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I bambini in marcia per la pace
Un corteo colorato, rumoroso e festoso ha attraversato le strade di Lodrone, Storo, Condino e Pieve di Bono: è la Marcia della Pace organizzata dall’Istituto Comprensivo del Chiese «Don Lorenzo Milani». Alla luce del tragico evento bellico che stiamo vivendo, i quasi ottocento alunni dei vari plessi e i loro docenti hanno scelto di mettersi in marcia nella giornata di mercoledì 16 marzo. Un’ iniziativa organizzata per gridare un grandissimo no ai combattimenti, alla violenza e ai soprusi, non solo in Ucraina ma in tutto il mondo, marciando insieme senza schieramenti, senza appartenenze politiche. «In questo periodo - spiegano gli insegnanti - i nostri studenti, anche quelli più piccoli, hanno capito quello che sta succedendo e fanno molte domande: sono preoccupati. Qualcuno ha visto immagini strazianti in tv, altri hanno parenti che vivono in zone interessate alla guerra. Qualcun altro ancora teme che il proprio papà possa essere chiamato a combattere. Abbiamo cercato quindi di dare risposta ai loro numerosi quesiti e dubbi attraverso attività didattiche, differenziate in base all’età degli alunni, che ci hanno permesso di riflettere insieme sull’articolo 11 della Costituzione e di soffermarci su concetti come la non violenza, la solidarietà, l’accoglienza, la fratellanza e il dialogo.». Poi, la decisione di organizzare il corteo pacifista: «Dopo due anni di pandemia trascorsi senza poter uscire dalle nostre aule- proseguono dall’istituto- ci premeva dedicare un momento per “fare rumore”, far sentire la nostra voce e rendere visibile il nostro pensiero anche al di fuori delle mura scolastiche come hanno fatto anche in molte altre città.». Ed è andata alla grande: una giornata ricca di momenti toccanti. È stato un appuntamento che ha richiamato l’intera comunità a non restare indifferenti: «La Marcia della Pace ha costituito un significativo spunto di riflessione, è stata a tutti gli effetti un momento educativo “sul campo”, in piena coerenza con le attività didattiche proposte nell’ambito dell’educazione civica.». La giornata è stata divisa in due momenti. Al mattino hanno preso parte alla manifestazione gli scolari delle scuole primarie, mentre nel pomeriggio i protagonisti sono stati i ragazzi delle scuole medie di Storo e Pieve di Bono, tutti uniti ed entusiasti indossando t-shirt e mascherine con i simboli e i colori della pace che hanno realizzato con grande impegno nei giorni precedenti. Gli studenti di Lodrone hanno raggiunto la chiesa dell’Annunziata, a Storo grandi e piccini si sono alternati occupando piazza Unità d’Italia, piazza Europa, piazza Cortella, piazza Malfer ed il sagrato della Chiesa di San Floriano. A Condino, invece, si è saliti fino al convento San Gregorio mentre a Pieve di Bono oltre a rimanere nel cortile esterno alla scuola, le classi si sono recate al nuovo centro di aggregazione giovanile ed al di fuori della pieve di Santa Giustina. A riceverli nei diversi punti di ritrovo e ad unirsi alla loro marcia c’erano il dirigente Romeo Collini, il presidente del Consiglio dell’Istituzione Johnny Beltrami, molti genitori, i sacerdoti locali, alcuni carabinieri in servizio, i sindaci, gli assessori e i consiglieri dei vari Comuni. Tra i saluti e gli applausi di approvazione dei residenti affacciati dai balconi, dei commercianti e dei passanti, c’è stato tempo per musica e canti, poesie e momenti di riflessione, balli e girotondi, alcune classi, inoltre, si sono disposte nei piazzali in modo da formare la scritta pace ed il suo simbolo. Nei cartelloni e nei lavori allestiti all’interno dei vari plessi e portati tra le vie dei centri abitati tanti messaggi di speranza per un “mondo migliore”, “senza guerre” con un grandioso desiderio lanciato da alcuni tra i più piccoli: “Vogliamo diventare tutti contagiosi, contagiosi di pace!”. «Naturalmente - afferma il dirigente in un appello rivolto agli studenti - questo grido di pace non si fermerà qui, ma continuerà. Sarà ripreso nella tradizionale Giornata della Pace che il nostro istituto organizza anche quest’anno per venerdì 20 maggio».
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Matilde Armani Organizzata dall’istituto Comprensivo del Chiese ha attraversato Lodrone, Storo, Condino e Pieve di Bono
A vent’anni in missione in Perù
È ritornata durante le prime 3 settimane dello scorso febbraio, nella sua Madice, piccola frazione di Santa Croce del Bleggio Superiore, Mariachiara Brena di 20 anni, che dallo scorso luglio fino alla fine dello scorso gennaio, è stata come volontaria alla missione dell’operazione matto grosso a Yanama che si trova a Nord del Perù a 3500 metri d’altitudine, sulla catena montuosa delle Ande, in una zona abbastanza impervia, ma allo stesso tempo un luogo molto naturale e silenzioso. E per Mariachiara, che fra l’altro ha respirato fin dalla più tenera età fra le sue mura domestiche, un continuo e costante clima di solidarietà e di altruismo verso il prossimo, è stata un’esperienza proprio a tu per tu con le persone più povere di quello sperduto villaggio, infatti era impegnata innanzitutto presso la parrocchia di Yanama, nell’ascolto delle persone, che le esponevano le loro molteplici problematiche, chiedendo sopratutto aiuti concreti, per riparare il tetto della propria casa ad esempio, o farsi accompagnare all’ospedale più vicino, che dista da quel villaggio parecchie decime di chilometri, ricompensando sempre con della verdura o della frutta, coltivata nel proprio orto. Oltre a questo, durante i fine settimana, Mariachiara era impegnata nell’oratorio di Yanama, all’interno del quale faceva l’animazione per e con i bambini e i ragazzi,di quelle zone, animazione che si svolgeva più o meno così; dopo l’accoglienza la giornata iniziava con un momento di preghiera, l’attività principale di quell’oratorio ha se vogliamo del paradossale, ma squisitamente educativa e propensa all’apertura di questi ragazzi poveri verso verso i più poveri, infatti con Mariachiara e con gli altri animatori, si recavano alla casa di un povero o di famiglia povera e insieme a loro, facevano dei utili e semplici lavori domestici, come ad esempio prelevare l’acqua dai pozzi, aiutare a pulire e riordinare le proprie case, a cucinare e ad accudire gli animali. Le giornate all’oratorio di questi ragazzi, si concludevano in bellezza, con canti, giochi e tanta allegria.
Mariagrazia Fusari
Industria, la manodopera arriva da fuori
di Giuliano Beltrami
L’imprenditore Oreste Bottaro ha assunto lavoratori extracomunitari perché in valle non ne trova. “C’è un eccesso di garantismo che scivola nell’assistenzialismo” spiega.
Dalla metà di marzo gli abitanti di Creto si sono accorti di una presenza inedita in paese. Un gruppo di stranieri è venuto ad abitare nella Casa Arlecchino e ogni giorno prende la corriera per scendere verso sud. Che sarà mai? Sono i nuovi dipendenti di Innova, la fabbrica che ha sede a Storo, in zona industriale, dove produce pompe di calore ed altre attrezzature legate alle energie rinnovabili. Questo progetto lega il settore “profit” e il “no profit”. Il primo è l’industria che può (verrebbe da dire, deve) fare profitto se vuole stare in piedi e corrispondere l’utile all’imprenditore che ha investito rischiando. Il secondo è costituito da Cooperative che, essendo società di persone, non mettono in tasca l’utile sotto forma di profitto, ma lo socializzano rimettendolo in azienda. Ebbene, dopo questa piccola e pedestre lezione di economia, veniamo ai soggetti interessati all’operazione. Anzi, veniamo all’operazione stessa. Come detto, Innova sta crescendo e ha bisogno di manodopera. Qui viviamo uno dei paradossi della nostra società. Oreste Bottaro (il titolare) si lamenta perché non trova manodopera. O meglio, alla stampa racconta una cosa diversa: “Cerco manodopera, ma in valle del Chiese non la trovo. Così ho dovuto cercare extracomunitari. Non si trovano lavoratori in zona per eccesso di garantismo delle nostre leggi, eccesso di garantismo che scivola nell’assistenzialismo”. E spiega cosa succede: “Un lavoratore viene assunto, lavora alcuni mesi, giusto il tempo di maturare la disoccupazione, poi si fa licenziare e vive per un paio d’anni alle spalle dello Stato, magari facendo pure lavoretti in nero”. A questo punto Bottaro spiega pure come si fa a farsi licenziare per prendere la disoccupazione: “I più scorretti semplicemente non si presentano più al lavoro; quelli corretti vengono in ufficio e mi dicono che vogliono stare a casa. Non si può approfittare così degli ammortizzatori sociali”, chiude con rammarico l’imprenditore ronconese di origine lombarda. Assodato, dunque, che si devono cercare lavoratori da fuori. E quindi stranieri. Paure? Diffidenze? “Ma per carità – prorompe Bottaro – ho già una ventina di nigeriani in fabbrica: bravissimi, puntuali. Sa qual è il problema? Che i nostri hanno gli ammortizzatori che gli stranieri non hanno”. Se prendi gente fuori dal territorio devi anche pensare a fornire un letto, detta volgarmente. Perché la valle del Chiese non è così grande da offrire improvvisamente quaranta posti letto. Ecco la seconda parte del discorso: l’accordo fra “profit” e “no profit”. A Creto (Comune di Pieve di Bono-Prezzo) la Cooperativa sociale Orizzontegiovani (che oggi si autodefinisce Cooperativa di comunità) gestisce l’ostello nato dalla ristrutturazione di Casa Arlecchino, un edificio dalla storia intrigante. Per raccontarla bisognerebbe risalire agli anni Cinquanta, quando nella pieve di Bono, e precisamente fra l’alta valle di Daone e il fondovalle, giunsero migliaia di operai chiamati dalle imprese idroelettriche per costruire le dighe di Bissina, Boazzo, Morandin e Cimego, e le centrali di Boazzo e Cimego. C’erano gli operai, e c’erano i tecnici. Per questi ultimi fu costruita Casa Arlecchino, grande edificio che ospitò le famiglie dei tecnici, ma ad un certo punto rimase vuoto e sfitto. Allora (dopo anni di pensieri) fu acquistato dal Comune, che lo utilizzò quando c’erano gruppi (bande o cori, viene in mente fra le altre l’orchestra dei musicanti di Oberhausen durante le edizioni della Sagra del Folclore). Fra il 2006 ed il 2007 l’Amministrazione comunale decise di togliere dall’oblio e ristrutturare quell’edificio imponente per ricavarne un ostello. Dieci anni dopo il sindaco Attilio Maestri chiese la trasformazione in casa vacanze, nella logica dello sviluppo turistico, come spiegò allora. Ora, come raccontato sopra, è partito il progetto sperimentale di ospitalità dei lavoratori che dovrebbe durare qualche mese. Poi, come avverte Bottaro, “bisognerà trovare soluzioni più stabili”. Ma questa è un’altra storia che prevede ulteriori puntate.
La dura vita degli allevatori
di Giuliano Beltrami L’ultima questione è l’aumento dei costi ma fare gli allevatori è sempre più diffi cile con il permanere della speculazione sui pascoli e della convivenza con gli animali selvatici
Dici allevatori e non puoi che coniugare il termine con montagna. Ma da qualche anno è una montagna di guai. Ultima questione in ordine di tempo i costi, ma prima c’erano e ci sono le assegnazioni delle malghe, la speculazione sui pascoli e la convivenza con gli animali selvatici. Ce n’è abbastanza per mettersi le mani nei capelli e per scoraggiare in particolare i titolari delle piccole stalle. Ma prendiamo un problema alla volta. I costi, l’ultimo anello della catena dei problemi, che in verità tocca qualsiasi impresa e famiglia. Ad una recente assemblea degli allevatori si faceva il conto delle differenze: se la bolletta per una stalla di cento capi arrivava a 1.000 euro fino all’autunno scorso, con la bolletta di dicembre è schizzata a 2.000. E poi venivano elencati i centri di costo. Primo fra tutti il gasolio per l’autotrazione. Poi c’è la corrente. A gasolio vanno i trattori, mentre a corrente le mungitrici, l’apparecchiatura per il raffreddamento del latte (che appena munto è a 37/38 gradi, va portato a 10/12 gradi per fare il formaggio e a 4 gradi se lo fai partire per i caseifici in vista dell’inscatolamento), gli essiccatoi (senza non riusciresti a fare fieno secco in montagna), le attrezzature per la pulizia della stalla e infine le luci. C’è chi ha messo i pannelli fotovoltaici. Con lo scambio sul posto si usa subito la corrente prodotta, ma le vacche si mungono al mattino, prima che il sole sorga. Ci sarebbero le batterie, ma ci vogliono altri investimenti. Al capitolo costi fa riferimento l’aumento dei prezzi delle materie prime (soia e cereali). Con l’invasione dell’Ucraina i problemi si sono intensificati a causa dell’aumento sproporzionato di carburanti, energia elettrica e gas. Veniamo all’assegnazione delle malghe. Negli ultimi anni i prezzi sono schizzati alle stelle, per la gioia dei proprietari di malghe e pascoli e per il dolore degli allevatori, in particolare dei piccoli allevatori, che si sono visti soffiare le malghe da personaggi che potevano permettersi di sparare alto. Lo spartiacque è l’anno di disgrazia 2015, quando iniziò l’applicazione dei titoli PAC (Politica agricola comunitaria). Fino ad allora i proprietari (Comuni, Asuc e Regole) concedevano le malghe per trattativa diretta agli allevatori propri censiti e ricorrevano ai bandi di gara solo nel caso in cui non esistessero allevatori residenti titolari di uso civico. Da allora in molti casi il diritto di uso civico è stato calpestato dalle proprietà stesse per aprire i bandi di gara a chiunque, puntando su canoni d’affitto insostenibili per la reale zootecnia locale e appannaggio quasi esclusivo per la “finanza” mascherata da zootecnia, promossa con i contributi agricoli europei. “I famigerati titoli – ci raccontava un allevatore - poche centinaia di euro all’ettaro per gli allevatori locali, oltre i 70.000 euro ad ettaro per i grandi ‘esperti’ di contributi europei”. 70.000 euro all’ettaro, una cifra folle, comunque comprovata. Nelle Giudicarie due sole Amministrazioni comunali si sono tirate fuori dalla mischia: prima Sella Giudicarie, poi Caderzone Terme, dove le malghe vengono affidate ai censiti. Ora la Corte dei conti ha sentenziato che non servono le aste, ma che basta la trattativa diretta. A fine marzo, però, il Consiglio delle autonomie ha convocato per i sindaci (pochi i presenti, occorre dirlo) un seminario di formazione in cui ci raccontano che hanno invitato caldamente a continuare con i bandi, ignorando la sentenza della Corte dei conti. Per sfoderare un po’ di latinorum, “errare humanum, perseverare diabolicum”. Infine, ultimi problemi: i grandi carnivori. Indimenticabili le incursioni di M49, chiamato Papillon dal ministro per la sua propensione alla fuga dai recinti provinciali. Ora la situazione è tranquilla. C’è il timore del lupo, ma da queste parti non si è ancora visto con continuità. Invece comincia a porsi un ennesimo problema: la peste suina. Che non riguarda i grandi carnivori, perché il cinghiale non lo è. Però è un massacratore della montagna. Ed è un portatore della peste suina, a causa della quale sull’Appennino hanno già chiuso pezzi di montagna alla caccia ed alla pesca, alle passeggiate, alla raccolta funghi ed ai bikers. Questo è un tema che riguarda gli allevatori e i cacciatori, i proprietari di pascoli e prati in quota e a mezza quota. Ma Dio non voglia che un giorno o l’altro riguardi pure il turismo, perché a quel punto l’economia di intere valli andrebbe a catafascio.