Un bicchiere d’acqua, per favore: mi sento male!” ***
Era il duemilaquattordici. Ad essere esatti, era l’Ottobre duemilaquattordici. Il Caffè Letterario del prof. Franco Maiello festeggiava i suoi primi dieci anni di esistenza. Quando l’aveva proposto nel duemilaquattro per la prima volta, al prof. Ernesto Mostardi, anima fondante della istituenda “Libera Università per tutte le età”, nessuno credeva veramente che sarebbe durato più di qualche incontro. “A chi volete che, qui a Scampia, interessi perdere un pomeriggio intero per ascoltare stralci di un libro, intervallati da brani di musica classica?” fu il commento più frequente. Quei dieci anni, che il Caffè Letterario stava festeggiando, erano, però, la prova più eloquente che quel commento era del tutto infondato. Non c’era scrittore che non fosse passato di lì. Adesso non era più il prof. Maiello a cercarli, ma essi stessi che si proponevano, che si offendevano se il prof. Maiello non trovava lo spazio per ospitarli. Certo, all’inizio non erano mancate le difficoltà; in particolare, quelle organizzative: dalla pura pubblicizzazione dell’evento al reperimento della sede dove tenere gli incontri. Causa la carenza dei luoghi di aggregazione, di cui il quartiere soffriva, come pure l’assenza di fondi specifici. Tutto si reggeva sulla spontaneità e la voglia di vivere situazioni di “società civile”, sul disinteressato volontariato. Il primo incontro si tenne al bar “Le terrazze Zeus”, al lato della vecchia sede circoscrizionale: c’erano sei o sette persone, non di più. 36
A “Piazza Telematica”, dove ci furono gli incontri successivi, il pubblico cominciò ad aumentare, forse attratto anche dalla curiosità di vedere l’ospitante struttura informatica, di cui si diceva un gran bene. Seguì una parentesi, che, per sopraggiunta indisponibilità della “Piazza Telematica”, vide il “caffè” trasferirsi nella storica sede del Gridas, che aveva dato i natali al laico rituale del “Carnevale di Scampia”. Successivamente si fecero avanti il Teatro Area Nord di Piscinola e il centro culturale “Alberto Hurtado”, che insieme al Gridas andarono a costituire le tre sedi, nelle quali periodicamente ebbero luogo gli incontri. “Caffè letterario” non è proprio il termine esatto, dal momento che non c’era nemmeno il bar e che il caffè lo portava in un thermos lo stesso prof. Maiello. Si ascoltava però musica alta (Mozart, Gustav Mahler, Sergej Rachmaninov) e si leggevano pagine di squisita letteratura, poesia e saggistica. Se notevole fu il gradimento del pubblico, e tale fu, lo si dovette al carisma del conduttore e alla sua capacità di creare “atmosfera” e aggregare. Giuseppe Montesano, uno degli scrittori napoletani più noti, a livello non solo nazionale, dell’incontro al Caffè Letterario, nel quale era stato ospite e si era letto il suo “Di questa vita menzognera”. Redasse un bellissimo resoconto, apparso sia su “Il Mattino” che sul foglio locale “Fuga di notizie”, nel quale confessò di aver scoperto “un’altra Scampia (…) che ha difficoltà a farsi vedere, ma c’è, e resiste, e vuole vivere”. Al di là del non irrilevante numero dei partecipanti e dell’apparente tediosità e innocuità di un’attività di lettura e di ascolto di musica classica, il Caffè Letterario, assunse una pregnanza simbolica per il quartiere, che restrinse di fatto “il solco di se37
parazione dal resto della città”, funzionando involontariamente da volano per un cambio di immagine di Scampia. Se non ci fosse stato il Caffè Letterario, l’attenzione delle tv e della grande stampa sul quartiere, durante e dopo la faida per bande del 2005, avrebbe continuato ad enfatizzare situazioni e condizioni, tipiche del degrado, equiparando Scampia alle favelas sudamericane o, in subordine, a Beirut e Baghdad, sempre pronte a esplodere in bagni di sangue. Di certo, vi concorsero la miriade di associazioni presenti sul territorio, l’azione instancabile delle parrocchie, la diffusione di un mensile come “Fuga di notizie”, l’esistenza del periodico on line www.fuoricentroscampia.it. Tuttavia, senza l’esistenza di un pubblico di amanti della buona lettura, caparbio e costante, non si sarebbe scalfita più di tanto l’immagine monolitica di quartiere “sottoproletario” dedito allo spaccio di droga. Il Caffè Letterario per sua natura “evoca” l’esistenza di uno strato “borghese” ed intellettuale, che rende più composita ed eterogenea la realtà di un quartiere. Si vuole, infatti, che i primi caffè sorgessero verso la fine del diciassettesimo secolo quali luogo di ritrovo di artisti, filosofi e letterati, dando vita e cittadinanza alle idee cardine dell’illuminismo. Mai e poi mai, da sole, anche se fondamentale fu l’apporto dei padri gesuiti, associazioni e parrocchie, avrebbero spinto degli editori (nel caso Colonnese e Laterza) a impegnarsi per la fondazione di un primo presidio del libro in Campania proprio lì a Scampia, a supportare l’istituzione di un’importante biblioteca pubblica, a festeggiare in quel quartiere diverse manifestazioni letterarie (a partire dalla prima e indimenticata edizione della letteratura per ragazzi nel segno di Andersen con la presenza di autori, illustratori, libri, letture e laboratori). Il Caffè Letterario fu la cartina di tornasole che a Scampia si leggesse, che ci fossero i semi perché germogliasse la cultura, 38
che le semplificazioni massmediatiche producono e radicano solo pregiudizi, che forse a qualcuno fa comodo che esistano “inesistenti leviatani”. Certo vi giocò più di una coincidenza. Fu finalmente ratificato l’accordo per l’istituzione di una facoltà universitaria, divenne realtà funzionante il teatro Auditorium a lato dell’ex Circoscrizione, la biblioteca pubblica si dotò di un incredibile e invidiabile numero di testi di notevole qualità: ci fu un interesse nuovo e soprattutto si guardò a Scampia con minore diffidenza circa le sue potenzialità di quartiere normale. Ora dopo dieci anni il Caffè Letterario si apprestava a godere i frutti del suo discreto lavorio e quella strana “creatura” sembrava volerne fortemente mettere in forse l’effettivo portato culturale e simbolico. ***
“Le bambine sono fatte di carne ed ossa; e quella lì è di carta: non può essere che un’allucinazione dovuta alla stanchezza. Sarà l’emozione, lo stress, forse l’età!” pensò il prof. Maiello, sorseggiando l’acqua che il moderatore gli aveva versato. Aveva ancora gli occhi chiusi, quando quella voce, che non avrebbe più voluto risentire, risuonò nelle sue orecchie. “Che fa, professore, non risponde?” “Chi sei?” farfugliò di nuovo, incredulo, il prof. Maiello, aprendo gli occhi e strabuzzandoli. “Gliel’ho detto: Susetta Spinola di Scampia…” “Ma sei di carta?!?” “E con questo?” “Non puoi esistere!” “Oh, bella, nega l’evidenza!” “É l’evidenza che nega l’esistenza!” “Eppure, mi sta parlando.” 39
“É un incubo: tra poco mi sveglierò e ci riderò su” disse tra sé il professore. “Lei non fa solo discriminazioni di genere: lei discrimina tout court!” incalzò la bimba. “Ma insomma di quali discriminazioni vai cianciando?” replicò il professore, chiedendosi in silenzio se non stesse impazzendo, dal momento che aveva accettato di intavolare un’accesa discussione con un “qualcosa” dalla incerta esistenza. “Intanto, non vuole ammettere che io esista, solo perché non sono di carne ed ossa come lei…” “E poi?…” chiese il professore, sempre più convinto di vivere un insolito incubo, dal quale di lì a poco si sarebbe risvegliato. “Lei, in questi dieci anni di Caffè Letterario, ha letto poesie, pagine di prosa, brani di saggistica, insomma ha cercato di fare cultura…” “Mi fa piacere che tu mi riconosca almeno il merito di aver cercato di fare cultura in un quartiere dove il libro sembrava un perfetto sconosciuto.” “Infatti, ho detto: ha cercato…” disse Susetta, calcando la voce su “ha cercato”, proprio per evidenziare il suo dissenso. “Non ci sarò riuscito, ma ho tentato.” “Ha escluso dalle sue letture il fumetto; eppure, dovrebbe sapere che in Francia è considerato letteratura a tutti gli effetti, che in Italia Umberto Eco lo ha rivalutato da tempo, che alcuni autori come Hugo Pratt e Andrea Pazienza sono famosi in tutto il mondo, che a molti di essi sono state intestate strade, piazze, parchi, luoghi di divertimento, pensi a Disneyland, che un certo Tex Willer vende al mese centinaia di migliaia di copie ed è in edicola da quasi settant’anni. E così da almeno trent’anni anche un certo Dylan Dog. Vorrà dire qualcosa? ” “Certo, ma non vedo perché te la prendi tanto.” “É Susetta Spinola di Scampia!” gridò Roberto. 40
“Chi?” gli chiesero di rimando due o tre coetanei dalla fila dietro. “Susetta, la terribile ragazzina di Fuga di Notizie! Quella specie di maschiaccio, che sta sempre a interrogare il mondo, a commentare” specificò Roberto. “É vero” disse il moderatore, rivolto al sempre più confuso Maiello “è Susetta, l’arguta e vispa ragazzina, protagonista di tante vignette su quel foglio, che stampano i gesuiti!” “Ah, sì… ora ricordo: quella strana ragazzina, che vorrebbe somigliare a Mafalda, che si lamentava perché nessuno sembrava essere a conoscenza che anche a Scampia ci fosse gente che amasse leggere e ascoltare musica.” “Sì, proprio quella!” replicò sulla difensiva la strana bimba di carta. “Dovresti essere contenta: ora col successo che ha riscosso il Caffè Letterario, tutta la città sa che a Scampia si legge e si ascolta musica.” “Sì, ma…” “Ma, cosa?…” “Anche il fumetto ha una sua dignità culturale!” “Lo so, oltre ad Eco lo diceva anche Gramsci. Del resto, basta pensare a Linus, sprofondato sul divano con le gambe incrociate, il dito in bocca e la guancia appoggiata al copertino, davanti a un televisore sempre acceso: un’icona del nostro tempo.” “Allora perché ha escluso il fumetto dalle sue letture?!?” “Perché…” Pluff!… Un tonfo… e il povero prof. Maiello cadde dal letto. Ester, la moglie, si svegliò di soprassalto, più che spaventata. “Cos’è?!?” “Niente, niente, solo un incubo: torna a dormire!” 41
La cisterna dei misteri
“Attenta, mamma: ferma!” Stridore di freni, la macchina che sbanda, le cinture di sicurezza che bloccano i corpi ai sedili. “Che ti prende?” “La ragazza… l’hai investita!” “Quale ragazza?!?” Clacson, urla inferocite: “Ah!… Stronza, se ti venivo addosso, col cazzo che ti pagavo!” “Macchè, sei fatta?!?” “Scusate, avete ragione.” “Mamma, l’hai investita.” “Ma chi ho investito?” “La ragazza…” “Ancora con questa storia? Ma quale ragazza? Io non vedo nessuna ragazza.” “Ti dico che c’era una ragazza in mezzo alla strada e che tu l’hai investita.” Erika guardò nello specchietto retrovisore e disse: “Non c’è nessuna ragazza.” “Impossibile, guarda sotto le ruote.” Per rassicurarla, Erika scese dall’auto e guardò sotto le ruote. “Non c’è nessuna ragazza.” “Impossibile!” “Scendi e guarda: ti renderai conto!” 42
Ilaria scese anche lei e dovette convenire che la mamma aveva ragione. “Eppure, ti dico che ho visto una ragazza.” “Insisti?” Risalite in auto, Erika guardò severa la figlia e disse: “Certi scherzi non si fanno, specie quando si è in auto e su una strada a scorrimento veloce come questa! Potevano venirci addosso, tamponarci. Avremmo potuto finire tutte e due all’ospedale”. “Non era uno scherzo: io l’ho vista!” “Se non la smetti, ti dò uno schiaffo.” Ilaria realizzò che non era il caso di insistere e zittì. Qualche attimo dopo, voltandosi, vide la ragazza che sedeva sul sedile posteriore. “Mamma, la ragazza è qui.” “Qui… dove?” “Sul sedile posteriore.” Erika si voltò, ma non vide nessuno. “Oggi, non so cosa ti ha preso, ma giuro che appena torniamo a casa ti rinchiudo in camera e ti mando a letto senza cena.” Ilaria stava per replicare, quando la ragazza le fece cenno di star zitta e l’espressione non ammetteva dinieghi. Quella sera Ilaria non mangiò. I sofficini fritti di pesce, che pur le piacevano tanto, non li toccò nemmeno. Come disgustata, li lasciò nel piatto. “Che hai? Stai male?” chiese preoccupata la madre. “Ho la nausea.” “Ti faccio una camomilla?” “No, vado a letto.” “Non vedi nemmeno la tv?” “Domani mi devo alzare presto.” “Né più né meno che negli altri giorni.” “Sì, ma ho sonno.” 43
“É per quello che è successo oggi?” “Anche.” “Quella ragazza non c’era: l’hai visto anche tu.” “Lo so.” “Sono stata un po’ brusca?” “Vado a letto.” “Va bene, passerò dopo per il bacio della buona notte.” “Come vuoi.” “Ho capito: stasera è nera.” “Vado a letto.” “Ok!” Ad attenderla nella sua stanza, c’era la ragazza di quello strano pomeriggio. “Non ho detto niente alla mamma” le disse Ilaria. “Lo so: ero lì.” “Non ti ho vista.” “Ti ripeto che ero lì!” “Ma tu chi sei?” “Non essere curiosa!” “Almeno, dimmi che vuoi.” “C’è tempo!” “Tra poco viene la mamma per il bacio della buona notte.” “Tu continua a non dirle niente!” “Ma ti vedrà…” “Non può.” “Perché?” “Non voglio!” “Stamane poco prima dell’alba, nel popoloso quartiere Scampia” disse lo speaker di un tg locale “a pochi metri dall’incrocio tra via Labriola e via Galimberti, all’altezza dei resti dell’antica cisterna romana, è stato ritrovato il cadavere di un uomo, le cui carni a brandelli sanguinolenti hanno fatto pensare in un primo momento ad un attacco da parte di un branco di cani randagi. 44
Corre voce, però, che il medico legale abbia espresso forti dubbi al riguardo, rinviando qualsiasi conclusione a dopo l’esame autoptico”. “Come va?” chiese Giulio, alzando la cornetta del telefono. “Ho avuto una giornataccia” disse Erika. “Perché?” “Ilaria ha creduto di vedere una ragazza in mezzo alla strada e si è messa a strillare. Alle sue grida ho frenato di netto e non ti dico gli improperi che mi son presa dagli altri automobilisti che correvano più di me. Poteva essere un’ecatombe: un gigantesco megatamponamento a catena. Ilaria era così convinta che avessi messa sotto questa fantomatica ragazza, che ho dovuto farla scendere dall’auto perché si rendesse conto di persona del contrario. A cena non ha mangiato ed è voluta andare subito a letto. La televisione poco fa ha detto che un uomo è stato divorato da un branco di cani randagi, ma che in realtà potrebbero anche non essere stati i cani.” “Passi per Ilaria, ma non capisco cosa c’entri con te quell’uomo” l’interruppe Giulio. “Il fatto è accaduto là dove Ilaria ha creduto di vedere la ragazza.” “E con questo?” “Non so: è tutto così strano!” “Che c’è di strano? Una coincidenza…” “Dici?…” “Secondo me, sei solo stanca e un po’ depressa.” “Forse hai ragione, ma non è che tu mi sia di grande aiuto!” Giulio era l’uomo col quale Erika stava tentando di rifarsi una vita dopo la morte del marito. Lui, però, divorziato e con due figli, uno di sedici e l’altro di otto anni, non era affatto propenso ad un nuovo matrimonio. Il che la faceva soffrire. “Vieni a vivere da me!” le aveva detto una volta Giulio. “Preferisco che ognuno resti a casa sua!” la risposta di lei. 45
“Se non è stato un branco di cani randagi, chi può essere stato?” chiese l’inviato nel tg della notte. “Non so…” rispose l’intervistato, di cui si intravedeva solo l’ombra da dietro una specie di schermo e che era stato descritto come persona ben addentro l’entourage investigativo, forse lo stesso medico legale. “Ma un’idea se la sarà fatta?” “Sì, ma sono il primo a ritenerla assurda.” “Non ci tenga sulle spine.” “Non mi va di passare per matto: meglio aspettare l’esame autoptico.” Erika si chiese perché i mezzi di comunicazione dovessero essere nelle mani di gente così irresponsabile. Perché quell’accenno a un’ipotesi tanto assurda da non poter essere espressa senza passare per matti? E poi come si poteva passare per matti se non si dichiarava la propria identità? L’ascoltatore avrebbe potuto sì pensare a un matto, ma, non conoscendone le generalità, la cosa sarebbe morta lì. A chi stava pensando l’intervistato? A un lupo mannaro? E perché mandare in onda l’intervista, se alle domande non seguivano risposte? Per non far dormire chi, come lei, invece ne aveva gran bisogno? Spense la tv e andò in bagno. Poi si affacciò alla cameretta di Ilaria e le si avvicinò. Vide che era immersa nel sonno. La baciò sulla fronte e se ne andò a dormire anche lei. “Se n’è andata…” disse Ilaria. “Sì…” rispose la ragazza. “Ma tu dov’eri, quando la mamma mi ha dato il bacio?” “Qui, dove mi vedi.” “E lei non ti ha visto?” “No.” “Ma perché?” “Non essere curiosa!” 46
I titoli dei quotidiani del mattino successivo ponevano l’accento su una stana rete ritrovata in un cunicolo scavato abusivamente nei pressi della cisterna romana, sulla quale erano stati rilevati frammenti di materiali organici. Nella cronaca locale de “La Repubblica” in un’intervista ad una persona dell’entourage investigativo, che aveva voluto restare anonima, forse la stessa del tg, trapelava un’inquietante indiscrezione. “Di certo, se nella rete era avvolto un cadavere, la morte non doveva essere recente.” “Quindi, non è collegabile al cadavere ritrovato ieri?” “No.” “Potrebbe appartenere a una delle vittime della faida camorristica di qualche anno fa?” “No, la morte non risale a uno o dieci anni fa. E nemmeno a cinquant’anni fa.” “Può essere più preciso.” “Se si tratta di resti di materiale organico, attribuibili a essere umano, penserei a reperti risalenti a mille, duemila anni fa. Ma è solo un’ipotesi. Molto probabilmente sono del tutto fuori strada.” “O fuori di testa!” commentò Erika, riponendo il quotidiano nella valigetta. Il metrò collinare era arrivato alla stazione di Medaglie d’oro e lei a destinazione. Ogni mattina per recarsi al lavoro arrivava con l’auto alla stazione di Frullone San Rocco, dove la lasciava in parcheggio, e di lì prendeva la metropolitana per il Vomero. Anche se la stazione di Piscinola Scampia era più vicina e le avrebbe risparmiato un bel po’ di traffico e benzina, lei preferiva quella di Frullone San Rocco perché la riteneva più sicura per l’auto, ma anche perché così si sentiva meno schiacciata su Scampia e più cittadina. 47
In fondo lei a Scampia ci stava mal volentieri e, se non fosse perché i prezzi delle case al centro e al Vomero erano troppo alti per le sue tasche, se ne sarebbe già andata da un pezzo. Non era nemmeno entrata nel centro di analisi cliniche nel quale lavorava, che Susi, una delle infermiere addette ai prelievi venosi, la investì. “Hai letto Il Mattino?” “Compro La Repubblica!…” rispose acida Erika. “Dice che a Scampia, nei pressi della cisterna, dove ieri hanno ritrovato il cadavere di quell’uomo ridotto a brandelli, hanno fatto un’altra scoperta…” “Cioè?” “In un cunicolo che portava nei sotterranei della cisterna era sepolta una strega…” “Non sapevo che credessi alle streghe.” “… il corpo della strega era stato avvolto in una rete per impedirle di liberarsi e tornare a nuocere.” “Come faceva a liberarsi se era morta?” “L’articolo dice che si trattai di una particolare specie di strega, usa il termine masca. Pare che si cibasse di carne umana.” “Da sempre le streghe sono accusate di cibarsi di carne umana.” “Questa qui, però, gli uomini non li divorava dopo che li aveva uccisi, li divorava da vivi.” “Che stupidaggini! Non sanno più che scrivere pur di vendere qualche copia in più.” “Però a me non sembra tanto una stupidaggine! Il giorno prima hanno rinvenuto proprio lì i resti di quell’uomo, che è stato divorato. Perché, sul fatto che sia stato divorato, almeno su questo, non c’è alcun dubbio!” “Sì, ma sembra che sia stato un branco di cani randagi.” “É quello che hanno detto all’inizio, ma subito dopo è trapelato che esistono altre ipotesi.” 48
“Ovvero che sia stata la strega?!?” “Perché no?” “Vedi troppi film. Dai mettiamoci all’opera che tra poco arriva il capo.” I resti della cisterna si ergono sullo spartitraffico della lunga arteria, che da Piscinola affluisce in via Roma verso Scampia, collegando, attraverso questa, il quartiere ai comuni dell’hinterland a nord della città. Non c’è un cartello che indichi di che si tratti e chi passa di certo non penserà mai di trovarsi di fronte ad un reperto archeologico. Magari si chiederà cosa sono quelle quattro pietre e perché sono pure recintate, ma non se ne farà un problema e andrà oltre. Eppure si tratta dei resti di un’antica cisterna aerea romana, costruita nel primo secolo dopo Cristo, che doveva fornire acqua per l’irrigazione dei campi o per gli usi domestici. Nei secoli successivi l’edificio subì trasformazioni e cambiamenti di destinazione d’uso, diventando prima un oleificio e poi un contenitore di vino. Il che lascia supporre che esistesse, anche se non ce n’è traccia, una villa rustica. Lascia pure supporre che Scampia possa essere stato luogo di villeggiatura, che qualche nobile romano vi abbia eretto la sua seconda casa. Scampia dunque non è un non luogo, poiché ha una storia. Perché gli amministratori, pensò Erika, non danno più visibilità alla cisterna? Potrebbe modificarsi lo sguardo di chi del quartiere coglie solo i lati peggiori. Potrebbe venirne fuori un’immagine più accettabile. Il pensiero che Scampia potesse avere nobili radici la fece sorridere. “Stasera ne voglio parlare con Ilaria!” disse fra sé. “Lo so, qui c’era la villa di Cocceio, devoto della dea frigia Cibele” rispose Ilaria. “Tu, come lo sai?” disse sorpresa Erika. “Me lo ha detto Turia.” “Chi è Turia?” “La ragazza che io credevo tu avessi messo sotto.” 49
“Ancora con questa storia?!?” “Nei sotterranei della villa si svolgevano riti violenti, dedicati alla dea.” “Ti stai inventando tutto!” “Me lo ha detto Turia!” “Domani ti porto da uno psicologo.” “Non sono scema!” “Allora perché hai le visioni?” “Ho le visioni solo perché io vedo una persona e tu no?” “Se questa Turia esistesse davvero in carne ed ossa, l’avrei vista anch’io. Gli occhi ce li ho come te!” “Non è colpa mia se da te non ha voluto farsi vedere.” “Adesso dov’è? O, meglio, dove sarebbe?” “Ha esaurito il suo compito ed è tornata da dove è venuta.” “Cioè?” “Non voglio dirtelo: diresti di nuovo che mi invento tutto.” “Dimmi almeno in che sarebbe consistito il suo compito.” “Come faccio? Non mi crederesti.” “Tu provaci.” “É venuta a riprendersi Cocceio.” “Quello della villa?” “Sì.” “E perché?” “É lui che ha ucciso quell’uomo vicino alla cisterna.” “Non dire scempiaggini: è stato un branco di cani randagi.” “Guarda…” disse Ilaria, porgendo alla madre una tavoletta di piombo con su impresse delle frasi in latino. “Cos’è?” “Una specie di amuleto malefico, che devo distruggere.” “Perché?” “Sopra c’è impressa la formula che ha destato Cocceio.” “Tu sei matta!” “Nella villa inizialmente il rito consisteva in danze di eunu50
chi, seguite dal sacrificio di un toro. Questi veniva sgozzato sul ciglio di una fossa e i fedeli battezzati col sangue che ne fluiva. Successivamente si passò a sacrifici umani. Cocceio fu condannato a morte dal senato di Roma e il suo corpo avvolto in una rete per impedirgli di liberarsi e tornare a nuocere.” “Come faceva a liberarsi se era morto” cercò di ironizzare Erika. “Cocceio aveva stretto un patto coi demoni, dai quali aveva ricevuto la promessa dell’immortalità, e la cosa era ben nota al senato. Nonostante l’esecuzione della condanna, infatti, la sua morte fu solo apparente: viveva in uno stato di coma perenne, dal quale poteva essere destato ogni qualvolta uno stolto avesse scandito ad alta voce la formula impressa sulla tavoletta. In cambio, si era impegnato a spargere morte e violenza.” “Domani ti porto dallo psicologo.” “Se non ci credi, andiamo alla cisterna.” “Perché?” “Là riposa il corpo di Cocceio, riportato allo stato di quiete da Turia.” Ilaria e la madre andarono alla cisterna e trovarono il cunicolo con ancora i sigilli della polizia. Vi si introdussero non senza aritmie. “Non c’è nessuno!” disse Erika. “É vero…” rispose Ilaria. “Non so chi ti ha dato questa tavoletta, né dove l’hai trovata, ma la storia che mi hai raccontato non sta né in cielo né in terra.” “Ti dico che è vera!” “E io ti dico di no. Per dartene prova, scandirò a voce alta quanto impresso su questa stupida tavoletta.” “Non farlo, mamma!” Erika non l’ascoltò. Il mattino successivo il suo corpo e quello della piccola Ilaria furono ritrovati privi di vita, ridotti a brandelli sanguinolenti. 51
Il bus che si era messo a volare
Avete mai preso l’R5, il bus che da piazza Garibaldi porta i tossici a Scampia? No?!? Beh, allora non potete capire l’inquietudine di chi, per caso o per necessità, è costretto a prenderlo. I tossici, attratti dai prezzi stracciati, che si fanno tra le vele e dintorni, arrivano coi treni da ogni parte della Regione; a volte, anche da altre regioni. Il bus ne è pieno; al punto che, anche se hai pagato il biglietto, ti senti fuori luogo, come uno che si è introdotto furtivamente in un pullman turistico o comunque riservato ad altri, una sorta di “portoghese”. I ragazzi del quartiere lo chiamano tout court “l’RTossico”. C’è, specie nel viaggio di ritorno, quando i tossici sono già “fatti” e hanno in tasca un po’ di roba, una specie di nebbiolina nell’aria, che come un alone si libra intorno alle teste dei viaggiatori. Capece è convinto che sia un segno di santità, perché, ripete, se non si è un tossico, solo un “santo votato al martirio” può salire su quel bus tra gente col cervello spappolato, che non si sa mai che gli gira. Non è raro, dice, che qualcuno ti punti alla gola un coltello o una siringa sporca di sangue infetto, per derubarti del denaro o del telefonino. 52
I ragazzi del quartiere che prendono quel bus, sembrano sessualmente più attrezzati, ma in realtà, nelle loro mutande, oltre ai genitali, c’è sempre qualche altra cosa che gonfia l’involucro (borsello, cellulare, orologio o quant’altro desiderino sottrarre ad un’eventuale indebita sottrazione). Se il rischio delle rapine è forte, non lo è di meno quello d’inalare la strana nebbiolina che libra nell’aria, e improvvisamente metterti a ridere come un deficiente e a tremare tutto come uno che si è strafatto. Capece, anche nei rari momenti di lucidità, quando non puzza di alcool, continua a giurare e a stragiurare che un giorno, mentre era sul bus, questi si è alzato in volo come un aereo e che lui dal finestrino ha visto i palazzi di sotto. Io continuo a non credergli, lui a bestemmiare e a rigiurare. In genere i tossici non danno fastidio: si raggruppano nella parte posteriore del bus e si scambiano informazioni sulle varie “piazze”, sui pusher, su tentativi malriusciti di disintossicazione. A volte, ridono e fanno il verso della gallina o l’ululato del cane alla luna; altre volte, chiedono insistentemente l’ora. Qualcuno suda, qualcun altro piange, ma le aggressioni agli altri passeggeri sono rare. Resta però l’inquietudine e la paura, perché comunque, quando girano voci, non sai mai se crederci o meno. Del resto dei drogati si sa poco e ciò che non si conosce fa sempre un po’ di paura. “Staje ’e casa ccà?” chiese il tossico al giovane, che come lui era in attesa che arrivasse l’R5. “Dì casa, no! Ci abito.” rispose l’altro, infastidito. “Staje a me piglià pe’ culo?!?” balbettò il tossico, mentre negli occhi andava accendendosi una luce poco rassicurante. “No, scusa… è che ho sempre qualche perplessità a dire che qui ci sto di casa. Perché la mia vita si svolge tutta da un’altra parte: i miei amici stanno al centro, la mia scuola sta al centro e la mia ragazza pure. 53
Se devo immaginae il mio futuro, lo immagino ovunque, ma non qui!” “Je ce mettess’’a firma a sta ccà: ce facesse casa e puteca!” replicò il tossico; ovviamente, si riferiva alla possibilità di procurarsi la “roba” senza ricorrere all’estenuante viaggio da Nola, dove risiedeva, a piazza Garibaldi; e da piazza Garibaldi a Scampia, riconosciuto supermarket della droga, per poi da qui, una volta rifornitosi, rifare a ritroso l’intero percorso. Carlo lo guardò perplesso. Rivolto a Marco, che nel frattempo lo aveva raggiunto con la sua copia del Tex, appena comprato all’edicola vicino alla fermata, disse: “Com’è strana la vita: io me ne vorrei scappare di corsa da questo quartiere che considero un inferno, e lui ci verrebbe altrettanto di corsa perché al contrario lo considera un paradiso!” “La verità varia a seconda del punto di vista e i punti di vista sono infiniti” azzardò Marco, quasi vergognandosi della banalità. “Già, ogni testa è tribunale a sé!” disse inaspettatamente l’amico, dandogli così la sensazione che forse non aveva espresso del tutto un concetto banale. “Era l’ultima copia…” borbottò Marco, riferendosi all’albo, che stringeva tra le mani e che avidamente aveva cominciato a sfogliare. “Alla tua età leggi ancora Tex!” “Che c’è di male? Lo legge mio padre, che ha cinquantaquattro anni, e mio nonno, che ne ha settant’otto. Se lo leggono loro, perché non dovrei leggerlo io, che ne ho solo sedici? ” “É un personaggio seriale, senza alcun sottofondo psicologico!” “Parli proprio tu, che una sera sì e l’altra pure stai davanti alla tv a vederti Un posto al sole! Non è sempre la stessa zuppa? E poi ad un Roberto Ferri e ad un Franco Boschi preferisco Tex e i suoi pards!” 54
“Il tuo Tex vorrebbe porsi come un raddrizzatore di torti, ma resta solo un violento e un prepotente, un consolatorio giustiziere della notte, pronto a spargere sangue a destra e a manca.” “Se fosse così, non si giustificherebbero il successo internazionale che ha, le centinaia di migliaia di copie che si vendono, la sua presenza in edicola da quasi settant’anni. Esprime valori conservatori, ma condivisibili; in fondo, si batte in difesa dell’ordine e della proprietà privata. Magari ci fosse un Tex qui a Scampia: sparirebbero d’incanto spaccio e omicidi!” “Per me resta solo un macho, troppo maschio per non essere gay.” Nel frattempo si erano addensati alla fermata altri tossici. Marco si rabbuiò, l’inquietudine lo prese. “Dai, non è la prima volta” disse Carlo, dandogli una pacca sulle spalle. “Già, facile per te, tanto il bus lo devo prendere io.” Arrivò l’R5 e Marco andò a sedersi alle spalle del conducente, a due sedili di distanza. Salirono anche i tossici e, come al solito, si andarono a raggruppare negli ultimi posti. Qualche minuto dopo la partenza, uno di loro lasciò il gruppo e gli si avvicinò, per chiedendogli l’ora: era di un pallore cadaverico, aveva pupille bruciate e occhi socchiusi, il sudore gli colava sulla fronte. “Le 15,30” balbettò Marco col cuore in gola, pentendosi di aver mostrato l’orologio nel leggere l’ora. Era solo uno swatch di basso valore commerciale, ma ebbe paura lo stesso. “Cra… cra… cra… cgrazie!” disse il tossico, mettendo la mano destra sotto l’ascella sinistra e facendo il verso della rana. I suoi compagni dal fondo risero e lui, barcollando e piegato in avanti quasi ad angolo retto, li raggiunse sorridendo. “Meno male” pensò Marco “temevo di peggio!” Ma il pericolo era di là da venire e la fonte non erano i tossici. 55
Il bus era già sul corso, quando salì una ragazza che, trafelata, andò a sedersi sul sedile davanti a Marco e dietro al conducente, seguita da due giovani tarchiati, rumorosi e sguaiati, con grossi tatuaggi al braccio e catena d’oro al collo. Rafele, quello più alto aveva una cicatrice, che partiva dal labbro superiore e arrivava alla base dell’orecchio sinistro. Rocco, l’altro, capelli rossi e un’acne diffusa e purulenta, che gli deturpava il volto. I due cominciarono da subito a ridere e a fare avances alla ragazza, che infastidita volgeva lo sguardo intorno, cercando inutilmente aiuto. “A chi guarde?” chiese il rosso, mettendole una mano sul seno. “Te piace, eh?” ghignò l’altro, provandoci anche lui. “Lasciatela!” disse Marco, meravigliandosi del suo impeto. “Hé truvat ’o difensore.” Commentò quello con la cicatrice, spingendo con la mano aperta verso il finestrino la faccia della ragazza e dirigendosi minaccioso verso il giovane. “Famme vedè si tiene ‘e palle o si sulo nu strunzo ca nun sape quann’have sta zitto!” gli disse, tirando fuori il coltello. “Ma quali palle!…” disse l’altro “nun ‘o vide ca se sta cacanno sotto?” Marco fece per alzarsi, ma lo “sfregiato” gli mise una mano al collo e cominciò a stringere, brandendo con l’altra il coltello. Il ragazzo si sentì venir meno e tutto cominciò a farsi buio. Il rosso, anch’egli con in mano il coltello, rideva con ghigno cattivo, guardando la ragazza terrorizzata e la folla muta dei passeggeri. A un tratto, una voce dal fondo li raggelò. “Ora basta, scarti di umanoidi, vi siete divertiti abbastanza!” I due si voltarono e scoppiarono a ridere: davanti a loro un uomo alto e ben piantato, sulla cinquantina, vestito da cow boy con cintura e pistole, cappellone e speroni. 56
“Ma chi è Tomme Mix?!?” “No, è Clint Istewudd!” “Se non lasciate subito quel ragazzo, vi stacco tutti i denti e ne faccio una collana!” Marco sentì la presa che si allentava e guardò l’uomo. Non credeva a suoi occhi, era Tex o almeno uno che gli somigliava maledettamente e che era vestito come lui: cappello stetson, camicia gialla con fazzoletto nero annodato al collo, pantaloni jeans attillati, stivali con annesso speroni e soprattutto il fucile winchester e le due colt calibro quarantacinque che gli pendevano ai fianchi. Il viso era il suo, non poteva sbagliare. “Non può essere” disse fra sé “Tex non esiste, è solo un personaggio di fantasia, un eroe di carta!” “Chi sì? A chi crid’e fà paura?” disse Rocco, rivolto all’uomo, che per convenzione chiameremo Tex. “Forse non hai capito, testa di formaggio: tocca a me fare le domande, chiaro?” “Bonk!” un uppercurt al volto e il malcapitato finì gambe all’aria. Il compagno fece per intervenire e, “Bonk! Bonk!”, anche lui finì knock down. “Tiratevi su” disse Tex, “tipi come voi, quando cadono per terra, sporcano la polvere”. “Nun è fernuta ccà!… ‘A prossima vota…” “La prossima volta vi prenderò a calci sino a trasformarvi in tappeti indiani.” I due si alzarono a fatica, guardando come belve ferite l’interlocutore. “Sper’e te ’ncuntrà!” disse, minaccioso, quello con la cicatrice. “Se lo speri davvero, vuol dire che sei un autentico idiota o un aspirante suicida” e, messa fuori la sua colt, Tex aggiunse 57
“vedi questo aggeggio? Fa click quando alzo il cane e bang quando premo il grilletto!” “Jammuncenne: chist’è pazzo! …” masticò il compagno, trascinando con se l’altro. Marco, ancora intontito con la testa che gli girava e con ancora tanto buio tutto intorno, vide la mano che gli si tendeva. L’afferrò e si lasciò tirar su. “Grazie, Tex!” “Prego?” Marco alzò la testa e vide un uomo in divisa: era l’autista che era intervenuto in suo aiuto insieme a un poliziotto in borghese che si trovava per caso sul bus. “Dov’è?” “Chi?” “Tex!” “Chiii?!?” “Tex Willer.” “Quello dei fumetti?” “Sì!” “Deve essere stato il trauma” sussurrò il poliziotto. “Secondo me, è solo fatto: qua so’ tutti fatti!” sentenziò l’autista. Marco, anche se ancora in stato confusionale, guardò quella strana nebbiolina che ancora si librava nell’aria e pensò al Capece, che conosceva anche lui, e al suo racconto, cui nessuno aveva creduto, sul bus che si era messo a volare sui tetti. Pensò alle risate che si era fatto insieme ai suoi amici e alle parole di scherno che gli avevano proferito. Ora era lui che aveva raccontato, senza rendersi conto dell’assurdità, di un eroe di carta che veniva a salvarlo dai prepotenti di turno e si vergognava. “Allora?” chiese il poliziotto, facendolo sedere. “Mi gira un po’ la testa, ma il peggio è passato.” 58
“Che facciamo?” disse l’altro. “Chiamiamo il 118.” E così fecero.
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Il benandante del rione Don Guanella
Che il nuovo stadio a Scampia non si sarebbe mai fatto Ernesto Scuncillo ne era certo, anzi certissimo. Ci avrebbe messo la mano sul fuoco. Adesso, voi vi chiederete da dove nascesse tanta certezza. Dal fatto che Assuntina, vedova Di Bella, alla notizia che presto avrebbero costruito un nuovo stadio nel quartiere aveva fatto una smorfia di diniego, come per dire: “Chiacchiere, solo chiacchiere!” Secondo la bella e giovane vedova la decisione di costruire un nuovo stadio a Scampia era una jattura. La classe dirigente napoletana continuava a muoversi, a suo parere, senza un’ idea organica e concreta di città e di sviluppo. La stessa proposta di costruire uno nuovo stadio a Scampia le sembrava segnata da estemporaneità ed improvvisazione ed era da rifiutare per una serie di motivi: a) a Scampia esisteva già uno stadio di calcio di serie C, mai entrato in funzione; b) con metà della spesa si poteva ristrutturare il vecchio stadio di Fuorigrotta; c) per la realizzazione del nuovo stadio occorrevano duecentomila metri quadri di terra e pertanto, se la cosa fosse andata in porto, sarebbe andato distrutto un bel po’ di verde a discapito di uno dei pochi vanti del quartiere: il rapporto aree verdi/numero di abitanti, che era il più significativo nell’intero territorio cittadino. “Scampia” diceva “ha bisogno di altro, di efficaci interventi per lo sviluppo e l’occupazione; e non c’è nessuno che sia dav60
vero in grado di dimostrare che la presenza di uno stadio di calcio su di un territorio produce, per gli abitanti del luogo, ricchezza e benessere. La costruzione del nuovo stadio aggiungerà alle irrisolte problematiche del quartiere solo l’intasamento da traffico e gli scontri tra ultrà, che inevitabilmente colorano le domeniche calcistiche”. Sì, mi direte, argomentazioni legittime e magari da condividere, ma che non bastano da sole a giustificare la certezza che lo stadio non sarebbe andato in porto; e avete ragione! La certezza dello Scuncillo, più che dalle argomentazioni della signora Assuntina, nasceva dalla convinzione che la stessa fosse in stretto contatto col defunto, di cui, voce di popolo e quindi voce di Dio, si diceva fosse uno spirito errante che, rimasto sulla terra per proteggere la consorte, la informasse sugli eventi e sulla loro evoluzione. Ernesto Scuncillo, infatti, era convinto che il Di Bella fosse un benandante e che vigilasse su di noi e ci proteggesse: una sorta di “munaciello”, che, invece di andare in giro col saio, si trascinava avvolto nel proprio liquido amniotico. Lo so a cosa state pensando, ma voglio rassicurarvi: Ernesto Scuncillo non è un matto, anche se quanto ho affermato in premessa può avervi indotto a pensarlo. Non è neanche uno, lontano anni luce dalla modernità, che non ha dimestichezza col sapere. Se continuate a pensare il contrario, nonostante le mie rassicurazioni, mi spiace contraddirvi, ma siete fuori strada. Lo Scuncillo, laureato in economia aziendale, è il direttore amministrativo di un istituto professionale e il suo vanto è far pareggiare entrate ed uscite. Posso garantirvi che, se avete problemi col fisco, lui è la persona giusta. Parola! Quando mi parlò per la prima volta del benandante, vi confesso che pensai immediatamente ad uno scherzo, che volesse prendermi in giro. Poi mi venne il sospetto che una presenza 61
aliena si fosse impossessata di lui e che, quindi, davanti a me ci fosse solo il contenitore, ma non il contenuto. Infine, preso atto che si trattava proprio di lui, in anima e corpo, pensai alla presenza della camorra nel quartiere, allo spaccio di droga, ai cumuli di rifiuti non raccolti, ai veleni che il vento proveniente dall’asse mediano ci regala, all’immagine sfigata che circola di noi, e mi venne spontaneo fare dell’ironia. “Meno male che c’è il benandante” dissi “sennò chissà che ne sarebbe di Scampia!” “Lo so che non mi credi” borbottò lui “ma i benandanti esistono, è documentato!” “E chi sarebbero?” “Sono persone votate al Bene, che combattono il Male in tutte le sue forme. La loro caratteristica è di essere dei nati con la camicia e di operare col calar delle tenebre, guidati da un angelo d’oro.” “Tu sei matto: ti si è fuso il cervello!” “Chi me ne ha parlato mi ha mostrato dei libri antichi del cinquecento, ricchi di testimonianze sul loro operato. L’inquisizione pensò che fossero seguaci di Satana. Furono inquisiti, torturati, incarcerati, poi scagionati. Fu chiaro che non parteggiavano per il Maligno, ma per Cristo.” “Figurati!” Lucio Di Bella, mi raccontò lo Scuncillo, nei primi anni settanta si era trasferito con Assuntina, la giovane sposa, qui a Scampia nel rione Don Guanella dalla casa paterna ai Tribunali: faceva il meccanico ed era tutto lavoro e famiglia. Ben presto la casa fu allietata dalla nascita di una bimba, che chiamarono Marina in omaggio a Fabrizio De Andrè e alla sua La canzone di Marinella. Le cose sembravano andare per il meglio, finchè una notte Assuntina, svegliandosi, si accorse che Lucio non respirava ed era freddo come un cadavere. 62
Il medico legale confermò la morte del giovane e il giorno dopo si tennero i funerali. Tutto il quartiere partecipò commosso ed incredulo. La sposa, senza più lacrime, non faceva che ripetere a chi le si avvicinava per il rituale abbraccio di condoglianza: “Non è morto… non è morto!” La maggior parte delle persone attribuì la frase al dolore della sposa, ma nei giorni successivi ci fu chi dovette ricredersi. Più di un vicino giurò di aver visto lo sposo aggirarsi di notte nei dintorni della casa e allontanarsene poco prima dell’alba. Di certo, ai pochi che si avvicinarono con cattive intenzioni ad Assuntina accaddero cose inenarrabili, che nessuno seppe spiegare. Arturo Parisiello, che aveva fatto proposte oscene alla “fresca” vedova, fu trovato cadavere in un viottolo di campagna con gli occhi strabuzzati, schizzati fuori dalle orbite, in un maleodorante lago di piscio. Doveva aver visto qualcosa che lo aveva spaventato a tal punto da procurargli un’improvvisa incontinenza urinaria, seguita da infarto letale. Eduardo il molleggiato, autore di un tentato scippo ai danni della stessa, cadde da una scala fratturandosi ambedue le caviglie, nonostante la proverbiale agilità, da cui il nomignolo. Nunziatina, l’estetista a domicilio, infine, che aveva messo in dubbio l’integrità di Assuntina, perse la favella. Girò voce che l’anima del morto avesse qualche santo nell’al di là, che l’avesse “raccomandato” affinchè restasse nei dintorni per proteggere le “sue” donne, anche perché nessuno seppe spiegare le fortune che capitarono a madre e figlia. Assuntina fu convocata dal notaio Lo Tunno, che la informò di un lontano parente, emigrato in Australia, che l’aveva nominata unica erede di un discreto capitale, col quale lei mise su un negozio di merceria, che le diede serenità economica. Si dice che nessuno osò chiederle il pizzo. 63
Marinella dopo il diploma si iscrisse all’Università e si laureò in Legge, divenendo in breve la “regina” del foro. Nessuna delle due è mai andata via o ha manifestato l’intenzione di andare via dal Don Guanella. “Quella notte” disse lo Scuncillo “la notte in cui Assuntina si svegliò e credette che lo sposo fosse morto, in realtà accadde tutt’altro.” “Sono tutt’orecchie” dissi, divertito. “Quello nel letto non era il Di Bella, ma solo il suo corpo: lui era altrove!” “Ah, già… dimenticavo… il benandante!” “Il benandante” continuò lo Scuncillo, incurante della mia incredulità “quando si allontana, lo fa in solo spirito. Se, tornando, non trova il proprio corpo, è costretto a vagare per tutto il tempo che gli era stato concesso di vivere”. “Cioè?” “Metti il caso che al momento di non poter rientrare nel proprio corpo il benandante avesse un’età x e che il Signore, invece avesse previsto per lui una vita lunga anni y, il suo spirito sarebbe costretto a vagare per un periodo di anni pari a y - x.” “Che età avrebbe oggi il Di Bella, se fosse stato ancora in vita?” “Sessanta, sessantadue anni.” “Quindi, potrebbe essere ancora in giro?” “Certo! Qua tutti ne sono convinti e si sono affezionati all’idea: in un certo senso, sentono che questo Di Bella, vegliando sulla propria famiglia, vegli un po’ anche su di loro.” La memoria è corta, sempre più corta. Ha abdicato, altri soggetti esercitano la sua funzione: video, foto, appunti, fotocopie, ecc. Ecco perché dimentichiamo facilmente e i bugiardi la fanno spesso franca, ma non è il caso di divagare, perché qui ci interessa altro. 64
Chi di voi ricorda più la disputa sulla costruzione del nuovo stadio a Scampia, che spaccò in due politici, intellettuali, scuole, associazioni e gente comune? Scommetto pochi, forse nessuno. Eppure per mesi stampa, tv, centri sociali, club e siti web, non parlarono d’altro: chi voleva lo stadio nuovo, chi voleva che fosse ristrutturato il vecchio. Del resto, si sa, il calcio è materia, nella quale chiunque si sente in diritto di dire la sua, di sentirsi esperto. Ricordo le lunghe discussioni del lunedì. Quando il Napoli vinceva, i fan lo attribuivano alla bravura della squadra; quando perdeva, alla “malasorte”. “La palla è tonda e va dove va” era il leitmotiv del tifoso scalognato. In nessun altro campo dell’esperienza umana la fortuna e la sfortuna sono di casa come nel calcio. Col tifoso è inutile ragionarci. Come nessuna mamma ammetterà mai che suo figlio è uno “scarrafone”, nessun “vero” tifoso ammetterà mai che la sua squadra ha giocato male; e, se lo farà, sarà l’eccezione che conferma la regola. Per questo è da tempo che non seguo più le partite, che non mi interesso più di calcio. Come sempre più spesso accade in politica, si lancia (è il caso di dirlo) la palla e altri la raccolgono, salvo poi accorgersi che questa non c’è. La costruzione del nuovo stadio era condizionata alla scelta dell’Italia quale sede dei Campionati Europei di calcio del 2012 e così, quando venne il fatidico giorno e la Uefa si espresse negativamente, escludendo il nostro paese, si capì che tutto quel gran parlare e accapigliarsi era stato quanto meno prematuro: lo stadio non si sarebbe più fatto, indipendentemente dal favore o meno raccolto nel pubblico dibattito. “Tanto rumore per nulla!” avrebbe sentenziato il sommo Shakespeare. 65
“No, ‘o cuorno no!” disse la sindaca all’assessore, che gli aveva porto un bel corno di corallo rosa intenso nella saletta dell’ufficio stampa del Comune, mentre si era in attesa del responso. “All’America’s Cup non ha portato bene” aggiunse, quasi a giustificarsi. Anche stavolta, però, come abbiamo visto, il risultato fu pollice verso. Di conseguenza, si può dedurre che i corni non portano né bene né male e che l’evolversi degli eventi non dipende da essi. La Uefa (una sorte di ministero del pallone continentale) bocciò l’Italia, assegnando a ucraini e polacchi in joint venture l’organizzazione di Euro 2012, ovvero degli Europei di calcio del 2012. “Stavolta non ne abbiamo colpa” tenne a precisare immediatamente la sindaca “e non saremo noi napoletani il capro espiatorio!” Di certo, Napoli non c’entrava molto: non avendo Polonia e Ucraina le nostre infrastrutture, nella scelta di estromettere l’Italia molto probabilmente vi avevano concorso gli scandali, che in quel periodo si erano verificati nel calcio italiano e le relative inchieste, o forse la voglia di dare visibilità al recente allargamento politico verso est della CEE. “Una scelta allucinante” gridò l’assessore, riferendosi all’estromissione dell’Italia “siamo anni luce più avanti di loro: è un’altra ingiustizia!” La verità ufficiale, ovvero i fatti incontrovertibili, provati, documentati, era dunque che lo stadio non si fece, perché la UEFA escluse l’Italia. Esiste però un’altra verità, ufficiosa, non documentata né documentabile, che circola a mezza voce, appena accennata, quella di Ernesto, che molti liquidano con un sorriso di scherno, non necessariamente in contrasto con quella ufficiale, anzi in un certo senso complementare. Ma solo per chi ci crede. 66
Ovvero, che il benandante ci avesse messo lo zampino perchĂŠ convinto che il nuovo stadio avrebbe portato solo altro disagio a un quartiere giĂ disagiato di per sĂŠ.
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Caccia allo scampiese
“Dai… dai… che lo Scampiese ci scappa!” disse Tommaso, correndo e facendosi largo tra la folla di via Scarlatti. “Quel topo da fogna la deve pagare!” gli fece eco, sempre più eccitato, Gianmarco. “Il Vomero se lo devono scordare. Per loro deve essere zona off limits!” aggiunse Renato “quelli di Scampia, qui noi non li vogliamo!” I tre, seguiti da Gino e Michele, raggiunsero l’incrocio con via Cilea e via Luca Giordano, ma dell’inseguito nemmeno l’ombra; si fermarono indecisi sulla direzione da prendere, disperando di aver perso le tracce della loro preda. Ma cosa era successo? Perché quei cinque ragazzi correvano? Chi stavano cercando? E, soprattutto, per fare che? Nei pressi della stazione del metrò di piazza Vanvitelli, qualche attimo prima, avevano rinvenuto Livio, un loro compagno, in un pozzo di sangue, colpito da un’arma da taglio. Lasciatolo alle cure delle ragazze, avevano chiamato il 118 e si erano immediatamente dati alla caccia di quello, che consideravano il colpevole, decisi a ricambiare in ugual misura. Ma perché si erano convinti che fosse stato lo Scampiese? Da dove nasceva il loro convincimento? E chi era lo Scampiese? “Elementare, Watson!” avrebbe commentato Sherlock Holmes. 68
Cominciamo dall’ultima domanda. Lo Scampiese era un ragazzo, di cui non conoscevano il nome e che chiamavano così perché proveniva da Scampia, il megagalattico mercato della droga e delle cruente guerre tra clan. La settimana precedente, Livio era venuto alle mani con lui, perché aveva fatto apprezzamenti sulla morosa. Dopo averle prese, il ragazzo si era allontanato, gridando: “Non finisce qui!” Conseguentemente, considerandolo un mezzo delinquente, perché questa era l’idea che si erano fatti degli abitanti di Scampia, avevano pensato ad una vendetta. Del resto, non c’era giorno che non si raccontasse di sparatorie, arresti e morti ammazzati, che riguardassero quel quartiere. Sui quotidiani e in tv non c’era traccia delle tante persone per bene, che pure vi risiedono e che, magari, sono la maggioranza. Forse perché non fanno notizia, nè fanno vendere. Così la gente si era convinta che chi vivesse lì o rubava o spacciava o si drogava. Il metrò, che per gli amministratori della città era il fiore all’occhiello, la soluzione al problema del traffico cittadino, per i Vomeresi, specie il sabato sera, era diventato una sorta di sciagura, perché portava bande scatenate di ragazzini, che spesso si abbandonavano a risse ed atti vandalici. C’erano state iniziative e sottoscrizioni perché, specie il sabato e la domenica, fosse indiscriminatamente interdetto l’ accesso al quartiere a chiunque provenisse da Scampia, ma poi, sia per il sapore vagamente razzistico delle richieste, sia per i mancati introiti economici che inevitabilmente sarebbero derivati al commercio, non se ne fece mai niente. “Che facciamo?” chiese Michele agli altri quattro, che, scrutando nella marea ondeggiante dei passanti, cercavano invano di individuare il presunto feritore del loro amico. “Ci dividiamo” disse Tommaso, che doveva essere il capo del gruppo “il primo, che lo trova, chiama gli altri col telefonino e 69
aspetta che lo raggiungiamo, ma senza intervenire, mi raccomando senza intervenire!” Renato e Gianmarco proseguirono lungo via Luca Giordano in direzione piazza degli Artisti, Gino e Michele si diressero verso via Cilea, Tommaso risalì via Luca Giordano in direzione Villa Floridiana. Intanto Diego, questo era il nome dello Scampiese, aveva incontrato due suoi amici, Alessio e Mirella, anch’essi di Scampia, e si erano seduti al tavolo del bar della Fnac. “Certo che il Vomero è un’altra cosa!” disse Diego. “Sì, però, la gente non mi piace” commentò Alessio. “Perché?” chiese l’altro. “Si fissa” appuntò Mirella “che ci guardano con diffidenza e che non vogliono avere a che fare con noi”. “Ti sei scordata quel tipo che menò Diego solo perché aveva guardato la sua ragazza? Scommetto che, se Diego non fosse stato di Scampia, non ci avrebbe nemmeno fatto caso!” Dopo circa una mezz’oretta i tre furono intercettati da Renato e Gianmarco. “Chiama gli altri, io resto di guardia” disse il primo. “Ok… vado fuori e telefono.” Appartatosi al lato dell’ingresso del locale, Gianmarco prese il telefonino e si apprestò a digitare i numeri, quando una voce lo fece sobbalzare. “Non lo fare.” Come dal nulla era apparsa una ragazza. “Cosa?!” disse lui. “Non chiamare.” “Perché?” “E se non fossero loro?” “Sono loro, li ho riconosciuti! Quello con i baffetti e il pizzetto è lo stesso che le prese da Livio!” “Non far finta di non capire.” 70
“Che vuoi dire?” “Che forse non sono stati loro ad aver ferito il vostro amico.” “Che ne sai?” “Li hai visti mentre lo colpivano?” “Sono stati loro!… Non rompere.” Renato lo interruppe. “Hai telefonato? Quelli stanno andando via.” “No, non ho ancora telefonato.” “Perché?” “Quella ragazza mi ha fatto perdere tempo.” “Quale ragazza?” “Quella!” “Io non vedo nessuno.” “Strano, era qui un attimo fa.” “Dai, chiama, non fare il cretino!” “Dopo, dai, vediamo prima dove vanno.” Diego, Mirella e Alessio uscirono dal locale e proseguirono lungo via Luca Giordano, per svoltare subito a sinistra ed entrare nel cinema Arcobaleno. “E ora?” disse Renato. “Chiamiamo gli altri e aspettiamo.” “Forse è meglio che uno di noi li segua in sala, non si sa mai.” “Vacci tu, io resto qui ad aspettare.” “Prima però telefoniamo, non vorrei che apparisse di nuovo la tua ragazza fantasma e tu te ne dimenticassi.” “Ok.” Fatta la telefonata, Renato entrò nel cinema e Gianmarco restò fuori ad aspettare. “Alla fine i vostri amici li avete chiamati” disse la misteriosa ragazza, che nel frattempo era riapparsa. “Certo, mica deve passarla liscia. La camorra qui non la fa!” “Ma l’hai guardato bene? Ti sembra un camorrista quello?” “Camorrista o no, non doveva fare quel che ha fatto.” 71
“E se non avesse fatto niente?” “Lo avrà fatto qualcuno come lui.” “E con questo?” “Pagherà per gli altri!” L’arrivo di Tommaso, Gino e Michele, interruppe l’accesa conversazione. “Tommaso” disse Gianmarco “e se non fosse stato lo Scampiese? E se avesse ragione la ragazza?” “Quale ragazza?!” “Lei.” “Non vedo nessuna ragazza!” disse Tommaso. “Là.” “Là, dove?” La ragazza era scomparsa di nuovo. “Dai, non farci perdere tempo, dove sono? Ancora nel cinema?” Giancarlo stava per dirgli di sì, quando riapparve la ragazza, che fece cenno di non rivelargli dove fosse lo Scampiese. “Allora, sono ancora dentro?” sbottò l’altro. La ragazza si avvicinò e si strinse a Giancarlo. “Non glielo dire…” sussurrò. Stranamente, né Tommaso né gli altri davano mostra di percepirne la presenza. Quella ragazza era visibile solo a lui. “Avete fatto tardi, hanno preso il metrò!” “Al telefono, avevi detto che erano entrati al cinema.” “Ci eravamo sbagliati, hanno solo chiesto delle informazioni alla cassa e poi se sono usciti. Forse non ce la facevano con i soldi.” “E Renato?” “Ha detto di scusarlo, aveva mal di testa e se ne è tornato a casa.” “Che facciamo?” chiese uno del gruppo. 72
“Torniamocene a piazza Vanvitelli” disse Tommaso. La ragazza sorrise e con un cenno della mano salutò Gianmarco. All’altezza della Coin uno squillo avvisò Tommaso che Livio era fuori pericolo e che avevano arrestato il colpevole. “Meno male che siamo arrivati tardi” disse Tommaso agli altri “ce la saremmo presi con uno che non c’entrava niente: a colpire Livio non è stato lo Scampiese e il bello è che chi lo ha fatto non veniva neanche da Scampia”. Gianmarco sorrise e ripensò alla ragazza. Aveva ragione lei, non era stato lo Scampiese.
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La vecchia, la ragazza e il manifesto
“La ragazza del manifesto è lei!” gracchiò la vecchia, ricurva sotto il peso della sua gobba, appoggiandosi al bastone e puntando il dito prima sulla sorridente modella ritratta sul cartellone pubblicitario e poi indirizzandolo verso la intirizzita adolescente, ferma sotto la pensilina, in attesa del bus. “La demenza senile è impietosa!” fu il mio pensiero immediato. La ragazza del manifesto era alta, magra, occhi grandi e neri, bellissima. L’adolescente, che la mia interlocutrice mi aveva indicato, era grassoccia, occhi leggermente strabici, piuttosto bruttina, bassina e rossiccia di capelli, il viso invaso da efelidi. Non c’era alcuna somiglianza. “Eh-eh-eh!… Lo so a cosa pensi, giovanotto, ma ti sbagli: nonostante la vetusta età, la materia grigia mi funziona benissimo!” biascicò la vecchia, trafiggendomi coi suoi occhi simili a punture di spillo. E cominciò a raccontare una strana storia. Sette otto anni fa” disse, masticando saliva “una ragazza bellissima di questo vituperato quartiere, noto soprattutto per lo spaccio di droga, partecipò al concorso nazionale di Miss Muretto, vincendolo. Due ragazze di questo stesso quartiere lo vennero a sapere. Una di esse era la ragazza che ti ho indicato, Carmen. 74
“Hai sentito? Miss Muretto è una ragazza di qui, di Scampia!” disse. “E con questo?” rintuzzò Lena, l’altra ragazza. “Lei è alta e bella, noi corte e chiatte: la realtà non cambia! Se ci mettiamo l’una irta con i piedi sulle spalle dell’altra, non le arriviamo all’ombelico: non saremo mai Miss!” “Sì, ma l’immagine monolitica di gente marginale, rozza, sciatta e violenta, ne risulta scalfita. D’ora in poi a noi, ragazze di Scampia, ci vedranno diversamente.” “Sarà…” mugugnò Lena, per niente convinta. “Parlando di lei, hanno scritto che Scampia non è tutta spine ed io, non mi vergogno a dirlo, mi sento già un po’ più rosa, più uguale, meno marchiata” incalzò l’altra. “Guarda rosa che il film Povere ma belle lo hanno girato circa sessant’anni fa, quando non eravamo in programma né tu né io e neanche i nostri genitori! E non credo sia attuale.” “Sei la solita cinica!” Passò qualche tempo e Miss Musetto si classificò tra le finaliste a Miss Italia, conquistando il titolo di Miss Sorriso. Cominciò a fare spot e sfilate di moda. Carmen seguiva i suoi successi, con gioia, quasi ne fosse lei la protagonista. Intanto, si ingurgitava di dolci, caramelle e cioccolatini, tra una dieta e l’altra, accumulando chili su chili di peso. Tra i maschi aveva tantissimi amici, ma nessuno che la guardasse con desiderio o che le chiedesse di più dell’amicizia. Lena, invece, era riuscita a dimagrire e, diversamente da lei, non aveva molti amici, ma aveva avuto tante storie, tutte finite male come le diete di Carmen: i maschi la cercavano, perché la dava con prodigalità; una volta soddisfatti, però, la piantavano e sparivano. Ora stava con un certo Matteo, che trattava malissimo, come se volesse addossargli le colpe dei precedenti fallimenti o vo75
lesse punirlo preventivamente e scaramanticamente prima di un’eventuale fine del loro rapporto. Un mattino d’autunno Carmen si alzò e, dopo aver sollevato la tapparella, come d’abitudine scostò con la mano la tendina alla finestra della sua cameretta, per vedere se il tempo minacciasse pioggia. Con sorpresa notò, proprio sul marciapiede di fronte, un gigantesco manifesto con su la sua Miss, che sponsorizzava un profumo, Venere seminuda, distesa sul divano con addosso solo slip e reggiseno. “Com’è bella!” pensò “Chissà quanti ragazzi le correranno dietro e si dispereranno per lei!” La voce della mamma interruppe i suoi pensieri: “Carmen, preparati, ch’è tardi! Il caffellatte si fredda”. “Vengo, vengo.” Il manifesto divenne la sua ossessione. Lo guardava la mattina appena sveglia, lo guardava quando usciva dal parco per recarsi a scuola, lo guardava al ritorno, poi ancora prima di mangiare, e dopo che aveva finito di pranzare, il pomeriggio prima di fare i compiti, la sera prima di mettersi a letto. “Perché lei così bella ed io così goffa? É un’ingiustizia!” cominciò a chiedersi e ad inveire. Sembrava di ascoltare Calimero, il pulcino depresso, maltrattato da tutti, protagonista di un vecchio spot, che si sentiva rifiutato perché “piccolo e nero”. “Perché non c’è uno straccio di ragazzo che si interessi a me?” chiese un giorno allo specchio, nel mentre si rimirava col seno di fuori, strizzandosi i capezzoli. “Perché sei insignificante” rispose lo specchio “guarda la ragazza del manifesto, lei sì che è bella!” “Non è possibile: lo specchio ha parlato” azzardò Carmen, ritraendosi di qualche passo. Fissò lo specchio, che ora era muto, e si consolò: “Devo essermi suggestionata. Gli specchi parlano solo nelle fiabe!” 76
“Però, è vero” continuò “devo riprendere la dieta, negarmi con fermezza dolci, caramelle e cioccolatini, ricominciare a frequentare la palestra. In fondo, se la società mi vuole magra, non posso esimermi”. Nonostante gli sforzi e qualche cambiamento nel fisico, un po’ meno tondo e più scattante, i ragazzi continuavano a ignorarla. Carmen se ne era fatta una malattia e una sera, che era più giù del solito, aveva anche tentato di farla finita, ma senza successo. Dall’esperienza erano nati dei versi, una sorta di poesia, un piccolo sfogo per congedare ogni triste pensiero: “Ho pensato alla fine / ma se un attimo dopo / come Romeo tu fossi giunto / come Giulietta avrei perso il volo/ perciò non tardare / mio bel Romeo / Giulietta è qui / ti aspetta!” Intanto, la Miss era sempre lì, sul manifesto, che ogni volta le ricordava la sua insignificanza, che la costringeva al suo sentimento quaresimale di mortificazione, e Lena le aveva telefonato per dirle che si era fatta mettere incinta da Matteo per costringerlo a sposarla. “Perché era tutto così grigio?” si tormentò. Lei voleva una storia normale, non voleva essere come la sua amica, che stava legando a sé con l’inganno l’innamorato. Voleva essere come la Miss, che non aveva bisogno di sotterfugi e che nella trasmissione “Amori & Disamori” aveva raccontato di essere fidanzata con un bel ragazzo, un neo-architetto di qualche anno più grande, che aveva conosciuto al liceo e che avrebbe sposato di lì a poco. Si ritrovò di nuovo a parlare allo specchio e anche questa volta lo specchio rispose. “Non sarai mai come lei!” fu il crudo responso. Presa dall’ira, Carmen gli lanciò contro con forza la spazzola, con la quale stava lisciando gli arruffati capelli, mandandolo in frantumi. 77
Guardò la sua immagine a spicchi, moltiplicata nei mille e più pezzetti di vetro sparsi sul pavimento, e si sentì sollevata, perché ogni scheggia a seconda della propria grandezza rimandava riflessa un’effigie diversa dall’altra; il che, realizzò, voleva dire che era possibile cambiare. “Sì, ma quando?… Ma come?” si chiese, ripiombando nella sua cupa depressione. Le sembrò di sentire una voce: “Non sarai mai come me!” Era la voce della Miss, che la dileggiava dal marciapiede di fronte. Si rivestì e scese giù nel cortile, attraversò la strada e, aiutandosi con uno scaletto che si era portata dietro, strappò con violenza il manifesto molesto. Nel riattraversare la strada si accorse di un micio nero con il pelo irto, che la puntava con ostilità. Gli roteò contro l’estremità dello scaletto, per allontanarlo, e il gatto si ritrasse di poco per poi seguirla a stretta distanza. Lei affrettò il passo, ma il felino ringhiando le saltò sulle spalle, avvinghiandosi alla sua schiena e dilaniandone la carne, tanto da scavarsi una sorta di tunnel e penetrarla. Carmen perse conoscenza. Quando la ritrovarono, priva di sensi e con accanto lo scaletto, non c’era traccia del gatto né di ferite. “Apparentemente si era immaginata tutto” disse la vecchia “ma era tutto vero, il gatto si era impossessato di lei”. “Il gatto?!?” bisbigliai. “Non era proprio un gatto, ma lei, la ragazza del manifesto, che si era trasformata.” “La ragazza del manifesto si era trasformata in un gatto!?!” esclamai con non celata incredulità e fastidio. “C’è uno spirito che aleggia in ognuno di noi. A volte è così potente che segna il tempo. Nella ragazza del manifesto ne dimora uno, che crea campi magnetici di attrazione, che produ78
cono sentimenti negativi in quelli che se ne sentono esclusi. Carmen ne era stata toccata e non riusciva più a vivere la sua vita. Si sentiva attratta da quello spirito e gli spiriti non si negano mai a chi mostra di apprezzarli.” “Così ora la ragazza del manifesto è rimasta senza spirito” commentai, divertito. “Lo spirito, di cui parlo, aumenta per sottrazione. Non ha lasciato la ragazza del manifesto. Insediandosi in Carmen, in realtà ha radicato ancor di più la sua presenza nell’altra. É proprio dell’entità disincarnate accrescere, dandosi.” Stavo per replicare, quando giunse il pullman che aspettavo. Sul fianco della vettura giganteggiava lo stesso manifesto con su la Miss di cui mi aveva raccontato la vecchia. Salutai la mia interlocutrice e con sorpresa mi ritrovai seduto accanto a Carmen, che nel frattempo mi aveva preceduto sul bus. “Eh-eh-eh” la vecchia dal marciapiede mi sorrise con un ghigno maligno. Durante il tragitto non potei fare a meno di lanciare continue occhiate alla mia vicina. Non era grassoccia, come mi era sembrata in un primo momento e i suoi occhi non erano affatto strabici; i capelli erano di un bel rosso e le efelidi trasmettevano un senso di calore, una sorta di tepore che prometteva benessere. Mi piaceva. “Hai visto la vecchia con la quale parlavo?” le chiesi. “Sì.” “La conosci?” “Qui, la conoscono tutti: la chiamano Zia Tibia.” “Perché?” “Racconta un sacco di storie strane.” “Mi ha detto qualcosa su di te, ma non ci ho creduto”. “Cosa, ad esempio?” “Che vorresti somigliare a una modella.” 79
“Quale ragazza oggi non vorrebbe? Indossano vestiti fantastici e girano il mondo.” “Mi ha detto che sei fissata con quella ragazza del manifesto, che fa la pubblicità a un profumo.” “Io sono lei!” Un brivido mi percorse la schiena e tutto cominciò a girarmi intorno. L’immagine di Carmen si confondeva con quella della ragazza del manifesto. Sentivo la sua mano, che stringeva la mia, e come in un sogno mi ritrovai su un immenso prato verde che mi rotolavo sull’erba con lei. Poi, d’un tratto, lei si trasformò in ringhiante gatto nero, che mi graffiò. “Che hai?!?” La voce di Carmen mi riportò alla realtà. “Niente, solo un piccolo giramento di testa.” “Meno male, sei scolorito: pensavo a qualcosa di grave! Ah, sono arrivata, devo scendere.” “Ci rivediamo?” “Prendo questo bus sempre alla solita ora.” Restai a guardarla dal finestrino del bus, mentre si allontanava. Un micio nero la seguiva.
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Nezim
“Non sono un ladro!” protestò Nezim. “Questo è tuo?” ribattè Rosa Contri, una delle tre maestre del modulo, riferendosi al righello, che il piccolo rom aveva nascosto tra le sue cose nello zainetto e che ora lei gli agitava sotto il naso. “Sì, è mio!” rispose Nezim, fissandola negli occhi quasi a sfidarla. “Non è vero, è di Claudio; e tu glielo hai rubato!” replicò Anna Tronchi, l’altra maestra che era in compresenza. “Rubare a un gagè non è rubare!” “Rubare è sempre rubare!” disse la Contri. “No, rubare è rubare soltanto se ti prendi le cose di un altro rom. Rubare a un gagè, a un non rom, non è rubare.” “Chi lo dice? Tu?” incalzò la Tronchi. “É un nostro diritto: ci è stato concesso da Cristo morente in croce!” “Addirittura!” esclamò la Contri con un sorriso di scherno. “Non ridere” scandì serio Nezim “quando Gesù era in croce sul monte Golgota, il nostro avo Organ, che passava di lì per caso, gli estrasse il chiodo che gli martoriava i piedi e se lo mise nella sacca strapiena di altri metalli che aveva raccolto per via. Gesù, anche se capì che Organ non lo aveva fatto soltanto per mera compassione, gli fu grato lo stesso per avergli comunque alleviato il dolore e concesse a lui e tutti noi suoi discendenti il diritto di rubare”. 81
Vesna Kovaric, la mediatrice culturale, convocata dalla dirigente scolastica, la dottoressa Olga Fragaci, spiegò alla componente genitori presente che si trattava di una vecchia leggenda, una sorta di mito delle origini. “Quindi, a suo dire, i rom sarebbero in diritto di rubare e noi li dovremmo lasciar fare, perché, secondo un’insulsa storiella che si tramandano l’un l’altro, di padre in figlio e nipoti, avrebbero avuto l’ok nientedimeno che dallo stesso Gesù Cristo?” ironizzò la signora Nadia Cantarelli, madre di Claudio. “Assolutamente no! Non c’era nelle mie parole alcun intento giustificatorio. Volevo solo contestualizzare l’episodio senza nulla togliere alla gravità di quanto accaduto.” “Gli zingari, quelli che lei chiama rom” strascicò un’altra mamma, la Serena Tardi “son capaci solo di mentire, mendicare e rubare!” “Sbaglia” precisò la Kovaric “molti rom cambierebbero volentieri, se la società si aprisse di più; e io ne sono un esempio.” “In che senso?” chiese la Tardi. “Anch’io sono rom e, come vede, non vado mendicando né mi dedico al furto: faccio un lavoro regolare, la mediatrice culturale.” “Qui c’è poco da mediare: mio figlio ha subito un furto e una sopraffazione; non voglio che sia oggetto di ulteriori abusi!” “Se posso” intervenne la mamma di Nezim, anch’essa invitata dalla dirigente scolastica “mio figlio ha sbagliato, sia a prendere una cosa non sua sia a chiamare in causa una vecchia leggenda, cui non crede più nessuno; neanche Nezim. Nezim sa bene ciò che è giusto e ciò che non lo è, come pure ciò che è vero e ciò che non lo è.” “Intanto, ha fatto una distinzione tra quelli che sono rom e quelli che non lo sono, affermando che rubare non è lecito solo se a danno di un altro rom! ” inveì la Cantarelli. “Posso assicurare che non accadrà più.” 82
“Vorrei pure crederle” sogghignò la Tardi “ma io dei rom non ho fiducia, perché mentire è il loro pane quotidiano”. “Signora Tardi, la invito a stare ai fatti e a mettere da parte i pregiudizi” la interruppe la dottoressa Fragaci “non dimentichi che l’anno scorso lei era tra quelli che volevano mettere fuori dalla scuola i rom, perché non si lavavano e puzzavano; poi dovette ammettere che, se non si lavavano, non era perché aborrivano l’acqua, ma perché l’Amministrazione Comunale non aveva fornito i loro campi di servizi igienici. Ricorda? Pretendeva che la piccola Violeta, una bimba di appena sei anni, e altri due nomadi della stessa età subissero ogni mattina, prima di accedere in classe, l’umiliazione, perché, anche se non era nelle sue intenzioni, tale restava, di un’ispezione a mani, viso, capelli e vestiti, e fossero sottoposti a doccia obbligatoria nella palestra del nostro istituto.” “Noi non volevamo discriminare, ma solo difendere la salute dei nostri figli: non siamo razzisti!” “Sì, ma nessuno di voi, né tanto meno le docenti, si sognò di considerare un dettaglio le pessime condizioni igieniche, cui i rom erano costretti e non per colpa loro.” Le mamme zittirono, qualcuna arrossì. “Non appena il Comune provvide” aggiunse la dirigente “e lo fece immediatamente un attimo dopo aver acquisito la denuncia della sottoscritta, i piccoli rom come per incanto vennero a scuola puliti e lindi come tutti gli altri bimbi”. Vesna invitò i presenti ad aprirsi, ad avere più fiducia, e parlò loro di un’associazione di volontariato, che nel territorio creava occasioni di incontro tra rom e gagè. I genitori chiesero in cosa consistessero tali occasioni e, alla fine dell’incontro, decisero di far frequentare ai loro figli il laboratorio di maschere con le quali avrebbero partecipato al tradizionale carnevale locale. In quelle poche settimane di lavoro comune, manipolativo, ideativo, i piccoli rom e i loro coetanei gagè, lavorando fianco a 83
fianco, impararono a conoscersi e ad apprezzarsi reciprocamente: un muro stava cadendo lentamente e senza rumore, un nuovo modo di stare insieme stava nascendo. L’enorme flusso di maschere e gente che attraversò il quartiere la mattina prestabilita per il corteo carnevalesco sembrò segnare la fine di un’era e l’inizio di un’altra, ma il “caso” volle che non fosse così. Del resto, la democrazia, la pace, la tolleranza, l’accettazione reciproca, come ogni altro valore, non sono “punti fermi” acquisibili una volta per tutto, quanto piuttosto conquiste e riconquiste quotidiane. Qualche mese dopo, un rom ubriaco alla guida di una BMW investì, travolgendole, due ragazze gagè in sella al loro scooter. Una delle due morì sul colpo, l’altra si ritrovò tutte le ossa del lato destro maciullate. All’alba, la vendetta: quattro campi nomadi furono incendiati e sgombrati da gruppi di giovinastri del luogo, furenti e rabbiosi, e millecinquecento rom costretti all’esodo, pulizia etnica stile Kosovo, a mo’ delle milizie serbe di Milosevic prima e dei guerriglieri albanesi dell’UCK dopo. Il presidente dell’allora circoscrizione (la città non era ancora suddivisa in municipalità), intervistato, negò il coinvolgimento della popolazione, additando il quartiere ad esempio di tolleranza, ma, se è vero che il raid con conseguente caccia all’uomo, roulotte distrutte e saccheggi, fu opera di meninos de rua di casa nostra e improvvisati “giustizieri della notte”, è pur vero che non una voce si levò a favore dei rom. “Molti” ha scritto Rousseau “dicono di amare i Tartari, ma non sopportano i propri vicini”: tollerare chi è diverso da noi è più facile quanto più questi ci è distante. In realtà, gli abitanti di Scampia più volte avevano segnalato alle autorità il pericolo che l’addensarsi di tanti rom in un’unica area non solo avrebbe creato conflitti tra gli stessi rom, ma 84
avrebbe aggiunto disagio a disagio innestando un’autentica bomba sociale. La presenza oceanica di oltre millecinquecento rom e la paura che altri ne sarebbero arrivati all’infinito, avevano messo a dura prova la tolleranza del quartiere, che cominciava a rilevare solo gli aspetti “negativi” di quel popolo così testardamente “diverso” e orgoglioso della propria identità, coltivando in crescendo un sentimento di fastidio e ostilità. Così, all’occasione, la colpa di un “singolo” nomade ubriaco divenne la colpa “collettiva” di un intero popolo, che andava punito e allontanato. “Sono qui da vent’anni” disse piangendo la mamma di Nezim “la gente mi conosce, i miei figli vanno a scuola, amano il vostro stesso Dio. Perché me ne devo andare?” Forse perché la politica è distratta da altro, forse perché i rom e le periferie non hanno voce, forse perché è difficile dare risposte semplici a problematiche complesse. Di certo, quella donna e i suoi figli non avevano fatto male ad alcuno. “Che ne sarà di Nezim?” chiese alla madre Claudio, che, terrorizzato, aveva assistito all’evento dal suo balcone al tredicesimo piano. “Tornerà!” rispose lei. “O, almeno, lo spero” aggiunse subito dopo.
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Questioni di fede
Quella notte Tonio non riusciva a prender sonno, si girava e rigirava nel letto, con lo sguardo che ruotava nel buio, sostando, laddove la penombra lo permetteva, sulle pareti, sul mobilio, sugli arredi. La mente rimuginava. Il pomeriggio di quel martedì di aprile era stato al Centro Hurtado, in viale della Resistenza a Scampia, dove si teneva il Caffè Letterario del prof. Franco Maiello, che da qualche tempo aveva preso a frequentare. In programma c’erano brani tratti da “L’Anima e il suo destino” del teologo Vito Mancuso, inframmezzati da musiche di Johannes Brahms, suonate al piano dal vivo dal maestro Augusto Filona. Vi era andato fortemente motivato, perché il sabato precedente Mancuso era stato in tv da Fabio Fazio, ospite a “Che tempo che fa”, e lì aveva detto una frase che lo aveva colpito: “Il Cattolicesimo è la religione dell’Uomo e non del Libro”. Sapeva della presenza al Caffè Letterario, in qualità di relatore, di un noto studioso, di cui nell’ambiente si diceva un gran bene e voleva chiedergli delle delucidazioni. In realtà, voleva sapere se l’Uomo, per l’autore del testo, potesse in determinate circostanze fare a meno del Libro, essendo, come gli era sembrato di capire, il Libro fatto per l’Uomo e non l’Uomo per il Libro. 86
Tutto filò liscio, finché, dopo la lettura dei brani e l’esecuzione delle musiche, non prese la parola lo studioso. Questi, riferendosi a quanto era accaduto a L’Aquila, al terremoto e alle centinaia di morti che ne erano seguite, alle decine di migliaia di feriti e senzatetto, si chiese come avesse potuto un Dio che è padre permettere tanto male. “Un padre” disse “non può volere questo per i suoi figli; e, pertanto, se ciò è accaduto, è perché Dio non ha potuto evitarlo. E, se Dio non ha potuto evitarlo, è perché non è onnipotente!” Tra il pubblico c’era silenzio. Molti, che appartenevano alla stessa comunità, cui aderiva lo studioso, annuivano con il capo. Tonio era sconcertato e lo fu ancor di più, quando questi esclamò: “L’inferno non esiste! Vi sfido a trovare nella Bibbia un cenno ad esso”. Tonio non era un credente, o almeno non lo era più, ma non era nemmeno certo che non esistesse Dio, l’inferno e tutto l’armamentario della religione cattolica. In fondo, il pensiero che l’inferno potesse non esistere gli dispiaceva. Anzi, lo deprimeva. L’eventuale esistenza dell’inferno era la certezza che nessuno sarebbe sfuggito alla giusta punizione, visto che tanti camorristi e delinquenti dei piani alti, travestiti da politici, funzionari e imprenditori, continuavano a farla franca. Seguirono altre affermazioni, che gli sembravano contraddire gli insegnamenti della Chiesa. Ad un certo punto a Tonio venne il dubbio che per il relatore lo stesso Cristo fosse una sorta di profeta, magari il più grande, ma non certo il figlio di Dio, fattosi uomo. Non che la cosa in sé lo scandalizzasse, ma non se lo aspettava. Si era convinto che il prof. Maiello e i suoi amici avessero una grande fede e che, pur con forte criticità verso certi comportamenti della Chiesa, si rispecchiassero in essa, nei suoi dogmi. Ora aveva qualche dubbio. 87
Poiché la relazione andò per le lunghe, non ci fu il tradizionale dibattito e Tonio non poté fare alcuna domanda. La delusione e il caldo fecero sì che quella notte faticasse a prendere sonno. Ma la notte è lunga e alla fine il sonno venne. Un forte scampanellio lo tirò bruscamente dal letto. Guardò l’orologio, erano le sei del mattino. Chi era a quell’ora e che voleva? Messosi le pantofole, andò alla porta. “Raggiuniè, so’ Gennaro, aprite!” “Che volete?… Che c’è?… Va a fuoco l’edificio?!?” “State tranquillo raggiuniè, volevo solo avvisarvi che, se volete uscire, dovete sbrigarvi: alle otto chiudiamo tutti gli accessi.” “Quand’è che lo capirete? Questa non una prigione, è una casa!” “Nessuno ve lo contesta, raggiuniè, ma noi dobbiamo lavorare e in giro tira mal’acqua!” “Spacciare droga lo chiamate lavorare?” “É il nostro pane, raggiuniè!” “E la mia libertà?” “Raggiuniè, mo’ basta, mi state rumpenn ’o cazzo: arrivate le otto, da qui non si esce più! ” Tonio fece per replicare, ma quello lo zittì. Allora, un tremito lo prese, gli percorse tutto il corpo. Al tremito si unì la rabbia e sentì la violenza farsi largo nella sua mente, l’energia repressa prendere forma, invaderlo, trasformarlo. Come una belva si lanciò sull’uomo, che aveva di fronte, e lo afferrò per il collo, stringendoglielo, ma questi mise mano al coltello, che aveva in tasca, e lo colpì ripetutamente, lasciandolo in una pozza di sangue. “Mi dispiace, raggiuniè, ma l’avete voluto voi.” “Dio vi punirà!” 88
“Dio?” chiese lo spacciatore, allontanandosi con un sorriso sarcastico “io non l’ho mai visto, di qua non è passato. Site sicuro ca esiste?!? I’ dico ca no!” Tonio portò la mano al petto e con grande sorpresa realizzò che non c’era sangue né ferita alcuna, che era ancora nel suo letto, un po’ madido di sudore e spaventato, ma vivo. Si era trattato solo di un incubo, un brutto incubo. Si alzò, andò al bagno e orinò; poi si spostò in cucina. Prese il barattolo del caffè e, dopo aver riempito d’acqua la moca, vi versò l’aromatica polvere di chicchi tostati e macinati, la strinse e la mise sul fuoco. Dopo un po’ udì il ribollio dell’acqua e vide il vapore uscire. Si versò la bevanda fumante in una tazzina di porcellana e cominciò a sorseggiarla. “E se Dio davvero non esistesse?” si chiese, scotendo il capo. Decise di telefonare al prof. Maiello, ma non lo trovò in casa. Riprovò il pomeriggio e, idem, a rispondergli fu di nuovo la metallica voce della segreteria telefonica: “Sono temporaneamente assente. Lasciate un messaggio dopo il segnale acustico”. Tonio abbassò il ricevitore e si ripromise di chiamare in serata e, se necessario, nei giorni a seguire. Il professore però risultò assente a tutti i tentativi effettuati, accrescendo l’ansia di Tonio, che era sempre più preso dall’affanno di una risposta ai suoi dubbi, quasi che il Maiello fosse il depositario della Verità. In realtà, non era intenzione di Tonio attribuire tale patente, ma di certo, considerandolo un esperto, voleva sfogarsi con lui, avere qualche riferimento, condividere eventuali incertezze. Al Centro Hurtado gli dissero che il prof. Maiello era a Praga dal figlio e che sarebbe tornato non prima di un mese. Lo sconforto lo prese e, per consolarsi, entrò nel supermarket vicino casa, uscendone con quattro tavolette di cioccolato amaro, da centocinquanta grammi ciascuna, di cui si ingozzò di lì a poco davanti alla tv. 89
Si era da poco assopito, annoiato dalla pochezza dei programmi in onda, quando si accorse di una figura che era seduto sulla poltrona di lato alla sua. Un uomo dal viso smunto, con barba e lunghissimi capelli, larghi occhi chiari, vestito con una sorta di tonaca brillante bianca. “Chi sei? Che fai qui? Come ti sei introdotto?” L’uomo sorrise. “Chi sei? Che fai qui?” fece di nuovo Tonio. “Non eri tu che mi cercavi? Che chiedevi di me? ” “Gesù! Sei Gesù, il Cristo?!?” “Tu lo dici.” “Non è possibile! Sto sognando.” “Sono qui. Parlo con te.” “Non ci credo, è un sogno.” “Anche tu, come Tommaso, vuoi mettere la mano nel mio costato?” “No, no.” “Non volevi certezze sulla mia esistenza?” “Sì… sì” disse Tonio, quasi piagnucolando, col capo chino e lo sguardo fisso al pavimento, timoroso e riverente. “Vuoi risposte come in un manuale, ma la Fede non è un manuale. Le risposte sono in te ed è lì che devi cercarle!” “Ma io non sono come il Maiello, come quelli del Caffè Letterario. Io sono solo un libro stracciato e, per di più, sulle poche pagine intatte s’è versato del liquido scuro e oleoso, che rende illeggibile ciò che vi è scritto. Non so quali sono le risposte! Aiutami!” “Forse non le sanno neanche il Maiello e gli altri.” “Dici?” In quell’attimo squillò il telefono. “Non rispondi?” “Sì… sì… rispondo” disse Tonio, trasalendo. 90
Si era appisolato davanti alla tv e, ovviamente, era solo. Non c’era alcun Gesù nella stanza con lui. Doveva esserselo immaginato nel dormiveglia. “Mi ha cercato?” chiese dall’altra parte del filo il professor Maiello “Ho trovato un suo messaggio in segreteria”. “Sì, è vero, l’ho cercata.” “Ebbene, mi dica.” “Non era niente d’importante. Volevo solo fare due chiacchiere!” “Scommetto che si tratta ancora di questioni di fede?” “No, no. Quella, la Fede, se uno ce l’ha, ce l’ha. E, se non ce l’ha, pazienza. Del resto, come dice lei, nessuno ha la risposta! ”
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Il biglietto
dialogo immaginario alla stazione del metro’ di Scampia
“Biglietto, dottò?” “Biglietto?” “Sì, dottò, biglietto!” “Hanno tolto la biglietteria?” “No, dottò, ma io il biglietto ve lo dò a metà prezzo.” “Perché?” “É già usato, però è ancora valido.” “Vi ringrazio, non è il caso.” “Non capisco, dottò, ditemi almeno perché.” “Non è legale: il biglietto, una volta convalidato, diventa personale ed è incedibile.” “Bravo, dottò, così aumentiamo la monnezza!” “Che c’entra la monnezza?” “Se voi non lo comprate, io lo devo buttare e voi ne dovete comprare un altro, che dopo aver utilizzato dovrete buttare pure voi. Risultato: invece di uno, di biglietti ne buttiamo due; e due biglietti sono più di uno. Di conseguenza, la monnezza aumenta. Il ragionamento fila, dottò?” “Resta il fatto che è illegale.” “Sì, ma è un peccato veniale! La monnezza, che aumenta e poi non si sa come smaltirla, è peccato più grave: è peccato mortale, perché porta malattie. La monnezza produce diossina, 92
dottò, perché la gente non sopporta la puzza e brucia tutto… e la diossina porta il cancro. Col cancro si muore!” “Mi spiace, non posso.” “Dottò, fate come volete, ma voi vi portate i figli miei sulla coscienza!” “Io?” “Il lavoro manca, dottò, e io mi devo arrangiare. Pure i figli miei devono mangiare.” “Come vi chiamate?” “Gennaro Consolo, per servirvi.” “Signor Consolo, non vi offendete: io i cinquantacinque centesimi ve li dò, ma il biglietto voi ve lo tenete. Così i vostri figli non me li porto sulla coscienza e nello stesso tempo non faccio niente d’illegale.” “Che la madonna vi accompagni, dottò: fossero tutti come voi!”
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Il bambino che non aveva mai visto il mare
Colino non aveva mai visto il mare. Forse viveva - direte voi – in una città distante dal mare, una di quelle cittadine sui pendii dell’Appennino o nei fondi valle delle Alpi. No, Colino viveva a Napoli, una città di mare, la città di mare per eccellenza. Ma il mare è una sirena pigra, che si ferma in riva e aspetta. Non si avventura all’interno della città, nei suoi meandri, nell’hinterland. Il mare a Napoli bagna Posillipo, Mergellina, Santa Lucia, ma non bagna Scampia, dove abitava Colino. Forse non sa nemmeno che esiste Scampia, che Scampia non è altro da Napoli, che Napoli è anche Scampia. Né che a Scampia ci stesse un bambino, che non aveva mai visto le sue onde spumeggianti, una spiaggia, gli scogli. Del resto, non lo sapeva nessuno e a nessuno lo aveva detto Colino. “Perché dirlo a qualcuno?” pensava “a che pro, se nemmeno mamma e papà mi ascoltano?” “Papà” aveva chiesto un giorno “perché non mi porti al mare?” “Sapessi che mare ho io per la testa!” gli aveva risposto il padre e lui aveva pensato che ci fossero più mari, ma non nel senso di mar Tirreno, mare Ionio, Ligure, Adriatico, quanto nel 94
senso di un mare di acqua salata, un mare di vino, un altro di birra e un altro ancora, forse, di calda cioccolata. Ritentò con la madre. “Mamma, perché non mi porti al mare?” “Ho le ossa rotte!” disse lei e Colino pensò che, oltre ad esserci più mari, fosse vietato l’ingresso a chi facesse lavori umili e faticosi come la madre, che lavorava in un’impresa di pulizia e si rompeva le ossa a furia di andare su e giù per le scale dei condomini con stracci e secchi d’acqua. Quando la maestra gli chiese di spiegarle cosa fosse la democrazia, lui rispose: “Una cosa aperta a tutti, che permette a tutti la partecipazione”. “Bravo!” disse la maestra. “E” poi incalzò “sai dirmi qual’è il contrario di democrazia?” “Mare!” fu la risposta, che non ammetteva repliche. Fu allora che si seppe di Colino, del bambino che non aveva mai visto il mare. Ne parlò la stampa, ci si tuffarono le tv. Divenne un caso nazionale. Qualcuno pensò a un falso “scoop”, qualcun altro pensò alle solite esagerazioni dei media. Ci fu chi non se ne meravigliò e chi si offese. Ci fu anche qualche buontempone, che se la prese con le ruote della maestra, che aveva sollevato il caso, squarciandole. Ci fu uno scrittore di grido che scrisse: “Un problema che non si solleva è un problema che resterà irrisolto”. La “sindaca” si irritò e disse alle telecamere che quella storia era stata tirata fuori per colpire lei e la sua amministrazione, che Colino non era rappresentativo dei bambini di Napoli, che la città non era come la si voleva ridipingere. Il presidente di circoscrizione, allora esistevano le circoscrizioni, anch’egli offeso, disse: “C’è da parte dei mass media un atteggiamento razzista nei confronti del quartiere. Si è sempre 95
pronti ad evidenziarne i fatti criminosi, i fattori di disagio, mai le potenzialità, le cose positive. E giù l’elenco: la piazza telematica, il nascente presidio del libro, la Libera Università per tutte le età, l’associazionismo diffuso e attivo, il Gridas, il Circolo La Gru di Legambiente, il centro Hurtado, la piccola orchestra della Carlo Levi, la band musicale degli ‘A67, le scuole, le parrocchie, il giornalino locale di Fuga di Notizie, attivo da più di sedici anni, il periodico on line www.fuoricentroscampia.it e così via”. Sindaca e presidente di circoscrizione, però, si impegnarono ambedue a fare in modo che a Colino fosse garantito il diritto di “vedere” il mare. La sindaca in più promise che avrebbe fatto uno screening sul territorio per capire quanti bambini ci fossero, non solo a Scampia ma nell’intera area comunale, che non avessero mai visto il mare, per evitare in futuro casi simili, che danneggiano fortemente l’immagine della città. William Shakespeare avrebbe detto: “Tutto è bene ciò che finisce bene!” Colino disse semplicemente: “Che bello il mare!”
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Natale con i tuoi e Pasqua con chi vuoi
Anche quell’anno, come ogni anno, il Natale in casa Colosimo, fu una pantagruelica tavola imbandita piena di buone cose, non solo per i padroni di casa, ma anche e soprattutto per i loro parenti più prossimi, invitati per la sera della vigilia. La cucina era tutta un fumo, nel quale si muovevano strane ombre, che, se non fosse stato per quel familiare odor di frittura che fa venire l’acquolina in bocca, avresti pensato alle prossimità di un oscuro accesso agli inferi. Sul tavolo si offriva alla vista un vassoio con dentro baccalà e frittelle di mussillo, mentre nell’olio bollente un capitone, sventrato e fatto a pezzi, ancora si torceva, nota stonata di un giorno che si vuole votato a bontà. Pur essendo “capitone” un sostantivo maschile, in realtà si tratta di un’anguilla femmina di grosse dimensioni, pregiata per le sue carni. Il nome deriva dal latino “capitòne(m)”, càput-pìtis, che significa più o meno “dalla grossa testa”. Fare a meno di questa squisita pietanza nel cenone di Natale è infrangere la tradizione. Rosetta pensò che non l’avrebbe neanche assaggiato, provata dalla visione delle sofferenze di quell’infelice bestia, che noi chissà perché pensiamo possa “finire” impunemente in quell’orribile modo. “Mamma” chiese, ad un tratto “perché il proverbio dice: Natale coi tuoi e Pasqua con chi vuoi?” 97
“Perché Natale è la festa della famiglia e si sta tutti insieme, in allegria” rispose di getto la mamma. “In allegria?!?” dissentì Rosetta con smorfia eloquente. “Sì, perché è bello stare in famiglia; tutti insieme!” ribatté la madre senza raccogliere, impegnata com’era con un secondo capitone, che non ne voleva proprio sapere di farsi tagliare a pezzetti e si dimenava come un ossesso. “Allora, il proverbio è sbagliato!” sbottò Rosetta, allungando una mano nel vassoio e portando alla bocca una frittella. “Quella è la prima e l’ultima!” le intimò la mamma. “Le frittelle sono per quando andiamo a tavola!” Colta sul fatto, Rosetta ritirò immediatamente la mano, lasciando nel vassoio l’altra frittella, che stava già per portare alla bocca, e, scherzando, scattò sugli attenti. “Obbedisco… come Garibaldi!” “Senti, Garibaldi, non è che a te non piace stare in famiglia?!?” “Certo che mi piace! Non toglie, però, che il proverbio sia sbagliato, se vuol essere, come tu dici, un inno alla famiglia. Dire e Pasqua con chi vuoi è come dire che i tuoi non sono quelli che vuoi, con i quali vuoi stare.” “Vorrei sapere chi ti mette in testa certe idee.” “Nessuno, è il proverbio che dice così!” “Il proverbio vuole solo sottolineare che Natale è una festa che tutti sono contenti di festeggiare in famiglia” ribatté visibilmente irritata la mamma. “Non sono d’accordo: contrapponendo con chi vuoi a con i tuoi, il proverbio suggerisce tutt’altro.” “Cioè?” “Che si sta con i tuoi, perché si deve e non perché si vuole!” “Che stupidaggini! Se ti sente padre Eugenio, ti scomunica.” “Che c’entra padre Eugenio?” chiese il signor Colosimo, irrompendo in cucina. 98
“Niente, niente” fece la moglie. “E allora? Siamo pronti o ci vuole ancora molto?” incalzò lui “di là si rumoreggia”. “Ancora qualche decina di minuti.” Il marito fece per prendere una frittella, ma lei vigile si frappose sorridente ma ferma tra l’uomo e il vassoio: “Non ti azzardare che le frittelle sono per dopo!” “Ok, ok, vado di là, ma voi fate presto che è quasi ora” borbottò lui, sorridendo e alzando le braccia in segno di resa e di pace. “Mi dai una mano?” “Ci mancherebbe” rispose Rosetta e subito dopo “sai, mamma, credo che hai ragione tu: forse il proverbio vuole solo sottolineare che Natale è la festa della famiglia e, se contrappone con i tuoi a con chi vuoi, deve essere unicamente per esigenze di rima!” “E poi” aggiunse “i proverbi dicono tutto e il contrario di tutto. Che so? Uno afferma che l’unione fa la forza e l’altro di contro che chi fa da sé fa per tre. Uno sponsorizza botte piccola vino buono, l’altro altezza mezza bellezza. A inseguirli, c’è da rimbecillire. Meglio pensare con la propria testa!” “Lo dici perché è Natale e non vuoi farmi dispiacere o perché ne sei davvero convinta?” “No, no, ci mancherebbe!” “Le bugie a fin di bene non sono peccato!” pensò Rosetta, mentre la mamma riconoscente le sorrideva, anche se poco persuasa del repentino cambiamento. Di lì a poco, il cenone fu servito e, come in premessa, fu gran festa per le pance.
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Felice fumava la pipa
Felice abitava a Scampia. Era sempre dalla parte di chi non ha voce, delle minoranze messe ai margini. Cercava di svegliare le coscienze, di portare la conoscenza là dove essa era negata. “Gridas”, il nome, che coerentemente si era dato col suo gruppo, era infatti l’acronimo di “gruppo risveglio dal sonno”. Più che con le parole, Felice comunicava coi colori. I suoi murales parlavano per lui, del bisogno di libertà che ha ogni individuo, della necessità del sogno, dell’utopia. “L’utopia” era solito ripetere “è come l’orizzonte: più si cammina, più si allontana, ma la sua utilità è appunto nello spingerci a camminare”. Era un concetto, mutuato da Fernando Birri, che Felice aveva utilizzato anche come “citazione” a fronte di un suo libro. “Ammesco anima e culuri pe’ pittà ’a cuscienza ’e stu munno” cantano gli ‘A67 in un loro pezzo, dedicato al nostro muralista; che, tradotto, vuol dire: “Mescolo anima e colori per dipingere la coscienza di questo mondo”. Felice è morto qualche anno fa. Nel quartiere il suo ricordo è ancora vivo. C’è traccia di lui nei tanti sbiaditi murales e soprattutto nel tradizionale carnevale in piazza, cui lui ha dato vita e che il Gridas testardamente e con sacrificio continua a far rivivere ogni anno. 100
Centinaia e centinaia di persone hanno firmato una petizione perché l’Amministrazione Comunale provveda ad arredare la stazione del metrò di Piscinola-Scampia con gigantografie, che ne ricordino l’attività artistica e sociale e suggeriscano all’occasionale passante che Scampia non è solo camorra, spaccio e droga. Felice comunicava anche con le nuvolette di fumo, che lentamente si libravano nell’aria quando accendeva la “sua” pipa, proprio come gli indiani d’America, che si scambiavano messaggi di fumo per lanciare grida di allarme o semplici ordinarie comunicazioni. Quando accendeva la pipa, Felice voleva dire: “Aspetta, non ho le parole. Ho la necessità di riflettere”. Sì, perché lui riteneva che le parole dovessero avere un senso, raccontare un fatto, dischiudere orizzonti. Aldo, uno dei fondatori della locale sezione di Legambiente, il Circolo La Gru, ricorda ancora quando una sera nella sede del Gridas, mentre tutti erano immersi in un’accesa discussione, nell’intento di cercare un nome per il nascente gruppo ambientalista, Felice si appartò, sembrando poco interessato al problema e preso solo dalla sua pipa. In realtà, stava riflettendo. Così, senza che nessuno se lo aspettasse, d’un tratto esclamò: “Perché non lo chiamiamo gru?” Cosa c’era di più sintetico e significativo della parola “gru”, che richiamava insieme il mondo della natura, se ci si riferisce all’animale gru, e il mondo del lavoro, se ci si riferisce alla macchina gru dal braccio girevole che solleva e sposta carichi ingenti? Aldo ancor oggi ne parla con ammirazione. Erano i primi anni settanta quando incontrai per la prima volta Felice Pignataro: lui genitore, io maestro elementare del LVIII Circolo Didattico di via Monte Rosa, nel plesso scolastico che attualmente ospita il Liceo Polifunzionale di Scampia. 101
Fu immediata la simpatia: mi colpì il fisico asciutto, l’intelligenza e, non poco, il suo look, jeans e giubbino smanicato dello stesso tessuto, zoccoli ai piedi, pipa. Non so perché, ma a me “patito” del fumetto e del cinema western fece pensare ai cow boys, forse per il giubbino che gli invidiavo, chiedendomi dove mai lo avesse comprato. Il fatto che le figlie, Giovanna e Martina, così piccole, leggessero i classici russi dell’Ottocento fece “rumore” anche tra quei docenti, che, chiusi nella vecchia didattica, non apprezzavano molto l’attivismo contestatario di Felice. Era difficile da accettare, ma nel degrado di “un quartiere dormitorio” c’erano due bambine tra i sette e gli otto anni, capaci di leggere e comprendere un classico e, per di più, russo. I Decreti Delegati erano Legge, ma l’ingresso “istituzionale” dei genitori a scuola era osteggiato dal corpo docente più conservatore e, in particolare, da Direttori e Presidi (non ancora Dirigenti Scolastici), contrariati dal dover condividere con “estranei” le loro scelte. Al grido di “Fuori la politica dalla scuola!” si schierarono al loro fianco alcuni genitori, che, con in tasca la tessera della DC, ripetevano: “A scuola non si fa politica!”, costruivano o almeno cercavano di costruirsi proprio nella scuola uno spazio elettorale. Felice portò a scuola il concetto di “laboratorio” e di “intelligenza manuale”, tecniche di costruzione di maschere di cartapesta e uso del colore, il “contesto territoriale” come fonte motivazionale. Comparvero le prime immagini di bambini, che al posto della testa avevano la tv, profetica denuncia dell’ottundimento delle masse, di cui la tv sarebbe stata protagonista di lì a poco. Si trovò subito intorno noi docenti più giovani, che avevamo amato Don Milani ed eravamo “affamati” di portare il sapere anche a quei ragazzini “a rischio di evasione”, che non ne volevano sapere di studiare. Gli ostacoli furono molti, interni ed esterni: con i ra102
gazzi (eravamo, si ricordi, in una scuola elementare) si riusciva a parlare, oltre che delle discipline specifiche, anche di educazione sessuale, ambiente, pace, libertà, democrazia, evoluzionismo, mito delle caverne, sogni e inconscio; e tutto ciò dava fastidio a quei docenti fermi alla lezione frontale e al sapere come mera trasmissione di contenuti, ma ancor di più ai bidelli che vedevano aumentato il loro lavoro di vigilanza e di pulizia dei locali, messi a dura prova dall’uso del colore, dalle colle e dai materiali di risulta; soprattutto dava fastidio a quei genitori “politici di professione”, che vedevano messa in crisi la loro capacità di manipolazione del consenso. Ci furono contestazioni varie e minacce, spesso non solo verbali, di cui fu particolarmente oggetto, oltre Felice, anche Antonio Vece, uno dei docenti più battaglieri. Nonostante tutto, con l’apporto tecnico e culturale di Felice, portammo avanti una lunga serie di percorsi didattico-educativi, apprezzati da tanti e osteggiati da alcuni, ma soprattutto organizzammo le prime manifestazioni di quel “Carnevale in piazza”, che è ormai tradizione acquisita del territorio. Felice era un gigante, forte dei suoi valori e della sua coerenza, noi dei comuni mortali, che lo amavano, ma che erano anche in cerca di una dimensione, più a misura, più tranquilla, non aliena a desideri piccolo-borghesi. Il gruppo docente, che si era formato, a poco a poco si sciolse; e ognuno seguì la propria strada, chi si avvicinò alla propria residenza abitativa (Vomero, Colli Aminei, tanto per intenderci), chi passò alle scuole medie o superiori, chi diventò ispettore o dirigente scolastico. Rividi Felice quando ormai era già pronto per l’ultimo viaggio. Scampia gli deve molto e così tutti noi, che lo abbiamo conosciuto ed amato. Chissà perché non ho mai amato chi fuma le sigarette! Forse perché fumare la sigaretta è una sorta di omologazione, di fuga. 103
Da ragazzino la sigaretta significava “maschio”, era un segno di virilità, anche se i tempi stavano maturando e le ragazzine cominciavano anch’esse a fumare. Modugno a metà anni cinquanta ne colse la novità e ci deliziò con la sua “Lazzarella”, che “se fuma ’a sigaretta quanno accatta pe’ papà”. Al contrario della sigaretta, la pipa invece, anche se non fumo, mi ha sempre affascinato, così come chi la fuma. Penso all’ex presidente Sandro Pertini, al carismatico ex segretario della CGIL Luciano Lama, al commissario di Simenon, Jules Maigret, al divoratore di spinaci Popeye, all’investigatore per eccellenza Sherlock Holmes. La sigaretta ricorda i gangster, la prostituzione, i duri, la voglia di guerra; la pipa, invece, la lentezza, la voglia di riflettere e, soprattutto, la pace. Non era forse una pipa, il calumet, che i capi dei pellerossa fumavano per sancire la fine della guerra o l’inizio di un’alleanza? Tornando a Felice, che se ne è andato troppo presto, lasciando un vuoto in chi l’ha amato, e siamo in tanti, lo rivedo ancora nei suoi jeans, smanicato dello stesso tessuto, sandali e pipa, mentre si trascina i suoi pennelli e secchi colmi di pittura. Mi torna in mente l’invito a non usurare le parole, utilizzandole a vuoto, e a riflettere. Ah, se fumassero la pipa anche i grandi ciarlatani di adesso, invece di blaterare un fiume di banalità e volgarità! Come sarebbe migliore il mondo!
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Generazioni contro
paranoie di un sessantenne in pensione
1) si sentiva, chissà perché, “personalmente” sotto accusa.
“Perché mi odi?” “Perché sei un parassita!” rispose il giovane, brandendo il coltello. “Non sono un parassita!” “Sì che lo sei, vecchio: ti becchi la pensione e non fai niente!” E giù il primo fendente, che gli lacerò la camicia e gli procurò un taglio alla spalla sinistra. “Il mio contributo già l’ho dato… incasso solo il dovuto” si giustificò l’anziano, afferrandogli il polso della mano, che stringeva l’arma. “Ti sbagli, vecchio: il patto non prevedeva che tu vivessi tanto” inveì l’altro, sempre più furioso. “Non è mia la colpa se sono ancora vivo.” “Ciò non toglie che tu sia un peso morto.” “I miei ricordi e l’esperienza” tentò di persuaderlo l’anziano “possono esserti d’investimento”. “Non ho futuro su cui investire” biascicò il giovane “e i tuoi ricordi, la tua esperienza non hanno alcun nesso col presente!” “Se la mia saggezza e la memoria sono un capitale a fondo perso, hai ragione tu, ragazzo mio: per te non c’è futuro e a me non resta che morire!” 105
Madido di sudore, con gli occhi fuori dalle orbite, Riccardo si svegliò, balzando dal letto e agitando le braccia a scomposta difesa del proprio corpo, ma si rese subito conto che non c’era alcuno che lo minacciasse: si era trattato solo di un brutto sogno, un incubo. Forse la sera precedente aveva mangiato troppo e lo stomaco non era riuscito a smaltire quanto ingerito; dopodiché, nel suo subconscio aveva rielaborato il tema di fondo del libro, che aveva letto prima di prendere sonno, rivivendo virtualmente la brutale aggressione. “Diario della guerra al maiale”, il libro di Adolfo Bioy Casares, ancora in bell’evidenza sul comodino accanto al suo letto, infatti, narrava di una guerra improvvisa che i giovani di Buenos Aires avevano dichiarato a chiunque avesse più di cinquant’anni, dando per un’intera settimana la caccia ai “vecchi” con l’intento dichiarato e perseguito di sterminarli. Tutte le recenti pressioni sulla necessità d’innalzare l’età pensionabile e le accuse di furto che le vecchie generazioni perpetrerebbero a danno delle nuove, i discorsi sul basso tasso di natalità e sull’aumentata longevità delle persone anziane, avevano amareggiato Riccardo, in pensione da nove anni. Si sentiva, chissà perché, “personalmente” sotto accusa, turbato da una “stupida” campagna massmediatica, che, a suo parere, “spingeva” i giovani alla stessa conclusione cui erano pervenuti i loro coetanei protagonisti del romanzo: i vecchi sono il nemico, la palla al piede che impedisce ad essi di autoaffermarsi, i parassiti che non vogliono andarsene, i parassiti che vanno eliminati. Più che il merito delle argomentazioni, lo spaventavano il tono, la pervasività, l’assenza di controargomentazioni del messaggio che veniva veicolato, perché, ne era convinto, avrebbero prodotto a breve reazioni violente e poco ragionate, odi intergenerazionali. 106
Negli anni sessanta il mondo della scuola si era interrogato su come educare al “tempo libero” le nuove generazioni, che, grazie all’automazione, a parità di reddito avrebbero lavorato meno. Le “macchine”, si diceva, avrebbero svolto parte del lavoro dell’uomo e l’uomo avrebbe avuto più tempo da dedicare alla propria “creatività”. Il giovane Riccardo, allora aspirante docente, ci aveva creduto. Ora si rammaricava che della ricchezza prodotta dalle macchine, finita in chissà quali tasche, non se ne parlasse più e che l’automazione si fosse tradotta non solo in un dilagare della disoccupazione giovanile, quanto e soprattutto nella richiesta al lavoratore di un aumento del monte ore settimanale e di un assurdo e paradossale prolungamento della sua vita lavorativa. “Il povero pensionato” argomentava con gli amici “viene assimilato a un parassita, mentre invece è soltanto una persona, che esercita un suo diritto e raccoglie i frutti dei contributi versati”. Il sole filtrò da dietro le tapparelle, annunciando stanco un altro giorno. Riccardo, vedovo, sessantotto a novembre, stiracchiò le sue lunghe membra e, sbadigliando, scese dal letto, si recò in cucina e si preparò un buon caffè. Pietro, l’unico figlio che aveva, alla morte della madre, se ne era andato a convivere con Elsa, precaria come lui, in un altro quartiere, lasciandolo solo. Shade, un piccolo micio nero, che aveva raccolto in strada, era tutta la sua famiglia; quando era in casa, Shade lo seguiva come un’ombra; da qui, il nome che gli aveva dato. Shade, in inglese, significa “ombra”. Ora era lì ai suoi piedi e pretendeva la sua porzione mattutina di latte. 107
2 ) i neonati non hanno i capelli e hanno le rughe.
Si girava e rigirava tra le mani la foto, che lo ritraeva a pochi giorni dalla nascita, bello e paffutello. Da ragazzino trovava esteticamente sgradevoli i neonati e, quando sentiva qualche adulto esclamare: “Quanto è bello!”, non riusciva a capire. Quel viso rugoso, a suo parere, non aveva assolutamente niente di bello e, se non lo avesse inibito la buona educazione, avrebbe chiaramente detto all’occasionale interlocutore quanto lo trovasse ripugnante. Anni dopo, ormai adulto, alle soglie della pensione, una sua alunna scrisse in un compito che i neonati sono come i vecchi: non hanno i capelli e hanno le rughe. Trovò l’accostamento geniale. “Sì” commentò, riponendo la foto tra le altre “è vero, i neonati sono come i vecchi. E, come molti vecchi di una certa età, non sono autosufficienti: si fanno addosso, li devi imboccare quando mangiano, cercare di capire perché piangono, pulirli quando si sporcano di piscia o di cacca. Eppure, lo facciamo con piacere, ci sacrifichiamo volentieri, viviamo il loro peso con gioia, mentre invece i vecchi, specie quando non sono autosufficienti, li molliamo, magari con qualche rimorso, alla badante o a un istituto; oppure litighiamo tra parenti, cercando di scaricarceli l’un l’altro”. Ipotizzò a spiegazione che il neonato rappresenta il futuro e che la sua “non autosufficienza” è temporanea. Ben presto sarà vigoroso e ci ripagherà. Il nostro sacrificio di oggi è un investimento per il domani, darà i suoi frutti. La “non autosufficienza” del vecchio, invece, è irreversibile, più vivrà e più peserà: è un investimento a perdere. Per questo, pur essendo i vecchi simili ai neonati, diversi nei loro confronti sono i sentimenti che proviamo: di rigetto verso i primi, di accoglienza verso i secondi. 108
Sembra un controsenso, ma non lo è. In realtà, concluse, i nostri comportamenti affettivi e relazionali, anche se a noi non è evidente, rispondono a criteri di calcolo tra “costo e benefici”. Non è evidente, perché essi si sedimentano nel tempo, nel corso di intere generazioni, acquistando un forte automatismo, che mette in ombra l’iniziale e reale motivazione che ne è alla base. Riposte le foto, tornò in cucina e cominciò a sbucciare alcuni spicchi d’aglio, dopo aver messo nell’acqua per mondarli pomodorini, peperoncino e basilico. Col pensiero tornò alla “condizione” dei vecchi. Fino a qualche decennio fa i vecchi erano la nostra memoria collettiva, delle vere e proprie enciclopedie, da cui attingere: sapienza, saggezza, equilibrio. Quanti di noi, proseguì, ingannati dalla iconografia tradizionale, hanno pensato a San Giuseppe come ad un “vecchio” falegname? E quanti, una volta accertata la verità, si sono chiesti il perché un giovinetto venisse dipinto per secoli come un “vecchio” patriarca? Pochi, forse pochissimi. San Giuseppe era un padre, il padre terreno per eccellenza; e solo i capelli bianchi della vecchiaia potevano dargli l’autorevolezza, che un padre deve avere. Autorevolezza, che il mondo contemporaneo, appiattito com’è sul presente, disconosce ai “vecchi”, non riuscendo a cogliere gli intrinseci nessi tra ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà, ovvero tra passato, presente e futuro. Ai vecchi, disse tra sé, gli si rimprovera di “campare troppo”, di essere un peso per le famiglie e la società. Gli economisti, tirando continuamente in ballo che la vita si è allungata, di fatto imputano ad essi la impossibilità delle finanze di far fronte alle pensioni delle nuove generazioni, sollecitando nell’immaginario collettivo l’equazione “vecchi = parassiti”. Il mondo dei con109
sumi dal canto suo, inducendo nelle masse sempre nuovi bisogni, riduce il vecchio, specie se malato e non autosufficiente, a “fastidioso fardello”, che la famiglia non sa più dove allocare. Si ritrovò improvvisamente a canticchiare: “… e il vecchietto dove lo metto? Dove lo metto non si sa!”. Al collega Filippo, andato in pensione qualche anno dopo di lui, che quel mattino era suo ospite, raccontò di queste sue riflessioni e gli confidò: “Credo che San Giuseppe possa oggi tranquillamente essere raffigurato nell’età che gli è propria, più che per una sorta di amor del vero, per una maggiore affinità allo spirito del tempo, che sembra rimuovere tutto ciò che è vecchio. Se poi ciò sia bene, è discorso a parte. O, se si preferisce, vecchio” 3) Cristo in croce è morto inutilmente.
“É sulo nu guagliunciello e me l’hann’acciso! Chillo sbirro ‘o voglio vedè muorto! É n’assassino! Nu ’nfamone” disse la mamma del piccolo defunto, mentre alcuni familiari trasportavano giù lungo le scale la bianca bara di legno, facendosi largo tra la folla di parenti, amici, condomini, curiosi, che inveiva contro la polizia, chiedendo “giustizia”. “Sì, è n’assassino!…” ripetè, consolatoria, avvolta nel suo lungo scialle nero, la sorella dell’anziana madre. “Povero figljo mjo, anima ‘nocente: t’hanno acciso comm’a nu criminale!” “Anima innocente un corno!” protestò sottovoce Riccardo, rivolto a Filippo. “L’hanno ucciso mentre con una pistola giocattolo minacciava una coppia, che si era appartata a tarda sera in un viottolo di campagna.” Solo che l’uomo era un agente in borghese e con addosso una pistola vera. 110
Nel buio come si fa a distinguere una pistola giocattolo da una vera? Il poliziotto s’è spaventato e ha sparato. Legittima difesa!” “Quanti anni aveva il ragazzo?” “Tredici.” “Beh… quasi un bambino!” “Uno con la pistola in mano, che ti minaccia, non è più un bambino. Anche se si tratta di una pistola giocattolo.” “Certo non è tutta colpa sua. E non è nemmeno tutta colpa della famiglia” disse Filippo “Quando nasci e vivi qui, in un quartiere come questo, hai il destino che in parte è già segnato!” “Anch’io ci son nato e cresciuto in un quartiere come questo, povero e degradato, e la mia famiglia non nuotava nell’oro, ma non sono diventato un delinquente. E, per quanto mi consta, anche tu non sei nato in un quartiere bene. E non mi risulta che sei diventato un criminale.” “Guarda, là di fronte” sussurrò Filippo, indicando la casa circondariale “ci hanno messo il carcere. Ti sei chiesto perché? Te lo dico io: per ricordare a questa gente che o si rassegna a vivere di stenti o si prepara a finirci dentro”. “Non te la prendere” sentenziò Riccardo “In fondo, a quel ragazzo forse gli è andata bene: la morte a volte può essere una grazia”. “Stiamo parlando di un ragazzino di tredici anni.” “Morire giovani ha anche i suoi lati buoni: primo, la gente si commuove e ti vive come un sorta di eroe, anche se in realtà non hai compiuto niente di eroico, perché non c’è niente di eroico a morire prima del tempo; secondo, ti eviti di affaticarti per nulla, perché fai fai e sempre là devi andare; terzo e ultimo, non patirai le umiliazioni della vecchiaia.” “Non sono d’accordo.” “Su cosa?” “Soprattutto sulle umiliazioni.” 111
“Perché?” “Vedo tanti vecchi che vivono serenamente la loro età: la vecchiaia può venir bene e può venir male. Dipende dai casi!” “La vecchiaia può solo venir male! A volte, penso che può averla inventata solo un Dio di una malvagità che supera l’immaginazione.” “Dio è buono, è l’uomo che s’inceppa e rovina tutto!” Il ribollio del caffè sul fornello li distolse dal mesto spettacolo del corteo funebre, che si allontanava in direzione della vicina parrocchia, dove si sarebbe svolto come tradizione il rito religioso. “Ci andiamo?” chiese Filippo. “É una farsa: per quelli Cristo in croce è morto inutilmente!” “Che c’entra Cristo?” “Rubano… ammazzano… e vogliono pure il paradiso!” lamentò Riccardo, senza quasi ascoltarlo. “É pur sempre un ragazzino.” “Già un innocente!” “Sei acido!” “Quelli nascono delinquenti, sono assassini nati; non li cambia nessuno!” “Non ti riconosco…” Riccardo si alzò e andò alla finestra, attratto dal vocio di alcuni bambini che stavano giocando nel cortile. “No, la guardia, non la faccio!” disse uno di essi. “Neppure io!” disse l’ altro. E così un altro ancora. “Il ladro, io non l’ho mai fatto, tocca a me!” replicò il primo. “Sì… sì… tocca a lui!…” confermò un quarto. “Vieni, vieni…” disse Riccardo, invitando l’amico a raggiungerlo alla finestra. “Da qualche tempo” gli spiegò “nessun bambino, quando gioca a guardia e ladri, vuole fare la guardia: vogliono fare tutti il 112
ladro. Accade un po’ dappertutto: a Secondigliano come a Scampia, Barra, Piscinola, Ponticelli, piazza Ottocalli, via Toledo, ai Quartieri, a Forcella, ovvero in tutte le zone, dove si sono verificati episodi di ribellione di massa all’arresto di spacciatori, scippatori e malavitosi vari”. “Il gioco” aggiunse “è una simulazione, dove il bambino, esercitandosi a fare per finta ciò che i grandi fanno per vero, si appropria dei meccanismi sociali. Pertanto, cogliendo le trasformazioni di costume, che hanno caratterizzato i recenti fatti di cronaca, i bambini hanno pensato bene di adattare le regole del gioco, introducendo un terzo soggetto, la gente, che, invece di parteggiare per lo Stato, parteggia per l’antistato: il ladro fatto lo scippo scappa, la guardia lo insegue, la gente interviene e dà un sacco di botte alla guardia. Spesso il ladro riesce a non farsi prendere; se preso, patteggia e la fa franca lo stesso. Viste le nuove regole, è comprensibile che nessuno voglia fare la parte di chi le prende. Finisce così che, quando proprio non trovano chi accetti di fare la guardia, i bambini cambino gioco e, invece di giocare a guardia e ladri, giochino a ladri contro ladri, una variante che sta prendendo sempre più piede. Filippo stava per replicare, quando squillò il campanello. Era Pietro. “Come mai da queste parti e a quest’ora?” gli chiese Riccardo. “Mi dovresti fare un favore.” “Soldi?” “Lo sapevo…” “Dimmi che mi sbaglio e mi fai il padre più felice del mondo.” “Non ti sbagli, ma è il tono che mi offende…” “Scusa, sai, ma l’offeso, a essere pignoli, dovrei essere io.” “Perché?” “Mi tratti come una mucca.” “Una mucca?” 113
“Sì, una mucca.” “Ancora con questa storia che ti mungerei!” replicò Pietro, capendo l’antifona “Ti sei fatto antico!” “Meglio antico che sanguetta!” “Ho capito, ne parliamo stasera!” “Se vuoi venire stasera, vieni, ma non per chiedermi soldi.” “Conserva, conserva, tanto sempre a me li devi lasciare!” “Chi lo dice? Se mi passa per la testa, ti escludo dal testamento.” “Non puoi. Male che vada, mi spetta la legittima. La legge è dalla mia parte!” Dopo che Pietro se ne era andato, Riccardo guardò Filippo che dondolò la testa come a dire: “Che ci vuoi fare? Così va il mondo!” “Mio figlio si chiama dammi. É fatto così” lamentò Riccardo “a volermi bene me ne vuole, ma a modo suo. Se gli capita di farmi qualche gentilezza, me la fa pagare a peso d’oro, a tasso di usura. Sennò, hai voglia di crepare! Tiene la coscienza, che è un rubinetto. La sera la chiude e dorme tranquillo, a sonno pieno”. “Non te la prendere, i figli son quasi tutti così.” “Hai detto bene: quasi. Cioè qualcuno, una parte, non tutti. A me è andata male, è capitato lui.” 4) i figli sono solo dei succhiasangue.
“Un blitz della polizia in una casa alloggio di… , comune nella fascia vesuviana, ha portato alla cronaca l’esistenza di un lager, degno di un film horror, dove giacevano trenta ultraottantenni con problemi psichici e disagi fisici, stipati a cinque in anguste e gelide stanze, sprovviste di arredi, porte e infissi alle finestre, abbandonati tra feci e sporcizia, farmaci e disinfettanti scaduti, privi di qualsivoglia assistenza medica e specialistica, terrorizzati da minacce e maltrattamenti. 114
Non è la prima volta che fatti come questo vengono alla luce, né sarà l’ultima. L’abbandono dei vecchi è l’effetto collaterale di un sistema che privilegia il profitto ed elimina gli scarti non più funzionali alla produzione. All’indignazione del momento segue quasi sempre la rassegnazione e l’accettazione silente di una cultura, che ha abolito il conflitto tra il permesso (il Bene) e il proibito (il Male) per porre l’uomo davanti a un bivio: l’essere in grado o meno di esperire certe opportunità, apparentemente alla sua portata, senza alcuna percezione del limite. Archiviata la vergogna della colpa, resta il disagio di non essere all’altezza, di essere inadeguati per la performance che ci viene richiesta; e ci si inaridisce progressivamente. L’empatia (la capacità di compenetrarci nell’altro) è poco, o per nulla, coltivata, ridotti come siamo ad anelli di un ingranaggio che ci chiede di essere sempre più efficaci, sempre più aderenti ad un modello che ci aliena, che ci fa realizzare nella misura in cui siamo capaci di negarci, di non essere più noi stessi, di non sapere più chi siamo. In questa perdita del sé non c’è tempo per dedicarsi all’altro, a chi resta dietro, a chi non è efficiente. La politica, persa nella ricerca di parole vuote, tesa ad incongrue alleanze per accalappiare più voti possibili, appare sempre più lontana dalla concretezza dell’agire e dei problemi, condannando gli ultimi (i vecchi) alle pene dell’inferno; e, con essi, i penultimi (ovvero, i loro familiari).” Riccardo scorse parte dell’articolo, ma non lo terminò. Leggendolo, la rabbia e l’amarezza lo avevano preso; ed ora sentiva solo il bisogno di evadere, non pensare. Accartocciò il quotidiano e lo ripose nel sacchetto dove raccoglieva i rifiuti cartacei. Accarezzò Shade, che nel frattempo gli si era avvicinato miagolando, e uscì, rinchiudendo con più mandate la porta dietro sé. 115
Lungo le scale incontrò Pietro, che gli porse un piccolo vassoio di sfogliate. “Dove stai andando, pà?” “A fare due passi.” “Ti accompagno?” “A che devo questa gentilezza?” “É la prima volta?” “Non accade spesso.” “Ma accade.” “Ti serve qualcosa?” “Sì, ma…” “Lo avrei fatto anche se non mi servisse qualcosa” avrebbe voluto concludere Pietro. Ma Riccardo lo bloccò: “Riprenditi le sfogliate e tornatene da quel bel quadro, che ti aspetta a casa: soldi non te ne do!” “A volte mi chiedo se sono veramente tuo figlio!” “Ed io, fatta salva l’onestà della buon’anima di tua madre, se sono veramente tuo padre!” “Allora siamo pari.” Rimasto solo, Riccardo passeggiò per un po’. Poi si fermò e si sedette su una panchina poco lontana dalla fermata del bus. “Un tempo” pensò “assistere i familiari era un dovere religioso, ma ricadeva soprattutto sulle figlie femmine, in famiglie numerose che potevano distribuirsi più facilmente il carico degli anziani non autosufficienti, specie di quelli più gravi. Oggi le famiglie si limitano a pochi componenti: moglie, marito e uno o due figli, se non a coppie sole senza figli; numerose anche le famiglie unipersonali. La donna, tra l’altro, come l’uomo lavora: non c’è più tempo, e non solo quello cronologico. Stress, ritmi di lavoro, bisogni indotti, week-end e vacanze, sensazioni sempre più marcate di inadeguatezza, culto del corpo, 116
competitivismo esasperato, tutto congiura a far di noi isole, monadi, estranei l’uno all’altro. In tale contesto, il problema dell’assistenza ai vecchi non lo si può più relegare alla sola famiglia: i politici dovrebbero farsene carico, trovare soluzioni”. Gli passò davanti la sua vita da pensionato, a partire da quel lontano 2002: nove anni tutti uguali, scanditi da un tempo senza tempo, perché un tempo senza progetti è un non tempo, un eterno ritorno, piatto, privo di senso, inutile. Sua moglie era morta quattro mesi dopo che lui era andato in pensione e suo figlio, mal sopportando la coabitazione, si era trasferito di lì a poco, lasciandolo solo. “Altro che bastone della vecchiaia” pensò “i figli sono solo dei succhiasangue, una sorta di vampiri cui conficcare un paletto di legno nel cuore, perché riacquistino l’umanità perduta! Del resto, i giovani lo sanno e, da bravi ragionieri del dare ed avere, fanno sempre meno figli”. La solitudine gli pesava: Shade, il suo micio, non poteva riempirgli la vita. Certo gli restavano il piacere che la lettura di un buon libro può dare, qualche bel film che la tv talvolta passava a tarda sera, le chiacchierate con l’amico Filippo, l’amore-odio verso Pietro, la routine della spesa e della cucina, le periodiche visite al cimitero. Sostanzialmente gli mancava il calore che solo una donna può dare. Ne aveva parlato prima con Filippo, che aveva detto di condividere, e poi col parroco, che, però, gli aveva fatto notare che c’è un tempo per tutto e che alla sua età ci sono altre gioie. “Quali?” gli aveva chiesto. E l’altro: “Stai attento, che il Maligno ti deve aver preso di mira!” 117
5) noi siamo della vita, non siamo la vita.
Il cimitero era un luogo che gli dava pace: il verde dei cipressi, contrapposto al bianco delle urne, aveva il potere di rasserenarlo. Veniva colto da una sorta di abbandono, come spesso accade a chi ama la musica classica e si affida al suo ascolto per superare momenti di prostrazione. Ovviamente, ciò valeva nei giorni ordinari e non nei periodi di ricorrenza, quando il cimitero si affollava e la volgarità delle grida e dei pianti si sostituiva al silenzio. Quel mattino si annunciava diverso dal solito, carico di una soffusa allegria. Eppure, il sole era pallido e le nubi minacciavano rovesci; Shade non gli si era avvicinato, miagolando e scodinzolando, come era solito fare Pietro, con la scusa di sapere come stava, gli aveva telefonato per chiedergli di nuovo soldi. Il caffè era venuto fiele causa gommina caffettiera da cambiare. L’unico elemento congruo con il suo gioioso sentire, era lo spettacolo del cadere delle foglie ingiallite, che si andavano cumulando nel cortile, riconciliandolo con la natura. Sceso dal bus, comprò dei fiori di campo e si recò verso l’urna dove riposava la moglie. Con sorpresa notò che una figura di donna era ferma a pregare davanti alla tomba. Non appena si accorse di lui, la donna sobbalzò e si scusò. “Di che?” chiese lui. “Non ho parenti qui” disse lei “e così una volta al mese giro tra queste tombe per pregare e deporre qualche fiore. Mi illudo in tal modo di far visita ai miei morti”. “Non è di qui?” “Sono siciliana.” “Permette?… Mi chiamo Riccardo Asciura e sono il marito della defunta. Voglio dire, il vedovo.” 118
“Sonia Engrasìa. Ma ora è meglio che vada e mi scusi di nuovo.” “Resti…” Sonia restò e divennero amici. Si rividero spesso, finchè la cosa divenne consuetudine programmata. Lei aveva 62 anni e lavorava come commessa in un ipermercato. Il marito le era venuto meno da qualche anno e aveva voluto essere seppellito a Catania, dove avevano una cappella di famiglia. Non aveva figli. Solo un fratello che viveva in Sicilia, sposato e con prole, che faceva il vigile urbano. Ogni Natale lei ritornava a Catania per passare con lui, i nipotini e la cognata, le festività. Alta, magra, il viso solcato da rughe severe, occhi nero carbone, grandi, sorriso aperto, largo, naso diritto, pronunciato, mescolava un che di antico e moderno. Riccardo a poco a poco se ne innamorò. Non eccessivamente colta, ma intelligente e sensibile, lei sembrava incarnare la gioia del vivere. Sempre allegra, pronta a cogliere il lato bello delle cose, la metà piena del bicchiere, che per Riccardo, invece, era sempre mezzo vuoto. “Sei così aperta alla vita, alle sue gioie, che non capisco le tue visite al cimitero” le confessò un giorno, mentre erano seduti su una panchina del parco pubblico. “Noi siamo della vita, non siamo la vita. Sono i morti che ci hanno permesso la vita. Se non fossero morti non ci sarebbe stato spazio sufficiente per noi. Noi della vita siamo solo una parentesi, che chiede di non essere stata aperta invano” “Forse i morti avrebbero desiderato continuare a essere vivi…” ironizzò lui. “Può darsi. Anzi, quasi certamente. Ma, volenti o nolenti, i morti hanno adempiuto al loro compito ed io mi sento di essergli grata. Del resto, prima o poi anche la parentesi che mi trovo a rappresentare si dovrà chiudere; e sarò anch’io dei loro.” 119
“Ti rattrista?” “No, assolutamente!” disse lei e gli prese la mano, stringendola tra le sue. Lui di rimando la baciò sulla guancia. Riccardo, quando ritornò a casa, ripensò molto a quel bacio, casto, ma vero, pieno di promesse di una materialità leggera, priva di forza di gravità. L’amicizia era giunta al termine, sentiva che ora si trattava di altro, di un sentimento più profondo misto a desiderio carnale. Poteva lui alla sua età avere di questi desideri? Pensò a Pietro. Come l’avrebbe presa? E il parroco? Di certo, avrebbe pensato a Sonia come all’incarnazione del Maligno. La stessa defunta non si sarebbe sentita tradita? Solo Filippo l’avrebbe capito. Prese il telefono e lo chiamò. “Pronto?” “Ciao, sono Riccardo.” “Problemi?” “Se mi prometti di non ridere, te lo dico…” “Dimmi…” “Credo di essermi innamorato.” “Per me non è una novità, lo avevo già capito. Non c’era bisogno che me lo dicessi.” “Sì, ma io vorrei farci sesso.” “Mi sembra giusto.” “Alla mia età?” “Perché no?” “Che dirà la gente?” “Al massimo, si farà una risata…” “E Pietro?” “Se ne farà una ragione.”
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6) nel mentre sentiva la vita sfuggirgli, sorrise.
Pietro, quando lo seppe, non la prese bene. “Ma sei impazzito? Alla tua età!” “Già, alla mia età!” “Alla mamma non ci pensi?” “Ci ho pensato.” “Ti rendi conto? La stai tradendo con la prima che incontri.” “Tua madre è morta e io sono solo.” “E quella chi è?… Cosa vuole da te?… I tuoi soldi?” “Ah, ho capito, i soldi… temi la concorrenza.” “Cosa dirà la gente? Che sei un vecchio sporcaccione? Che io sono il figlio di un vecchio sporcaccione?” “Hai sempre detto che non t’importa di quel che la gente pensa…” “Degli altri puoi fregartene solo quando pensi di essere dalla parte della ragione.” “Io credo di essere dalla parte della ragione! É vero che ho una certa età, ma ho ancora sentimenti da esprimere e bisogni che esigono risposte.” “Per quello ci sono le puttane!” “La vecchiaia è un dono, non una colpa. Non puoi condannarmi alla solitudine e a una vita da recluso!” “Hai perso la testa!… Non ragioni!” “Non sono mai stato così lucido.” “Tu alla mamma non hai mai voluto bene!” gridò Pietro, prendendosi il soprabito e andando via. “Non è vero che io alla mamma non ho mai voluto bene” disse tra sé Riccardo “ma la vita continua e poi non l’ho cercata io l’occasione, è venuta da sola. Il mio è un sentimento che viene da dentro, perché soffocarlo? A chi faccio del male?” Quella sera ne parlò con Sonia, confessandole di amarla e di voler vivere con lei sotto lo stesso tetto. 121
“Anch’io provo per te lo stesso sentimento e anch’io come te mi sono interrogata.” “Cosa ti sei risposta?” “Che oggettivamente non facciamo male a nessuno. Il che non vuol dire che di fatto non facciamo male a qualcuno. Vedi tuo figlio…” “Gli passerà…” “Ne dovrò parlare comunque con mio fratello e i parenti di mio marito.” “Non siamo minorenni, ma adulti, coscienti e vaccinati.” “Prendiamoci un po’ di tempo.” “Alla nostra…” correggendosi “alla mia età, il tempo scorre in fretta…” “Hai detto bene alla nostra età…” “Allora?” “Non ci pensare e sarà solo il tempo che abbiamo, né più veloce né più lento del tempo degli altri.” “Come vuoi…” assentì lui, ma senza entusiasmo. “Stasera, intanto, se vuoi, puoi venire a casa mia e fermarti fino a tarda notte. Domani è domenica e non lavoro” disse lei. Riccardo quella sera scoprì di aver conservata intatta la sua virilità e di aver ritrovato insperatamente la gioia di vivere che riteneva smarrita per sempre. Sonia era il vulcano, che ardeva sotto la cenere e che aveva eruttato nel momento giusto. Gli vennero in mente le parole di Filippo: “La vecchiaia può venir bene e può venir male. Dipende dai casi!” A lui era venuta bene. Si sentì più buono. Se fosse venuto Pietro a chiedergli soldi, glieli avrebbe dati senza chiedergli a cosa gli servissero. Se gli avessero chiesto di quel ragazzino di tredici anni morto con la pistola giocattolo in pugno, non avrebbe affermato che era un delinquente nato e, soprattutto, ora non temeva più le umiliazioni della vecchiaia. Scopriva che la vecchiaia era un privilegio, 122
perché non tutti possono assaporarla e perché poteva fagli scoprire tante cose, anche di sé, che ignorava. Lo squillo del campanello della porta d’ingresso lo scosse dal letto. Si guardò intorno. Era casa sua. Sonia non c’era. Aveva sognato. Si passò il dorso della mano sugli occhi e si chiese cosa avesse sognato, ovvero cosa di quanto ricordava appartenesse al sogno e quanto alla realtà. La sua mano tra quelle di Sonia era sogno o realtà? E il bacio? Lo scontro con Pietro? La notte di sesso? E Sonia era vera o aveva sognato anche lei? Il campanello squillò di nuovo. “Vengo! Vengo.” Era Pietro. “Ho bisogno di soldi, non me li puoi negare: sono tuo figlio.” “Va bene… va bene… calmati! Fammi almeno svegliare che sto ancora dormendo.” “Non tergiversare, ne ho bisogno e tu sei mio padre!” gridò Pietro, fuori di sé, pallido con gli occhi striati di rosso. “Ti ho detto di calmarti.” “Tu dammi i soldi!” “Quanto ti serve?” chiese Riccardo, avviandosi verso il mobiletto dove aveva riposto i liquidi che aveva ritirato il giorno precedente in banca. “Tutto quello che hai!” “Sei pazzo?” disse Riccardo, girandosi verso di lui. Con orrore scoprì che il giovane, che gli stava di fronte, non era Pietro, ma il “maniaco” che in sogno alcune notti prima lo aveva accusato di essere un “parassita” e anche, questa volta, brandiva il coltello. “Il pazzo sei tu che pretendi non solo di beccarti la pensione a spese di noi giovani, ma, addirittura, di rifarti una famiglia, di fare sesso con un’altra vecchiaccia come te, quasi foste dei ragazzetti che si affacciano alla vita!” e giù il primo fendente, che 123
gli lacerò il pigiama all’altezza del cuore senza però scalfirlo. Un secondo fendente affondò nella carne e il sangue sgorgò vivo ed immediato, mentre la vista gli si appannava e il corpo si afflosciava lentamente sul pavimento. Riverso in un pozza di sangue, Riccardo, mentre sentiva la vita sfuggirgli, sorrise e disse a se stesso: “Ancora quest’incubo! Tra poco mi sveglio e mi faccio una bella risata…” “Prima o poi, però” aggiunse “dovrò decidermi e ricorrere allo psicanalista!”
124
Il club degli scrittori delle parole mancanti
1.
“Il club degli scrittori delle parole mancanti” era lì sullo scaffale del megastore con la sua scarna copertina ocra e un minuscolo schizzo, che riproduceva le “vele” di Scampia, in basso, a destra; al centro della copertina c’era il titolo dell’opera, in alto sempre a destra il nome dell’autore: il mio nome! Accanto altri titoli, importanti come i loro autori. Ancora non ci credevo: ero uno scrittore e la gente mi comprava, il libro era nella hit. Persone che non conoscevo e che non mi conoscevano compravano il mio libro, si cibavano delle mie parole. Una ragazzina stava dicendo all’amichetto che lei il libro lo aveva letto e si era commossa. La sentii aggiungere che si era vergognata di avere, in precedenza, sempre pensato a Scampia come un luogo abitato esclusivamente da malavitosi e gente dappoco. “Io non l’ho letto” aveva risposto lui “e, forse, non lo leggerò. C’è troppa Scampia in giro, se ne scrive troppo: sempre le stesse cose, non ne voglio più sentire!” La stessa lamentela che lì ci sia anche gente per bene, non coinvolta con le cosche, mi ha stufato. É vero o non è vero che in quel quartiere succedono le cose orrende, che si raccontano?… Sì?… Allora, il resto non conta. Per me continua ad essere il supermarket della droga, dove ci si sparano tra loro!” 125
“Se leggessi il libro, capiresti quanto hai torto!” Avrei potuto intervenire, ma non lo feci. Il pensiero che due ragazzi, senza conoscermi, stessero lì a discutere se era o meno il caso di leggere il “mio” libro e si stessero azzuffando per le cose che “io” avevo scritto, mi inorgogliva. L’euforia era troppo forte. Mi dava le ali. Mi sentivo in un limbo, sospeso tra la massa dei comuni mortali, che ben presto nell’arco di una o due generazioni sarebbero stati dimenticati, e quindi morti per la seconda volta, e un’elite di immortali, le cui opere davano loro linfa di vita eterna. Non ero Dante, Petrarca o Manzoni, e nemmeno Svevo o Moravia, né, ovviamente, il mio contemporaneo e conterraneo Roberto Saviano, ma potevo anch’io dare emozioni al di là del puro “esserci”, ignorando le dimensioni spazio-temporali, di cui necessita la gente comune. Quella ragazzina, pur senza avermi mai visto, pur senza mai essere stata “materialmente” in contatto con me, aveva corretto il suo sguardo su Scampia. Erano bastate delle semplici e “disincarnate” parole. E quelle parole erano le “mie”. Le avrebbero lette altri. Anche dopo la mia morte. E, nel momento che le avrebbero lette, io sarei ri-vissuto per ancora mille e mille volte, all’infinito, pur essendo morto. Una sorta di Dracula, di non morto, che però non si ciba del sangue altrui, ma ne dona di proprio, perché scrivere è dare se stessi, far partecipi gli altri di un mondo, il proprio. Certo, mi stavo un po’ montando, ma avevo ben presente il limite: mi era capitato di scrivere un libro, di vedermelo pubblicare, di trovare riscontro nel pubblico. Nulla di più! Forse il libro sarebbe stato presto dimenticato come un qualsiasi oggetto usa e getta, che dopo aver esperito la sua funzione, (a volte senza neanche quello), subito dopo l’uso viene gettato via. 126
E, se il libro fosse stato dimenticato, come probabilmente sarebbe successo, sarei stato dimenticato anch’io, come tanti che nessuno ricorda più. E, da morto, non avrei vissuto più di una o due generazioni successive, perché già non ti ricordano più i nipoti, figurati i pronipoti. 2.
Ma che significa “mi era capitato di scrivere un libro?” Quando ti capita qualcosa, succede “per caso”, senza una tua precisa volontà. Vai a una festa e ti “capita” di incontrare una ragazza. Magari, andando alla festa, speravi di incontrare una ragazza e ti è capitato di incontrare quella ragazza, proprio quella ragazza, perché, viceversa, se “volevi” incontrare quella ragazza e sapevi che lì l’avresti incontrata, “non ti è capitato” di incontrarla: hai fatto in modo di incontrarla; la conoscevi, ti piaceva, la desideravi, hai studiato come fare per avvicinarla e, alla fine, ci sei riuscito. E, infatti, a me non era capitato di scrivere un libro: l’avevo fortemente “voluto”, dopo aver letto miriadi di libri di altri autori e averne assimilato stili, ritmi, contenuti, emozioni, per successivamente rielaborarli fino ad annullarne ogni richiamo ed esprimermi con modalità, che non riecheggiassero, almeno in apparenza, alcuno di quanti mi avevano preceduto e che avevo letto; e non era stato il caso, che mi aveva portato a sedermi ore, e giorni, e mesi, e anni, davanti ad un computer per dare forma ai fantasmi, che mi rodevano, che all’improvviso mi estraniavano dal contesto, dando l’impressione a chi mi era vicino che soffrissi in misura più o meno patologica di una sorta di preoccupante autismo; avevo sentito l’esigenza di scrivere su un argomento che mi premeva e non vedevo trattato a sufficienza, e, 127
provando e riprovando, scrivendo e riscrivendo, avevo cercato l’ispirazione giusta e il modo a me congruo per darle forma. Non mi era capitato: l’avevo fortemente voluto. Ci aveva giocato non poco la consapevolezza delle mie carenze linguistiche, del fatto che spesso mi mancassero le parole per esprimere un concetto. Quante volte avrò detto: “So cosa voglio dire, ma non so come dirlo!” In casa, tra l’altro, si parlava in dialetto e spesso davanti ad un vocabolo restavo interdetto, non sapendo dove collocarlo correttamente. “Mutande”, ad esempio, mi sembrava un termine dialettale, sbagliando. E, così, “pigliare”, sbagliando ancora. Questa difficoltà mi dava la sensazione di essere meno uguale degli altri; in particolare, dei tanti per i quali l’uso della lingua era consuetudine familiare e non dovevano tormentarsi davanti ad un vocabolo, chiedendosi se fosse quello giusto. Ero convinto che solo la lingua ci rende uguali, perché capaci di esprimerci e di intendere. “Scrivere” significava riscattarsi linguisticamente, “vedermi pubblicare” raccogliere i frutti del riscatto. E non mi era nemmeno “capitato” che mi pubblicassero. Anche quello l’avevo fortemente “voluto”. Avevo cominciato con un paio di pubblicazioni periodiche di quartiere e collaborando con dei siti web, ricevendo sovente apprezzamenti. Nel contempo avevo partecipato a tutti i caffè letterari di cui avessi notizia, prendendo spesso la parola. In tali occasioni, avevo incontrato e intessuto relazioni con alcuni autori ed editori. Alcuni miei racconti brevi erano stati inseriti in volumetti antologici di autori esordienti, la cui bassa tiratura sembrava rivolgersi unicamente agli stessi scriventi, che anche se non obbligati, di certo ne avrebbero comprato una o più copie. Difficile trovare in libreria questi volumetti, occorreva richiederli direttamente all’editore. Difficile, pertanto, inorgoglirsi più di tanto. 128
Quando avevo messo su la mia storia e, rileggendola, mi ero reso conto che potevo tentare il salto di qualità, l’avevo proposta in lettura agli amici del club. Dimenticavo di dire che “il club degli scrittori delle parole mancanti” esiste davvero, ma ne parleremo più avanti. Gli amici lessero il manoscritto e dissero che era un buon lavoro, anche se andava un po’ limato. Ci fu chi diede qualche suggerimento sull’aspetto meramente semantico e chi cercò di correggere qualche concetto, non condividendolo. Anche se eravamo amici, non derogavamo mai dalla severità e, comunque, dall’impegno, che ci eravamo dati, di essere sinceri al punto da apparire non di rado crudeli. Avevo bussato a più case editrici, ricevendo rifiuti, e partecipato a diversi concorsi letterari, senza risultare tra i primi, ma non mi ero mai arreso. Una voce di dentro mi diceva che ce l’avrei fatta, che non avevo “scritto” per nulla. Alla fine, dopo tre anni di dolente peregrinare, una piccola casa editrice disse di sì e fu il successo. Anche il successo non era inaspettato; inaspettata ne era la misura, frutto del rumoroso tam tam, che seguì l’uscita del libro: le librerie furono sommerse dalle richieste e le vendite dilagarono come un’onda. Il genere onirico e noir, nel quale era immersa la storia, dovette concorrere non poco. Il contenuto riprendeva tematiche dibattute sulle riviste periodiche di quartiere e sui siti web, ai quali collaboravo; tematiche, che vedevano impegnate anche associazioni e municipalità. Il plot narrativo assumeva la funzione di metafora di un disagio, di cui Scampia era portatrice. 3.
“Nel corso del libro, a un certo punto, se la prende con trasmissioni tipo Il Grande Fratello e L’isola dei Famosi, affer129
mando con tono sminuente che i giovani sono attratti dal successo. Non mi sembra che lei sia diverso, dal momento che ha scelto di fare lo scrittore. Qual è la differenza tra lei e quelli che vanno in tv?” chiese la ragazza. Qualcuno dei presenti al Caffè Letterario, del quale ero ospite, sdegnato rumoreggiò. “Forse il fatto” mi venne spontaneo “che il mio successo, se tale lo si può chiamare, non ha niente dello specifico televisivo!” “Eppure, insisto, tra lei e una velina non c’è differenza: entrambi cercate il successo!…” disse lei. Una signora dall’ultima fila inveì: “Vergogna! Paragonare uno scrittore ad una velina…” Le fecero eco altri presenti: “Vergogna! Vergogna!…” “No… no…” feci, invitandoli a dare spazio ad ogni dissenso. “Lasciamola parlare…” concordò il moderatore. “Lei ha puntato sulla parola, quelli del Grande Fratello sulla capacità o meno di bucare il video, ma l’intento è comune: acquisire notorietà.” “Sono percorsi del tutto differenti…” “E con ciò? Ognuno si batte con le armi che ha. Che uno raggiunga il successo, esercitandosi per ore in una palestra o in una scuola di danza o stando gobbo davanti al computer, che cambia? Il fine è lo stesso!” La platea dissentì, ma non mi sentii di escludere che almeno in parte la ragazza avesse ragione. Che differenza c’era, mi chiesi a notte fonda nel letto, girandomi e rigirandomi, incapace di prendere sonno, tra me e quelli del Grande Fratello o dell’Isola dei Famosi? Anch’io volevo la notorietà. Io attraverso la parola disincarnata, loro attraverso la mediocrità di ciò di cui disponevano: un corpo più o meno palestrato, la volgarità del parlo come mangio, l’incultura di chi si è cibato e si ciba di sola tv. 130
Eppure, continuavo a raccontarmi, ma senza troppa convinzione, che una differenza ci fosse, ci dovesse essere. Io, ad esempio, mi dicevo, non ero interessato alla tv, ad apparire in video. Ma, subito dopo, l’incapacità di gongolare nelle certezze prendeva il sopravvento e si affacciava il dubbio. Infatti, mi chiesi immediatamente cosa avrei fatto, se Fazio mi avesse invitato a “Che tempo che fa?” “Che farei? Direi di no? “ “Non credo proprio!” No… no… non era questa la differenza! Allora cos’era che mi poteva rendere diverso? Loro davano uno spettacolo sguaiato di sé, parlavano alla pancia della gente, solleticavano gli istinti peggiori. Volevano “apparire”. Qui ed ora. Non si interessavano del dopo. Del resto, per loro non c’era un “dopo”, come non c’era un “prima”. Per loro c’era solo il “presente”. Io, invece, volevo “essere”: problematizzavo, cercavo di alzare il livello del discorso, di coinvolgere gli altri in una riflessione che ci migliorasse, che ci portasse a percepire la complessità delle cose. Ecco ora c’ero, la differenza era questa: io non volevo che passasse il mio nome, la mia persona, ma le mie idee, il mio modo di scrivere. Volevo che altri crescessero attraverso le mie parole e le mie storie, e che parimenti la loro risposta, di assenso o dissenso, facesse crescere me in un continuo feedback. Quelle parole e quelle storie, però, erano le mie; ed era ovvio che inevitabilmente, insieme alle mie parole e alle mie storie, passasse anche il mio nome, la mia persona, cui esse erano indissolubilmente legate. La differenza, se differenza c’era, era che quelli del Grande Fratello o dell’Isola dei Famosi miravano ad una notorietà effimera e diretta, io ad una notorietà indiretta, corollario della misura in cui le mie parole e le mie storie fossero state capaci di 131
incidere, una notorietà duratura e anche postuma, che restasse nel tempo, al di là dei miei anni di vita effettiva, resa possibile dal fatto che le parole e le storie di uno scrittore hanno di norma una vita autonoma, che prosegue indipendentemente dall’essere in vita dello stesso autore. 4.
Il giorno dopo ne parlai con i miei amici del “club degli scrittori delle parole mancanti”. Il club, come ho già detto, non era solo il titolo del mio libro, ma anche una realtà viva del quartiere, un gruppo di persone realmente esistenti, di sesso ed età diverse, una sorta di rete, dove si entrava e si usciva liberamente, tenuti insieme dalla comune voglia di scrivere. Ce lo eravamo chiesto più volte come mai tante persone avessero questa “voglia” di scrivere, di raccontare, di mettersi a nudo in un posto come Scampia, noto soprattutto per il degrado, lo spaccio di droga, le guerre di camorra e la folta presenza di un ceto dichiaratamente plebeo. L’ipotesi più plausibile era che la nostra “voglia” fosse la reazione all’invisibilità, cui l’immaginario mediatico condannava una fetta di popolazione del quartiere, della quale ci sentivamo parte, non parlandone, escludendola da qualsiasi narrazione, che riguardasse Scampia. La sola immagine che si dava della zona era quella del degrado, dei drogati che arrivavano anche da altre regioni per rifornirsi di merce, degli spacciatori e delle loro lotte cruente per accaparrarsi le piazze di spaccio, dei rom che sommersi dai rifiuti gli davano fuoco spargendo veleni nell’aria. La conseguenza era che le brave persone di Scampia si sentivano come fantasmi che vagano in cerca di anime buone capaci di dar loro visibilità. 132
Capitava, e capita spesso, che esse, nel confessare la loro residenza, dovessero giustificarsi, spiegare che a Scampia non ci sono solo delinquenti, analfabeti e disoccupati, ma anche persone oneste, che hanno studiato, che lavorano, che esercitano una professione, associazioni culturali che organizzano manifestazioni di un certo livello. Capitava, e capita spesso, che i loro interlocutori restassero perplessi, che si chiedessero chi fosse quell’alieno che si rivolgeva loro, perché se aveva un lavoro e un minimo di cultura, non se ne andasse da Scampia. Capitava, e capita spesso, che le brave persone di Scampia, stanche di doversi giustificare, non dicessero più di abitare a Scampia e che si inventassero una residenza fasulla. Alla domanda “Dove abita?”, rispondevano “Ai Colli Aminei”, “Al Vomero”, “A Fuorigrotta”. Dappertutto, tranne che a Scampia. Aldo aveva scritto del suo circolo ambientalista, evidenziando che Scampia è il quartiere con la più alta percentuale di verde pro capite. Franco aveva raccontato la sua odissea, e quella di altri suoi amici, per ottenere dalle varie amministrazioni locali la riqualificazione della zona, sottolineando le innumerevoli iniziative che smentiscono una realtà “metafora del degrado”. Felice aveva descritto i suoi murales, il cui eco aveva raggiunto anche gli U.S.A. e narrato la “storia” del carnevale in piazza che ogni anno riempie le strade del quartiere, richiamando gente da ogni dove. Alla sua morte, i suoi amici avevano raccolto le mille testimonianze su quanto fosse stato importante per Scampia. Rosario aveva denunciato le peripezie cui si era sottoposta la sua famiglia per far riconoscere l’innocenza di un giovanissimo parente disabile, vittima di camorra, che era stato associato ai malavitosi per il solo fatto di abitare dove abitava e di trovarsi nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Daniele aveva scritto delle bellissime poesie e Giancarlo la storia di una milanese che 133
arriva a Napoli piena di pregiudizi e che prende le parti della città, schierandosi addirittura contro il marito, incattivitosi dopo l’uccisione della figlia per mano di un camorrista. Salvatore, infine, aveva disegnato Susetta Spinola di Scampia, una sorta di pestifera Mafalda, che si muoveva nel quartiere e le cui strisce furoreggiavano su alcuni siti web e pubblicazioni cartacee. Convinti che le masse avessero già una cultura e che necessitassero solo della parola per esprimerla, noi ci sentivamo gli Indiana Jones alla ricerca delle storie sepolte e perdute da riportare alla luce. E qualche piccolo risultato lo avevamo avuto. L’odore dei libri, della carta stampata, aveva conquistato sempre più fasce di residenti. Il Caffè Letterario, che si teneva da alcuni anni a Scampia, sul quale nessuno avrebbe scommesso un centesimo di euro, trovava ad ogni incontro un pubblico sempre più vasto, la Biblioteca del Centro Hurtado vedeva aumentare i lettori e, soprattutto, molti di noi vedevano pubblicate le loro opere che, per di più, trovavano riscontro anche nelle vendite. 5.
Quella mattina mi svegliai con ancora negli occhi le bellissime immagini del sogno che avevo fatto durante la notte. Il mio libro non era mai stato pubblicato. Le cartelle digitate al computer erano ancora lì nello scaffale ed io non sapevo se in futuro le avrei inviate o meno a qualche editore. Non ne avevo il coraggio. Troppi erano stati i no che avevano ferito il mio orgoglio e pregiudicato la mia autostima di scrittore. “Che fare?” mi chiesi, alzandomi e passandomi una mano tra i capelli fuori posto, spettinati dalla pressione sul cuscino. “Le mando, tanto delusione più delusione meno” mi dissi cosa cambia?” 134
Dimenticavo: non solo non era stato pubblicato il mio “capolavoro”, ma non esisteva neppure il “club degli scrittori delle parole mancanti”. Esisteva solo uno scrittore aspirante tale. Uno tra i tanti.
135
Note
1 2 3 4 5
A. Finkielkraut, Un cuore intelligente, Adelphi, Milano 2011. Corsivo dell’autore.
A. Finkielkraut, op. cit., pp. 13-14. Ivi, p. 15.
Cfr. A. Mela, Sociologia delle città, Carocci, Roma 2007.
Cfr., ad esempio, gli interventi dei redattori del giornale Fuga di notizie, gli articoli sul quindicinale on line www.fuoricentroscampia.it, e la seguente bibliografia: Ciro Corona, Daniele Sanzone (a cura di), Scampia Trip. Restare e (r)esistere a Scampia, Ad est dell’equatore, Pollena Trocchia (Na) 2010; Franco Maiello, Passaggio per Scampia, Pironti, Napoli 2009; Id., Lettere da Scampia, Guida, Napoli 2011; Lorenzo Stabile, Dentro le vele. Diario di uno sbirro, Marotta & Cafiero editori, Napoli 2009; Maurizio Braucci, Giovanni Zoppoli (a cura di), Napoli comincia a Scampia, L’ancora del mediterraneo, Napoli 2005; Domenico Pizzuti, Le due Napoli, Giannini editore, Napoli 2011; Stof, Susetta Spinola di Scampia. Oltre Venti anni di satira in periferia, Boopen, Pozzuoli (Na) 2010; Circolo Legambiente “La Gru” di Scampia, L’angolo della gru. Dieci
6
139
anni di storia di un circolo di periferia, edizione non ufficiale, Napoli 2007. Rosario Esposito La Rossa, Al di là della neve, Marotta&Cafiero, Napoli 2007.
Susetta Spinola di Scampia è il personaggio fisso di una serie di strisce e vignette di satira sociopolitica apparse su diverse pubblicazioni cartacee e su alcuni siti web. Nel maggio duemiladieci le sue strisce e vignette più significative sono state raccolte in un libro edito da The Boopen editore col titolo “Susetta Spinola di Scampia. Oltre venti anni di satira di periferia”. 7
Indice
Prefazione
9
Nota dell’autore
13
Prologo (Fantasmi a Scampia)
14
Aldo e i colori di Scampia
19
Bruno e Chiara
Lo strano caso di San Ghetto Martire
15
24
La leggenda della vela che non voleva morire
29
Franco Maiello
35
Il bus che si era messo a volare
52
Susetta Spinola di Scampia al Caffè Letterario del prof.
La cisterna dei misteri
Il benandante del rione Don Guanella
42
60
Caccia allo Scampiese
68
Nezim
81
Il biglietto
92
La vecchia, la ragazza e il manifesto Questioni di fede Il bambino che non aveva mai visto il mare
74
86
94
Natale con i tuoi e Pasqua con chi vuoi
Felice fumava la pipa Generazioni contro
97
100
105
Il club degli scrittori delle parole mancanti
125
Note
139
SCHEDA DI AUTOCERTIFICAZIONE
CARATTERISTICHE Titolo: Scampia: la leggenda della vela che non voleva morire Autore: Salvatore Tofano Formato: 14 x 21 Pagine: 152 Anno: 2011 ISBN: 978-88-88234-95-3 Prezzo: 10,00 €
DIRITTO D’AUTORE Licenza: Creative Commons Percentuale concessa all’autore: 10%. L’autore devolverà il suo compenso al Gridas e al Circolo Legambiente “La Gru” PRODUZIONE Tipografia: Zaccaria SRL (Napoli) Carta: Riciclata Revive Natural 100 grammi Lavoratori: 11 Temi di realizzazione: 5 mesi Costi di realizzazione: 1750 € Software utilizzati: Photoshop, QuarkXPress, Word
REPERIBILITÀ Bibilioteca: Biblioteca Popolare per ragazzi di Scampia Rete: www.marottaecafiero.it
POST-PRODUZIONE Utile: Gestito in modo responsabile con finanza etica Progetti: Il 10% del prezzo di copertina sarà utilizzato per la costruzione di Centri Infanzia a Quihà Makallè in Etiopia
Finito di stampare nel mese di novembre 2011 da Arti Grafiche Zaccaria