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Se comprendere è impossibile Conoscere è necessario

Scuola Secondaria di 1° “G.Pascoli San Donato di Lecce Classi 1 A B C 12 febbraio 2016

Un chiodo di garofano a Santa Maria al bagno IMMAGINI EMOZIONI SENTIMENTI Abbiamo incontrato Joshua, il protagonista in differenti momenti della sua giovane vita e, grazie alla narrativa ricca e a volte onirica di Andrea Salvatici, ci siamo immersi ora nell’abbagliante luce di Santa Maria al bagno, terra madre che accoglie e consola, ora nell’angoscioso bosco sospeso tra realtà e sogno ed infine nel buio tetro e nero del lager che morde le carni e l’anima. Abbiamo provato a dar forma ai nostri sentimenti e ai nostri stati d’animo con penne e pastelli, abbiamo immaginato di essere un ragazzo ebreo in quei tre particolari ambienti, dando forma verbale e iconica a quei frammenti di vita.

LA VISITA AL MUSEO DELL’ACCOGLIENZA Il percorso didattico si è arricchito con la visita al Museo della Memoria e dell’Accoglienza di Santa Maria al Bagno, testimonianza di una terra che, se pur povera ha saputo abbracciare i più sfortunati e perseguitati e ancora adesso accoglie i profughi senza più terra e famiglia.



HO TROPPA PAURA DI NON SVEGLIARMI PIÙ Vivere nel lager è come vivere in un incubo, buio e sporco, buio come il cuore di Adolf Hitler. Tutto sembra irreale. Gli uomini come zombie si muovono avanti e indietro sorvegliati da soldati che non esitano a sparargli addosso al minimo errore. Io mi guardo attorno, sono impaurito e penso:

stessimo facendo penitenza. Poi arriva la sera e l’ora di entrare nelle baracche, dove per dormire siamo tutti ammassati uno addosso all' altro, come in una scatola di sardine; anche l’odore è terribile, tanto che non riesco a respirare e se mi guardo è ancora peggio. L’orrore che mi circonda non mi lascia prendere sonno: ho troppa paura di non svegliarmi più.

- Che cosa ho fatto? Perché sono qui? Perché tutti questi uomini sono qui? -

Matteo Blè

È come se avessimo commesso un peccato gravissimo, come se fossimo colpevoli di tutto e adesso, come in un brutto gioco,

"il mio nome è diventato un numero “

NIKE Io sono Nike, ho 13 anni e sono Ebreo e per questo sono stato chiuso in un campo di concentramento. Appena sono entrato mi hanno tatuato un numero sul braccio e mi hanno rasato i capelli. Avevo paura perché ero lontano dalla mia famiglia. Mi sentivo solo e non ero abituato a quel modo di vivere perché ero arrivato a bordo di un treno merci pochi giorni fa. Avevo fame e sete e assomigliavo a un bastoncino di legno. Vivevo in una baracca fredda e scura come una camera buia. Indossavo un pigiama di tela con le righe bianche e nere; assomigliavano a delle sbarre di una galera. Vedevo i miei compagni che soffrivano per la fame; mi lavavo nelle docce con acqua gelida. Nel campo di concentramento c’erano i forni crematori dove venivano bruciati i corpi degli uomini che non valevano. Ho provato paura e mi chiedevo se da quell' incubo me ne sarei liberato presto. Alessandro Martina

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I MIEI OCCHI VERDI DIVENTANO UN ENORME BUCO VUOTO Mi chiamo Martina. sono nata durante la seconda guerra mondiale, e così come tutti i bambini della mia età sono stata rinchiusa in un lager. Appena arrivata è stata fatta una "selezione": da una parte c'erano le persone abili al lavoro e dall'altra coloro da inviare direttamente alle camere a gas, effettuata dal personale medico tedesco. Successivamente ci viene tatuato sul nostro braccio sinistro il numero di matricola con cui veniamo chiamati. tutti i diritti ci sono stati strappati via, proprio come le nostre famiglie. Passiamo la notte in baracche dove veniamo costretti a dormire in tre-quattro "letti" per ogni pagliericcio disponibile. Gli unici pensieri che mi tormentano costantemente sono il fatto di poter morire da un giorno all' altro e la fame che mi assale. I capelli non li ho più, il mio nome è diventato un numero. Sento uno sparo, ho paura come se un artiglio mi stesse strappando la carne, i miei occhi verdi diventano un enorme buco vuoto. Vado a vedere cosa succede e vedo mia madre stesa a terra e introno a lei si è formato un piccolo lago rosso di sangue. Mi si spezza il cuore, ho paura, sono disperata, mi metto a piangere. È il 27 gennaio 1945, degli angeli spezzano il filo spinato e noi corriamo via senza meta. Abbiamo di nuovo la libertà. Martina Signore


PAOLA

NABUK Sono Nabuk, sono ebrea ora ho 12 anni, all’ epoca nazista ne avevo 6. Avevo smesso di andare a scuola, i miei genitori erano stai licenziati non sapevo perché, ma non volevano dirmelo forse perché non volevano farmi spaventare.

Un giorno ero con una mia amica in giro per il paese, si era fatta sera e, mentre stavamo tornando a casa vediamo arrivare una macchina di soldati tedeschi, subito ci siamo nascoste per evitare che ci vedessero. I soldati erano entrati in una abitazione e approfittando del momento siamo scappate di corsa a casa.

Paola come tutte le mattine si sveglia. Ha vertigini. Sono giorni ormai che non mangia. Si nutre di qualche seme o bacca trovate qua e là. Sente un gran freddo. La divisa a righe con la stella gialla è di tessuto troppo leggero, per questo non riesce a difenderla dal gelo. Piange. Pensa con nostalgia ai tempi passati e quando il mondo era “a colori”, quando la natura era bella e poteva giocare libera. Da lontano, dietro ad una finestra vede la sua mamma, la saluta con la manina, ma ha il triste presentimento che non potrà più riabbracciarla. Si incammina con gli altri bambini. Nessuno ha la forza per parlare. Si mette a lavoro: deve pulire pavimenti delle camere a gas! Non ce la fa proprio più. Sviene e nessuna l’aiuta. Si sveglia dopo ore. È sul pavimento, al freddo là dove era svenuta. La giornata trascorre così, tra lavoro faticoso, pianti, tristezza. Arriva la sera. Finalmente può stendersi nella sua cuccetta di legno. Si augura di morire. Christian Serafino

Il giorno dopo i tedeschi arrivarono a casa nostra, muniti di fucili minacciando papà di spararci se non li avessimo seguiti, dopo ci hanno portati su un treno insieme ad altra gente e lasciati li per quattro giorni senza mangiare e bere. Arrivati nel campo di concentramento hanno diviso gli uomini dalle donne, subito dopo ci hanno rasato i capelli e tatuato un numero, dopo ci hanno condotto “nelle nostre camere”. Si è fatta notte nel mio lettino ero al freddo e al buio, mentre per terra strisciava una piccola chiocciolina di nome Rose, mi sentivo sola, avevo paura, terrore, angoscia, piangevo sognavo la mia famiglia e che un giorno sarei tornata a casa con loro e questo incubo che stavo passando era solo frutto della mia immaginazione ma non era così, non volevo ammettere che i miei genitori non c’erano più. Il giorno dopo quando siamo usciti nei campi a lavorare, mi hanno spostato in una zona a nord della nostra “camera “e vicino al fosso c’erano tanti corpi morti, era stata la cosa più brutta della mia vita, è stato orribile ero, terrorizzata dall‘ idea che potesse toccare a me. È passato un mese da quando sto qua dentro, ma all’improvviso sento dei rumori di carri armati che abbattono le porte del campo di concentramento e finalmente ci portano fuori di li, finalmente liberi Francesca Bellucci

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Dispersa in un buco di nostalgia…..

Il mio nome è Amanda, ho 15 anni e sono Ebrea e per questo sono stata chiusa in un campo di concentramento, lontana dalla mia famiglia. Appena entrata mi hanno tatuato un numero sul braccio e rasato i capelli. Avevo molta paura e solo il pensiero che ero stata separata dai miei genitori, mi faceva stare male. Lì ero sola come un cane in gabbia. Visto che ero lì da pochi giorni, non ero abituata a quel modo di vita; avevo fame e sete. Ero secca come un fiore senza acqua. Mi facevano lavorare senza sosta e facevo fatica perché le mie braccia erano ormai sottili, a causa della fame. Ero terrorizzata e mi chiedevo se da lì ne sarei uscita viva, avevo bisogno dei miei genitori, lo sapevo che non li avrei più rivisti. Piangevo tutti i giorni con la speranza di rivederli. Fu tutto inutile. Le guardie, se io e gli altri bambini non lavoravamo per diverse ore, ci frustavano e noi avevamo strisce rosse dietro la schiena. La sera quando andavamo a letto, dormivamo in tre e non era molto bello. Indossavamo abiti a strisce, in modo da individuarci nei momenti di fuga. Lì dentro, vedevo persone che morivano ogni giorno, chi nelle camere a gas, chi nei forni e chi per la fame. Io sapevo che prima o poi sarei finita o nei forni o nelle camere a gas. Provavo in quei momenti angoscia perché non avevo amici, solo bambini che mi facevano lavorare il doppio. Io tutti i giorni ero esausta; ma un giorno una bambina di nome Finn davanti a questi ragazzi, mi difese, visto che io ero molto timida. Diventammo amiche e fino a poco tempo fa non ci eravamo mai separate. Lei per me era davvero un’amica molto speciale. Aveva la mia stessa età; all’inizio non trovavo il coraggio di parlarle, perché non mi fidavo più di tanto; ma quel giorno, con una voce sottile le dissi: -" Grazie"-. Ogni mattina lavoravamo insieme, finché un giorno, la chiamarono e le ordinarono di andare a pulire le camere. Da quel giorno, non l'ho più rivista; pensavo che prima o poi tornasse, ma quel che pensavo, si trasformava tutto in un sogno.

Mi sentivo come dispersa in un buco di profonda nostalgia. Ero davvero sola ora. Però nel 1945, i campi furono liberati e io ero lì pronta a rivedere la mia che, per miracolo, era lì ad aspettarmi. Francesca Rollo Ho 11 anni. Sono una bambina di nome Arianna e sono ebrea e per questo sono stata strappata via dalla mia famiglia e rinchiusa in un campo di concentramento. Appena entrata mi hanno rasato i capelli e tatuato un numero sul braccio. Non ho più un nome, vengo chiamata solo con il numero. Soffro la fame e la sete e le notti sono fredde e buie. Ogni giorno il camino fuma, io non capivo il perché, ma un signore mi ha spiegato che lì dentro bruciano le persone. Sono sorpresa e penso, con orrore, se succederà anche a me o ai miei genitori. Qui la vita è molto difficile ma io continuo sempre a sperare di uscire..... Arianna Tondi

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UN CALDO ABBRACCIO Io mi chiamo Alessandra e purtroppo sono ebrea. Proprio per questo motivo mi trovo in un campo di concentramento. Ricordo ancora quando due mesi fa i tedeschi hanno fatto irruzione a casa mia e hanno buttato fuori me e la mia famiglia. Fortunatamente non mi hanno separata nè dal mio fratellino Francesco, nè dalla mia mamma, Annalisa. Sfortunatamente dal mio papà sì. Io e Francesco piangevamo in continuazione e io sentivo dentro di me che il mio cuore si era spezzato in due. Non riesco a esprimere il dolore che stavo provando, ma era come se una parte di me se ne fosse andata. Quando sono entrata nel campo di concentramento, mi hanno tolto i vestiti e fatto indossare una tuta che assomigliava ad un pigiama. Subito dopo mi hanno tatuato un numero dicendomi che gli ebrei non avevano diritto al nome. La parte più imbarazzante è stata quando mi hanno rasata, e in quel momento non ho più saputo resistere e sono scoppiata a piangere. Avevo molta paura di stare lì dentro e poi non avevo più notizie di mio padre. Tutti avevamo un compito: io

aiutavo mia madre nel costruire ciò che ci ordinavamo i tedeschi. I più piccoli li uccidevano subito, invece, mio fratello lo hanno risparmiato. Il suo compito era quello di pulire le scarpe del soldato. La mia cuccetta era immersa nel buio totale e faceva molto freddo. In questo momento ho molta fame, perché sono due mesi che non mangio e sono sporca dalla testa ai piedi. Oggi stavo lavorando con molto impegno, solo che mi faceva male il polso e quindi mi sono permessa di fare una pausa, e il soldato mi ha accarezzata in faccia con il suo frustino di cuoio. Io avevo appena fatto amicizia con Anna, una ragazza ebrea arrivata nel campo da poco, quando invece, i soldati l' hanno presa e portata nei forni crematori. Da quei forni usciva fumo e tanta polvere. Io dentro di me ero terrorizzata, ma non mi scendeva nemmeno una lacrima, perché sapevo che prima o poi, saremmo morti tutti. Qualche anno dopo, finalmente nel 1945 ci hanno liberati e avevo il cuore in gola che mi batteva forte come un tamburo. La gente corre nella speranza di trovare i propri cari, anche noi ci siamo messi a correre con il cuore pieno di speranza e con gli occhi pieni di lacrime. Cercavamo papà con molta ansia e alla fine lo abbiamo ritrovato, anche se da lontano quegli uomini rasati sembravano tutti uguali. Tutti e quattro insieme ci siamo messi a correre per trovare un rifugio. Ci siamo accostati in un bosco dove c’era una piccola casetta . Il bosco era pieno di

alberi alti con una folta chioma e a terra vi erano numerose foglie di vari colori: arancioni, gialle, marroni... Noi abbiamo bussato in quella casetta per assicuraci che non ci fosse nessuno. Un' anziana signora ci aprì la porta e ci invitò ad entrare. C’era un tavolo molto piccolo con su sei panini deliziosi. La vecchietta provando compassione per noi che non mangiavamo da tempo, ce ne regalò quattro. A me vennero i crampi allo stomaco, mentre Francesco vomitò, ciò perché non eravamo abituati a mangiare. Pian piano ci avviammo verso la nostra vecchia casa che era ormai distrutta. Stanchi ma felici cominciammo a risistemare le poche cose rimaste come meglio potevamo, finché non arrivò la sera e andammo a dormire nel vecchio letto di mamma e papà tutti insieme in un caldo abbraccio. Alessandra Catalano

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HO PAURA Improvvisamente mi ritrovo in luogo nuovo, dove ci sono uomini in divisa che urlano e usano le armi non solo contro gli adulti ma anche contro noi ragazzi. Tutto il giorno si lavora percorrendo lunghi viali coperti di neve. L'aria è irrespirabile. Fa un gran freddo e il braccio mi fa ancora male, il numero inciso è tutto rosso. Sono triste perché la mia famiglia non è con me. Vedo mio padre solo la sera quando andiamo a dormire in una grande capanna. Non siamo soli, con noi ci sono tante altre persone. I miei capelli sono stati rasati e ormai mangio pochissimo. Ascolto i racconti dei grandi che ci dicono che qui si muore o nelle camere a gas o nei forni. HO PAURA! Matteo Coroneo

LA STANZA DEL NON RITORNO La stanza in cui dormo è quasi completamente buia, fredda e umida, come una giornata nebbiosa; solo la lampadina vicino alla mia cuccia illumina gli oggetti intorno ad essa.

Ho tanta paura che, da un momento all’ altro, qualcuno entri da quella porta blindata per condurmi nella “stanza del non ritorno”. Giulia Circhetta

Il mio “letto” è una struttura rovinata, in legno. È freddo: mi ricorda quando, in inverno, nevicava e mi stendevo sulla neve ghiacciata, guardando il cielo, grigio come la malinconia che provo mentre guardo questa stanza buia, come la notte. Mi sento sola come un cane abbandonato, pur essendo circondata da tante persone. Il mio desiderio più grande, in questo momento, è che questo inferno finisca e che io possa finalmente tornare ad abbracciare la mia famiglia.

La stanza del non ritorno

IMMAGINI DI GUERRA E TERRORE Non ho più il diritto al nome, vengo chiamata con un numero,17809,la sofferenza che provo appena sveglia è inspiegabile, la voglia di tornare a vivere come prima e soprattutto con la speranza di mangiare. Tutti i giorni vedo persone maltrattate che, molto spesso, per la disperazione corrono verso il filo spinato, per porre fine a questa vita di torture. Intravedo del fumo nero uscire dai forni crematori e dell' "acqua "evaporare dalle docce. I tedeschi ordinano ai prigionieri di fare una doccia, ma, al posto dell’acqua fuoriesce un gas nocivo e da là si esce solo da morti. A volte mi sforzo di pensare se c’è una minima possibilità di poter uscire da questo posto, cerco di intravedere una vita per gli ebrei, poter giocare, essere liberi, avere diritti...cerco di non illudermi troppo ma al solo pensiero inizio a piangere. La mia vita ora mai era piena di immagini di guerra e terrore. Andrea Ascanio

MI RASARONO Mi rasarono, mi misero un numero al posto del nome e mi portarono in una stanza dove c’erano tantissimi bambini e donne.

Insieme a me, nel pagliericcio, c’erano altri due bambini perché si dormiva in tre. Un giorno i bambini che dormivano con me vennero uccisi nelle docce e io, per paura, mi nascosi in una stanza grigia, buia e scura. Volevano uccidere anche me, ma era ormai troppo tardi: si era fatto buio, era notte profonda e per questo non ci uccisero più. Nel campo di concentramento ero molto triste e sola, ero agitata e in ansia per i miei genitori .

Marina Buttazzo

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"dolore che stringe lo stomaco e soffoca il cuore."

LOLA GIOCA A PALLA Lola gioca a palla con la sua migliore Amica Flora.

re da suo nonno e da suo padre. Lola è pronta ma Flora no, cerca una via d’ usci-

È una giornata primaverile, il sole è alto nel

ta ma è paralizzata dalla paura. Gli uomini ar-

cielo e con i suoi raggi regala tepore. Il cancello

mati ordinano ai bambini di scendere dal ca-

si apre all’ improvviso e due soldati armati, con

mion e vengono formate due file: una per i ma-

un accento aspro e brusco fanno cadere la palla

schi e l’altra con le femmine e i bambini. Flora e

dalle mani di Lola, afferrano con forza le due

Lola entrano in una stanza illuminata da una

bambine e le caricano su un camion pieno di

lampada, che invece di scaldare il cuore le acce-

altri bambini ebrei.

ca e le gela. Devono togliersi i vestiti e indossare

Lola è preoccupata ma non lo lascia vedere, incoraggia Flora che in preda al panico singhiozza, piange disperatamente e trema.

un pigiama a righe. I lunghi riccioli neri di Flora vengono tagliati dalla mano brusca di un barbiere maldestro; assieme ai suoi capelli cadono giù anche sul pavimento anche le sue lacrime.

Si è fatta notte, intanto, e i bambini hanno fame

La stessa fine fanno i capelli e le lacrime di Lola.

e rabbrividiscono dal freddo ma non c’è nessuno

Non ci sono specchi; le due ragazze si guardano

che li ascolta: sono soli come orfani senza i loro

e ognuna di loro si vede nei tristi dell’altra.

cari che sono chissà dove.

In questo momento per le due ragazze è la fine

Il camion si ferma: le porte di un cancello enor-

del tempo dei giochi e dell’allegria ed inizia il

me e nero come la notte si aprono lentamente; a

tempo del terrore, della solitudine, del pianto,

Flora sembrano le fauci di un enorme drago che

del dolore che stringe lo stomaco e soffoca il

sta per inghiottirli. Le mura alte e il fitto filo

cuore.

spinato che circonda il grandissimo campo le fanno capire che si tratta di un orribile campo di

Alexandra Calò Ricci

prigionia per gli ebrei di cui aveva sentito parla-

LA FAME Vivere in un lager è come vivere in un incubo ,vivere in un ambiente buio sentendo ogni giorno i rumori degli spari e soprattutto vivere con la paura di morire di fame . La paura di andare a dormire senza più svegliarsi e trovarsi a terra senza vita . Gli unici sentimenti che potrei provare sono paura , ansia e disprezzo.

Sabrina De Nardo

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Io sono un'ebrea.

Mi chiamo Chana, ho 11 anni e sono orfana.

Di solito giocavamo con una ruota di carro e la facevamo camminare con un bastone.

Un giorno papà è partito. La mia famiglia è morta: mio padre l' hanno sparato alla gamba in guerra, mia Io ho pensato che stesse andando in guerra, perché ho avuto le stesse sensamadre invece aveva una malattia. zioni di tristezza, cioè la paura di perdeIl giorno che sono sbarcata a Santa Ma- re di nuovo le persone che amavo. ria al Bagno ed ero vicino al porto si è avvicinata una famiglia e mi ha chiesto: Per fortuna nostra madre ci ha detto: -Chi sei? Da dove vieni? Io ho detto: -Sono ebrea. E mi hanno chiesto: -Sei sola? Io gli ho risposto: -Si sono sola. Poi mi hanno chiesto:

-State tranquille papà tornerà tra qualche giorno.

-Vuoi venire con noi?

Lui ci rispondeva.

-Si.

Dopo un mese papà tornò da noi ed eravamo felicissime, perché non era come io pensavo.

Mentre camminavo con loro mi sono chiesta se potevo fidarmi, perché io ero scappata da un paese che è sempre in guerra e uccide le persone, quindi avevo paura, però mi hanno dato l' impressione di una brava famiglia. Erano mamma papà e figlia. Quando siamo arrivati a casa la figlia, che si chiamava Beatrice, mi ha fatto vedere la casa, erano tre stanze: la camera da letto, la cucina e il bagno. Loro da quel momento mi consideravano come una figlia ed io li consideravo come genitori. Mia madre ci insegnava a cucinare, a lavare, a cucire e a tessere con i ferri. Dopo che finivamo il lavoro, giocavamo un po', a volte a campana nel cortile.

Noi un po' ci rassicurammo, ma non del tutto. Lui partì, ma comunque eravamo spaventate. Noi ogni giorno gli spedivamo una lettera.

Concludo dicendo che sono stata fortunata a trovare delle persone che mi hanno dato di nuovo una famiglia e ne sono molto molto grata.

REBECCA CONTE


Mi chiamo Giona e sono nato in Polonia da genitori ebrei.

Ho trascorso la mia infanzia in un ridente paesino ed avevo tanti amici sia polacchi che ebrei. Nel 1939 ero solo un bambino di 10 anni quando scoppiò la guerra e nel nostro paese arrivarono delle persone in uniforme grigia, capii presto che si trattava di soldati tedeschi. Mamma e papà e tutti gli altri amici ebrei ogni volta che uscivano dovevano mettere la giacca dove era cucita una stella ed io pensavo che tutti ci considerassero speciali come le stelle del cielo, ma mi sbagliavo. Presto tutti i miei amici ebrei furono costretti a trasferirsi in un quartiere del paese detto ghetto. Io ed i miei genitori invece rimanemmo nella nostra casa perché mamma era una sarta ed i soldati tedeschi la lasciarono continuare a lavorare a patto che cucisse anche le loro divise.

Il pomeriggio raggiungevo la spiaggia, il richiamo del mare diventava sempre più forte, sapevo che il mare mi avrebbe regalato la mia totale libertà. Era una sensazione strana per me: avevo trovato qualcosa che, nonostante fino a poco tempo fa mi fosse sconosciuta, sembrava conoscere ciò di cui avevo bisogno, riusciva a dare risposta alle mie domande, mi regalava il volto di papà riflesso sulla sua superficie, mi dava gioia e soprattutto non mi domandava nulla, non voleva nulla in cambio.

Prima di rientrare a casa mi fermavo a pregare in sinagoga e ci trovavo quasi sempre anche mia madre, mi faceva un cenno con la testa, un piccolo sorriso compiaciuto, ed io la raggiungevo. Pregavamo insieme; lei chiedeva che quella terra fosse solo di passaggio nell’attesa di poter raggiungere la Palestina, io invece chiedevo che la serenità che iniziavo a sentire non avesse fine. Sapevo bene che le nostre radici erano nella terra promessa, era La vita per noi diventava sempre più difficile, a me non era permesso nep- una storia ripetutami dai miei genitori fin dalla nascita, ma io pensavo che pure andare a scuola, mi sentivo solo; i miei amici ebrei ormai erano lonta- le radici servono a dare stabilità alla pianta, anche ai rami più alti che sono ni ed i miei vecchi amici polacchi erano cambiati con me, mi evitavano, mi così lontani da esse, le radici vogliono che i frutti stiano bene anche se distanti. Ed io a Santa Maria al Bagno ormai stavo bene. Finalmente dopo un tenevano alla larga. periodo d’inferno avevo ritrovato la gioia. Nel 1941 papà venne a sapere che i nostri parenti venivano portati via dal ghetto con dei carri, uscì di casa la sera per cercare di mettere in salvo la Un pomeriggio in spiaggia incontrai Antonio, un pescatore che riparava le famiglia di sua sorella ma purtroppo non fece più ritorno perché i soldati lo sue reti prima di rimettersi in mare. Rimasi immobile, in silenzio osservai incantato le sue mani che si muovevano sapientemente, le sue dita sembratrovarono nel ghetto e non ebbero pietà di lui. vano danzare sinuose intorno a quei fili. Ad un tratto lo sguardo di Antonio Quella stessa sera mamma capì che il suo lavoro da sarta non sarebbe più incrociò il mio, fu un attimo lunghissimo che non dimenticherò mai, rividi bastato a metterci in salvo e così decise che dovevano scappare. in quegli occhi lo sguardo di mio padre. Mi avvicinai a lui, gli feci tante Quella notte ci nascondemmo nel porcile di una vecchia signora che era domande e lui con pazienza e gentilezza rispose a tutto. Da quel giorno lo rimasta amica di mia madre. Mamma le diede tutti i suoi risparmi e in andai a trovare sempre, mi piaceva ascoltare i suoi racconti sul mare, il pochi giorni la signora ci procurò dei documenti falsi grazie ai quali potem- tempo in sua compagnia passava in fretta e spesso mia madre preoccupata mi veniva a cercare. mo raggiungere Varsavia, dove fummo ospitati da sua figlia. Passavano i giorni e mamma iniziava a capire che ancora non era semplice viaggiare verso la Palestina, gli inglesi, seppur gentili con noi nel campo, non sembravano favorevoli ad un ritorno degli ebrei in Terra Santa. Ma le preoccupazioni di mamma non erano le mie. Io ormai avevo appreso tutto ciò che potevo sul mare, Antonio mi portava con lui in barca e questo mi faceva sentire libero e felice, il mare e le sue onde mi regalavano emozioni indescrivibili e l’onda più bella me l’aveva donata sempre Antonio: sua In due anni di lavoro mamma riuscì a mettere da parte i soldi necessari per figlia Sara. Pensavo fosse una semplice compagna di giochi e di racconti, scappare di nuovo. Riuscimmo a raggiungere l’Italia da cui provenivano ma si è trasformata poi nella mia compagna di vita. notizie di speranza. Arrivò il 1947. Il nostro campo, il n°34, stava per chiudere. Quasi tutti laOltre le Alpi trovammo l’aiuto dei partigiani, furono loro a mandarci nel sciarono, seppur a malincuore, Santa Maria al Bagno. Io e mamma invece sud della penisola, a Santa Maria al Bagno. non riuscimmo a lasciar la terra che ci aveva ridato la nostra dignità. Restammo a Santa Maria al Bagno. Mamma era riuscita a trovare una casa in Appena arrivati dei soldati inglesi ci accompagnarono in quella che sarebbe affitto ed un lavoro come camiciaia nella vicina Nardò. Io non mi separai stata la nostra dimora. Avevo 14 anni e per la prima volta vedevo il mare. mai dal mare, diventai un bravo pescatore e nel 1950 sposai Sara. Un enorme distesa blu che i primi giorni fissavo ininterrottamente, l’andirivieni delle onde cullava i miei ricordi e lavava i pensieri più brutti. Il sacrificio di mio padre, quelli di mia madre non sono stati vani! Oggi racconto la mia storia ai miei nipoti e ai miei bisnipoti perché nessuno Mi trovavo ancora una volta in una città sconosciuta e mi chiedevo se il mio dimentichi il male che ci è stato fatto ma al tempo stesso capisca che nepdestino sarebbe stato sempre quello di fuggire e di nascondermi. La mampure la sofferenza può far appassire il fiore della speranza. ma mi diceva che presto tutto sarebbe finito, che dovevamo avere pazienza. Mamma anche lì lavorava come sarta ed io grazie al mio documento falso ripresi ad andare a scuola. Ma comunque non ci sentivamo sicuri, ogni giorno ci giungevano notizie di ciò che succedeva nei campi di concentramento. A volte la paura mi assaliva, temevo che la gente intorno a noi potesse capire le nostre vere radici e potesse denunciarci; la notte tremavo e piangendo ripensavo a mio padre, mi mancava.

Il primo periodo non fu facile inserirsi in quella nuova realtà; c’erano tante persone nelle nostre stesse condizioni, alcuni di loro avevano un passato ancora più difficile del mio, ma c’erano anche le persone del posto che ci guardavano come se avessimo rubato loro qualcosa. Io odiavo sentirmi gli occhi addosso, desideravo solo recuperare la mia serenità, giocare allegramente come non succedeva da anni. Pian piano però la gente iniziò a non vederci più come degli estranei e ogni giorno di più dimostrarono la loro fiducia nei nostri riguardi. Iniziai a frequentare la scuola insieme agli altri bambini. Ogni giorno ne arrivavano di nuovi, tutti ormai venivano accolti calorosamente ed io tornavo finalmente ad avere degli amici con cui giocare, parlare, condividere sogni e speranze.

LUIGI DELLO RUSSO – 1°A


LORENZO

Matteo In un brutto lunedì di febbraio è arrivato a Santa Maria al Bagno un bambino di nome Matteo salvato per miracolo da un soldato inglese. Era stremato e affamato, aveva in mano la foto della sua famiglia e chiedeva al soldato di rintracciare la sua piccola sorellina che era insieme a lui e che non riusciva più a trovare. I suoi genitori, invece, non li vedeva più da tanto tempo, da quando li avevano separati nel campo di concentramento. Il giovane soldato fece di tutto per rintracciare la piccola sorellina di Matteo per farli tornare insieme; proprio lui che era sposato da tanti anni e non riusciva ad avere figli, si era affezionato a quel bambino così indifeso e così impaurito, tanto che lo portò a casa sua per sfamarlo e ripulirlo. Il giorno dopo riuscirono a rintracciare la sorellina nel campo di accoglienza e riunire i due fratelli. Insieme riuscirono ad ambientarsi in quel luogo e furono adottati dal soldato.

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Quando i soldati inglesi mi portarono a Santa Maria al Bagno, capì ormai che ero salvo da tutti quei nazisti che mi avevano catturato mentre giocavo con i miei amici in strada: era una giornata come tutte le altre, giocavo a calcio con miei amici, quando da una macchina nera scesero degli uomini incappucciati e armati che ci catturarono e ci portarono in stazione dove c’erano il resto delle famiglie, compresa la mia. Io ero piccolo e non capivo la gravità della situazione, i miei mi dissero che erano brave persone che ci avrebbero portato in un bellissimo posto, e io ci credetti. Salimmo nel treno e per arrivare nel posto dei miei sogni (che diventò il posto dei miei incubi) ci mettemmo un po’….. quando arrivammo era tutto ricoperto di neve e faceva molto freddo, i soldati nazisti ci presero per metterci il cartellino con il simbolo ebreo e il numero, perché per loro non avevamo nome. Ci divisero in due gruppi, quello dei maschi e quello delle femmine (di ogni età). In poco tempo tutti perdemmo molti chili, perché ci davano un misero pezzo di pane e un bicchiere di acqua al giorno ; io cominciai ad avere nostalgia di mia madre, così un giorno riuscii a vederla … era molto magra del resto come tutti, mi disse che stava bene ed io ero molto felice... dopo qualche giorno persi sue notizie e una persona mi disse che era morta... io non parlai con nessuno per mesi fino a quando i soldati inglesi insieme a quelli italiani fecero incursione nei campi. I nazisti mi catturarono ma mio padre per salvarmi morì al posto mio … ed è così che ora sono arrivato a Santa Maria al Bagno. Mi portarono in un orfanatrofio dove una famiglia di italiani mi prese in adozione … era una famiglia di persone anziane che non potevano avere figli a causa di una malattia della signora … Io voglio molto bene a Ezio e Lucia perché mi amano come se fossi loro figlio da sempre. A Santa Maria al Bagno mi sono fatti dei nuovi amici perché quelli vecchi sono stati tutti sterminati, finalmente ho ritrovato la pace e la serenità che non avevo da tanto e sono ritornato come ero una volta anche se ho ancora nel cuore la morte dei miei genitori. Lorenzo


AVEVO UN AMICO

SIAMO IN TANTI... Quei giorni erano terribili. La fame ci assaliva.

Finalmente siamo arrivati. Eravamo così stretti in quel treno.

Tutta la mia famiglia fu presa. Tutti i

Siamo arrivati in questo posto. Ho sentito che si chiama Santa Maria al Bagno.

componenti della famiglia morirono. Io fui salvato dagli inglesi che mi portarono a Santa Maria al Bagno. Lì mi trovavo bene, ma gli abitanti con la loro gentilezza non potevano sostituire l'affetto dei miei genitori,

che mi proteggevano da quelle iene malvagie. Noi per loro eravamo solamente animaletti ingenui che poi sarebbero stati mangiati. Dopo un po' trovai una famiglia, anch' essi ebrei scappati dai tedeschi. Io avevo paura avevo visto la morte in faccia. Non dormivo la notte, pensavo ai miei genitori. Per fortuna non dovevo più dormire al freddo, ma avevo un letto caldo. Ad Aushwitz avevo trovato un ami-

Siamo in tanti.

La settimana scorsa mi hanno rasato i capelli, i miei riccioli biondi non ci sono più. Ma non importa ricresceranno presto. Anche quando andavo a scuola, la mamma voleva che li tenessi corti per non prendere i pidocchi. Se mi vedesse adesso sarebbe contenta.

Ho visto anche Joshua, quel bambino che ieri mi ha abbracciato. Sembra ancora così triste.

Sarebbe contenta anche se sapesse che sto bene e che qui ho dei nuovi amici.

Ho visto il mare per la prima volta. È bellissimo come l'ho sempre immaginato.

C'è Joshua che ha il letto sul mio. Ogni tanto urla nel sonno e mi sveglia.

Appena mamma e papà verranno a prendermi farò un bagno.

Poi c'è Richard con cui mi diverto a giocare a nascondino.

Ci hanno portato in una villa di nome Kibbutz. Abbiamo un letto ciascuno ma le lenzuola puzzano e non c'è un bagno.

Lui è con sua sorella Mika che ha solo 4 anni. È come un papà per lei, molto premuroso e, quando la notte ha paura, la stringe forte a sé e le canta una ninna nanna.

Ho parlato con altri bambini e mi hanno detto che i nostri genitori non torneranno più. Ma io non ci credo. So che mamma e papà mi vogliono bene e che adesso sono in un altro Paese per lavorare e guadagnare i soldi necessari per costruire una casa tutta per noi. La voglio grande, con il giardino e vicino al mare. Voglio anche un cane. Lo chiamerò Spike e giocherò sempre con lui.

Ora è tardi, vado a dormire. Buonanotte mamma e buonanotte papà.

CONTE DANIELE

Ma devo anche studiare. Voglio diventare uno scrittore, raccontare storie per bambini e guadagnare tanti soldi, così mamma e papà non dovranno più lavorare e potranno stare sempre con me. L'aria è fredda. Per fortuna oggi c'è il sole e un tiepido raggio attraversa la finestra lassù.

co, ma dopo la mia partenza per Santa Maria al Bagno non ne ho saputo più nulla…

EDNA Sono una bambina ebrea di nome Edna, ho 11 anni, sono po' bassa, ho i capelli castani e gli occhi marroni e sono abbastanza esile. Sono molto comprensiva, riesco ad ascoltare chi mi parla, sono anche molto creativa e fantasiosa perché riesco a trasformare il mio passato in un qualcosa di magnifico. Venivo maltrattata da brutti uomini che mi sbatterono in un brutto campo di concentramento. Prima di entrare mi dettero una specie di pigiama a righe con un numeretto era il 12. In quel brutto postaccio conobbi una ragazza di nome Chana, era diventata la mia migliore amica. Un brutto giorno mi tolsero la mia famiglia, i miei fratelli, le mie sorelle, persino i miei genitori, non mi lasciarono neanche la mia migliore amica. Alcune persone le portarono in una camera chiamata camera del gas, da lì proveniva un’orribile puzza, altre le portavano davanti a muro sempre più rosso. Un giorno uno dei brutti signore con il suo dito ammonitore indicò alcune persone e le portò davanti al muro ero curiosa ... allora strappai un po'di tela e mi misi ad osservare vidi una scena che non dimenticherò mai.

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Un giorno, non so come, fummo liberati e ci portarono sulle coste di Santa Maria al Bagno; quel giorno ero triste, preoccupata...non sapevo come mi sarebbe successo. Alcuni cittadini si avvicinarono e accolsero nelle proprie case le donne e noi bambini. Dopo un po'si avvicinò una graziosa e dolce vecchietta di nome Elisabeth e il vecchietto Giorgio che diventarono la mia mamma e il mio papà, che mi accolsero nella loro casetta numero 12, facendomi dimenticare il mio triste passato.


LA LUCE DELLA LIBERTA’ Io Joshua, bambino ebreo di 11 anni, mi sono trovato ad Auschwitz, massima espressione dello sterminio degli Ebrei. Nei campi di concentramento mi sono ritrovato insieme ai prigionieri suddivisi in categorie, dove gli ebrei erano rilegati al gradino più basso e salendo c’erano gli zingari, gli omosessuali, gli avversari politici e in cima i criminali comuni. Per essere nato ebreo ho sofferto denutrizione, malattie, sporcizia, umiliazioni e ho provato molto freddo a causa della mancanza di riscaldamento nelle baracche; ho assistito alle fucilazioni e alle eliminazioni sistematiche di persone che entravano nelle camere a gas e nei forni crematori per non uscirne più. Per me e per i superstiti è stato impossibile dimenticare il lager. La debolezza fisica, la fame, la sete, il senso di umiliazione e l’incredulità per la fine di un incubo, per essere sopravvissuto, erano superati dalla sensazione di essere stato liberato e poter fuggire via, lontano, indirizzati verso il nascente Stato di Israele attraverso la Puglia ed il Salento.

In più di 100.000 siamo sbarcati a Bari e trasportati a Santa Maria al Bagno, dove i salentini paesani, benché poveri e stanchi della guerra, mi hanno accolto con grande calore. Non dimentico le amicizie con i bambini salentini, le partite di giochi di calcio, i giochi per strada, i pescatori e gli agricoltori che hanno condiviso le loro abitudini e il cibo con me.

Ritrovai la sensazione di libertà e di dignità umana dopo anni di sofferenza, nel Salento ho iniziato un ciclo della vita interrotto dalla guerra, quando un'intera generazione di bambini è stata cancellata nei campi della morte. Ancor ora, che siamo fuori pericolo, ogni notte nei miei sogni vedo Hitler che ordinava ai suoi uomini chi doveva essere ucciso. Soltanto a ripensarci il mio cuore si ferma e vivo ancora nel terrore. Sono stato salvato da un soldato inglese e sono l’ultimo della mia famiglia: mi madre e mio padre sono stati fucilati e le mie sorelle bruciate nei forni crematori. Ogni volta che chiudo gli occhi, rivedo Auschwitz come una piana grigia e spenta, dove a tutti gli esseri viventi veniva tolta la vita. Io volevo tornare a casa mia in Palestina e dopo aver vissuto felice per tre anni dal 1944 al 1947 nel Campo Profughi n. 34 chiamato Santa Croce, costruito inizialmente dagli Inglesi, finalmente ero vivo nella mia terra. Ora che ho 80 anni racconto ai miei nipoti quei tragici e tristi momenti, facendogli capire l’importanza della libertà spiegandogli che l’uomo può essere spietato con i suoi simili, ma è la forza dell’amore che unisce i popoli. Cristian Ingrosso

LA FOTO In un brutto lunedì di febbraio è arrivato a Santa Maria al Bagno un bambino di nome Matteo salvato per miracolo da un soldato inglese. Era stremato e affamato, aveva in mano la foto della sua famiglia e chiedeva al soldato di rintracciare la sua piccola sorellina che era insieme a lui e che non riusciva più a trovare. I suoi genitori, invece, non li vedeva più da tanto tempo, da quando li avevano separati nel campo di concentramento. Il giovane soldato fece di tutto per rintracciare la piccola sorellina di Matteo per farli tornare insieme; proprio lui che era sposato da tanti anni e non riusciva ad avere figli, si era affezionato a quel bambino così indifeso e così impaurito, tanto che lo portò a casa sua per sfamarlo e ripulirlo. Il giorno dopo riuscirono a rintracciare la sorellina nel campo di accoglienza e riunire i due fratelli. Insieme riuscirono ad ambientarsi in quel luogo e furono adottati dal soldato.

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Matteo Ingrosso



IL BOSCO Era il 27 Gennaio del 1942 quando un gruppo di nazisti cattivi, che non avevano nessuna pietà , ci portarono in un campo di concentramento. Ma la mia brutta storia si è conclusa bene. Una notte fui svegliata da uno strano omino, piccolo e buono,

Nel «bosco» delle nostre paure abbiamo incontrato Joshua… Il 20 gennaio del 1942 è una data che rimarrà per sempre impressa nella mia memoria.

che scavando un buco sotto il

Io ed altri piccoli folletti impauriti, fummo fatti salire su un camion tetro e sudicio, da orchi

filo spinato, mi aiutò a scappare.

spaventosi e crudeli. Scaraventati nell’inferno.

Com'era bello il passaggio dal

Si viaggiava lentamente, a passo d'uomo…

filo spinato, la sporcizia ed il

cattivo odore del blocco in cui

Scesa la notte ci fermammo nel bosco, per riposare.

ero rinchiusa, a quel luogo me-

Gli ululati, i fischi, le ombre spaventose oltrepassavano le piccolissime fessure, che ci aiutava-

raviglioso! Dopo un lungo sen-

no a respirare. Finché sentivamo quei rumori sapevamo di essere vivi, sebbene avessimo tanta

tiero arrivai in un bosco acco-

paura. Sognavo di vedere, con gli occhi pieni di lacrime, la fata del bosco, che magicamente

gliente, con fiori variopinti e

arrivasse, portandoci via… da quell'inferno. Ma il viaggio riprese, lungo i sentieri del bosco, in

profumati, il cinguettio degli

quel camion nero e puzzolente, verso quel blocco che sarebbe diventata la nostra prigione. Carrozzo Sara

uccelli e alberi enormi, che aggrovigliandosi facevano vedere squarci di cielo azzurro. Il profu-

Un bosco tetro, oscuro….

mo dell'erba, della terra e degli alberi, cancellarono per sempre il ricordo delle lacrime… Quarta Greta

Era il 27 gennaio del 1944 quando sono fuggita dalle gabbie e mi sono ritrovata nel bosco. Altri uccellini sono fuggiti con me, ma i

cacciatori li hanno catturati. Io sono salva, nascosta tra i rami di un albero. Ho paura, sono sola, la mia famiglia è ancora prigioniera, nelle gabbie; mia sorella e mio fratello mi mancano tanto! Forse sono morti, mentre cercavano di fuggire. All’improvviso, un uccellino sul ramo sopra al mio, sembra indicarmi la strada della salvezza. Inizio a seguirlo. Volo, volo, volo... sono sfinita! In lontananza si sentono colpi di fucile. Il mio amico viene colpito e cade a terra, morto. Ma….ecco, scorgo il mare in lontananza. I cacciatori scompaiono, risucchiati dal bosco. Sulla sponda del mare ci sono tanti alberi, ma pochi nidi. Io cerco e spero di trovare la mia famiglia. Finalmente, un dolce e amorevole cinguettio, mi

annuncia che sono vivi. Salvi, tutti salvi…in volo…sul mare…

Greco Alessandra

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Era il 27 febbraio del 1940 quando mi sono ritrovata in un campo di concentramento, circondato da filo spinato. Eravamo senza libertà, avevamo

perso tutto, dovevamo solo obbedire a quegli orchi malvagi che ci trattavano come bestie. Avrei voluto essere una fata, volare via da quel “tetro bosco”, dove le voci sembravano ululati di lupi affamati e feroci, che ci venivano incontro come se ci volessero mangiare vivi. Una fata, sì, forse solo una fata avrebbe potuto liberarci, con i suoi poteri e le sue magie. Ma, un giorno… arrivarono i russi che spalancarono le porte di quel posto orribile. Taurino Arianna

In una brutta mattina di settembre mi ritrovai, persa, in un bosco. Un bosco tetro, oscuro, con rumori e ombre spaventose. La luce della luna filtrava attraverso le foglie degli alberi, i rami bassi sembravano braccia e mani scheletriche. Mi guardavo intorno, ero terrorizzata dall'idea che i nazisti tornassero a prendermi.... Il vento muoveva le foglie e creava rumori spettrali, le ombre sembravano animali feroci pronti ad assalirmi; l'unica luce era quella della luna piena, che mi accompagnava nel mio incubo. Mi mancava la mia fami-

glia, non sapevo dove andare. Volevo tanto tornare a casa ed essere coccolata dai miei genitori... Taurino Giorgia


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