Maff in
Introduzione Beatrice Masini Illustrazioni Andrea Tentori Montalto
Il Quaderno Ready Made
Massimo De Nardo
Il Quaderno Ready Made
Colophon ISBN 978-88-941220-1-5 Il Quaderno quadrone Il Quaderno cartone Il Quaderno Ready Made Pubblicazioni edite da Rrose SĂŠlavy Via Carlo Santini, 6 62029 Tolentino (Mc) T 0733 971310 www.rroseselavy.org rroseselavyeditore@gmail.com Iscrizione n. 22165 del 23/03/2012 Registro Operatori della Comunicazione Progetto grafico Paolo Rinaldi
Premio Edito-Re 2015
Premio Andersen 2014 per il progetto editoriale
Massimo De Nardo
Maffin Introduzione Beatrice Masini Illustrazioni Andrea Tentori Montalto
A Chiara per molti buoni motivi
A mio fratello Oreste alle mie sorelle Emanuela e Mirella
The time is out of joint: o cursed spite that ever I was born to set it right. Il mondo è fuor dei cardini: ed è un dannato scherzo della sorte ch’io sia nato per riportarlo in sesto. Amleto Atto 1, scena 5
Un eroe del suo tempo Il tema del tempo è uno dei più frequentati nella letteratura dell’infanzia: tutti da bambini ci siamo interrogati sul senso di questa dimensione che ci sfugge di continuo e abbiamo avuto un legame difficile coi ricordi. Cosa è venuto prima, cosa dopo? Quella faccenda è successa davvero oppure no, o non proprio così? E quello che non ci ricordiamo dove finisce? Poi con la memoria e la sua strana misura si impara a patteggiare, anche se i meccanismi ci restano misteriosi. Chiaro che i libri per bambini devono girare attorno ad argomenti che interessano ai bambini, e alla fine a contarli bene non sono moltissimi. Un altro tema-chiave, seppure poco frequentato di recente, è la figura del bambino onnipotente. No, non proprio: il bambino è bambino, e dunque incerto, dubbioso, con le sue legittime paure. È piccolo. Ma se per una catena di circostanze si ritrova a fare delle cose da solo, cose avventurose, pericolose, che nessuno alla sua età normalmente farebbe, è chiaro che diventa di 9
botto un eroe. Non ci sono vie di mezzo, è così e basta. Martino Torren detto Maffin, il ragazzino protagonista di questa storia, è definito dal tema del tempo e dal proprio eroismo involontario. C’è un orologio da riparare, un contatempo impreciso il cui malfunzionamento rischia di avere una pesante influenza su alcune vite; e c’è lui, che si vede investito del compito di portarlo al posto giusto (l’orologio, e quindi il tempo), da un grande (il signor Gen, orologiaio) a un grande (il proprietario dell’orologio, il signor Michele Krons), col tramite di parecchi altri adulti complici, una signora gentile, un errante coraggioso che si chiama Vlad detto Radar, “e un radar sa sempre da che parte girarsi”, più una ragazzina, un cane e tre aquile. Si sa che tra ragazzi o ci si odia o ci si dà una mano, e quanto agli animali, lontani dalle storie non ci sanno proprio stare. Ovviamente c’è anche un cattivo, un altro signor Krons, ladro di orologi e di cognomi. Queste le premesse. Lo svolgimento è elusivo quanto il tempo, Maffin sa il perché di certe cose e non sa come mai ne scopre altre, e che farsene, e non tutto viene spiegato nel corso della storia, e nemmeno alla fine: meno male, perché le vicende più interessanti sono quelle che lasciano il lettore libero di collegare i puntini come vuole, di farsi domande. E pazienza per chi invece vuole sempre vedere tutti i pezzetti cadere al loro 10
posto, come se un libro fosse un puzzle di otto o mille pezzi destinato a chiudersi con un’immagine chiara e precisa in fondo. Seguiamo Maffin alla scoperta di segreti strani e rivelazioni anche amare, e cerchiamo di decidere noi quello che potrebbe venire dopo, quello che verrà , avvolti da una scrittura precisa, che sceglie e misura le parole, sempre. Lui è un ragazzino garbato e coraggioso, e sarà contento comunque di tutte le nostre ipotesi. Non aspettiamoci che ci dica se abbiamo ragione. Certe storie alla fine sanno lasciarci soli. Beatrice Masini
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C’è
un giorno in cui una storia comincia per davvero. Quel giorno, che sul calendario venne poi cerchiato con una matita blu, entrarono nella bottega di orologiaio del signor Gen una quarantenne alta e robusta e un mingherlino di quattordici anni. Era una bottega minuscola, e ci voleva poco a renderla ingombra di orologi a cucù, pendole, e sveglie allineate su una mensola. Due cassettiere, ricolme di utensili e di fornitura per i ricambi, e il tavolo da lavoro, illuminato a cono da una lampada ricurva che quasi toccava le mani del signor Gen, lasciavano uno spazio sul davanti per far entrare giusto un paio di clienti, e solo uno poteva sedersi su quell’unica sedia, tra il tavolo e la porta. «Buon giorno, signor Gen» disse la donna, con voce garbata. Sul volto rotondo spiccava, sebbene fosse piccolo, il naso un po’ schiacciato che nascondeva le narici. Gli occhi, lucidi e multicolore, sembravano biglie di vetro. Sulla bocca a cuore carno13
so nessun rossetto, che le signore della sua età preferivano in tonalità vermiglio. I capelli, color marrone scuro, bombati dalla permanente, ricordavano una nuvola piena di pioggia. Indossava un soprabito color senape, attillato sui fianchi e lungo fin sotto il ginocchio, che le conferiva un portamento austero. Indossava quel soprabito solo la domenica, perché era “quello buono”. Ma non era domenica. Il signor Gen alzò un poco la testa, con la smorfia di chi è tutto preso dal proprio lavoro e viene disturbato. Un occhio era incorniciato da un sopracciglio ad archetto, l’altro stringeva una lente che sembrava un minuscolo cannocchiale. Vedendo che si trattava di Emma Torren, fu subito amichevole: «Buon giorno a lei, signorina Emma». Poi scrutò il mingherlino. La lente lo sfuocava, ma l’occhio libero vide la faccia seria di un ragazzino, un cappottino blu scuro, lo spicchio di una camicia beige, una cravatta blu a nodo piccolo e l’arco di un maglione rosso a girocollo. «Tu sei Martino, il caro nipote della zia Emma. Giusto?» domandò il signor Gen, con una voce tra il basso e il baritono. Anche se a cantare era proprio stonato. E coprì con un bicchiere l’orologio da tasca che stava riparando. «Proprio lui» puntualizzò Emma Torren, accarezzandogli la testa, senza toccare il ciuffo un po’ arricciato che spuntava su un taglio corto di 14
capelli neri, sfumati sulle tempie e sulla nuca. Un gesto d’affetto, e anche una specie di segnale, a dire che sì, lui, quello che indicava, era proprio suo nipote Martino, che gli amici chiamavano Maffin. «Buon giorno… signor Gen» disse Martino, educato dalla zia a salutare sempre per primo. «Buon giorno a te, Martino. Mi fai davvero un grande favore. Grazie infinite, giovanotto». Solo in quel momento si tolse la lente dall’occhio. Occhi grigi e veloci. Si massaggiò lo zigomo, si grattò il naso a patata, poi le dita sfiorarono la fronte alta e divennero un pettine per i capelli un po’ radi, appena bianchi. Martino respirò profondamente. “Giovanotto”, aveva detto il signor Gen. Era già cresciuto. E strinse di più il nodino della cravatta. Martino doveva consegnare un oggetto particolare ad “una persona importante” per conto del signor Gen. Tornava dall’altra zia, la zia Elga (sorella di Emma), e siccome la città nella quale lei viveva non era distante dalla città della consegna – una breve deviazione – ecco pronta la commissione da parte del signor Gen. Non era meglio utilizzare il servizio postale anziché un ragazzino? Eh no, altrimenti sarebbe stata tutta un’altra storia. Il signor Gen doveva restituire un orologio da viaggio con quadrante a ventiquattro ore. Se ne 15
trovano, di questi modelli, solo che quello era il più strano di tutti gli orologi. Il più strano, davvero. Due anni prima era entrato nella sua bottega un distinto signore, sulla cinquantina, sicuro di sé nei gesti e nelle parole. «Ha smesso di funzionare proprio questa notte. Forse si è rotto un ingranaggio. Fortuna che mi trovavo in questa città. È un orologio molto, molto speciale. Mi hanno detto che lei…». Nei puntini di sospensione entravano i complimenti per il signor Gen. «Le chiedo se può ripararlo entro sette giorni» aveva specificato quel tipo. «Non più di sette, altrimenti ne va della…». Avrebbe voluto aggiungere “vita”, ma non era il caso, e allora mise altri puntini di sospensione. Poi aveva continuato, come se stesse leggendo delle istruzioni: «Passerò, se accetta il lavoro, tra otto giorni, alle nove e un quarto del mattino, in punto». Un tipo preciso, quel tipo. Che invece non era più passato. Il signor Gen aveva riparato subito quello strano orologio. Lo controllava ogni giorno: andava perfetto. Restava la soddisfazione. Passò del tempo. Nessuno si era più visto. L’orologio era lì, che camminava preciso, senza il bisogno di essere ricaricato. Un giorno il postino consegnò al signor Gen un pacchetto: conteneva del denaro (più del dovuto), una targhetta e un biglietto nel quale si pregava di recapitare l’oro16
logio a un dato indirizzo (non era quello del mittente), indirizzo inciso sulla targhetta di metallo perché – era scritto nel messaggio – gli inchiostri sbiadiscono e la carta si deteriora. Un indirizzo assolutamente da ricordare, dunque. Targhetta da custodire con attenzione, allora. C’era anche un numero di telefono. La lettera era firmata Michele Krons. «Uhm, vuol dire che è arrivata l’ora di consegnarlo, questo strano e magnifico orologio». Al signor Gen dispiaceva sempre separarsi dagli orologi riparati, specialmente da quelli che erano stati a lungo nella bottega per i controlli giornalieri. Qualche orologio se lo portava a casa, quasi avesse bisogno di una amorevole occhiata anche di notte. Li apri, gli orologi che sono fermi a causa della ruggine o della polvere o di un guasto, e poi, con pazienza e precisione, li rimetti a nuovo, e quel loro ticchettio, che va avanti il tempo stabilito da una molla caricata con una piccola chiave esterna o già applicata, non è proprio come il tic tac del tuo cuore, ma un po’ gli assomiglia – così diceva il signor Gen. Della consegna di quell’orologio non doveva dispiacersi, perché, al di là di avere riparato l’orologio più strano nei suoi cinquant’anni di lavoro (il “ragazzo” Gen aveva iniziato a quindici anni, nella bottega di uno zio orefice), sapeva che c’era da restituirlo con una certa urgenza.
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A volerli elencare, erano sette i motivi del suo essere un orologio particolare. Primo motivo, stupefacente: l’orologio non aveva bisogno di essere ricaricato. Poteva essere che funzionasse senza una molla, senza qualcosa che spingesse, muovesse, facesse girare qualcos’altro come accade con gli orologi automatici che si ricaricano con il movimento del braccio? Poteva essere, ma così non era. Proprio non se ne capiva il meccanismo. Secondo motivo, normale: tutti i pezzi erano di legno. Orologio antichissimo, forse più antico dell’antico. D’altronde, chi può dire quando comincia il tempo. Terzo motivo, incredibile: il legno non si consumava mai, neanche dopo cento o mille anni di attrito tra i vari meccanismi. Era inattaccabile da qualsiasi tarlo o muffa, resisteva addirittura al fuoco e non marciva se immerso nell’acqua. Quarto motivo, imprevedibile: per una causa sconosciuta, il legno poteva spaccarsi di colpo. Nessuna colla, nessuna, era buona per riattaccarne i pezzi. Quinto motivo, preoccupante: dove trovare questo legno resistente più del metallo e, a volte, 18
fragile in un punto come lo sono i cristalli più duri. Problema risolto: il legno di ricambio così raro e prezioso glielo aveva dato quel tipo che non era più passato a riprendersi l’orologio. Tre piastrelline di legno, tre centimetri di lato e tre millimetri di spessore (il tre è un buon numero), che il signor Gen aveva traforato con precisione ricavandone le due ruote da cambiare. Guai a sbagliarsi, poiché non c’erano piastrelline che avanzavano. Sesto motivo, inquietante: l’orologio non doveva mai fermarsi più di sette giorni, perché se si fermava poteva accadere qualcosa al suo proprietario (che non era l’uomo che lo aveva consegnato al signor Gen), strano pure lui per essere così influenzato da ruote e molle e lancette e numeri. Meglio non rischiare. Settimo motivo, ancora inquietante: l’orologio doveva andare assolutamente preciso, segnare sempre il presente, né avanti né indietro. Il futuro e il passato non bisogna scombussolarli, sennò non ci si raccapezza più: un ricordo diventa un fatto che stai vivendo e forse quello che stai vivendo lo vedi come fosse ciò che dovrà accadere. No, no, c’è da diventare matti, meglio che il tempo resti quello che deve essere. La suoneria non c’era. 19