Ciao, e grazie per aver scaricato questo libro. Il file che stai leggendo è senza DRM, il che significa che lo puoi prestare senza alcuna limitazione. Inoltre, il romanzo è protetto da licenza Creative Commons, il che significa che lo puoi far girare liberamente a patto di indicare sempre l'autore e la fonte di provenienza del testo. Le illustrazioni e la copertina sono opera di Federico Rossi Edrighi. Puoi trovare altre cose sue se fai un salto sul blog all'indirizzo www.cabaretfledermaus.blogspot.com Prima di lasciarti alla lettura, vorrei ringraziare Mauro, che in tempi non sospetti mi ha aiutato a trovare il mio cattivo. Alessia, Valeria, Raffaele e Stefano, per la revisione e i consigli una volta che il cattivo aveva trovato una casa. E lasciami dedicare questo libro a Livia, ringraziandola per avermi chiesto di raccontarle una storia e soprattutto per avermi convinto a buttare il capitolo III. Se non l'avesse fatto, Scappa! non avrebbe mai visto la luce. Buona lettura! Giovanni www.giovannimasi.blogspot.com giovanni@timedrop.net 2
-I-
La pioggia batte forte sull’automobile e rimbomba sul tettuccio mentre le quattro frecce, col loro pulsare ritmico, accendono la scena a intervalli regolari. La ragazza tiene premuto il cellulare contro un orecchio e il palmo della mano contro l’altro. Si morde il labbro e riprova a telefonare. Merda di uno smartphone nuovo...
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Chiamate di emergenza un cazzo! pensa, e lo lancia con un gesto di stizza sul sedile del passeggero. Il telefono rimbalza e finisce sul tappetino con un piccolo tonfo. La ragazza guarda fuori. Il muro d’acqua che si abbatte sul finestrino è uno scrosciare incessante. Abbassa lo sguardo sul vestito, sulla gonna corta, sulle calze a rete e sulle scarpe nere di vernice. Poggia una mano sulla scollatura a balconcino e valuta se la giacca scelta per quella sera possa essere utile contro un nubifragio. L’ombrello nella borsetta è piccolo, la pioggia la inzupperebbe comunque da capo a piedi appena messo il naso fuori dall'auto. Addio messa in piega, addio trucco leggero a sottolineare il verde dei suoi occhi. Che serata di merda... e colpisce piano il poggiatesta con la nuca.
Doveva vedersi con un tipo. Niente di troppo impegnativo, un amico di un collega che aveva conosciuto a un party aziendale. Le sue foto al mare, trovate su Facebook, mostravano due gambe allenate. E bei piedi, grandi e proporzionati. Se la serata si fosse messa bene, se lui fosse stato carino ed educato, se non si fosse lamentato tutto il tempo 4
dell’ex scappata con il migliore amico, se avesse insistito per pagare la cena e se non gli fosse puzzato il fiato, se tutto fosse andato nel modo giusto, insomma, aveva già deciso di finirci a letto. Per sicurezza aveva cambiato le lenzuola prima di uscire. Precauzione inutile. Il motore aveva iniziato a singhiozzare appena imboccata la via laterale che, secondo il navigatore, l’avrebbe portata davanti al ristorante. La macchina aveva proseguito un poco per poi fermarsi del tutto. Era bloccata lì da forse un'ora.
Sospira. Volta la testa e guarda fuori, sconsolata. I lampioni rischiarano a malapena il marciapiede e i palazzi che svettano contro la pioggia. Sembrano case vecchie e nessuna delle finestre è illuminata. La ragazza è sola. Il cellulare non ha campo e le sue conoscenze di meccanica sono nulle, come le possibilità di scendere dall’auto e rimanere presentabile per una prima uscita. Aveva calcolato i tempi per arrivare con quel giusto ritardo al ristorante, odiava dover attendere il suo accompagnatore. Ritardo su ritardo, il cellulare che non
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prende... se fosse stata lei ad aspettare, si sarebbe già mandata a quel paese e se ne sarebbe tornata a casa. Prova per un’ultima volta a far partire l’auto. Gira la chiave, affonda la frizione e dà un paio di colpi di acceleratore. Il motore singhiozza con delle forti scosse sussultorie per tre, quattro volte. Ok, ‘fanculo la macchina, ‘fanculo la serata e ‘fanculo tutti. Voglio solo tornarmene a casa una doccia e a letto! pensa e scende dall’auto. La pioggia le fradicia le braccia e la testa nel tempo in cui tenta di aprire l’ombrello. La giacca è insufficiente, raffiche di vento le penetrano nelle ossa come se fosse nuda contro la tempesta. Le scarpe le si riempiono d’acqua appena poggia i piedi a terra. Armeggia col cofano e finalmente riesce ad aprirlo. Puzza di bruciato e il motore è un pozzo nero dai contorni indefiniti. Si guarda intorno, la strada è deserta. I palazzi sono dei giganti silenti. Con un singulto di rabbia e frustrazione sbatte forte il cofano. E solo allora, la vede. Una mezzaluna blu che avanza. Ondeggia sotto la pioggia con un ritmo spezzato. Avanza lenta, poi si piega improvvisa a sinistra, poi avanza, poi piega. Arriva 6
sotto il breve cono di luce di un lampione. La ragazza aguzza gli occhi. La mezzaluna è un ombrello e sotto l’ombrello si intravede la figura di un uomo. Zoppo. La ragazza sta per vomitare. La sua reazione è completamente irrazionale, esagerata rispetto alla situazione. Cerca di calmarsi, dà la colpa al freddo, alla schiena zuppa nonostante la giacca, alle gambe praticamente nude. Ma il terrore le afferra lo stomaco e la fa piegare su se stessa. È una paura assoluta che la inchioda lì come davanti a un lupo in un bosco. È senza via di fuga. Una folata di vento gelido le inzuppa la schiena e la fa trasalire. L’ombrello blu, piegato in avanti contro le intemperie, avanza verso di lei con quel ritmo asincrono
tipico
degli
storpi.
La
ragazza
si
precipita
nell’abitacolo. La maniglia è fradicia e le sfugge sotto le dita mentre cerca di afferrare lo sportello per tirarlo a sé. La mezzaluna si accosta alla macchina. La ragazza geme. Si chiude dentro con un tonfo sordo. Fa scattare la chiusura centralizzata e si rannicchia sul sedile. Ma da quando i denti mi battono così forte?! 7
- II -
Lo zoppo si appoggia a una sola stampella, ha un giaccone pesante e i lunghi jeans a campana diventano piÚ scuri dove, fradici, strusciano a terra. Le quattro frecce illuminano il corpo dell’uomo ma non il suo viso. La ragazza si volta a sbirciare. La figura dal passo altalenante si fa piÚ prossima. 8
Avanza lenta e piega a sinistra. Avanza e piega. Avanza e piega. Avanza e piega. Ci mette un’eternità a coprire l’intera lunghezza dell’automobile. La ragazza, al sicuro nell’abitacolo, si toglie le scarpe e cerca di scaldarsi i piedi mentre razionalizza la paura cieca di poco fa. Ma uno storpio che cazzo ci fa sotto l’acqua a quest’ora? pensa e segue con lo sguardo l’uomo che la supera lentamente dirigendosi verso un portone. La tensione si scioglie con un brivido mentre la ragazza rovista nella borsa per trovare qualcosa con cui asciugarsi. S’è spaventata come una deficiente per nulla. Lo storpio abita qui. Niente di cui avere paura. E poi, che cazzo di stupratore è uno zoppo? Me lo immagino a corrermi dietro... sorride. La mezzaluna oscilla violentemente mentre l’uomo cerca di salire le scale che terminano nel portone. Tiene
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la stampella sotto il braccio con cui regge l'ombrello e strattona il mancorrente salendo un gradino alla volta. Arriva al pianerottolo, si appoggia nuovamente alla stampella, incastra l’ombrello nell’incavo tra spalla e mento e cerca le chiavi in tasca al giaccone. La ragazza osserva tutto, affascinata dalla difficoltà della manovra. Da sotto al sedile un lampo improvviso la distrae. Pure il cellulare con la batteria scarica, di male in... aspetta un attimo! spalanca la portiera e corre sguazzando verso lo zoppo. "Ehi! Ehi! Scusa!" dice disperata cercando di sovrastare il rumore della pioggia. L’uomo ha infilato le chiavi nella toppa e le lascia lì a penzolare mentre si volta. "Scusa, io..." e la ragazza di colpo sta zitta. È bello. Di una bellezza da lasciare senza parole. Sorride un poco, ha gli occhi di un profondo che ipnotizza. È... perfetto... mentre le chiede: "Sì? Posso aiutarti?" La ragazza manda indietro i capelli bagnati: "Sì, ecco, ho la macchina in panne e il cellulare non prende ed è 10
pure scarico e non è che mi presteresti un telefono per chiamare un carro attrezzi?" Lo dice tutto d’un fiato, fradicia sotto la pioggia. Il seno bagnato brilla un poco sotto la luce tremula dei lampioni e la ragazza, inconsciamente, fa scivolare una mano a sistemare la gonna. Il ragazzo ha pochi anni più di lei, sorride, la guarda tutta, la squadra forse un momento di troppo. Ma poi si volta con qualche difficoltà, apre la porta e le fa strada. "Certo, figurati. Vieni pure." La ragazza entra nell’androne del palazzo, finalmente all’asciutto. Il suo ospite ritira le chiavi e la pesante anta si richiude con un tonfo. "Prego, da questa parte" dice e zoppicando la conduce verso la porta più lontana. L’androne è scuro, illuminato debolmente. Il pavimento reca evidenti tracce di polvere. La stampella fa un rumore metallico colpendo il piancito e l’eco si propaga per la tromba delle scale. "Ma è tutto disabitato qui?" "Meglio, no?" le risponde lui dandole le spalle. La ragazza rallenta un po’ il passo. Non le è piaciuto il tono della risposta. Il ragazzo, facendo perno sul pie11
de offeso, si volta e conclude: "Più spazio, meno affitto" e le fa l’occhiolino. Lei si avvicina di nuovo e gli si ferma a fianco, di fronte a una porta scura. Lui dà una spinta e la porta si apre. È completamente buio e c’è un odore strano, come di cane e di chiuso. Il ragazzo le sorride e dice: "Benvenuta."
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- III -
"Guardi, sono bloccata con la macchina... no... no, non parte proprio. Sì, ho provato... cosa? No, non so proprio di cosa sta parlando... quanto?!? Tre ore?!? Ma com’è possibi... Ah, ok... Sì, sì... ho capito.... Sì... sì, aspetto vicino al veicolo... sì, grazie."
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La
ragazza
abbassa
il
telefono.
Bruttistronzitreoresottolapioggia... Respira piano cercando di calmarsi. Sente freddo, trema leggermente e l’acqua sulla pelle nuda la fa starnutire. Si volta, siede sulla scrivania e si guarda riflessa in uno specchio dalla pesante cornice d’ottone che sovrasta la console ottocentesca. La gonna le si è sollevata, le autoreggenti le segnano la coscia e la pelle bianca tra le gambe risalta nella penombra. Il trucco leggermente sfatto e i capelli bagnati evidenziano il viso e gli occhi. Sembro una modella pensa e starnutisce. O una troia e starnutisce di nuovo. Lo specchio monumentale non è l’unica antichità della stanza. Tutta la casa, avvolta dalla penombra, è ingombra
di
mobili
polverosi
che
ne
occupano
l’oscurità con forme ambigue. L’appartamento si sviluppa in profondità, forse ricavato da vari acquisti uniti poi nel corso del tempo. La ragazza si guarda intorno e annusa l’aria stantia. La casa sembra disabitata, piena di porte che danno su corri-
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doi che danno su stanze che danno su altri corridoi con altre stanze. Per trovare il telefono si è persa un paio di volte. Si avvicina e osserva le porcellane di Capodimonte che affollano la libreria di mogano scuro. Facce eburnee e pose borboniche per fanciulle discinte e divinità pagane. La polvere trucca di scuro gli occhi dipinti e ragnatele sottolineano i gesti composti. La ragazza starnutisce di nuovo. Meglio tornare di là. Chiude la porta della stanza alle sue spalle e la fioca luce di un televisore guida i suoi passi. La TV a schermo piatto troneggia su un cassettone con fregi dorati al centro del grande salone. Una playstation con i suoi joypad è gettata in un angolo. La stampella è poggiata a terra. Il ragazzo è seduto su un grande divano di stoffa. Ha le gambe rannicchiate sotto una coperta rossa e le sorride. "Trovato il telefono?" chiede. E quanto cazzo sei bello pensa lei ma risponde: "Sì, grazie. Ci ho messo un po’. Casa tua è decisamente grande." 15
"Di mia nonna." "Eh?" "La casa, è di mia nonna." "Ah..." e si guarda intorno. "È morta, tranquilla" sorride lui. Lei resta in silenzio. Il suo ospite la mette a disagio e l’affascina in ugual misura. Il grande salone con angolo cottura, più una vera e propria cucina in muratura che un angolo solo, sembra l’unica parte della casa regolarmente abitata. "Mi dispiace" dice lei. "Per cosa?" chiede il ragazzo guardando un vecchio film muto. "Per tua nonna." "Grazie, ma non l’ho mai conosciuta. L’unica cosa che ho di lei sono alcune foto di là. E la casa, ovviamente." La ragazza starnutisce di nuovo. Stavolta piano però, come se avesse paura di disturbare. Lui continua a guardare il film. Sullo schermo ci sono persone che si agitano ma le loro ombre si muovono in ritardo. È buffo e spaventoso allo stesso tempo. Il ragazzo non sembra voler proseguire la conversazione, 16
ma lei ha decisamente bisogno di un bagno per asciugarsi e darsi una sistemata. "Mi chiamo Michela." "Piacere" risponde lui. La ragazza starnutisce, forte stavolta. Lui la guarda: "Cazzo, perdonami. Se ti serve qualche asciugamano, serviti pure. Nel bagno ce ne sono di puliti. Ti accompagnerei io ma..." indica il mucchio informe delle gambe sotto la coperta. Lo dice in un modo così semplice e così premuroso che spiazza la ragazza. Michela lo guarda, imbambolata dal suo sorriso. Poi starnutisce di nuovo e dice: "Oddio, sì, grazie! Scusami, eh? "Fa' come fossi a casa tua, davvero. Il bagno è di là" le indica il corridoio in direzione opposta rispetto alla stanza del telefono. "Secondo corridoio a sinistra, prima porta a destra. Non puoi sbagliare." Michela si allontana mentre il suo ospite riprende a guardare il film. Lei raggiunge il corridoio e si ferma un attimo a spiare il padrone di casa. La fronte alta, la barba leggermente incolta, il profilo dritto del naso, gli oc17
chi grandi e grigi, così freddi e così dolci... e poi l’attaccatura del collo alla nuca, la camicia leggermente aperta a mostrare l’inizio della spalla con il muscolo ben in evidenza e la fossetta della clavicola... Dio, potrei passarci le ore con la testa affondata lì, proprio lì e starnutisce. Il ragazzo si gira di scatto mentre Michela si nasconde dietro l’angolo, col cuore che le batte all’impazzata. Deficiente dice a se stessa mentre cerca il secondo corridoio a sinistra e la prima porta a destra.
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- IV -
Il bagno è una stanza fatta a elle. Il lato più corto, rialzato, è occupato da una vecchia vasca da bagno di marmo di quelle che si vedono solo nei film. Zampe di leone a sorreggerla e rubinetteria dorata. La ragazza non crede ai propri occhi. Si avvicina e apre l’acqua.
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Resta un po’ delusa quando non esce niente dal cannello a forma di cigno. Si avvicina al più moderno lavandino, incrostato di calcare. Apre l’acqua calda. Il rubinetto trema un po’, tossisce un paio di volte e poi l’aria si riempie di vapore. Michela affonda le mani infreddolite sotto il getto d'acqua bollente e rabbrividisce di piacere. Trova gli asciugamani puliti e si deterge il collo, il petto e il viso. Peccato non aver niente per cambiarmi pensa mentre raccoglie i capelli in un turbante di spugna. Resta un po’ in bagno, a farsi riscaldare la pelle dal vapore che riempie la stanza. Cerca il cellulare nella borsa per controllare l’ora e si rende conto di averlo lasciato in macchina. Merda... Vabbè che tanto è scarico... Torna in salone. Il ragazzo non si è mosso dal divano. Il film prosegue. Sembra qualcosa su un vampiro. I graffi della pellicola rovinata invadono a tratti lo schermo e l’immagine salta. Il suo ospite non si è accorto di lei e Michela si schiarisce la voce: "Ecco fatto. Grazie ancora, davvero. Mi hai salvata."
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Il ragazzo si volta mettendo il film in pausa. L’immagine della statua di un angelo che si staglia contro il cielo nuvoloso resta imprigionata sullo schermo. "Figurati." "Senti, lo so che ti ho già dato un sacco di disturbo ma non è che avresti un ombrello da prestarmi? Quelli del servizio stradale hanno detto che ci metteranno tre ore ad arrivare e di aspettare vicino al veicolo..." "Mi spiace. Ho solo quello blu e, se per sbaglio non me lo riporti, nella mia condizione mi metti un po’ nei guai" risponde lui. "Ah! Va bene, scusa. Non ti preocc..." "Ma se vuoi posso prestarti un tetto" la interrompe "tanto, da quella finestra, la tua auto la vedi." Michela si avvicina al vetro e guarda giù. La macchina è parcheggiata proprio lì sotto, le quattro frecce che illuminano la strada di giallo intermittente. "Grazie ma non vorrei disturbarti..." "Nessun disturbo, fidati. Anzi, fa' proprio come se fossi a casa tua. Se ti serve di nuovo il bagno o se vuoi farti un tè caldo..." Michela lo guarda. 21
Lo guarda bene. Nella penombra i suoi occhi brillano debolmente. Sta appoggiato con la schiena ai cuscini del divano ma la sua posa non è rilassata. Michela segue la linea del bacino fino alla coperta e alle gambi informi. Rialza lo sguardo. Lui le sorride. Lei accetta l’invito. "Sei davvero un angelo!" "Tutto il contrario, fidati" ride lui. "Senti, non è che avresti un phon?" "Ma certo! Solo che è nell’altro bagno... primo corridoio a destra, seconda porta a destra e poi la porta in fondo." "Grazie, grazie davvero!" dice Michela allontanandosi nella direzione che il ragazzo le ha appena indicato. Primo corridoio a destra, seconda porta e poi la porta in fondo... Ma quanto è grande questa casa? Alla faccia dello zoppo, uno ci fa i chilometri qua dentro... pensa, sbaglia strada e si perde.
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-V-
Michela lascia cadere la bustina di tè nella tazza bollente. Si è asciugata alla meno peggio col phon e si è persa ancora e ancora nei meandri della casa cercando di tornare in salone. Il suo ospite sta ancora guardando un film. C’è una città del futuro con uno scienziato e una specie di robot. L’automa prende le fattezze fem23
minili di una donna che si chiama Maria. Non sembra lo stesso film di prima ma non può esserne certa. Le didascalie sono in tedesco e l’immagine molto rovinata. "Sei un appassionato?" chiede Michela mentre si riscalda le mani sorreggendo la tazza e soffia piano sulla superficie dell’acqua. "Diciamo che i film mi tengono compagnia e mi fanno viaggiare con la mente” risponde lui. Il calore che si sprigiona dalla tazza è piacevole. Il crampo sulla schiena le si scioglie lentamente: "Non esci mai?” "Poco." "E che fai nella vita, oltre guardare vecchi film?" Il ragazzo sposta lo sguardo sulla sua ospite. Michela si sente a suo agio e gli sorride da sopra la tazza. Beve lentamente e a sorsi regolari. "Non devo lavorare. Non più. Avevo un’assicurazione e dopo l’incidente..." resta in silenzio guardando la massa informe delle gambe sotto la coperta "dopo l’incidente ci hanno pensato loro." Il tè ha un buon sapore e lascia la lingua felpata. Michela sente il calore irradiarle la pancia a ogni sorso. Il 24
freddo le scivola via e piano piano si rilassa. Sta bene. E così prosegue: "Com’è successo?" "Se non ti dispiace...” le risponde educatamente il ragazzo "preferirei non parlarne." Michela fa un’espressione sorpresa, come se non si fosse resa conto di ciò che ha appena detto. "Oddio, scusa, non volevo! Davvero! Non so che mi è preso. Di solito non sono così impicciona." Il ragazzo sorride. Dolcemente. "Non c’è problema. Sono contento che ti stia riprendendo dal freddo." "Oh sì, grazie. Dev’essere questo tè. Cosa hai detto che c’è dentro?" Il ragazzo spegne la TV e risponde con aria seria: "Hai proprio deciso di rubarmi tutti i segreti stasera, eh?" Michela ride. Si sente la testa leggera. Beve il tè e si siede su uno sgabello della cucina. La gonna del vestito le si soleva ma non se ne accorge. "Perché, ne hai tanti di segreti?" "Tu che dici?" 25
"Mmmmhhh... facevi il modello prima?" "Scusa?" Michela scoppia nuovamente a ridere. "Oddio, scusami! Non so davvero cosa mi stia succedendo..." cerca di riprendersi "volevo solo dire che potresti sembrare un modello." Il ragazzo sorride, senza modestia. "Ti ringrazio ma niente di così speciale. Ero solo un rappresentante. Andavo in giro per una società di abiti femminili." "Oh, mamma!" esclama Michela "Chissà che strage tra le commesse!" e ride portando una mano alla bocca. Prova a fermarsi ma non c’è verso di recuperare un contegno. "All’epoca non potevo lamentarmi..." "Facevi come i marinai, eh? Ogni porto una nuova conquista!" Michela ha la vista leggermente annebbiata. Si passa il dorso della mano sugli occhi. Sta lacrimando: "Scusami davvero, non so cosa mi stia succedendo." Resta un attimo in silenzio. La testa che le gira e lo stomaco in subbuglio. 26
"Hai delle belle gambe" dice lui, guardandola intensamente. Michela sorride stupidamente. "E tu sei un fico da paura..." biascica la ragazza. Sorride. Lo stomaco le si stringe in un conato di vomito. "Scusa ma mi sa che devo andare in bagno... " dice "non mi sento tanto bene..." e inciampa. Cerca di non cadere ma può solo caracollare in avanti. Si appoggia con un tonfo al divano e si ritrova tra le braccia del suo ospite. Lui l’afferra e Michela non sa bene come ma si ritrova labbra contro labbra con il ragazzo. Le piace. È bello. Lo vuole. Apre la bocca e sente la lingua di lui scivolarle dentro. È gelata. Michela si ritrae di scatto. "Scusa, scusa, scusa..." farfuglia mentre si rialza "vado... in bagno..." Quel gelo improvviso a contatto con il palato l’ha fatta riprendere per un attimo. Si rende conto che c'è qualcosa che non va ma non riesce a mettere a fuoco cosa sia. Il suo ospite la guarda appoggiarsi a un muro e 27
avanzare malferma sui tacchi. La sua espressione è indecifrabile. Il ragazzo scosta la coperta e si alza. Michela lo vede, urla e, prima di rendersene conto, già scappa lungo i corridoi.
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- VI -
Le pareti ondeggiano e Michela inciampa e sbatte. Alle sue spalle qualcosa si rompe. Ăˆ stata lei? Non ricorda. Sa solo che la bocca le fa male. La lingua del ragazzo deve averle tagliato il palato. Prova ad aprire tutte le porte che incontra appoggiandosi pesantemente alle maniglie. Alcune cigolano, altre cedono con un ton29
fo. Nessuna, però, si apre. Michela si volta, la fuga del corridoio in lontananza è vuota. Si sorprende. Non era così lungo il corridoio. O sì? Cerca di essere lucida. Cerca di non inciampare nei pesanti tappeti. Cerca di trovare una porta aperta dove nascondersi. Ma nascondermi da cosa? Il ragazzo! Sì, il ragazzo. Resta lucida restalucidarestalucidaresstaaaaaaluuuudicarestaaaaaahia! Sbatte contro un mobile, la chincaglieria con un sobbalzo cade a terra. Il rumore le schiarisce la mente. Si avvicina a una porta. La maniglia è scivolosa ma fortunatamente riesce ad aprirla. Si intrufola dentro richiudendosi la porta alle spalle. Le mani le tremano mentre cerca a tentoni nell'oscurità l'interruttore per la luce. Non lo trova ma ride isterica perché la serratura ha la chiave infilata nella toppa. La gira con forza fino a farla incastrare con uno stridio metallico. I suoi occhi si abituano all'oscurità mentre nella stanza emergono mobili coperti da lenzuola bianche. Michela si siede su un divano. Una nuvola di polvere esplode appena la ragazza si lascia cadere. Tossisce, gli 30
occhi le bruciano. Deve allungarsi un attimo, distendersi, deve recuperare un po’ di lucidità. Poi, improvvisamente, realizza: "La drhogha dello sciupo... la dhroga dello stuppro!" la lingua le inciampa sui denti e la nausea le stringe lo stomaco. Resta lucida... La lingua fredda... mi viene da vomitare... resta lucida... pensa. Pensa, ragazza, pensa! Lucida! L’auto... devo tornare alla macchina. Devo aspettare a fianco al veicolo sotto la pioggia. Tre ore, brutti stronzi. Ecco sì, resta lucida. A fianco al veicolo. La mia macchina... il cellulare! Resta lucida! È scarico ma posso chiudermi dentro la macchina. Sì, ecco, così. Resta lucida e ragiona. Dentro la macchina sono al sicuro. Devo solo raggiungere la macchina. La droga era nel tè e ha provato a baciarmi. Sono sicura. Ma se arrivo alla macchina sono al sicuro. Basta arrivare alla porta... la porta! La porta di casa! La casha è giiiiigggaaaaaanttteeeeeeeeeeee... resta lucida! La porta. Esci dalla porta. Ora devi solo trovare la porta... Un rumore la fa sobbalzare. È un tonfo pesante che rimbalza sul vecchio pavimento, sulle assi logore, sui muri scrostati. È veloce. È secco ed esplode ritmico. 31
Riempie la casa e Michela non riesce a concentrarsi. Lo sente prima col cuore, col petto, col respiro. Non riesce a capire cosa sia. Si ferma ad ascoltare. E solo allora, solo per un attimo, la mente le si schiarisce dallo shock per il bacio. Cadendo addosso al ragazzo era presa dai suoi occhi, voleva sentire il suo calore, voleva baciarlo e scoparselo. Ma la lingua fredda spinta in gola le aveva fatto venire voglia di vomitare e si era discostata di colpo. Aveva spostato la coperta rossa. Aveva visto le gambe del ragazzo. Ragionare è difficile, ricordare l’esatto ordine degli eventi... Sa che è scappata, che la casa è grande e che si è tagliata una mano. È successo prima del bacio? Non ricorda. Ma sa cosa ha visto. Ha visto le gambe del ragazzo. Ma non erano gambe normali. Non erano protesi. Non erano niente di umano. Erano delle strane zampe con le articolazioni al contrario. Erano coperte di tumori. Non avevano un’anatomia definita. Erano grumi di carne cresciuti come escrescenze. Non c’era un piede ma una specie di zoccolo... Il rumore... 32
Il rumore... Il rumore è lui che corre!
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- VII -
La porta sobbalza con un tonfo, i cardini scricchiolano e l’intelaiatura cede un poco. Michela salta dal divano e solo un conato di vomito le permette di non urlare. Si ritrova bocconi, un filo di bava dalla bocca scende lentamente. Si pulisce le labbra con il lenzuolo. L’odore di muffa le schiarisce la testa. Il rumore di zoccoli si al34
lontana, come se il ragazzo stesse facendo il giro per sorprenderla alle spalle. Si alza, le gambe le tremano. Si guarda intorno, gli occhi ormai abituati all'oscurità. La stanza è molto più grande di quanto le fosse sembrata a una prima occhiata. È un immenso salone, come quelli dei film in costume. Il pavimento è fatto da pesanti assi scure leggermente sconnesse l'una con l'altra. La poca luce che si rifrange sulle increspature del legno fa assomigliare il parquet ad acqua sporca che placida ristagna. Pochi mobili, coperti da lenzuoli bianchi, interrompono quel nero. Michela si alza, fa un paio di passi e poi si ferma. E adesso? si domanda mentre guarda la porta alle sue spalle. Tira su col naso e si massaggia la bocca ancora indolenzita per il bacio rubato. Le chiacchiere stanno a zero. Devo uscire fuori di qui il prima possibile! La casa però sembra sempre più grande e Michela decide di seguire il muro passo passo, cercando una porta che per ora non scorge nella penombra. Si toglie le scarpe per non tacchettare sulle assi scure e cammina, infreddolita e spaventata, lungo pareti spo35
glie. I suoi unici punti di riferimento sono i mobili bianchi, ammassi polverosi che come iceberg galleggiano nel nero. Dove cazzo si sarà nascosto? pensa mentre con una mano accarezza la parete dipinta di scuro. La stanza sembra andare avanti all'infinito e l'angoscia per il suo ospite non le fa notare che uno dei mucchi bianchi si muove verso di lei. È grande come un uomo, ma più che camminare, è come se buttasse in avanti gambe e braccia in maniera disordinata, a casaccio, come se gli mancasse un busto a cui collegare i tendini per avere un movimento coordinato. Il rumore dei piedi sbattuti sul pavimento rimbomba nell'aria stantia. Oddio no! Ti prego, no. Di nuovo, no! e indietreggia, sguardo fisso sul mucchio bianco. Michela si allontana dal perimetro rassicurante dei muri e corre via, lontano dalle pareti. Si volta e vede la creatura che inciampa nei suoi stessi stracci e cade rovinosamente contro un mucchio di mobili accatastati. Si ferma, incerta. Non è lui! Ma allora chi può... e urla sorpresa. Una ragazza l'ha ap-
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pena sorpassata di corsa e si avvicina alla creatura agitando le mani per scacciarla. "Sciò! Sciò!" Il mucchio di stracci si rimette in piedi spezzandosi là dove dovrebbe esserci il torace e caracolla all'indietro. Si allontana e si perde nelle tenebre da cui era venuto. La ragazza si gira e si avvicina a Michela. I passi nudi non fanno rumore sulle vecchie assi. Il suo vestito è una tunica drappeggiata intorno al corpo scheletrico, probabilmente uno dei lenzuoli che coprono la mobilia della stanza. Michela si guarda intorno, spaventata. Cerca una via di fuga sul nero del pavimento. La ragazza se ne accorge e si ferma. "Ciao!" urla "Sta' tranquilla, se n'è andato." Fa un paio di passi: "È innocuo, anche se è un rompiscatole." Michela smette di indietreggiare. La ragazza si fa più vicina. "Io mi chiamo Clara. Tu?" "Michela..." 37
"Sei stata brava prima. Non con il rompiscatole qua dentro, intendo proprio con lui. Lo zoppo. Mi è piaciuto come gli hai chiuso la porta in faccia. Questa casa è talmente grande che, storpio com'è, gli ci vorrà un po' a fare il giro." La ragazza è a due passi, è bassa, i capelli in disordine, sporca in faccia e puzza un po'. Sorride. "Ci facciamo un tè?"
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- VIII -
Michela siede a terra. Clara canticchia mentre accende un fuoco usando un accendino, quella che sembra paglia e la gamba di una sedia come combustibile. Dove diavolo se l'è procurata della paglia? pensa Michela e si guarda intorno.
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Clara l'ha guidata su quel pavimento nero. Sembrava usare le cataste di mobili come punti di riferimento e procedeva spedita. Le aveva detto di seguirla e così Michela aveva fatto anche se, ogni tanto, lanciava un'occhiata alle sue spalle. La strana figura vestita di stracci continuava a seguirle cercando di nascondersi quando poteva. Più ridicola che minacciosa, le metteva comunque ansia. L'aveva detto a Clara. La ragazza l'aveva osservata, prima aggrottando le sopracciglia, e poi sorridendo. E poi scoppiandole a ridere in faccia. Michela aveva provato a chiedere cosa ci fosse di così divertente. Clara era tornata subito seria. Non le aveva risposto e si era avvicinata a un mucchio di mobili alla loro sinistra. Aveva alzato un lembo di un vecchio lenzuolo con uno scatto. Una nuvola di polvere era esplosa ad accompagnare il gesto deciso e Michela aveva cominciato a starnutire. Gli occhi le lacrimavano mentre Clara si era tuffata là sotto e aveva cominciato a rovistare borbottando tra sé e sé. Era riemersa dalla sua spedizione con un sorrisetto soddisfatto mentre Michela cercava di smettere di tossire. Aveva in mano dei so40
prammobili. Roba anni '70. Papere di coccio, bulldog seduti, alcuni cigni di Swarovski, un paio di Arlecchino di porcellana e un Pinocchio di legno. Con un ululato aveva cominciato a scagliarli contro la figura di stracci, urlando a squarciagola che era un senza palle, un castrato, uno scherzo della natura, uno schifo, un idiota, un coglione, un figlio di puttana, un bastardo senza spina dorsale e col cazzo piccolo! La figura aveva cercato riparo e poi si era allontanata singhiozzando. A Michela aveva fatto un po' pena mentre Clara ridacchiava e continuava a sussurrare: "Senzapalle, senzapalle, senzapalle, senzapalle, senzapalle, senzapalle". La ragazza aveva ripreso il cammino strascicando i piedi sul parquet sconnesso e Michela non aveva avuto altra scelta se non seguirla. Avevano camminato nel piĂš completo silenzio in quella stanza immensa senza che Michela potesse scorgere un punto di riferimento, neanche una luce in lontananza. Lo strano chiarore che sembrava pervadere tutte le cose non aveva un'origine definita. Era dappertutto, era semplicemente lĂŹ, come la polvere su cui la41
sciavano le loro impronte. Avanzavano da sole sul nero del pavimento e camminavano tra i mucchi di mobili coperti dai bianchi lenzuoli. Michela sentiva le gambe pesanti, i crampi ai polpacci le si arrampicavano sulle cosce e lungo la schiena. La vista le si offuscava a tratti. A volte si ritrovava quasi a sbattere contro quei mucchi bianchi. Poi, improvvisamente, a Michela era sembrato di scorgere un angolo. Lo aveva fissato dapprima inebetita. In quell'allucinante traversata aveva dato per scontato che la stanza continuasse all'infinito. Pareti parallele che non si intersecavano mai. Eppure, quello era un angolo. Era la fine della stanza. Era un punto di riferimento. Era tanto colpita da quell'evidenza geometrica che ci aveva messo un po' a capire che il mucchio di mobili incastrato tra le due pareti era diverso dal migliaio di altri che aveva incrociato. C'era un tavolo sgombro, con un lenzuolo come tovaglia. Delle sedie spaiate. C'era un materasso buttato a terra sotto una scrivania alta che gli faceva quasi da baldacchino. C'erano piatti, ceste piene di vestiti, c'era un portaombrelli colmo di paraso42
le di seta bianca. Clara, canticchiando, aveva fatto una corsetta in avanti. Poi si era fermata di scatto. Aveva fatto finta di frugarsi in tasca e ne aveva tirato fuori una chiave immaginaria con cui aveva aperto una serratura che solo lei vedeva. Aveva spalancato la porta e con una piroetta aveva fatto un mezzo inchino rivolto a Michela, facendole segno di entrare. "Benvenuta nella mia umile dimora, mia cara!"
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- IX -
La casa di Clara è un angolo. Michela si é seduta dove le è stato indicato, su di un vecchio cuscino buttato a terra, ma continua a lanciare un'occhiata alle sue spalle di tanto in tanto. L'immensa stanza nera resta silenziosa e deserta e la ragazza si gira verso la sua ospite. Ha accettato l'ospitalità di Clara ma segue con attenzione i 44
preparativi del tè. Non si fida ma sta morendo di sete. Da quant'è che non beve? O non mangia? Così osserva i gesti rapidi e frivoli della sua ospite. L'acqua viene fatta bollire, l'infuso è preparato in una teiera di fine porcellana e Clara ne versa due tazze. Beve prima lei e offre a Michela dei cracker. La fame e la sete hanno il sopravvento e Michela mangia anche le briciole e beve e chiede una seconda tazza. Clara è molto contenta. Poi si rivolge a una bambola appoggiata per terra lì vicino ed educatamente le chiede se vuole anche lei un po' di tè. E poi lo domanda a un orsetto e a un coniglio di peluche senza un occhio di bottone. Stiamo giocando con le bambole a prendere il tè... pensa Michela. E stranamente non è spaventata. Clara è innocua. E un po' stupida. Almeno credo... E poi quella ragazza le serve, quindi beve ancora e posa la tazza sul piattino e chiede: "Tu vivi qui?" Clara è stranamente sorpresa dalla domanda. "In che senso?" "Bè, il letto. Il fuoco... Le... Le bambole..." dice Michela indicando le cose. Clara osserva la sua ospite, segue i 45
suoi gesti e poi torna a guardarla con un'espressione bovina. "Io abito in via Verdi. Vicino alla metro." Michela osserva l'abito strappato, i denti gialli, le unghie spezzate. E poi guarda il letto sfatto, le briciole a terra, la polvere smossa sul pavimento da mille passi e chiede: "Sei... Sicura?" "Di cosa?" "Di stare bene?" "Certo! Che c'è che non va?" Michela è tesa. Credeva davvero che quella ragazza potesse aiutarla a tornare a casa. Adesso non ne è poi così certa. "E come ci arrivi a via Verdi?" chiede e la voce le trema. "Dall'università prendo l'86. Oppure a piedi. Sarà un quarto d'ora." "E da qui? Da questa casa, come ci arrivi?" "Non ci devo mica arrivare. Manca ancora un po' agli esami. Sai, economia politica ho deciso di farlo subito che mi dicevano che era tosto e io ho fatto il classico e
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non sono passati manco sei mesi dalla maturità e già non mi ricordo più niente di matematica." Sorride e continua a ciarlare. Michela le osserva la faccia sporca, i capelli bianchi che striano di grigio il cespuglio mai spazzolato che ha in testa. Ma quanti anni ha? Trentacinque? Trentotto? e glielo chiede. "Ne ho ventidue. Ma di solito me ne danno diciannove." Sorride e Michela si accorge che le manca un dente. "Ma quando inizieranno gli esami... tu sai uscire da...da qua?" Clara, sguardo bovino. Poi ride. "Ma certo. Te lo faccio vedere. Domani però. Stasera ci facciamo le chiacchiere tra donne, eh?" Michela, sorriso stretto, fa cenno di sì con la testa. È una speranza. Mai fidarsi, ma perfino una speranza così è pur sempre meglio che vagare in tutto quel nero che la circonda. Michela non sa come proseguire la conversazione. Clara a tratti sembra spegnersi, resta fissa con un'espressione inebetita sul viso. Il silenzio cala sulle due 47
mentre l'aria preme sul timpano. È un rumore costante di fondo, il sangue che pulsa in testa. Clara riprende a bere il tè, sguardo fisso nel vuoto. "Ma cos'è questo posto?" chiede Michela, cercando di spezzare l'oppressione del silenzio. "È una casa... O meglio, è casa sua." "Del ragazzo?" "Certo, non te l'ha detto?" "Sì, ma è tutto confuso..." "Eh, fico com'è, ti sconfonde proprio la testa" chioccia Clara "e pensa che la prima volta che mi ha mandato una foto via mail non ci volevo credere. Cioè, lo so, mi vedo come sono. Schifo non faccio ma non ho tette e c'ho il culo grosso. Però lo conoscevo da un po'. Sai, una di quelle cose nate via chat. Le mie coinquiline non capivano perché passavo tutto quel tempo davanti a internet. Pensavano studiassi... Comunque, ci sentivamo. Io... Io non sono mai stata una, come dire... di successo. Anzi. Cioè, un paio di ragazzi mi erano anche venuti dietro. Uno era pure carino. Gli ho dato il mio primo bacio. Mi ha messo una mano in mezzo alle gambe. Portavo i jeans. Non ho capito subito che voleva fare. 48
Poi ha stretto la presa e mi ha infilato la lingua in bocca. Mi sono scansata e me ne sono andata. Stavamo su una panchina, in un giardino pubblico. Sono scappata via. Ho pianto nell'androne del palazzo prima di salire a casa. C'erano i miei, per fortuna guardavano la TV. Mi hanno salutato distratti. Sono schizzata in camera mia. Non ti dico che altri pianti dentro al cuscino per non farmi sentire. LĂŹ per lĂŹ non l'ho capito subito, ma avevo sbagliato tutto. Sai, le volte di notte che stavo da sola perchĂŠ tutte le mie amiche erano uscite con i fidanzati e io non avevo nessuno e non mi andava di stare tutta la sera buttata in un angolo mentre gli altri pomiciavano... Ecco, sai quelle notti lĂŹ, sai che facevo? Detto tra ragazze, sognavo. Sognavo che non stavo da sola. Sognavo che gliel'avevo data su quella panchina..."
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-X-
Michela ascolta la storia di Clara. Vorrebbe interromperla. Non gliene frega niente dei suoi amori adolescenziali. Vuole solo uscire da là . Ma Clara è la sua unica opzione. Lei, o farsi stuprare dal ragazzo piÚ bello che abbia mai visto, ma con le gambe deformi e piene di tumori e la lingua gelata e tagliente. Al solo ricordo del 50
contatto intimo con quell'appendice anatomica inumana, Michela deve trattenere un conato. Clara non se ne accorge e continua a parlare. "Che certo, se te la racconto così non ci capisci niente. È che stavo da sola. Mi sentivo sola. Avevo un sacco di amici, ma c'è un'età in cui avere un maschio, o comunque una storiella, è fondamentale. Sennò sei una cozza. Cioè, una indesiderabile. E allora pensi che non ci sarà mai nessuno per te. E hai paura. Che poi, paura di che... Ma vabbè, è paura di restare sola per sempre. Però non puoi darla neanche in giro, che se no diventi una zoccola. E certe etichette ti rimangono attaccate. E se le tue amiche cominciano a parlare di pompini, loro che sono fidanzate e possono, e te hai passato la serata davanti alla tv con mamma e papà... Ecco... È complicato. Almeno, per me lo è stato. C'era una che si chiamava Annabella. Era brutta. E non aveva neanche interesse a sistemarsi un attimo. Era la mia salvezza. Lei era ultima. Io almeno penultima. Poi si fidanzò anche lei. Con uno che balbettava e portava gli occhiali e con la scoliosi. Nessuno voleva uscire con loro. Li chiamavano Miss e Mister Schifo. Ma almeno loro il pomeriggio li vedevi 51
passeggiare insieme lungo il corso. Io stavo in un angolo, seduta sulla panchina, e ridevo quando gli altri ridevano. Ma tutti gli altri stavano abbracciati a qualcuno. Il tipo che mi piaceva, quello del primo bacio e della mano in mezzo alle gambe, una settimana dopo che ero scappata via si era fatto il motorino e c'aveva rimorchiato una che abitava dieci chilometri fuori dal paese. Tutti i giorni l'andava a prendere e la riportava. E così io stavo da sola. Sola per tutto il liceo e quando sono arrivata qui per l'università... Ecco. In realtà ho capito che là almeno qualcuno conoscevo. Qui nessuno per davvero." Clara ha ripreso colore. Non si interrompe più, racconta guardando il vuoto, continua a parlare e ogni intanto incespica sulle parole per la foga. "Quindi arrivo qua, prendo una stanza con due ragazze più grandi. Era un seminterrato. Loro erano diverse. A volte vedevo dei ragazzi che si fermavano a dormire con una delle due. E raramente era lo stesso. L'altra aveva l'uomo lontano. Pensavo fosse più tranquilla, finché una notte non si portò un ubriaco a casa. Era sbronza pure lei. Il giorno dopo, a colazione, la in52
contrai e le dissi che finalmente oggi poteva presentarci il suo famoso ragazzo. Lei mi guardò, la voce impastata e il fiato che puzzava. Mi chiese quale ragazzo. L'ubriaco non passò più. Lei faceva così. Quando si sentiva sola, beveva troppo. E quando beveva troppo tornava a casa con qualcuno. Ma ovviamente al suo grande amore al telefono non glielo raccontava mai. Oh, io non le giudicavo mica. Anzi. Un po' le invidiavo pure. Comunque sia, i primi sei mesi furono così, con io da sola a lezione. Avevo conosciuto un po' di colleghi e di gente di fuori che frequentava la facoltà come me. E qualche sera uscivamo anche. Un paio di loro si misero pure insieme e sai una cosa? Ero felice per loro. Davvero, io che avevo passato gli ultimi anni a rosicare per tutte le coppiette che si baciavano, per tutti quelli che camminano mano nella mano e ti costringono a scendere dal marciapiedi per farli passare, ecco, io ero in pace. Forse rassegnata. Andava bene così. Ed ero felice per loro. Alla fine, un paio di amicizie decenti ce le avevo. Avevo da studiare, potevo bestemmiare contro
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i professori e dare della zoccola alla mia vicina di stanza che strillava sfondami! sfondami! alle tre di mattina. E poi, un giorno, lui mi ha scritto. Diceva che il mio contatto l'aveva rubato a lezione, sentendo il mio nome l'aveva indovinato. Io sapevo che non era possibile. La mia mail era pallinarosa83. Però aveva una foto del profilo incredibile. Roba da sbavarci appresso. Era bellissimo. Così ho cominciato a chattare con lui. Ero convinta che avesse sbagliato ad aggiungermi... ma sai cosa ho pensato? Ho pensato che non me ne fregava niente. Se ne sarebbe accorto prima o poi. Forse mi aveva scambiato per un'altra. Ma intanto mi faceva compagnia. Ed era divertente flirtare così. Mi sentivo protetta. Non andavo in ansia come quando qualcuno mi parlava dal vivo. Facevo battute ed ero simpatica e tutte quelle cose lì. Ci scrivevamo per ore. Lui lo faceva dal lavoro, diceva che ero io a fargli compagnia. Io intanto facevo finta di studiare. E sì, facevo persino un po' la zoccoletta. Proprio senza ritegno. E poi è successo quello che non doveva succedere. Mi ha chiesto di uscire." 54
- XI -
C'è uno strano silenzio nella grande sala. Michela e Clara sono sedute una di fronte all'altra. Clara piange. Singhiozza piano. Michela non se l'aspettava e non sa che fare. CosÏ resta seduta senza il coraggio di alzare lo sguardo. La ragazza tira sul col naso e si passa una mano sul viso smocciolandosi poi tutta la manica. 55
E continua: "Scusa. È che fa ancora male... È una cosa strana. Quando pensi che non ti interessa più, che sei diventata grande, che ci hai fatto pace... Torna e ti butta giù e ti ritrovi a piangere come un'adolescente sul letto. Comunque, mi ha chiesto di uscire. Io non sapevo proprio che rispondergli. Andava bene tra di noi, davvero bene. Se però io rimanevo nascosta dietro una tastiera. Dal vivo... dal vivo che potevo fare? Non avevo nessuna esperienza! Ero cresciuta da sola. Non sapevo baciare. Oddio, e se mi baciava? Ho spento il computer senza neanche salutarlo. Ho afferrato la borsa e sono uscita di casa con la scusa di dover fare un salto in biblioteca. L'ho detto ad alta voce alle mie coinquiline a cui, ovviamente, non fregava nulla. Uscire serviva a me. Dovevo stare lontana dal PC, lontana dalla tentazione. Non ho acceso quel coso per tre giorni. Nel frattempo sono andata in giro, ridevo, facevo finta di niente. Ma non ero presente. Avevo un chiodo conficcato in testa perché sapevo che mi piaceva. Mi piaceva da morire. Mi piaceva ogni cosa di lui. Ma cercavo di essere razionale. Non l'avevo mai visto! Come facevo a 56
dire che mi piaceva? Mi ero completamente rincoglionita? Aveva on-line poche foto e mostravano sempre e solo il viso. Anche le mie erano così, quindi eravamo pari. Ma le mie servivano a nascondere il culone e le poche tette. Ma lui? Che problema aveva? Aveva un viso a dir poco meraviglioso. Che fosse un ciccione? Guardavo i ragazzi in facoltà e montavo la sua faccia sui corpi degli altri. Cercavo di ricostruirlo con l'immaginazione. Era alto? Basso? Tentavo di convincermi che c'era sicuramente qualcosa che non andava in lui. Che era tutto sbagliato. Che era una fregatura, una stronzata da cerebrolesa e che neanche in un film della Disney poteva funzionare una cosa così. Ma più negavo il tutto, più ci ricascavo dentro. La cosa terribile è stata quando me lo sono sognato. C'ero io che andavo in facoltà e dovevo preparare un esame di chimica. Io mica la studiavo chimica all'università ma era la materia che più odiavo al liceo. Stavo da sola in quella stanza enorme. Noi non avevamo stanze del genere in facoltà. Comunque, era enorme la stanza ed enorme pure la lavagna. Era piena scritte e dise57
gni, di composti chimici e di formule. E io sapevo che quello era il mio esame e che non avevo la piÚ pallida idea di cosa ci fosse scritto. Quindi uscivo dalla stanza e andavo alla macchinetta a prendermi un caffè. Di solito non si può uscire durante gli esami ma io lo facevo senza problemi e andavo alla macchinetta. Ma non c'era la macchinetta, c'era un bar. E io chiedevo uno spritz. E nei corridoi non c'era nessuno. E poi arrivava lui. Sapevo che era lui anche senza girarmi. Mi arrivava alle spalle. Mi abbracciava, io sentivo il calore del suo corpo lungo tutta la schiena. Mi baciava il collo, la nuca. Sentivo le sue mani calde su di me. E poi c'era un sacco di gente nei corridoi. E io sentivo la sua mano in mezzo alle gambe. Era calda. E mi piaceva. Mi piaceva un sacco che mi toccasse. E che lo facesse davanti a tutti. Sentivo la sua mano e mi ci appoggiavo con il bacino. Mi ci strusciavo. Lo volevo sentire dentro di me. 58
Abbiamo cominciato a fare l'amore. Spingeva e ci muovevamo all'unisono. Io ero appoggiata al bancone e pensavo che, se avessi dovuto sollevare lo spritz, probabilmente non ce l'avrei mai fatta perchĂŠ mi tremavano le mani. Lui, da dietro, continuava a spingere. La sua mano, sempre in mezzo alle gambe, mi teneva ferma e accompagnava il movimento accarezzandomi... Mi sono svegliata zuppa. Pensavo mi fosse venuto il ciclo ma no. Lo volevo. Lo volevo come mai nessun altro nella vita. Non me ne fregava niente se era ciccione o alto o basso. Non mi fregava niente se era uno stupratore o un maniaco o se tutto quello che mi aveva scritto erano solo bugie. Lo desideravo come mai avevo desiderato niente nella vita. Mi aveva riempito le giornate. Mi aveva fatto sentire meno sola. Era diventato il mio punto di riferimento. E io c'ero cascata. Ero innamorata. Ho acceso il PC. Lui era connesso. Non l'ho neanche salutato. Gli ho scritto tutto. Che mi dispiaceva essere sparita, che magari adesso mi odiava ma che mi ero spaventata a morte per la sua richiesta ma che sĂŹ, vole59
vo uscire con lui se ancora voleva, che se non voleva lo capivo e che aveva ragione a essere arrabbiato e che stavo lÏ e che se voleva uscire ero davvero felice. Ci ha messo un po' a rispondere. Ho aspettato. Quasi non respiravo. Poi mi ha scritto che ci saremmo visti l'indomani, se per me andava bene. Io, quella notte, non ci ho dormito per l'ansia. Il giorno dopo ho persino chiesto una maglietta un po' scollata a una mia coinquilina. Volevo farmi bella per lui. E quando sono andata all'appuntamento e l'ho visto arrivare... Bè, ci credi se ti dico che ero talmente cotta che non mi sono neanche accorta che zoppicava?!"
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- XII -
Gli occhi di Clara brillano nella penombra. Michela la guarda e si commuove un po'. Non pensava che il terrore di quelle ultime ore si potesse sciogliere cosĂŹ. Poi un dettaglio le si pianta in testa. Zoppicava...
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Michela si alza di scatto e afferra Clara per le spalle. La tazza col tè cade in terra e va in mille pezzi. "Zoppicava? Zoppicava davvero?! Sei uscita con LUI!?!" "È bello, vero?" "Clara, quel coso è una specie di... di mostro! Che è successo? Ti ha violentata? Come sei finita qua dentro a ..." Michela fa un passo indietro e guarda la ragazza inorridita, poi con un gesto indica il misero accampamento e sussurra: "Tu vivi qui adesso... vivi con lui..." Clara la guarda, con il solito sguardo bovino. Poi esplode in una risata che riecheggia nell'aria e rotola sulle assi nere del pavimento, perdendosi nell'oscurità malamente rischiarata. "E come potrei vivere con lui? Lui è una specie di... di... Vedi, lui è a metà tra un incubo e un dio..." Michela si mette di nuovo seduta. Guarda Clara e furtivamente controlla che non ci sia nessun altro. Lascia vagare lo sguardo nella penombra ma non c'è alcun movimento. O almeno così le sembra. Si rivolge di nuovo alla sua compagna. 62
"Tu sai uscire da qui? Sai uscire per davvero?" dice Michela sottolineando le due ultime parole. Clara la rassicura: "Certamente. Ma c'è tanta strada da fare." "Già..." sussurra Michela. Vorrebbe scappare... ma dove? Ormai non ho altra scelta. Allucinazione indotta dalla droga, brutto sogno, qualunque cosa sia quella che sta vivendo, non riesce a svegliarsi. E così si aggrappa all'unica speranza che le resta. Devo raggiungere la macchina... L'auto non si può muovere ma è fuori. L'auto è reale. È in una strada reale da cui si può scappare, correre il più lontano possibile da lì. Deve riuscire a raggiungere l'auto. E quella ragazza è la sua unica speranza. Quel mostro l'ha corteggiata e lei è finita qua, prigioniera. Io col cazzo che faccio la sua fine... "Clara..." La ragazza, con uno scatto, si riprende dallo stato catatonico in cui è caduta, persa nei suoi ricordi. "Clara... cos'è successo dopo?" "Siamo usciti. Era bello. Te l'ho già detto che era bello? Tutte quelle ore passate china sul tavolo della cuci63
na a studiare. Tutti quei libri letti perché non avevo niente da fare. Tutte quelle ore passate in silenzio perché non avevo nessuno con cui parlare... bè, non c'erano più. Lui le aveva soffiate via dalla mia vita come si fa con la polvere. PPFFF!!! Via! Io... a volte vorrei poter ricordare di più. Quei giorni sono... confusi. Siamo usciti. Lui mi ha detto che era caduto dal motorino e per questo doveva usare le stampelle. Si prendeva in giro da solo e arrossiva... Io ero persa. Abbiamo passeggiato per un poco. Poi seduti in un bar per la maggior parte del tempo. Sì... un bar. E anche una panchina. Sotto un albero. Mi ricordo che faceva freddo ma non mi importava. Ero così felice. Ma la sai la cosa più stupida? Quella che mi ha fatto piangere di felicità? La sera. A letto. Ero a letto dopo quella splendida giornata passata a chiacchierare e a ridere e mi suona il cellulare. Mi devo alzare perché a quell'ora non mi cercava mai a nessuno e lo lasciavo spesso in giro. Ce l'avevo nella borsa. Mi ricordo che ho pensato che fosse qualche pubblicità ma che per fortu64
na aveva suonato cosĂŹ lo potevo mettere in carica che me l'ero scordato. Sono scesa dal letto. I piedi sul pavimento freddo. Ho saltellato, rabbrividendo ad ogni passo. Ho cercato il cellulare. Come al solito, si era infilato in una tasca laterale e ho dovuto svuotare tutta la borsa per trovarlo. Alla fine lo prendo. Lo schermo si illumina e allora leggo il messaggio. Era lui. Nessuna pubblicitĂ . Solo lui. Mi scriveva che era stato bene oggi e mi augurava la buonanotte. E io ho cominciato a piangere. Piano piano. Tutti quegli anni da sola che si scioglievano sotto la luce di quel piccolo schermo. Sotto quelle poche parole. Sotto quella piccola carezza virtuale. Mi sono avvolta nelle coperte continuando a fissare lo schermo che brillava nell'oscuritĂ della stanza. Ho letto e riletto quel messaggio come una preghiera fino da addormentarmi. La mattina dopo mi sono svegliata di soprassalto e mi sono subito resa conto che avevo fatto una stupidaggine. Non gli avevo neanche risposto. Che imbranata! Ho scritto un messaggio di buongiorno chiedendogli 65
scusa ma non avevo sentito il cellulare la sera prima. Gli chiedevo che cosa facesse durante la giornata. Gli mandavo uno smile col bacio. Una bugia e un bacio, questo era il meglio che sapevo fare. Mi ha risposto dopo un po', mentre mi lavavo i denti di corsa che ero in ritardo per andare a lezione. Mi diceva che non c'era problema per la buonanotte e che purtroppo era bloccato a casa con la gamba dolorante. Mi chiedeva scusa se era così un catorcio questo periodo e mi confessava che però gli andava moltissimo di rivedermi. E mi invitava a casa sua." Clara tace. Michela si è portata una mano alla bocca, istintivamente. Quando la ragazza ricomincia a parlare, la sua voce è un sussurro: "E sai? Io ho pensato che forse dovevo pensare ai preservativi. Ti giuro! Ho pensato che forse avrei fatto per la prima volta l'amore! Ed ero proprio felice che fosse lui. E speravo non facesse male e forse era meglio aspettare che non ci eravamo ancora baciati e insomma, tutte quelle cose da donna lì. Ma non ero preoccupata. Oddio, un po' sì. Ma ero felice di 66
avere certi problemi. Erano normali. Una ragazza certi problemi ce li deve avere, finalmente erano problemi da donna. Ero proprio una stupida... Mica ho pensato a... a..." la voce le si strozza in gola e indica se stessa. Non la casa, non i mobili ammucchiati nel rifugio, non le bambole e il servizio da tè. Con un gesto semplice, sottolinea la sua figura emaciata, pallida, scarmigliata. "Non ho pensato che mi avrebbe strappato il cuore."
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- XIII -
"Ti... ti ha stuprata?" chiede in un sussurro Michela. Clara l'osserva, come a cercare nella sua testa il significato di quella parola. Poi agita le mani davanti a sÊ: "No! Ma che dici!" Michela non capisce. Cosa diavolo è successo quel giorno? E si scopre ad avere paura a chiederlo. Ma Clara ri68
prende a raccontare: "E insomma, mi lavo. Mi faccio carina. Ci metto due ore a scegliere cosa mettermi. Provo a truccarmi ma per l'emozione esagero e mi guardo allo specchio e sembro una che batte e mi tocca rifare tutto da capo ma alla fine riesco a darmi una sistemata ed esco. Ci metto un po' a trovare la strada. Mi aveva dato indicazioni per una parte della città che non conoscevo. Sai che per un momento ho persino pensato di non andare? Ero già per strada. Camminavo cercando di stare tranquilla. Ero un po' tesa... Comunque, a un certo punto mi sono vista con la coda dell'occhio in una vetrina. Mi sono fermata e mi sono osservata per bene. Truccata, con il decoltÊ in evidenza, strizzata in una maglietta che non era la mia... Non mi sono riconosciuta. Non ero io quella. E stavo per tornare indietro. Ti giuro! Tornare indietro... Per far cosa poi? Per mettermi alla scrivania e studiare? A piangere sul letto per quanto ero deficiente? Mi sono girata. Quella vita era finita. Ero una donna nuova, adesso. E avevo un appuntamento a casa del mio uomo. Mi sono rimessa in cammino e mi ci è voluto davvero 69
tantissimo a trovare l'indirizzo che mi aveva dato. Ma per tutto il tragitto ho sorriso. Il mio uomo. Lo sentivo mio. Ero già sicura di noi. Che stupida... Avevo una voglia matta di lui. Avevo una voglia matta di sentire la sua mano in mezzo alla gambe. Accelero il passo, sento caldo e apro un po' la giacca. Incrocio un ragazzo che al volo mi lancia uno sguardo alle tette. Sorrido. Sono felice. Ci metto più di un'ora ma alla fine trovo la via giusta. Tutta la zona sembra abbandonata. Finestre sporche, persiane sprangate, facciate dall'intonaco scrostato e balconi dai vasi pieni di erbacce secche. Quando arrivo davanti al suo portone, ho un po' paura. Mi schiarisco la voce e suono. Il portone si apre con uno scatto. Nessuno mi ha risposto, infilo la testa e chiedo se c'è nessuno. C'è l'eco nell'androne. La mia voce rimbalza e per un po' nessuno risponde. Poi una luce illumina la grande sala là in fondo e la sua voce mi dice di raggiungerlo. Arrivo. Mi aspetta sulla soglia. Entro. Mi bacia. 70
Lo lascio fare, anche se ha la lingua fredda. Non mi importa. Lo voglio. Stranamente, solo allora mi accorgo che quando mi ha chiamato la sua, di voce, non ha avuto eco. E la cosa mi terrorizza." Clara resta in silenzio. Tanto Michela è sexy nel suo vestito nero, tanto è trascurata lei nei suoi stracci raccattati in giro chissà dove. Eppure entrambe sono vittime. E per quanto Michela sia finita in quella situazione per caso, non riesce a condannare la stupidità dell'altra. Ha provato sulla sua pelle il fascino del loro ospite e ha sentito anche lei il freddo di quella lingua in bocca. "Clara, mi dispiace tanto..." Clara alza gli occhi, ha le guance rigate di lacrime e le labbra tremano mentre cerca di trattenersi. Non ce la fa e scoppia in un pianto a dirotto e singhiozza le parole mentre dice: "Sono stata un'ingenua... Una stupida... Si è preso tutto. Tutto di me. Si è preso i miei sogni, il mio amore, la mia solitudine, si è preso la mia anima..." Clara si sbottona la camicetta. Michela sbianca e si alza di scatto. Il petto della ragazza è squarciato, la 71
gabbia toracica aperta verso l'esterno, le ossa spuntano dalla pelle lacerata come denti rotti, il sangue rappreso è una crosta putrida. La cavità sotto lo sterno è esposta e c'è un buco grande quasi quanto un pugno. "Si è preso il mio cuore."
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- XIV -
Michela comincia a correre. Sente Clara che le urla di fermarsi ma non si volta neanche. Non sa dove andare, non ha punti di riferimento. Vuole solo allontanarsi il piĂš possibile da quel... Quel mostro! La figura emaciata e vestita di stracci spunta da dietro un mucchio di mobili all'improvviso. Cerca di inter73
cettare la corsa della ragazza ma Michela strilla e le dà una spinta. La figura si piega come un lenzuolo là dove dovrebbe esserci il busto. Le braccia sono due pezzi di scopa legati alla meno peggio alla testa e il cranio è disarticolato rispetto alle gambe. La figura manca totalmente del petto e degli arti superiori. Rotea su se stessa, inciampa nel lenzuolo che la riveste e crolla a terra. Michela corre a più non posso, i muscoli delle belle gambe che le bruciano, i polmoni in fiamme. Vorrebbe piangere e urlare ma non ha abbastanza fiato e quindi continua a lanciarsi in avanti. Un dolore acuto alla coscia la costringe a fermarsi. Zoppica. Si volta. È sola. Gira su se stessa, facendo attenzione a non poggiare il peso sulla gamba offesa. Mi sono solo strappata un muscolo. Basta fare attenzione. Solo strappata. Se cammino piano va tutto bene... Le sue orme sul pavimento polveroso sono chiaramente visibili ma né Clara né la figura spezzata sembrano essere sulle sue tracce. Michela continua a camminare e poi realizza che ha corso sempre in linea retta... ma è partita da un angolo della gigantesca stanza. Se cammino verso sinistra prima o poi dovrei riavvicinarmi 74
al muro... pensa, e così fa. Cammina zoppicando, si volta di tanto in tanto e tenta di non lasciare nessuna impronta nella polvere. Cerca di penetrare l'oscurità indistinta di fronte a lei. Ritrova il muro. Stranamente, il contatto con la parete rugosa la tranquillizza. La sua mente sconvolta si aggrappa a quel dettaglio di realtà in quell'incubo che è diventato la sua vita. Non stacca la mano dalla parete. Continua a camminare, la gamba che fa male, la vista offuscata, la paura che torna a tratti e allora getta un'occhiata dietro di sé ma nessuno la segue. Ha una stretta allo stomaco. Avanza più per non scoppiare in un pianto isterico che per la speranza di trovare una via di fuga, quando la sua mano si chiude su un pomello. Si blocca, lì per lì non è sicura di quello che ha afferrato. Si volta e lo osserva. È il pomello di una porta. Di quelli a sfera, d'ottone. Si scopre a stringerlo convulsamente, la mano che leggermente trema, le nocche sbiancate. Si guarda intorno, preoccupata. Non c'è nessuno. Prova a girare di poco il polso. Una torsione minima, come se non potesse sopportare la delusione di scoprire 75
che si tratta di un inganno, che è sigillata dentro quell'immenso ventre di balena per sempre. Il pomello gira. Si sente uno scatto, la serratura si apre. Michela è in affanno, il fiato corto. La porta, nera come la parete tanto da mimetizzarsi, si socchiude un poco e si blocca. Michela sta per scoppiare a piangere. Con un urlo selvaggio strattona la porta. Una, due volte. Alla terza l'anta cede di poco. Michela si incastra nello spiraglio e cerca di sgusciare dall'altra parte. La maniglia le preme sulla pancia, lo stipite le graffia la schiena. "Aspetta!" urla la voce di Clara. Michela volta la testa, vede la ragazza e la figura vestita di stracci che corrono scomposte nella sua direzione. Sudore freddo le ghiaccia la schiena. Con uno strattone si strappa il vestito e riesce a passare. Sbatte la porta con forza, trova una chiave e gira e chiude e spezza la chiave nella serratura e si taglia il palmo della mano. La porta rimbomba e sussulta sotto le spinte di Clara e del suo compagno. La voce stridula dall'altra parte urla parole incomprensibili. Michela scivola a terra, pian-
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ge e si sporca la faccia di sangue passandosi la mano sul viso. Con un ultimo sussulto la porta resta immobile. Michela si alza, la gamba sempre dolorante. Quell'improvvisa calma la spaventa più delle urla e dei tonfi. Si guarda intorno per la prima volta. È finita su dei gradini. Una lunga e stretta scala che finisce a neanche un metro della porta, si inerpica davanti a lei e conduce chissà dove. Non c'è nient'altro. La scala è stretta, ci passa giusto una persona. Ed è ripida, tanto che non si riesce a vedere cosa c'e in cima. Tornare indietro non è possibile. Clara e il suo mostruoso compagno potrebbero essere in agguato dietro la porta. Michela non può far nient'altro che percorrere gli stretti gradini e salire. Non c'è un corrimano ed è costretta ad appoggiarsi al muro. Lascia una striscia di sangue che la segue mentre zoppica e sale.
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- XV -
La scala sfocia in un corridoio di poco piÚ largo. Non ci sono finestre e a intervalli regolari spuntano dal muro delle applique di bronzo che pendono come grappoli d'uva luminescenti. Sui muri c'è una carta da parati a righe rosse e panna orizzontali. Il corridoio si perde in profondità e le linee rette aumentano il senso di verti78
gine. Michela zoppica in avanti. È tesa e il silenzio tombale che la circonda aumenta la sua ansia. Il corridoio sembra andare avanti all'infinito. La ragazza non ha altra scelta se non procedere. All'improvviso, sulla destra appare una svolta. È un altro corridoio stretto e lunghissimo. Le linee ipnotiche della carta da parati lo nascondono dal punto di vista forzato di chi avanza lungo la diramazione principale. Michela se l'è ritrovato a fianco prima di realizzare cosa fosse. A prima vista, non ci sono porte né altre svolte. Anche questo nuovo corridoio sembra andare avanti all'infinito. Stesse linee rosse e panna alla pareti, stesse applique bronzee a illuminare il pavimento scuro. Michela non sa che fare e resta lì, in piedi. I due corridoi sono uguali. La ragazza tende l'orecchio ma niente, lo stesso silenzio. Sono davvero da sola? si chiede e ha paura della risposta. La mano gocciola sangue e Michela si rende conto della ferita solo adesso. Non ha niente con sé per fasciarsi la mano e così la preme forte sulla gonna e meccanicamente ricomincia ad avanzare lungo il corridoio originale. 79
Almeno in questo modo tengo le scale da cui provengo come punto di riferimento. Sempre meglio di niente. Dopo una decina di passi il dolore alla coscia e alla mano si sono fatti più acuti. L'atmosfera rarefatta del corridoio la fa rabbrividire. A intervalli regolari si aprono nuove diramazioni, a destra e a sinistra. Tutte uguali tra loro. È un cazzo di labirinto... e con la mano ferita stringe la gonna. Non sa se la cosa possa aiutarla davvero a fermare l'emorragia ma non ha idee migliori. I nuovi corridoi appaiono all'improvviso, tutti rossi e panna. A Michela comincia a girare la testa. Forse la stanchezza, forse il ripetersi ossessivo dei colori o forse la perdita di sangue. Alla fine, svolta a destra. Per quanto a prima vista sia del tutto identico al precedente, c'è qualcosa di differente in questo corridoio. Questa sensazione appena accennata la risveglia dal torpore in cui era caduta. Continua a camminare, cercando di capire cos'è che l'ha colpita. Il corridoio è in leggera salita?
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Si volta. A parte l'effetto ottico di profondità infinita dato dalle linee sul muro, non le sembra proprio che ci sia un dislivello. Ci mancava solo il labirinto... Se non è il pavimento allora... Si ferma di scatto. Davanti a lei c'è un incrocio a T. E solo allora realizza. Una variazione di temperatura nell'aria. Una sorta di corrente. Troppo esile per definirla uno spiffero, la percepisce nettamente sulle gambe. Se c'è una corrente d'aria, forse c'è una finestra, o una porta! Michela ci spera, ci spera tantissimo ma seguire la debole traccia si rivela più difficile del previsto. Spesso imbocca una delle svolte nascoste e spesso è costretta a tornare sui suoi passi. Si accorge di aver lasciato una traccia di macchie di sangue sul pavimento e quando le incrocia sa di essere già passata di là. Ma la cosa non l'aiuta a capire da dove provenga quel debole refolo d'aria. Non sa da quanto è chiusa in quel labirinto. Non si è neanche sorpresa nel trovare una struttura così assurda 81
sui suoi passi. Il confine tra cosa è realtà e cosa è frutto della sua immaginazione ormai è così labile che le sue sensazioni sono basilari. Paura, caldo, freddo. Speranza. Speranza di trovare una porta, una finestra, una via di fuga qualsiasi. Non è importante se si tratta di un sogno o di un'allucinazione. Non è importante se il suo corpo giace privo di sensi nella sua automobile sotto la pioggia o se in quel preciso momento il ragazzo che l'ha drogata la sta stuprando dopo aver chiamato un gruppo di amici che aspettano il proprio turno e registrano con i cellulari. Solo scappare da lì è importante. Scappare da quella casa e dai mostri che contiene. La corrente d'aria si fa più forte a ogni svolta. Michela è sulla strada giusta. Aumenta il passo. Una svolta, poi un'altra ancora e finalmente la vede. Una porta di legno scuro che stacca nettamente dal panna e dal rosso che la circondano. La porta è socchiusa e il vento la fa oscillare lentamente sui cardini. Michela, terrorizzata dal fatto che una folata più forte possa richiuderla, comincia a corre82
re. Sempre zoppicando, sempre ferita, non presta attenzione a nient'altro che non sia la porta. Ti prego non chiuderti. NON CHIUDERTI! Non si accorge della figura che l'aspetta accovacciata nell'ultimo corridoio sulla destra finchÊ non è troppo tardi. L'uomo scatta e la scaraventa contro il muro. Michela non riesce a proteggersi e sbatte violentemente la testa. La vista le si annebbia mentre un viso completamente bendato si china su di lei. Bende bianche si alternano ad altre cremisi, proprio come nel corridoio. Il rosso... Il rosso è sangue...
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- XVI -
Michela è distesa. Sono distesa? Si guarda intorno. Ci sono strisce rosse alle pareti. La cosa le mette ansia. Adesso mi alzo... 84
I legacci intorno alle caviglie e ai polsi si tendono e le fanno male. Michela ruota la testa indolenzita verso la mano sinistra e solo allora vede la vecchia corda sfilacciata che le serra il polso. Alza lo sguardo. Ogni movimento è un'agonia, la testa le pulsa. La corda si infila tra le sbarre di ferro arrugginito della testiera di un vecchio letto. È un concetto semplice ma ci mette un po' ad assimilarlo. Il dolore le rende difficile ragionare. Poi improvvisamente realizza di essere legata e la paura le schiarisce i pensieri. Scalcia con forza e sente la corda che le ferisce la carne. Si agita, strattona la vecchia struttura del letto che geme, si piega, ma non cede. Oddio ti prego no ti prego no ti prego no no no no! "Così ti fai male" dice una voce maschile. Michela si volta di scatto ma dalla sua posizione non riesce a vedere chi sta parlando. "Io non voglio che ti fai male... Non voglio farmi male io. Questo è importante. Non voglio farti male. Spero che tu lo capisca..." La voce è leggermente stridula, sabbiosa, come quella di qualcuno che non parla da molto tempo. E ha uno 85
strano difetto di pronuncia, come se le sillabe scappassero dalla bocca. "Liberami! Liberami subito, cazzo!" urla la ragazza. "Non posso, mi dispiace..." ribatte la voce "scapperesti e urleresti. Ma io voglio solo aiutarti, davvero. Non voglio che ti succeda niente. O che lui ti trovi. Mi dispiace, mi dispiace tanto..." L'uomo comincia a piangere. Michela suda freddo dalla paura. "Ok, ok, sta' calmo... Liberami, ti prego, le corde mi fanno male. Io ti prometto che non scappo. Ma se mi liberi possiamo parlare... Ti prego..." La voce singhiozza e parla e Michela fa fatica a capire le parole. "Mi dispiace, non volevo farti male, mi dispiace. Ăˆ che so che se la gente mi vede poi scappa. Non era cosĂŹ prima. Ăˆ per questo che non esco. Ma purtroppo ho incontrato lui, non volevo che finisse cosĂŹ. Mi dispiace..." Michela comincia a capire. "A te..." Michela prova a chiedere "a te... Cosa ha preso?"
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Sente l'uomo che si alza e le si avvicina strascicando i piedi. Merda... Non ti avvicinare brutto stron... L'uomo entra nella sua visuale e Michela deglutisce a vuoto, la bocca secca per la paura. Al posto del viso ha delle bende incrostate di sangue rappreso. Le strisce di stoffa sono tirate, il pus le chiazza di giallo dove dovrebbe esserci il naso. Gli occhi senza palpebre sono iniettati di rosso, i capillari rotti, la bocca mostra i denti anneriti e sul mento cola bava. L'uomo sputa quando parla. "Mi ha rubato la faccia..." dice biascicando le parole in quella bocca senza labbra. Michela non riesce a credere ai suoi occhi. E solo allora realizza. La figura senza torso, Clara senza cuore, il suo carceriere senza faccia. È una ragionamento folle ma è l'unico sensato in quella situazione. Non è un'allucinazione. Non è un sogno né la droga. Questi sono i relitti che si è lasciato dietro. Sono gli scarti. Si è costruito con i pezzi degli altri. È una specie di Frankenstein. È un ladro... E siamo tutti sue vittime... "Tu... Come ti chiami?" 87
"Raoul... Tu?" "Michela... Senti, non è che mi libereresti?" E nell'assurdità della situazione, Raoul scioglie le corde con dolcezza e la libera. Solo allora la ragazza, mettendosi a sedere sul letto, nota le spalle curve, il non incrociare mai il suo sguardo, la paura. Quel ragazzo è terrorizzato da lei. Allora Michela fa una cosa che la sorprende. Se ne rende solo conto dopo aver finito di parlare ma oramai è troppo tardi. Guarda Raoul che cerca di non incrociare il suo sguardo e si è allontanato da lei. Lo osserva bene, poi sospira, sorride e gli dice: "Racconta."
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- XVII -
"Volevo fare il cantante. Me lo dicevano tutti che avevo una bella voce. Il cantante e l'attore. Mi dicevano tutti che ero bello. Io ci ho creduto. Mia madre mi diceva che dovevo studiare ma non le ho dato retta. Vedi, per me era una questione di potere. LĂŹ per lĂŹ non l'avevo capito. Ero piĂš... semplice... in quegli anni, 89
però avevo capito che potevo ottenere delle cose se mi vestivo bene. Se mi facevo le lampade, se mi acchittavo un po'... era tutto più facile. Questa storia di solito si racconta per le ragazze. Ed è ovvio, è tutto più facile per loro. Ma quei rapporti di forza, quella specie di selezione naturale vale anche per gli uomini. Magari devi solo starci più attento. E sai la cosa peggiore? Che lo sapevo. Ma mi ritenevo superiore. Sapevo che ero uno squalo in una vasca di pesci rossi e che quindi, anche se mi sistemavo le sopracciglia, mi depilavo, mi tatuavo e mi indebitavo per comprare l'auto di lusso, io comunque non ero come gli altri. Come loro. Poi da fuori ovvio che lo sembravo. Portavo jeans da duecentocinquanta euro. Come dovevo apparire? Dovevo apparire vincente. Era tutto lì il trucco. Comunque sia, sapevo che certa roba non arrivava da sola dal cielo ma che ti devi sporcare le mani. Che credi? Non sono mai stato stupido. Forse un po' ingenuo. Ma non stupido. A cantare, sapevo cantare. Ballare lasciamo perdere. Non era proprio il mio forte. Dovevo imparare a recita90
re. Andai a cercare una scuola. Era una roba polverosa e vecchia in un teatro pieno di muffa e tutti portavano gli occhiali. Me ne sono andato ma ho cominciato a raccontare che avevo studiato lì e che conoscevo quel tipo piuttosto che quell'altro. Mia madre continuava a dirmi di riprendere a studiare. Magari ingegneria. Io ero sempre in giro e riuscivo a rimorchiarmi una tipa diversa praticamente ogni sera. Andavo per locali. Di solito erano donne più grandi e mi pagavano da bere. Di solito erano palestrate e ancora in forma e con le tette finte e scopavamo a casa loro. Se volevo carne giovane offrivo io al bancone. Ma non era poi così tanto più difficile portarsele a letto. Non più delle vecchie. Di solito scopavamo in macchina. Quindi no, ingegneria no. Non aveva senso. Avevo vent'anni. Il mondo era una merda. Non c'era lavoro. Li avevo visti quelli che studiavano. Un culo così, un sacco di spese e poi l'idraulico rumeno aveva la sportiva cabrio mentre loro faticavano a trovarsi una casa in affitto. Quindi grazie. Ma no, grazie. 91
Non avrei fatto quella fine. Sì, lo sapevo, ero partito vincente solo per il mio aspetto. Ma chi se ne fregava. Ce l'avevo, che senso aveva non sfruttarlo? Là fuori era una giungla. I miei avevano creato qualcosa. A dispetto dei sogni di gloria, a dispetto della umile origine dei miei nonni, erano riusciti a trovare i soldi per comprarsi una casa, crescere una famiglia. Erano andati in pensione. Erano riusciti a morire di tumore ai polmoni come mio padre. Erano normali. Noi, intendo quelli della mia generazione, non eravamo così. Quelle possibilità non ce l'avevamo. Ma potevamo fare di più. C'erano più occasioni oggi, sempre se eri disposto a metterti in gioco. Le storie che la TV ci raccontava erano di successo e di soldi. Ma per il successo dovevi comunque saperci fare. Io per esempio avevo dei pregiudizi sulle lampade abbronzanti. Fu una ragazza che frequentavo ad insistere che me le dovevo fare. Quelle e una sfoltita alle sopracciglia. Mi immaginavo mio padre che mi dava del frocio mentre stavo seduto e mi facevo sistemare. La cosa di92
vertente è che nel giro di una settimana mi ero scopato su quello stesso lettino proprio l'estetista, avevo mollato la ragazza che mi ci aveva portato e mi ero cominciato a vedere con la sua migliore amica. Era una piena di soldi. È stata una tosta. Mi sono dovuto mettere sotto in palestra. Ma in un paio di mesi anche quella era diventata una tacca sul calcio della mia pistola. Però le devo tanto perché è stata lei che mi ha fatto capire l'importanza del denaro. I soldi aprono mille porte. E non ce li devi neppure avere per davvero, l'importante è che gli altri ci credano. La prima volta che ho pagato una camicia quasi quanto il mio stipendio mi era sembrata una follia. Un mese dopo avevo capito che quella camicia, in certi ambienti in cui mi aveva introdotto la tipa, era una specie di divisa. Serviva ad affermare che eri come loro. Che eri uno a posto. Ho visto un sacco di gente che ci si è dannata l'anima per entrare in certi giri. E non era solo per la fica o per i soldi. È che tutti vogliamo sentirci parte di qualcosa. Siamo in competizione feroce, come tigri nella giungla, 93
perché vogliamo strappare il successo ai bastardi che ce l'hanno già. Siamo invidiosi e vogliamo diventare come loro. Io mi consideravo più furbo perché lo sapevo. E perché ero più cattivo di loro. Che coglione che ero. Purtroppo, l'ho capito solo quando mi hanno scuoiato via la faccia."
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- XVIII -
Raoul racconta la sua storia. Dice che gli hanno rubato il viso. Dice che gli hanno strappato via la faccia. Per questo è sempre bendato. A Michela non importa nulla. Ăˆ riuscita a farsi liberare e adesso si guarda intorno. La voce del ragazzo è una cantilena di sottofondo. Michela fa finta di ascolta95
re. Non osa muoversi. Ha paura di richiamare l'attenzione di Raoul prima di aver capito come scappare. Per ora, il suo ex-carceriere resta seduto poco lontano da lei, lo sguardo perso nel vuoto, la voce che esce rasposa e tritata da quei denti senza labbra. Raoul racconta che all'inizio erano solo piccoli lavoretti in discoteca. Si doveva far vedere per il locale e, se era necessario, servire al bancone. E gli avevano specificato che doveva sempre provarci con le clienti in qualche modo. Ci sapeva fare con le donne ma i suoi cocktail facevano davvero schifo... Insomma, funzionava poco come barman. Ma poi gli avevano spiegato che se continuava cosĂŹ non avrebbe ottenuto nulla. Fu una delle vecchie che si stava portando a letto a dirglielo. E gli disse pure che lei poteva indirizzarlo nei giri giusti. Era solo un problema di attenzione. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore, gli aveva detto. Quindi gli serviva un riflettore. E un cuore da far battere forte. Ci avrebbe pensato lei, gli aveva detto con un sorriso da squalo. Intanto, Raoul aveva scoperto che un servizio particolarmente gradito dalle sue amiche speciali era quello
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di arrivare già carico. Cocaina, per la maggior parte di loro. Così Raoul aveva chiamato un conoscente del liceo e aveva trovato un accordo. Con la cresta che riusciva a fare sul prezzo della roba guadagnava bene. Benissimo. Sua madre gli chiedeva da dove arrivassero tutti quei soldi ma lui se ne stava zitto e sorrideva. Raoul fa una pausa, ansima, come se ormai non fosse più abituato a parlare così a lungo e gli facesse fatica. Michela sta zitta e buona e si guarda intorno. La stanza non è molto grande, il letto a cui era legata ne occupa un angolo. Di fronte a lei c'è un salotto, o quel che ne resta. C'è un tappeto, un divano a tre posti e un basso tavolino. Raoul si è seduto a terra, tra il divano e il tavolino. Dietro di lui c'è una porta. Michela non sa se dà sul corridoio dove è stata catturata o se è una possibile via di fuga. Dovrebbe comunque superare prima il ragazzo, che riprende in quel momento a parlare e accarezza con le mani il tappeto. Improvvisamente, Michela realizza e un brivido di ribrezzo le si arrampica sulla schiena. Vorrebbe alzarsi di scatto dal materasso su cui è seduta. Spera che Raoul 97
non abbia malattie contagiose... Perché il ragazzo si gratta la faccia bendata ma il sangue è fresco e si sporca le mani. E con le mani imbratta il tappeto che sta accarezzando. E il divano. E il tavolino poco distante. E tutte le pareti e il materasso su cui è seduta Michela sono chiazzati di sangue rappreso. La ragazza si trattiene dal saltare in piedi e scattare verso la porta. Ingoia e annuisce. Raoul si accorge che c'è qualcosa che non va e interrompe il suo racconto. La guarda. Michela sorride a disagio e lo esorta a continuare. Raoul si gratta una crosta sul mento e poi riprende. Il ragazzo le racconta che aveva cominciato a guadagnare bene con la coca. E anche di più quando, oltre alla cresta, alcune delle sue amiche speciali avevano iniziato a rifilargli una mancia. Era prostituzione? Forse. Ma non gli importava in quei giorni. Gli importava solo che finalmente la sua amica speciale gli aveva detto che poteva organizzare un incontro con un agente. Uno di quelli grossi e che stava dietro al successo di un sacco di VIP. Alcuni dei suoi pupilli erano passati per dei reality, altri per piccole parti in qualche film. Quasi tutti ave98
vano recitato in fiction famose. Averlo come amico poteva essere la svolta definitiva. Una sera la vecchia gli aveva dato appuntamento in un hotel del centro. C'erano novitĂ , o almeno cosĂŹ aveva detto. Se l'era dovuta scopare. E stavolta la doppia striscia bianca che si era sparata l'aveva offerta lui. Erano distesi a letto quando lei l'aveva guardato e gli aveva messo una mano sulle palle, gliele aveva strette con forza e aveva sottolineato che il suo nuovo amico era molto contento di conoscerlo. Le aveva detto che aveva proprio un paio di idee su di lui. Raoul aveva sorriso, anche se le unghie della donna gli stavano ferendo l'inguine. La vecchia aveva sorriso a sua volta. Ma piĂš cattiva. Certo, c'era una piccola cosa che era meglio che il suo ragazzone capisse subito. Raoul si era mosso, a disagio. La donna non aveva mollato la presa. Per entrare in certi giri non bastava quel bel faccino, bisognava saper usare la testa... e non solo. Aveva stretto ancora. Raoul aveva mugolato. Bisognava esser furbi e farsi nuovi amici... Nuovi amici molto, molto speciali. 99
- XIX -
Michela siede sul materasso, le mani appoggiate in grembo. Di tanto in tanto annuisce ma non ascolta piĂš il ragazzo. Guarda la porta. Quanto ci metterebbe a raggiungerla con uno scatto? Una decina di passi, forse meno. Se solo avessi qualcosa con cui colpirlo... 100
Si immagina la scena. Lei che scatta, Raoul che cerca di fermarla, lei che lo colpisce in pieno volto. Raoul che si rotola a terra, le mani sul viso mentre lei raggiunge la porta e la apre e... "Stai bene?" le chiede il ragazzo. Michela sussulta. Tranquilla, stai tranquilla... "Mi dispiace per prima, per la corda e tutto il resto... Comunque, se vuoi, puoi andare. Non sei mia prigioniera." Michela osserva il suo ospite. Gli occhi sono gialli e venati dai capillari rotti e, senza le palpebre, lacrimano in continuazione. Ma sembrano sinceri. Michela si alza di scatto. Passa a fianco al ragazzo che la guarda sorpreso. Afferra la maniglia e la tira a sĂŠ con tanta forza quasi da strapparla. La porta si apre e sbatte contro il muro. Michela resta sulla soglia e si gira. "Non... Non era chiusa..." dice col fiatone. Raoul, che la guarda a bocca aperta: "Te l'avevo detto, no?" poi, come se improvvisamente realizzasse "oddio, ti avevo legato solo per non farti scappare! E ti ave101
vo afferrato nel corridoio per salvarti da lui! Credimi! Ti sarai spaventata a morte! Mi dispiace! Non volevo, davvero, non volevo..." si porta la mano alla bocca, in un gesto tanto assurdo quanto educato. Michela getta un'occhiata alle sue spalle, c'è un corridoio con tante porte ai lati, come il primo che ha incontrato. Niente strisce rosse alle pareti. Potrebbe portarmi fuori da qui... Sta per andarsene quando si rende conto che non può farcela. Non da sola. Cos'altro c'è là fuori che mi aspetta? Richiude la porta e stremata si siede a terra, poggia la schiena contro il legno scuro dell'anta e guarda Raoul. "Te lo sai come si esce da qua?" "No... o meglio, forse sì... ma non ci ho mai provato. Dove potrei andare conciato così?" "E che mi dici della pazza della stanza nera?" "Vuoi dire Clara?" "Sì, lei."
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"Clara non è cattiva. È solo che lui le ha preso una parte importante e non riesce a farsene una ragione. Credo che sia ancora innamorata di lui, sai?" "E la figura senza torso, quella specie di fantasma?" "Lui è stato il primo, nessuno sa la sua storia. Fa paura, eh?" "Il primo di cosa?" "Il primo di noi." Michela si guarda intorno, come se tutte le altre vittime del padrone di casa dovessero improvvisamente manifestarsi. "Ma quanti siete?" chiede sorpresa. "Non lo so, sinceramente..." dice Raoul "Clara, il senza busto e io siamo quelli che sono rimasti più vicini alla sua tana. Ma ci sono stati molti altri, soprattutto quelli a cui ha rubato qualcosa dalla testa. Ecco, quelli si sono allontanati. Si sono persi nella casa in profondità. Alcuni di loro si sono uccisi. A volte ne trovo il cadavere, sai? Perso in una delle stanze, o magari che ancora penzola da una corda attaccata al soffitto. Allora lo prendo e gli do sepoltura..." "Dove?" lo interrompe Michela. 103
"C'è una scala che sembra proseguire per sempre. Li prendo e li butto di sotto..." "Quella scala porta fuori di qui?" "Non penso... non ho mai neanche sentito il tonfo. È come se continuassero a cadere all'infinito." Michela ci pensa un attimo e poi chiede: "Che cosa fa esattamente lui?" "In che senso?" "Bè, mi stavi raccontando la tua storia... che cosa ti ha fatto esattamente? È la stessa cosa che ha fatto a Clara? O a quelli a cui ha rubato qualcosa dalla testa?" "No, è che lui è come invidioso. Ti cerca, ti segue e ti capisce. Ti sfrutta, o magari ti rimorchia. Insomma, riesce sempre a trovare il tuo punto debole, che sia un ricatto o una carezza, riesce sempre alla fine a rubare una parte di te." "Ma io che c'entro? L'ho incrociato per sbaglio, ero seduta in macchina a pensare ai fatti miei e..." "Lui non sbaglia mai. Se ti ha trovata, è perché sa che può fregarti." Michela resta in silenzio. Sta per piangere ma non vuole farlo davanti a Raoul. Non sa perché è capitata in 104
quell'incubo, non sa perchÊ è toccato a lei. Non sa come fuggirne. Non sa niente. Si siede a terra, si chiude su se stessa e abbraccia le gambe. Resta cosÏ, Raoul rispetta il suo silenzio. Poi con la voce spezzata dalla frustrazione, Michela dice: "Mi finisci di raccontare la tua storia, per favore?"
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La voce di Raoul esce tartagliante, i denti spezzano le parole e non ci sono labbra ad addolcirle. "Era un vecchio. Basso, pelato. Frocio. Mai avuto niente contro i froci. Però io sono etero. Ma al vecchio non importava. Aveva un busto di Mussolini e una gigantografia di Hitler che arringava la folla. Quando si è 106
accorto che le stavo guardando ha riso. Aveva un accento strano, come quello di un meridionale che ha vissuto tutta la sua vita al nord. Mi ha detto che lui adorava gli uomini forti. Che li amava. Gli piaceva anche la fica, certo. A chi non piace la fica? Per questo lui non li capiva i froci. Un bel culo di femmina è un bel culo di femmina. E quando te lo fotti, come strilla una femmina non strilla nient'altro. Ma per apprezzare davvero la mascolinità ci vuole un altro uomo. È uno scontro di volontà, diceva. È uno scontro di potenza! Poi mi ha guardato ed è arrossito tutto e ha alzato la voce e ha cominciato a dire che lui li odiava i froci mammoletta, i froci che si travestono. Tutti a cercare di fare le fiche ma le fiche mica ce l'hanno. No, a lui quelli così gli facevano schifo. A lui piacevano gli uomini potenti. Io non capivo dove voleva andare a parare quel suo discorso. Deve aver visto l'espressione stupita sul mio viso e si è calmato. Mi ha offerto una botta di coca. Ho accettato per educazione. Poi mi ha fatto vedere la casa. C'erano altri ospiti. Un paio li avevo visti in televisione. C'era una piscina. Una ragazza stava facendo un pompino a un tizio palestrato. 107
Il mio ospite ha ridacchiato, ha preso il secchio dove c'era una bottiglia di champagne e l'ha tirato contro la coppia, ghiaccio e tutto. Credo che abbia preso la ragazza in testa ma ci eravamo già allontanati mentre lui bofonchiava qualcosa sulle cagne in calore. C'era una stanza da bagno. C'erano delle statue in marmo dentro e qualcuno che si faceva la doccia. Il vecchio continuava a parlare, qualcosa sulla potenza e sulla lussuria. Citava sant'Agostino e un tizio francese. De Sate, De Sane, non ricordo. Era un marchese, mi pare, che scopava un sacco. Siamo arrivati davanti a una porta doppia. C'era sopra uno di quei cosi, come una scultura ma piatta. Mi sa che si chiamano bassorilievi. C'era scolpito un tipo con il sopra da uomo e il sotto con le zampe da capra. Aveva la corna e una coda corta corta. E si stava scopando proprio una capra, un animale. Il mio tipo mi fa l'occhiolino e apre la porta. Nella stanza è buio e ci metto un po' a capire com'è fatta. A terra c'è della moquette. È rosso scura, tipo sangue. Poi c'è un grosso letto, rotondo, con le tende. Le lenzuola sono di raso nere. Lo so bene perché una delle mie ami108
che speciali era una fissata. Il vecchio chiude la porta. Io mi giro di scatto. Mi dice di stare tranquillo, che non c'è problema, di non avere paura. Mi mette una mano sul culo. Resto immobile, sapevo che questo momento sarebbe arrivato. Respiro piano piano. Il vecchio chiama un certo Andrej. Le coperte si muovono, un ragazzo ci stava dormendo. È grosso. Biondo. Muscolosissimo. E completamente nudo. Andrej si avvicina docile, il vecchio riprende a parlare di volontà di potenza, di filosofi greci e di checche isteriche. Andrej gli si inginocchia davanti e gli sbottona i pantaloni. Il vecchio comincia ad avere l'affanno, parla di Stalin, di Gengis Khan, di Cesare e del grande Augusto. Andrej gli sta succhiando l'uccello. Il ragazzo mi guarda e, senza interrompere quello che sta facendo, mi prende per mano e mi tira giù. Il vecchio non mi presta più attenzione. Lì, in piedi, è tutto rosso in viso e parla di rivoluzioni, di potere e di come i preti abbiano castrato la vera potenza mascolina. Ma poi sussurra che stanno sempre e solo tra loro, conventi su conventi di
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monaci tutti uomini. 'Sti maledetti preti, tutti froci in nome di Dio. Mi inginocchio, Andrej mi guarda senza staccare mai la bocca dall'uccello del vecchio. Mi prende dietro la nuca e mi tira a sé. Deglutisco, chiudo gli occhi e apro la bocca. È la cosa più umiliante che abbia mai fatto ma so che tutto dipende da quello. La mano di Andrej dietro la nuca mi detta il ritmo. Io cerco di pensare a quanti soldi riuscirò a fare. Magari ci riesco a comprare una Mercedes. O una Jaguar coupé. Sì, una Jaguar. La presa di Andrej sui miei capelli si fa più forte. Capisco troppo tardi che cosa sta succedendo. Andrej non mi permette di allontanare la testa e sono costretto a bere o soffocare." Raoul smette di parlare. Il silenzio è pesante. Il ragazzo non ce la fa a continuare. E Michela si sorprende a confessarsi a sua volta, "La prima volta ha fatto schifo anche a me" dice. "Lui mi piaceva da morire ma quel gesto... È come se mi avesse violentata. Ho sputato tutto su un fazzoletto. Lui ha riso e mi ha sputato a sua volta in faccia. Ero stupida e ingenua e non ho capito cosa era successo 110
quel pomeriggio se non molti anni dopo. E da allora ho deciso che non mi sarei fatta più trattare così. Ho fatto pace col sesso. Adesso mi piace molto, anche fare quello se mi capita il partner giusto. Ma nessuno mi ha più sputato addosso..." "Sei stata brava. Io invece non mi ricordo molto bene cosa è successo dopo, ricordo che ho notato che non eravamo soli nella stanza. C'era un altra figura, ma ricordo che si vedeva chiaramente solo il torso nudo. Era come se il viso e le gambe fossero avvolte dal fumo. Ricordo che il vecchio mi fece vaghe promesse per un ruolo in un film. Ricordo che dovevo trattenere i conati di vomito. E ricordo che uscito dalla villa sono sceso dalla macchina, mi sono infilato in un vicolo e ho vomitato e vomitato. E mi sono reso conto di quanto la mia vita mi facesse schifo. Di quanto mi vergognassi di me stesso. Di come volessi lavarmi via la pelle. Di come avrei voluto strapparmi la faccia. Solo allora ho visto quel corpo monco nascosto nelle ombre del vicolo. Solo quel torso, come nelle statue antiche a cui mancano i pezzi. Mi è saltato addosso e quando mi sono risvegliato... 111
Bè, la mia faccia non c'era piÚ ed ero chiuso qua dentro, con un mostro che era senza gambe e che aveva un buco al posto del cuore. E che sorrideva con il mio viso."
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"Ăˆ con la tua faccia che è riuscito a fregare Clara?" Il ragazzo resta in silenzio, la testa reclinata, gli occhi senza palpebre che lacrimano inzuppando le bende piene di croste. "Raoul? Stai bene?"
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"Sì, sì... È con la mia faccia che le ha rubato il cuore. Non puoi capire quanto mi dispiace..." Raoul scoppia a piangere. Lacrime di un dolore antico, di quelli che non smettono mai di farti male. Michela si avvicina, gli posa una mano sulla testa. Da vicino Raoul puzza di sangue e di infezione e il suo primo istinto è di ritrarsi di scatto. Ma si trattiene. Raoul continua a singhiozzare. Michela invece ha bisogno di risposte. "Raoul, mi dispiace... Ma io voglio uscire da qua, voglio scappare. C'è la mia macchina qui fuori. Possiamo andare via insieme. Posso portarti da un dottore. Possono sistemarti la faccia." "Possiamo... Posso... Possono... E lui? Pensi che ti lascerà andare via così?" Michela ritira la mano di scatto, esasperata. "Ma io non c'entro nulla con questa storia! Mi si è solo fermata la macchina qua fuori e ho chiesto aiuto... Non sono come voi... Ho solo chiesto aiuto..." Michela si siede di nuovo e abbassa la gonna che le era salita lungo le cosce. Raoul la osserva bene e poi le posa gli occhi sulle gambe. 114
"Che stavi facendo prima di incontrarlo?" "Niente. Cercavo di far ripartire la macchina che si era fermata..." "Dove stavi andando?" "A cena con un tipo, ma non vedo come..." Raoul la interrompe. Non alza gli occhi dalle gambe e Michela non sa se è più a disagio per quello sguardo insistente o per le domande a raffica. "Il tipo della cena è il tuo ragazzo?" "No, è solo un conoscente, ma che c'entra..." "Perché non è il tuo ragazzo?" "Perché non ce l'ho un ragazzo." "E perché non ce l'hai?" "Scusa, ma non vedo proprio perché dovrei raccontarti gli affari miei." "Vuoi uscire da qua?" "E che c'entra?" "Se mi racconti, posso aiutarti." Raoul lo dice guardandola finalmente negli occhi. È serio, come se dalla storia di Michela potesse dipendere davvero la sua salvezza.
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"È una follia..." dice Michela scuotendo la testa. E poi comincia a parlare di corsa, come a sfogarsi. "Un ragazzo ce l'avevo. Una specie. Si chiamava Carlo. Era più grande di me di un paio d'anni. L'ho conosciuto in palestra. Io ero più cicciona di adesso. Carlo era il mio istruttore. Mi ha messa sotto. Mi ha stravolto la dieta e mi ha costretta ad allenarmi ogni giorno. Dopo sei mesi pesavo dieci chili di meno e avevo messo su il culo di una spogliarellista diciannovenne. Ed eravamo già finiti a letto un paio di volte. La cosa però non si sbloccava. Lui mi piaceva ma io facevo la dura. Avevo dei pregiudizi su di lui. Ci scopavo e basta. In fondo era un istruttore di palestra e io un'avvocatessa. Che avevamo da dirci? Questa storia alle mie amiche piaceva un casino. Ero quella che non si legava, quella che aveva due gambe fantastiche, un lavoro fantastico e non doveva passare a riprendere i marmocchi a scuola o si ritrovava con i mariti in cassa integrazione dentro casa. Ovviamente, le cose non stavano veramente in questo modo. Io mi sentivo sola ogni volta che Carlo non 116
c'era. Cercavo di fare la fica. Mi dicevo che se me l'ero scelto così in realtà era perché mi andava bene. Ero soddisfatta del mio lavoro. Non ero invidiosa degli altri. Mi raccontavo un sacco di bugie, lo ero eccome! Ero un'invidiosa marcia. Mi facevano stare male i figli delle mie amiche, mi faceva stare male andare a letto da sola senza nessuno da abbracciare, mi faceva stare male il mio lavoro. Cazzo! Ero fortunata ad averne uno e mi lamentavo pure! Il fatto è che il mio lavoro mi faceva schifo ma non potevo rinunciarci, sarebbe stato folle sputare su uno stipendio così mentre intorno a me la gente faceva fatica ad arrivare a fine mese. E così facevo una cosa terribile. Stavo ferma. Ero una vera vigliacca. Non affrontavo mai il problema. Giravo sempre lo sguardo da un'altra parte e stringevo i denti sperando che prima o poi il disagio passasse. Mi facevo andare bene le scopate con l'istruttore della palestra. Mi facevo andare bene guadagnare di più dei mariti falliti delle mie amiche. Mi facevo andare be117
ne l'essere una privilegiata del cazzo. Ma era solo vigliaccheria perché mi facevo andare bene tutto pur di non affrontare il cambiamento. Stavo male, mi sfogavo per ore correndo in palestra. Mi facevo leccare la fica negli spogliatoi in sveltine sotto la doccia e tornavo a casa da sola. E l'unica cosa che facevo era piangere. Piangere seduta sul divano. Avrei voluto scappare da tutto e da tutti. Ma ero una vigliacca di merda. Mi andava bene una storia a metà, un lavoro a metà, una vita a metà perché avevo una paura fottuta che scappando mi sarei ritrovata da sola. C'erano due me. Quella fica, quella con le gambe allenate e il culo scolpito, io che mi indossavo come un vestito tutte le mattine e mi buttavo via usata e sporca la sera. E poi c'era quella delle notti a lume di candela, seduta sul divano con una tazza di orzo in mano a piangere davanti a un vecchio film. La cosa era andata peggiorando finché un paio di mesi fa ero proprio arrivata al limite. Non riuscivo a gestire l'emotività e le crisi di pianto incontrollato erano 118
sempre più frequenti. Mi ero costruita una gabbia dorata. Un giorno mi arriva una telefonata. È del gestore della palestra che mi dice che Carlo si è schiantato con la moto. Stava facendo un giro di telefonate per avvertire gli amici e sapeva che noi due eravamo... Intimi. L'ha detto proprio così, con la pausa. Mi ha detto in che ospedale era ricoverato e a che orari erano permesse le visite. Ha aggiunto che per ora Carlo era tenuto in coma farmacologico e... Non ha finito la frase. L'ho ringraziato per avermi avvertito e ho attaccato. Non sono mai andata a trovarlo in ospedale. Non sono mai più tornata in palestra. Non mi sono neanche informata su che cosa fosse successo a Carlo, se stava bene e se si era ripreso. Non so che cosa pensare. Se è stato il massimo della mia vigliaccheria o forse la cosa più coraggiosa che abbia mai fatto. Di sicuro era una fuga da tutto e da tutti. Una corsa feroce per scappare via da me stessa, per andarmene da una situazione che mi faceva stare male. Ero egoista? Sicuro. E non me ne fregava un cazzo. 119
Credo di stare ancora scappando, divisa a metĂ tra la Michela invidiata e quella che piange, tra la possibilitĂ di realizzare qualcosa di bello e la paura di non farcela... L'uscita di stasera era la prima dopo mesi. La prima volta che provavo a stare sulle mie gambe, in cui provavo a riunire le mie due metĂ ... Che idiota che sono stata... Tutto questo dolore, tutta questa solitudine, tutto quanto solo perchĂŠ come una stupida mi ero innamorata di un istruttore di palestra. E non avevo mai trovato il coraggio di dirglielo."
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- XXII -
"Ecco perchĂŠ sei finita qua..." Raoul e Michela rimangono in silenzio a lungo. Poi il ragazzo alza la testa, come a cercare le parole sul soffitto dall'intonaco scrostato. "Fa sempre cosĂŹ. Ti trova in un momento in cui non gli puoi dire di no." 121
"Ma io ho solo rotto la macchina..." "Da quant'è che non uscivi di casa la sera? Da quant'è che volevi smettere di pensare alla tua storia fallita solo per colpa tua? Quanto eri stata vigliacca nel tenerti vicino quel tuo istruttore solo quando ti ha fatto comodo? E quanto ti sentivi una stronza per averlo abbandonato nel momento del bisogno?" Michela abbassa lo sguardo. Non risponde. Una lacrima le bagna la guancia e la ragazza l'asciuga con un gesto di stizza. "Di' la verità, questa storia... all'inizio ti è pure piaciuta. Quando ti ha invitato dentro casa, voglio dire. Forse ti sei pure trattenuta perché era storpio. Ma la situazione ti eccitava... Volevi sentirti viva almeno una volta. Volevi non pensare. Lui era bello, vero?" Michela ci mette un po' a rispondere. Si vergogna. "Era davvero molto... Affascinante... Avevo una voglia matta di baciarlo..." sospira "che stupida che sono stata..." dice Michela reggendosi la testa con le mani. "Eh, era la mia faccia quella. So bene l'effetto che fa sulle donne..." sorride Raoul. O almeno sembra che sor-
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rida, senza labbra è difficile da capire e il suo ghigno è quello di un teschio. "E adesso?" chiede Michela guardandosi intorno come a cercare una via di fuga. "Adesso dobbiamo andarcene da qui. La casa è enorme, ma lui ne conosce ogni angolo e prima poi ti troverà. Hai detto che hai una macchina, vero?" "Sì, ma è rotta." "Non è importante, è un appiglio. Sai quante centinaia di finestre ci sono qua dentro? Ma la tua macchina si vede solamente fuori da una di esse. Se la riusciamo a trovare, siamo sicuri che quella è la nostra via di fuga." "Io l'ho vista la mia auto, da una finestra della cucina, o quel che era." "Vicino alla sua tana... Dovremo muoverci rapidi e cercare di aggirarlo se lo incontriamo. Ma potrebbe funzionare..." Raoul traccia sulla polvere a terra un semicerchio e tira una linea retta a chiuderne la figura. Il sangue che sempre gli imbratta le mani si asciuga rapido sulle assi del pavimento.
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"Così, più lui si allontanerà dalla tana per cercarti, più noi potremo girargli intorno e arrivare alla finestra..." Michela si alza in piedi. "Bene, proviamoci. O la va o la spacca." "Vengo anch'io!" Michela e Raoul si girano di scatto. Clara è sulla porta, i pugni stretti stretti, li guarda come una bambina arrabbiata. Michela fa un passo indietro. Raoul si alza cercando di blandire la ragazza. "Clara, sii ragionevole..." "Non ci provare! Non ci resto un secondo di più in questo posto. Se sapete come uscire io vengo con voi. O mi metto a strillare così forte che mi sente e arriva e vi punisce a tutti e due!" "No! Ti prego, no! Fa' silenzio!" dice Raoul alzando le mani in segno di resa. La situazione è tesa. Michela guarda prima Raoul e poi Clara. La ragazza è rossa in faccia e urla sputando. "Brutto pezzo di merda! Volevi venderla a lui, vero? Volevi portargliela e dirgli di ridarti la faccia?!" 124
Michela si allontana verso la porta. Raoul si gira verso di lei, gli occhi cisposi sbarrati in un patetico tentativo di discolparsi. "No! Non è vero! È lei che vuole portarti da lui così da chiedergli indietro il cuore... Lo fa sempre!" "Stronzo! Sei uno stronzo!" urla Clara e si scaglia contro di lui, le unghie spezzate a strappargli le bende. Michela non sa che fare, i due continuano ad accapigliarsi sul pavimento. Non sa di chi fidarsi, non sa se aiutare lo sfregiato o la pazza... quando lo sente. Un rumore sordo che fa vibrare il pavimento. Che accelera. Che si fa più forte. Arriva! Lo pensa e lo urla. Clara e Raoul si girano. Guardano verso il corridoio, poi Michela che scatta in direzione opposta, esce dalla stanza e sbatte la porta dietro di sé. Il corridoio non è quello da cui è venuta. Michela si lancia in avanti. Rumori di lotta alle sue spalle. Non si volta. Uno stridio fortissimo è seguito da alcuni tonfi.
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E poi una voce bassa, quasi un ringhio, che sale e sale in un urlo cosĂŹ acuto, una pressione sui timpani, suoni disarticolati che si compongono in un'esplosione di rumore. Ăˆ lui. Ăˆ la sua voce. Mi sta chiamando!
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Michela ha trovato e ha salito delle scale, di questo è sicura. Ho sbagliato? No, non crede di aver sbagliato. Oziosamente, la sua testa continua a fissarsi sul pensiero delle scale. Nel
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momento in cui le ha imboccate la cosa le era sembrata una grande idea. Ma quanto sto salendo? Si domanda ogni volta e il suo stupore è sincero, perché non ricorda mai di essersi già fatta quella domanda. Resta così, inebetita, per un paio di minuti. Si accorge solo allora, o tutte le volte, di non avere le scarpe. Erano l'unica via di fuga, le scale. Un brivido le corre lungo la schiena e Michela si appoggia alla ringhiera e guarda giù. Una vertigine la fa ritrarre. Sotto di lei, le scale proseguono incrociandosi all'infinito, come una ragnatela di metallo e cemento sospesa nel nero e nel vuoto. Ma quanto sto salendo? Si domanda ogni volta e il suo stupore è sincero, perché non ricorda mai di essersi già fatta quella domanda. Resta così, inebetita, per un paio di minuti. Si accorge solo allora, o tutte le volte, di non avere le scarpe. Ma cosa...? Si volta a guardare l'infilata di scalini che l'ha condotta fino a là e la vertigine è sempre in agguato. Michela si tira indietro con uno scatto. 128
Ma quanto sto salendo? Si domanda ogni volta e il suo stupore è sincero, perché non ricorda mai di essersi già fatta quella domanda. Resta così, inebetita, per un paio di minuti. Si accorge solo allora, o tutte le volte, di non avere le scarpe. E così ricomincia. Solo il sonno interrompe questo circolo vizioso. Un sonno agitato, lo stomaco in subbuglio per la troppa fame, la bocca secca per la sete. Un sonno scomodo seduta sui gradini. Quando si sveglia la mattina, o quella che lei pensa sia mattina, è un po' più lucida. E allora comincia a parlare a voce alta. Devo trovare una porta, un pianerottolo, qualcosa per cui uscire da qua... "Le scale non sono state questa grande idea." Dovevo scappare in qualche modo. "Sono sicura?" Volevo forse restare là chiusa con quella bestia e i due matti? "Raoul dice che sono finita in questa situazione per un motivo..." Raoul è un coglione senza faccia. 129
"Ma se avesse ragione lui?" Cioè, questa merda me la sono meritata? Tipo il mio inferno personale? "Che stronzata!" Non sono lucida, sto salendo delle scale ripidissime e rischio l'osso del collo ogni volta che inciampo. "Devo stare molto attenta... Molto attenta..." Ma quanto sto salendo? Si domanda ogni volta e il suo stupore è sincero, perché non ricorda mai di essersi già fatta... Basta. "Devo fermarmi." Michela si mette seduta su un gradino. Cerca di fare mente locale e di orientarsi, anche se sa benissimo che non c'è alcun modo per capire dove si trovi. Devo capire com'è fatta questa casa. "Ha detto che non è stata una coincidenza." Ma se anche fosse, io non me ne sono mai accorta. "Forse non è la storia di Carlo..." No, non può essere. Vorrebbe dire che mi segue da... Da quanto!?
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Michela si guarda intorno spaventata, le scale si arrampicano nello spazio sopra e sotto di lei, gli angoli sono tutti sbagliati. "C'era un film così..." Da quanto mi segue? "Dai, non è possibile" sussurra la ragazza e si rimette in marcia. Eppure, avrebbe senso. Avrebbe saputo dove beccarmi, e quando. "Ma me ne sarei accorta!" O forse no. Quando scappo non penso a nient'altro. "Non è vero." È vero, scappo sempre. Dall'università, dal lavoro, da Carlo e da Valerio prima. "E se lo stronzo ci fosse stato quella sera con Valerio?" Allora è qui anche adesso. Michela si blocca, si gira lentamente. Molto lentamente. Non c'è nessuno. Riprende a salire. Cazzo, se è stato sempre qui è tutta una farsa. 131
"Che stronzo..." Per questo Raoul diceva che non è successo per caso, a forza di correre e scappare sono finita qua. "Che stronzo..." E quindi non c'è via d'uscita. Non mi farà mai scappare. Sta solo giocando con me. "Sei qui che ridi alle mie spalle, brutto stronzo?! Ti piace torturarmi?!" urla Michela girandosi di scatto. Lui è lì, la guarda dritto negli occhi. Quanto cazzo è bello... "Sì, sono qui per te." sorride.
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- XXIV -
Camminano. Lui ha perso la sua andatura claudicante e i jeans gli nascondono le deformitĂ degli arti inferiori. Michela non lo guarda, tira dritto, anche se effettivamente non ha la piĂš pallida idea di dove stiano andando.
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Il suo ospite le ha indicato una porta, distante un paio di rampe di scale dal punto dove si sono incontrati. Michela non l'aveva notata. Sospetta che le porte fossero molte altre. O molte di meno. O che la stanza nera con le pile di mobili coperte dai lenzuoli fosse molto più piccola. Ma ormai non conta più niente. Hanno imboccato la porta e ora camminano lungo un corridoio che gli permette a malapena di procedere affiancati. "È un sogno?" chiede Michela "una specie di allucinazione?" "Cosa?" ribatte lui. "Tutto questo. La casa. Te..." "Mi dispiace, ma no. Non è un sogno" risponde il suo ospite. Michela si gira a osservarlo. Lui le sorride dolcemente e le indica una svolta a destra. La imboccano e subito dopo un arco si ritrovano in un bel salone affrescato. A terra spessi tappeti che attutiscono i loro passi, contro le pareti divani dall'alto schienale decorato e cassettoni pieni di fregi. La casa diventa più ricca, più pomposa. Più finta. 134
"Dove mi stai portando?" "Dove vuoi andare?" Michela ci pensa per un attimo e poi risponde: "Chi sei tu?" "Ehi, mica è un posto!" "Rispondi" ribatte Michela e si sorprende della fermezza della sua voce. Il suo ospite ci pensa un po'. Te lo strapperei a morsi quel labbro imbronciato... E improvvisamente Michela realizza. Ăˆ come una pianta carnivora. O la bioluminescenza o come si chiama la lampadina sulla fronte dei pesci abissali. Serve tutto ad attirare la preda. O me, in questo caso. La ragazza fa scivolare lo sguardo sulle spalle larghe, sulla pancia piatta, sul sedere... Ăˆ perfetto. Ma poi distoglie lo sguardo quando il ginocchio si piega in modo innaturale tra le pieghe dei jeans. "Tutto bene?" chiede lui senza rispondere alla domanda precedente. "Io lo so cosa sei". 135
"Ah sì?" "Sei come un ragno che cattura le prede portandole nella sua ragnatela" dice Michela indicando con un gesto tutta la casa. "Gli altri non ti hanno raccontato le loro storie?" Michela fa sì con la testa. "Ti hanno forse raccontato che li ho trascinati qui con la forza?" Michela fa di no con la testa. "Vedi? Niente ragno" dice facendo spallucce. "Ma allora cosa sei? Il diavolo?" Scoppia a ridere. Di cuore. Ma quel cuore non è il tuo... "No, macché. Non sono mica così affascinante" sorride ma gli occhi restano seri "vedi, io vi accompagno da sempre. Anzi, si può dire che siete voi ad avermi inventato. Tutti voi e tutti quelli da cui discendi. Ci sono sempre stato e sono sempre stato un ladro. Ecco, questo sì, voi mi avete creato per prendervi gioco di me. Mi avete usato per spaventare i bambini. Quando vi siete messi in piedi e avete cominciato a dipingere animali sulle pareti di una grotta, io ero lì. Ero già tra di 136
voi. Mi avete chiamato in mille modi diversi. A volte anche demonio. E quando lo avete fatto mi avete sempre dato troppo potere. Perché io sono la vostra ombra. Prospero e cresco nella vostra ignoranza. Esisto solo nel momento in cui vedete un cespuglio muoversi e pensate che sia un qualche spirito e non il vento. In quel momento mi inventate e a volte finisce che mi inchiodate a una croce. O meglio, raccontate della croce e di un sacco di altre cose e qualcuna tra queste storie diventa così potente da farvi credere che sia più reale di quanto non siate voi stessi." Si gira a guardare Michela, come per vedere se la ragazza è attenta. Ma si vede che non gli interessa più di tanto perché riprende subito a parlare. "Lo so, scusa. Rischio di fare ancora più confusione... Mettiamola così, avevi ragione, sono il vostro ragno, ma non perché voi siete le mie prede o chissà che. È che sono vostro nel senso che mi avete creato voi." Michela gli poggia una mano sulla spalla. Sapeva che sarebbe stata fredda ma deve fare comunque uno sforzo
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per non ritrarla di scatto al contatto con quella superficie gelida. Lo guarda negli occhi e ci si vede riflessa. "Portami alla mia auto, per favore" dice Michela. Il suo ospite ci pensa un attimo, poi sorride. "Va bene" risponde.
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"Tu lo sai come andrĂ a finire?" "SĂŹ" risponde semplicemente e si siede sul divano. Sono bastate in paio di porte e un breve corridoio per tornare nella stanza con la TV, i vecchi film e la cucina da cui Michela era scappata una vita fa, o almeno cosĂŹ le sembra. 139
"Clara, Raoul e quel poveraccio senza busto?" "Probabilmente ti hanno già dimenticato. La testa purtroppo fa strani scherzi a forza di stare chiusi qua dentro." "Clara mi avrebbe venduto?" chiede Michela e si avvicina alla finestra. Ha smesso di piovere e la sua macchina è là, le quattro frecce che ancora pulsano. Mi sono scordata di spegnerle. L'auto è vicina, un paio di metri di caduta, forse meno. Ma se apro la finestra si accorge subito di tutto... "Sì, Clara ti avrebbe venduto. Raoul non sono sicuro ma Clara la conosco come se fosse la mia amica del cuore." Michela lo guarda storto, come a rimproverargli la battuta. "Lasciami andare." "Non posso, mi dispiace." "Ma io non ho niente che ti possa interessare!" "Oh sì, invece" sorride voglioso "una ragazza tutta sola sotto quell'acquazzone, che esce con uno sconosciuto per non pensare... Quante volte sei scappata in
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tutta la tua vita? Quanto a lungo hai intenzione di scappare ancora?" "Sei uno stronzo." "Proprio come ognuno di voi." "E una volta che mi avrai rubato il pancreas o quel che è, che farai?" "Quello che faccio sempre... Voi continuerete a chiamarmi e io vi risponderò." "Io non ti ho chiamato!" "Oh sì, l'hai fatto. La vostra paura non mente." "Non ho paura di te." "Questo lo so" dice sorridendo "ma puoi dire lo stesso anche di te stessa?" Michela resta in silenzio. Non riesce a identificare il mostro che ha davanti. È come se lo conoscesse da sempre. Come se fosse una cosa preistorica che si porta dentro da quando i suoi antenati dormivano in una grotta. È la necessità di credere che ci sia qualcosa d'altro oltre se stessa. Un dio, un diavolo, uno spirito... E poi c'è la paura di essere soli. Siamo i nostri vampiri, divoriamo come zombie le nostre carcasse ancora calde. E inventiamo idoli per fornirci un alibi. 141
"Con me non ci riuscirai." "A fare cosa?" chiede lui sospettoso. "Tutto, l'hai detto te che sono brava a scappare..." Si alza e la guarda storto. "Qualunque cosa tu stia pensando, ti avverto. Non funzionerà." "Forse, o forse a forza di scappare da me stessa sono abbastanza allenata da riuscire a sfuggire anche a te..." Non fa in tempo a finire la frase che è già in piedi. Michela si gira di scatto e comincia a correre verso la finestra. ”Fermati!" sente ringhiare alle sue spalle. Corre verso la finestra che sembra allontanarsi, farsi sempre più distante. Dietro di lei, rumore di zoccoli. Corri, come quando ti allenavi a pallavolo. Corri, come quando scappavi dall'ospedale dov'era ricoverato papà. Corri, come tutte le volte che non hai mai detto ti amo. Il fiato le manca quando raggiunge la finestra. Si butta contro l'intelaiatura. Pezzi di vetro le esplodono all'intorno.
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Corri come quando hai abbandonato Carlo. Come quando hai pensato di essere incinta e hai pregato di no e hai cercato su internet la legge sull'aborto. Corri come quando tua madre ti chiedeva di mettere a posto la tua stanza. CORRI, CAZZO, CORRI! Michela precipita verso la strada sottostante, vetri tra i capelli, le braccia alte sopra il viso a proteggere gli occhi dalle schegge. Improvvisamente, si sente sfiorare la gamba. Come una carezza timida e privata. Quasi piacevole. Mi ha toccato! "Signora?" Quando colpisce l'asfalto sente rompersi qualcosa nel braccio sinistro. "Signora, si sente bene?" Michela si sveglia all'improvviso. Ăˆ seduta nell'abitacolo della sua automobile. Fuori ha smesso di piovere ma pesanti goccioloni scivolano lungo il parabrezza lasciando come bava di lumaca sul vetro. "Signora, siamo quelli del servizio stradale. Ci ha chiamato lei, non è vero?"
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Michela apre la portiera. L'aria fredda della sera le schiarisce la testa. "Sì, vi ho chiamato io..." "Si sente bene? Vuole che chiami un'ambulanza?" "No, no. Devo solo prendere un po' d'aria..." Michela prova a scendere dall'auto. Ci mette un po'. Ha le gambe tutte intorpidite. Si deve appoggiare allo sportello per mettersi finalmente in posizione eretta. È malferma sulle gambe. Si volta verso il suo soccorritore e vede che si è allontanato di tre passi, la mano sulla bocca. È sbiancato e sul suo viso c'è dipinto il ribrezzo. Michela abbassa lo sguardo. Le sue gambe non ci sono più. Al loro posto ha dei cilindri di carne tumefatta. Assomigliano alle zampe di qualche animale, con il ginocchio al contrario e uno zoccolo al posto dei piedi. Michela si aggrappa allo sportello e non riesce a trattenere un conato. Vomita e sente gli schizzi di bile sulla pelle ulcerata delle caviglie. Alza lo sguardo, si passa una mano sulla bocca. Ha la vista appannata e il cuore che martella. Le gambe... Ommioddio le mie gambe! 144
In fondo alla strada vede una mezzaluna blu. Capisce che è un ombrello quando il ragazzo lo chiude. Ăˆ lui. Accenna un paio di passi di danza tra le pozzanghere. Comincia a cantare a squarciagola Singin' in the Rain. Si volta. Le fa un cenno di saluto e sparisce alla vista correndo come un pazzo.
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- epilogo -
Un taxi si infila nella via, i fari illuminano brevemente le facciate fradice dei palazzi sotto la pioggia. L'auto si muove lenta, come a cercare qualcosa, poi si ferma davanti a un vecchio portone.
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"Le... le serve una mano?" chiede il tassista prima ancora di prendere i soldi che la ragazza gli sta porgendo "a scendere intendo... piove a dirotto e..." "Conosco questa strada molto bene. Specialmente con la pioggia" risponde la sua cliente "tenga il resto e grazie." Michela fa un grosso sospiro, apre la portiera, fa scivolare prima le gambe fuori dall'auto, poi si puntella con le stampelle e, appoggiandosi allo sportello, si mette in piedi. La schiena le fa male, come sempre da mesi. Il peso eccessivo e i movimenti innaturali che le gambe storpie la costringono a fare le stanno massacrando schiena e bacino. Non ha ombrello, si fradicia sotto la pioggia mentre zoppica verso il palazzo a prima vista deserto. Il tassista non ha cuore di andarsene e osserva la scena. La ragazza è grassa, con i capelli corti, senza trucco. I fari la illuminano violentemente e quando si volta verso di lui, il tassista si ritrae. Con i fari alti è sicuro che lei non ha potuto vederlo, ma si vergogna comunque per la reazione involontaria di ribrezzo.
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Il portone si apre. Un ragazzo bellissimo si staglia controluce. Le porge una mano, lei la scansa con la stampella. Poi si arrampica a fatica lungo le scale. Lui si volta in direzione dell'auto. Un brivido irrazionale corre lungo la schiena del tassista che mette in moto in tutta fretta e si allontana. Il ragazzo resta immobile, osserva le luci rosse del taxi sparire in fondo alla via. Poi sorride, si volta e rientra in casa. Raggiunge Michela, le si affianca, camminando lentamente le cinge le spalle con un braccio mentre il pesante portone si richiude con un tonfo.
FINE
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