Il campo magnetico é un campo fondamentale? La teoria della relativitá ristretta nacque con l’intento di porre chiarezza sulla questione dell’elettrodinamica. Elettricitá e magnetismo, visti fino ad allora come due fenomeni di natura diversa (seppur relazionati tramite le equazioni di Maxwell) vennero riuniti sotto l’unico concetto di campo elettromagnetico. Ci proponiamo ora di indagare sulla natura di questa unificazione dal punto di vista fisico oltre che concettuale. É noto che i campi elettrici sono generati da cariche elettriche, mentre i campi magnetici sono generati dalle correnti. Si noti ora come una corrente non sia altro che un fluire di cariche elettriche nel tempo: basterebbe ció per concludere che un campo magnetico sia solo una speciale forma di campo elettrico? Trascurando per il momento la questione assai piú ardua della magnetizzazione della materia (non indagheremo cioé sulla magnetostatica delle calamite e sulla teoria delle sostanze magnetiche) occorre riflettere sul concetto stesso di campo magnetico. In genere si dice che in una certa regione di spazio "esiste" un campo magnetico se e solo se addentrandovi una particella in moto carica elettricamente o un filo percorso da corrente, in una direzione non parallela al campo, questi vengono deviati. Il concetto essenziale risiede nel fatto che sia le correnti ( che sono cariche elettriche in moto) sia le particelle cariche, affinché vengano deviate, dovranno muoversi relativamente al campo magnetico. D’altra parte noi siamo costretti a postulare l’esistenza di tale campo proprio al fine di giustificare queste deviazioni. Senza dimenticare che queste particelle sono in moto uniforme relativamente anche a noi, in che modo potremmo giustificarci la loro deviazione se ci muovessimo alla loro stessa velocitá nella loro stessa direzione, dal momento che a questo punto ci apparirebbero ferme? É chiaro che tale situazione non poteva essere soddisfacente, poiché veniva a crearsi una asimmetria importante nelle leggi fisiche, che presupponevano, erroneamente, il moto assoluto. L’elettromagnetismo classico era descritto dalle equazioni di Maxwell, ma andava re-interpretato alla luce delle nuove idee sul moto relativo. In linea con il principio di relativitá, queste equazioni devono avere la stessa forma in tutti i sistemi di riferimento inerziali. A questo punto é opportuno introdurre lo spazio di Minkowski a 3 + 1 dimensioni (una dimensione temporale e tre dimensioni spaziali) definito dalle coordinate xu = (x0 , x1 , x2 , x3 ) ≡ (ct, x, y, z) dove c é la velocitá della luce e t é il tempo. Considerati due punti A e B in questo spazio, ed esprimendo il vettore d~x congiungente i due punti attraverso basi diverse e componenti controvarianti, ad esempio d~x = ~eα dxα = ~eβ dxβ il modulo quadro della distanza tra A e B é dato dal prodotto scalare di d~x con se stesso ds2 = d~x · d~x = (~eα · ~eβ )dxα dxβ = gαβ dxα dxβ Nell’ultimo membro si utilizza la convenzione di Einstein secondo cui due indici ripetuti (α, β) si intendono sommati. Lo scalare gαβ sono le componenti del tensore metrico di questo particolare spazio. Per esempio in un normale spazio cartesiano a tre dimensioni possiamo indicare le basi vettoriali con i versori cartesiani (ortogonali tra loro) ~eα = ~eβ = ˆı + ˆ + kˆ 1
con α, β = 1, 2, 3 che indicano le coordinate xα -esime (x, y, z) in modo che tale distanza si riduca a quella euclidea ds2 = (1 + 1 + 1)dxα dxβ = dx1 dx1 + dx2 dx2 + dx3 dx3 = dx2 + dy 2 + dz 2 con componenti gαβ = diag(+1, +1, +1). In uno spazio di Minkowski il prodotto scalare tra le basi vettoriali produce allo stesso modo le componenti del tensore metrico 1 0 0 0 0 −1 0 0 ~ (1) ~g = 0 0 −1 0 0 0 0 −1 Ne risulta che la distanza, che chiameremo intervallo, tra due eventi vicini A(cta , xa , ya , za ) e B(cta + dt, xa + dx, ya + dy, za + dz) é data da ds2 = c2 dt2 − dx2 − dy 2 − dz 2
(2)
Tutti gli osservatori inerziali devono concordare sull’invarianza di questo intervallo spazio-temporale, e le trasformazioni tra coordinate che preservano tale invarianza sono dette trasformazioni di Lorentz, che sono trasformazioni lineari delle coordinate. Un insieme di coordinate xv trasforma dunque in un altro sistema di riferimento secondo un’equazione del tipo x0u = Λuv xv
(3)
dove x0u sono le coordinate ad avvenuta trasformazione (nel nuovo sistema di riferimento) e Λuv é la matrice di trasformazione di Lorentz. Ad esempio nel caso di moto uniforme con velocitá V nella direzione della coordinata x1 ≡ x la matrice di Lorentz ha componenti γ −γβ 0 0 −γβ γ 0 0 (4) Λuv = 0 0 1 0 0 0 0 1 dove abbiamo indicato con β = V /c il rapporto tra la velocitá del nuovo sistema inerziale rispetto alla velocitá della luce, mentre γ é il noto coefficiente di Lorentz 1 γ=p 1 − β2 Applicando l’equazione (3) e definendo gli otteniamo l’equazione alle matrici 00 x γ −γβ x01 −γβ γ 02 = x 0 0 x03 0 0
indici 0 ≤ u ≤ 3 e 0 ≤ v ≤ 3 0 0 0 x x1 0 0 1 0 x2 0 1 x3
da cui risultano x00 x01 x02 x03
= γ(x0 − β x1 ) = γ(x1 − β x0 ) = x2 = x3 2
(5)
che operando le sostituzioni (x0 , x1 , x2 , x3 ) ≡ (ct, x, y, z) e (x00 , x01 , x02 , x03 ) ≡ (ct0 , x0 , y 0 , z 0 ) sono le celebri trasformazioni di Lorentz. Ora, affinché le equazioni di Maxwell risultino invarianti in forma tra i sistemi di riferimento inerziali, occorre esprimerle in chiave tensoriale (giacché i tensori sono utilizzati per le loro particolari qualitá di trasformazione invariante). Per fare ció si introduce il tensore del campo elettromagnetico, indicando con Eα le componenti del campo elettrico e con Bα le componenti del campo magnetico 0 −Ex /c −Ey /c −Ez /c Ex /c 0 −Bz By (6) F αβ = Ey /c Bz 0 −Bx Ez /c −By Bx 0 dove in questo caso ne abbiamo utilizzato la versione controvariante. Il nostro obbiettivo é quello di studiare il comportamento del campo elettrico e del campo magnetico quando sono visti da sistemi di riferimento in moto relativo. Consideriamo ancora un boost con velocitá v nella direzione della coordinata x1 , per la quale la matrice di trasformazione sará data, come giá detto, dalla (4). Il tensore elettromagnetico trasforma da un sistema all’altro secondo la relazione ~ ~ F~ 0 = ΛF~ ΛT
(7)
dove ΛT é la versione trasposta della matrice di Lorentz (per via della forma di quest’ultima, é facile vedere che ΛT = Λ). L’equazione alle matrici si esplicita come γ −γβ 0 −Ex /c −Ey /c −Ez /c γ −γβ 0 0 −γβ Ex /c γ 0 −B B −γβ γ 0 0 ~~ 0 z y F = 0 0 Bz 0 −Bx 0 0 1 0 Ey /c 0 0 0 1 0 0 Ez /c −By Bx 0
0 0 0 0 1 0 0 1
Eseguendo le moltiplicazioni nell’ordine corretto giungiamo a 0 −Ex /c γ(Ey /c − β Bz ) −γ(Ez /c + β By ) Ex /c 0 −γ(Bz − β Ey /c) γ(By + βEz /c) ~ F~ 0 = γ(Ey /c − β Bz ) γ(Bz − βEy /c) 0 −Bx γ(Ez /c + βBy ) −γ(By + βEz /c) Bx 0 Confrontando le componenti del tensore trasformato con il tensore dato dalla (6) possiamo trovare le relazioni tra i campi trasformati. Per le componenti del campo elettrico abbiamo Ex0 = Ex Ey0 = cγ(Ey /c − βBz )
(8)
Ez0 = cγ(Ez /c + βBy ) Per il campo magnetico Bx0 = Bx By0 = γ(By + βEz /c) Bz0 = γ(Bz − βEy /c) 3
(9)
Si noti come si sono trasformate solo le componenti trasversali rispetto alla direzione del boost, mentre le componenti ad esso parallele sono le stesse rispetto al sistema in quiete. Le (5) e le (6) descrivono un aspetto fondamentale dell’elettrodinamica: visti da sistemi di riferimento diversi, campi elettrici e magnetici si trasformano l’uno nell’altro appunto perché sono due facce della stessa medaglia, che é il campo elettromagnetico. Per fare un esempio assumiamo che in un certo sistema di riferimento vi sia una carica elettrica a riposo che produce un campo elettrico nelle tre direzioni ~ = (Ex , Ey , Ez ). Si faccia in modo che in questo sistema di coordinate, che E ~ = (0, 0, 0). Consideriamo chiameremo K, non vi sia alcun campo magnetico B un secondo sistema inerziale in moto rispetto al primo con velocitá v, dunque β = v/c e γ = γ(v), e chiamiamolo K ’. Secondo le equazioni di trasformazione, K ’ misurerá un campo elettrico ~ 0 = (Ex , γEy , γEz ) E e sorprendentemente anche un campo magnetico ~ 0 = (0, γβ Ez , −γβ Ey ) B c c Si noti che tali considerazioni, come ogni cosa in relativitá ristretta, valgono solo per moti inerziali a velocitá che sono frazioni di quelle della luce. Per velocitá molto basse gli effetti sono pressoché trascurabili dato che avremmo γ ≈ 1 e so~ 0 = (0, 0, 0) anche in K ’. Siamo finalmente in grado prattutto β ≈ 0 ottenendo B di concludere che un campo magnetico non sia altro che un campo elettrico visto da un sistema in movimento? La questione non ha facile risposta dal punto di vista pratico, poiché il campo elettromagnetico é costruito in modo che la forza ~ eB ~ é di Lorentz risulti invariante, e quindi in un certo senso la coesistenza di E la struttura portante della teoria stessa. In altre parole, l’utilizzo delle equazioni di trasformazione implica di per se l’assunzione che il campo magnetico abbia pari fondamentalitá concettuale rispetto al campo elettrico. Infatti assumendo ~ = (0, 0, 0) e B ~ = (Bx , By , Bz ) il caso contrario, ovvero che in K si abbia E le equazioni di trasformazione per K ’ portano stavolta alla generazione di un campo elettrico a partire da un campo magnetico. Questo é un punto fondamentale, poiché si torna alla domanda iniziale: cosa ha portato il sistema K a misurare l’esistenza di un campo magnetico di per se? Dal momento che non esiste il moto assoluto, e dal momento che K puó misurare il campo magnetico solo osservandone gli effetti su quantitá fisiche in moto relativo (come le correnti elettriche o le particelle cariche) possiamo ipotizzare che anche in K il campo magnetico non sia altro che una interazione elettrostatica vista da quantitá in movimento? Studieremo questo aspetto puramente concettuale servendoci di un esempio, che costruiremo a partire da una delle scoperte fondamentali del magnetismo: l’esperienza di Oersted. Considerato un filo conduttore su cui circola della corrente elettrica, Oersted scoprí che nei dintorni del filo si genera un campo magnetico. Lo scoprí ponendo accanto al filo un ago magnetico, e constatando che questi deviava. Ora, é noto che le proprietá delle sostanze ferromagnetiche sono date da particolari allineamenti molecolari (e dunque da microflussi di cariche elettriche in movimento) dunque pare lecito sostituire, nel nostro caso, l’ago magnetico di Oersted con una semplice carica Q in movimento, rimandando la trattazione sull’interazione campo magnetico-materia ad un secondo momento. 4
La situazione é quella illustrata in figura 1.0. Il filo conduttore é composto da un mare di elettroni liberi di muoversi, richiamati dalla differenza di potenziale della batteria, e da una popolazione di cariche positive (che assumiamo stazionarie rispetto al sistema di laboratorio K ) le quali rappresentano i nuclei atomici del reticolo. La velocitá di deriva degli elettroni rispetto al sistema K é, come si vede in figura, ~u = (u, 0, 0) nella direzione delle x crescenti (dunque, per convenzione, la corrente circola nel senso opposto). Mettiamo alla luce un aspetto fondamentale: in presenza del filo percorso da corrente, non vi é alcun campo elettrico. Infatti, per la conservazione della carica, per ogni elettrone che fluisce in un verso ve ne é un altro che arriva dal verso opposto, facendo sí che sul conduttore le densitá lineari di carica negativa e positiva si compensino continuamente (λtot = 0). Chiamiamo λ+ la densitá di ioni positivi all’interno del conduttore vista dal sistema K, il quale, essendo in quiete con gli ioni stessi, misura dunque la loro densitá a riposo λo tale che λ+ = λo . Chiamando λ− la densitá lineare di cariche negative, abbiamo detto che dal punto di vista del laboratorio deve essere λtot ≡ λ− + λ+ = 0 e dunque λ− = −λo . Non bisogna dimenticare peró che stavolta gli elettroni non sono a riposo con il sistema del laboratorio, bensí dispongono di una velocitá u relativamente ad esso. Ne segue che in K sará misurata una corrente pari a I = uλo
m C = uλo Ampere s m
Ci troviamo in una situazione di moto relativo in cui entra in gioco la relativitá ristretta. Si indichi con l la lunghezza del filo vista da K, allora la densitá di carica é data da λ = q/l. Per via della contrazione delle lunghezze nella direzione del moto, le cariche negative misureranno una lunghezza del conduttore diversa da quella misurata da K. Detto γ(u) il coefficiente di Lorentz in funzione della velocitá u degli elettroni, sia l0 la lunghezza del conduttore misurato nel sistema K ’ degli elettroni, in modo da avere l0 = γ(u)l Inoltre dal momento che lo scalare quantitá di carica q é un invariante di Lorentz, il suo valore deve essere uguale per tutti i sistemi di riferimento. Vale dunque la relazione q = λ− l = λel l0 5
dove λ− rappresenta, come abbiamo detto, la densitá di cariche negative misurata da K (e sappiamo che λ− = −λo ) mentre λel é la densitá di cariche negative vista dal sistema di riferimento K ’ delle cariche stesse. Sostituendo i valori di l0 e λ− abbiamo −λo l = λel γ(u)l e da quest’ultima relazione ricaviamo il seguente risultato λel =
−λo γ(u)
(10)
che rappresenta la densitá di carica negativa vista dal sistema di riferimento degli elettroni (K ’). A questo punto consideriamo una carica Q, ad esempio positiva, in moto al di fuori del conduttore con velocitá ~v = (v, 0, 0) rispetto al sistema K. Dal punto di vista di Q (solidale ad un sistema che chiameremo K ”) ora sono i sistemi K e K ’ a muoversi, mentre Q é a riposo. La figura 1.1 illustra questo punto di vista (assumendo u < v)
In K ” le cariche negative si muovono con velocitá relativa u’ data dalla legge relativistica u−v u0 = 1 − u v/c2 dunque secondo Q queste stanno eseguendo un boost lungo il suo asse x e tale boost é caratterizzato dal coefficiente di Lorentz γ(u0 ) = p
1 1 − βu20
In presenza di questa trasformazione di Lorentz valgono ancora gli effetti relativistici: di conseguenza la densitá di carica negativa λ00− vista da Q, rispetto alla densitá vista dagli elettroni λel , é data dalla relazione λ00− = γ(u0 )λel Sostituendovi la (10) otteniamo la densitá elettronica vista da Q rispetto al sistema di laboratorio −γ(u0 ) λ00− = λo (11) γ(u) 6
A questo punto risulta necessario calcolare un’espressione abbastanza comoda per il coefficiente γ(u0 ). Prima di tutto definiamo i rapporti βu0 =
u0 c
βu =
u c
βv =
v c
dove ricordiamo: u’ é la velocitá degli elettroni rispetto alla carica Q, u é la velocitá degli elettroni rispetto al sistema K e v é la velocitá di Q rispetto a K. Consideriamo l’espressione 1 − βu20 e sviluppiamola come segue 0 2
1−βu20 = 1−
=1− =
1 u−v (u ) = 1− 2 2 c c 1 − uv/c2
βu − β v 1 − βv βu
2 =1−
2
βu2 + βv2 − 2βu βv (1 − βu βv )
1 + βu2 βv2 − 2βv βu − βu2 − βv2 + 2βv βu (1 − βu βv )
u v 2 2 1 c c − c βu − βv 1 = 1− 2 = 1− 2 c uv c c 1 − βv βu 1− cc
2
=
1 − βv2
2
=
2
=
(1 − βu βv ) − βu2 − βv2 + 2βu βv 2
(1 − βu βv )
1 − βu2 − βv2 + βv2 βu2 (1 − βu βv ) 2
2
=
−βu2 1 − βv2 + 1 − βv2 (1 − βu βv )
1 − βu 2
(1 − βu βv )
riconosciamo in questa espressione gli inversi dei coefficienti di Lorentz γ 2 (u) e γ 2 (v) dunque 1 1 − βu20 = 2 2 2 γ (v)γ (u) (1 − βv βu ) ed essendo 1−βu20 = 1/γ 2 (u0 ) abbiamo ottenuto la seguente importante relazione γ(u0 ) = γ(v)γ(u) (1 − βu βv )
(12)
Inserendo questo valore nell’equazione (11) otteniamo il valore della densitá di carica negativa vista da Q λ00− = −γ(v) (1 − βu βv ) λo
(13)
Per quanto riguarda la densitá di carica positiva, bisogna ricordare che ora rispetto a Q sono le cariche positive a muoversi con velocitá −~v . Seguendo lo stesso ragionamento che ci ha condotti alle equazioni (10) e (11) notiamo che le cariche positive eseguono un boost lungo l’asse x negativo con coefficiente di Lorentz γ(v) e dunque la loro densitá nel sistema K ” é data da λ00+ = γ(v)λ+ dove λ+ é la densitá di carica vista nel sistema di riferimento delle cariche positive. Ora, poiché il loro sistema di riferimento coincide con quello del laboratorio K sappiamo giá che λ+ = λo e dunque λ00+ = γ(v)λo 7
2
In definitiva la densitĂĄ di carica totale misurata in K â&#x20AC;? ĂŠ Îť00tot â&#x2030;Ą Îť00+ + Îť00â&#x2C6;&#x2019; = Îł(v)Îťo â&#x2C6;&#x2019; Îł(v)Îťo (1 â&#x2C6;&#x2019; βu βv ) = Îł(v)βu βv Îťo
(14)
Notiamo come questa non sia uguale a zero come lo era invece per il sistema di ~ prodotto laboratorio, ne consegue che la carica Q misurerĂĄ un campo elettrico E dal filo, che ora calcoleremo. Racchiudiamo il filo conduttore allâ&#x20AC;&#x2122;interno di una superficie cilindrica di raggio r e lunghezza L. Idealmente le linee di forza del campo saranno perpendicolari in ogni punto di tale superficie, eccezion fatta per le superfici di base (assumiamo che il filo sia infinitamente lungo rispetto al raggio della nostra superficie). Applicando la legge di Gauss sulla superficie cilindrica S = 2Ď&#x20AC; r L q E(r)2Ď&#x20AC; r L = o e riconoscendo che q/L = Îťtot ricaviamo E(r) =
Îťtot 2Ď&#x20AC; o r
Come abbiamo detto, le linee di forza saranno dirette lungo lâ&#x20AC;&#x2122;asse y mostrato in figura 1.0. Nel sistema di Q avremo allora un campo elettrico dato da ~ 0 = Îł(v)βu βv Îťo ď&#x161;žË&#x2020; = Îł(v) uv Îťo ď&#x161;žË&#x2020; E 2Ď&#x20AC; o r c2 2Ď&#x20AC; o r E ricordando che c2 = 1/Âľo o ~ 0 = vÎł(v) Âľo uÎťo ď&#x161;žË&#x2020; E 2Ď&#x20AC;r ~0 Dunque la carica fa esperienza di una forza elettrostatica F~ 0 = QE Âľo uÎťo F~ 0 = Îł(v)Qv ď&#x161;žË&#x2020; 2Ď&#x20AC;r
(15)
che la allontanerĂĄ dal filo, deviandola verso il basso. Spostiamoci ora nel sistema di riferimento del laboratorio. Abbiamo detto che qui non vâ&#x20AC;&#x2122;ĂŠ alcun campo elettrico dal momento che Îťtot = 0 e il filo ĂŠ percorso da una corrente I = uÎťo verso lâ&#x20AC;&#x2122;asse x negativo. Ovviamente perĂł anche in K si riscontrerĂĄ la deviazione subĂta dalla particella Q: in che modo ĂŠ possibile giustificare tale effetto, dal momento che in questo sistema di riferimento non vi ĂŠ nessun campo elettrico? Fu cosĂ che Oersted fu costretto a postulare lâ&#x20AC;&#x2122;esistenza di un campo invisibile prodotto dalla corrente, associato (dal momento che interagiva con la limatura di ferro) al magnetismo. Dunque i fisici Biot e Savart calcolarono unâ&#x20AC;&#x2122;espressione analitica per tale campo, stabilendo una convenzione vettoriale la quale voleva che il pollice della mano destra indicasse il verso della corrente e le altre dita chiuse sul palmo indicassero il verso del campo. Faraday si accertĂł poi che la deviazione avveniva sempre perpendicolarmente al piano contente le linee di forza del campo e il vettore velocitĂĄ della particella. In definitiva, al fine di giustificare la deviazione, il sistema di laboratorio postulerĂĄ lâ&#x20AC;&#x2122;azione di un campo magnetico con direzione lungo lâ&#x20AC;&#x2122;asse z negativo, dato dalla legge di Biot-Savart ~ = â&#x2C6;&#x2019; Âľo I kË&#x2020; = â&#x2C6;&#x2019; Âľo uÎťo kË&#x2020; B 2Ď&#x20AC; r 2Ď&#x20AC; r 8
che agirá sulla particella in moto rispetto ad esso, sottoponendola ad una forza battezzata come forza di Lorentz ˆ ~ = Q v µo uλo [ˆı × (−k)] F~ = Q~v × B 2π r eseguendo il prodotto vettoriale troviamo che la forza ha direzione sull’asse y dove infatti é osservata la deviazione µo uλo F~ = Q v ˆ 2π r
(16)
Si noti come questa non sia altro che la forza (15) sentita da Q nel suo sistema di riferimento, divisa per il coefficiente γ(v). La legge di trasformazione per le componenti delle forze trasversali al boost é infatti data in relativitá ristretta da F~ 0 F~ = γ(v) Si é dunque ottenuto un risultato concettualmente molto profondo, che é il cuore della relativitá ristretta: due sistemi di riferimento inerziali misurano lo stesso fenomeno (la deviazione della particella, e dunque la forza) trovandone peró interpretazioni diverse. Nel sistema di laboratorio questa deviazione é causata da una forza di Lorentz dovuta al campo magnetico prodotto dal filo di corrente, mentre nel sistema della particella la forza é di natura puramente elettrostatica. Si potrebbe argomentare sulla sinceritá dei risultati ottenuti sostenendo che la velocitá di deriva delle cariche negative (nota essere di pochissimi millimetri al secondo) sia ampiamente insufficiente al fine di fare scaturire qualsiasi effetto relativistico. Tuttavia bisogna tenere conto non solo della velocitá dei portatori di carica, ma anche del loro numero, in modo che l’insieme dei micro-contributi si sommi e dia il risultato ottenuto. Dal punto di vista delle trasformazioni relativistiche ci troviamo nel caso, la~ = (0, 0, 0) sciato in sospeso, in cui in un sistema di riferimento K si abbia E ~ e B = (Bx , By , Bz ). Da un boost sull’asse x di questo sistema da parte di un sistema K ’ le equazioni di trasformazione (8) e (9) danno ~ 0 = (0, −cγβBz , cγβBy ) E ~ 0 = (Bx , γBy , γBz ) B Ció potrebbe far dedurre che anche il campo elettrico possa essere una manifestazione relativistica del campo magnetico: partendo da un sistema K caratterizzato dal solo campo magnetico, siamo passati a K ’ dove esistono anche le ~ 0 generatosi da quelle del campo magnetico componenti di un campo elettrico E di K. Il risultato é che il nuovo sistema K ’ sará caratterizzato dalla presenza di campo elettromagnetico. Avevamo peró fatto la seguente osservazione: posto per certo che un campo magnetico sia misurabile solo munendosi di determinate "sonde" che devono necessariamente muoversi rispetto ad esso per testare i suoi effetti, cosa porta il sistema K, dal momento che non esiste il moto assoluto, a misurare un campo magnetico di per se? Ora, identifichiamo il sistema K proprio col sistema di laboratorio dell’ultimo esempio, solidale con il filo di corrente. Poniamo dunque che il sistema K ’ coincida con quello della particella Q
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e reinseriamo i risultati calcolati (rammentando che Bx = By = 0) impostando inoltre γ = γ(v) µo uλo 0 ~ E = 0, γv ,0 2π r µo uλo 0 ~ B = 0, 0, −γ 2π r Nel suo sistema di riferimento, Q dovrá subíre la forza di Lorentz per il campo elettromagnetico ~0 + V ~ ×B ~0 F~ 0 = Q E ~ la velocitá di Q relativa al sistema K ’. Tuttavia in cui abbiamo indicato con V ~ = 0. K ’ é proprio il sistema a riposo di Q e dunque relativamente a questi sará V L’unica componente del campo elettromagnetico rilevante per la dinamica della particella risulta essere il solo campo elettrico ~ 0 = γQv µo uλo ˆ F~ 0 = QE 2π r abbiamo quindi ritrovato la (15). Ovviamente per far quadrare i conti nel sistema di laboratorio, la carica Q ha subíto secondo questi la forza di Lorentz (16) F = QvB. Il punto fondamentale che si é voluto illustrare con questo esempio é il seguente: le equazioni di trasformazione (8) e (9) consentono a tutti gli osservatori inerziali di concordare sulla dinamica di un fenomeno, attribuendolo peró a nature diverse. Ció su cui ci interrogavamo era proprio il rapporto ambivalente tra campo elettrico e campo magnetico, domandandoci se fosse possibile ai fini della dinamica (e dunque ai fini di ció che interessa nella pratica) declassare l’importanza concettuale del campo magnetico. Siamo arrivati alla seguente conclusione: Un campo magnetico non é altro che un campo elettrico visto da un diverso sistema di riferimento; la sua definizione é utile solo quando sia necessario giustificare la dinamica di un fenomeno in un secondo sistema di riferimento laddove le interazioni elettrostatiche nascano in virtú degli effetti relativistici (si pensi al filo di corrente: non era possibile per K constatare l’interazione in corso tra Q e le cariche nel conduttore); le equazioni di trasformazione postulano l’esistenza del campo magnetico proprio al fine di fare concordare tutti gli osservatori inerziali sulla dinamica dei fenomeni, lasciandoli a interpretazioni fisiche diverse (in ció sta l’essenza della relativitá); da ció ne consegue che nonostante entrambi i campi siano capaci di trasformarsi l’uno nell’altro, é il solo campo elettrico ad avere valenza fisica diretta.
Matteo Parriciatu
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