Massimo De Nardo Se dici parole, 16 parole
Introduzione Adriรกn N. Bravi Lettering Paolo Rinaldi
Il Grande Vetro
Il Grande Vetro
Colophon ISBN 978-88-85534-01-8 Il Quaderno quadrone Il Quaderno cartone Il Quaderno Ready Made Il Grande Vetro Pubblicazioni edite da Rrose SĂŠlavy Via Carlo Santini, 6 62029 Tolentino (Mc) T 0733 971310 www.rroseselavy.org rroseselavyeditore@gmail.com Iscrizione n. 22165 del 23/03/2012 Registro Operatori della Comunicazione Progetto grafico Paolo Rinaldi
Premio Andersen 2014 per il progetto editoriale
Premio Edito-Re 2015
Premio Librinfestival 2017 miglior editore
Massimo De Nardo
Se dici parole 16 parole Gli omografi Introduzione Adriรกn N. Bravi Lettering Paolo Rinaldi
A Chiara piĂš di sedici parole
INDICE
Introduzione Un nome per il quaderno Berlina Amare Gelosia Affetto Grossa Credenza Bugia Piano Grana Etichetta Torto Caro Avanzata Relazione Riso Mondo
9 17 21 25 31 37 43 49 57 63 69 75 83 89 95 101 107 113
Il mio piccolo omografo è un animale che non corre e non vola Avrò avuto sei o sette anni quando mio padre mi regalò un piccolo omografo tutto spelacchiato. A vederlo si capiva che era un omografo, ma più ti avvicinavi e più sembrava un’altra cosa, un omofono o un omonimo. «Non preoccuparti» mi aveva detto lui per rassicurarmi «gli omografi a volte possono confondere le persone». Quel giorno, mi ricordo, avevo steso un maglione di lana dentro una cassetta di legno e vi avevo adagiato l’omografo, reggendolo con entrambe le mani per paura di farlo cadere. Era il primo omografo della mia vita. «Diventeremo amici, io e te, e vedrai che non mi confonderai» gli dicevo piano. Il giorno dopo, il mio amico Niki è venuto a trovarmi. Si è avvicinato alla cassetta di legno e poco dopo è corso a chiamare suo padre, perché anche 9
Niki desiderava che il padre gli comprasse un omografo come il mio. «Guarda, babbo, che bel becchino» aveva detto Niki indicando un punto sotto gli occhi dell’omografo, al posto del naso. «Ma non è un becchino, Niki. Magari lo diventa da grande, chissà». Niki non aveva capito la battuta e guardando suo padre gli ha detto: «Allora cos’è, un muso questo?». «Certo» ha risposto suo padre, quasi scoppiando a ridere, «uguale a quello progettato dalla Ferrari per il Gran Premio di Monaco». Bisogna precisare che il padre di Niki era un grande appassionato di corse automobilistiche, proprio un patito. Aveva dato quel nome a suo figlio per via di Niki Lauda, il famoso pilota di Formula 1. Io il padre di Niki lo ritenevo un tipo un po’ strano, di quelli che sembrano una cosa ma sono un’altra, come quelle parole che significano due cose allo stesso tempo. Per esempio, la parola “botte”. Botte è quell’affare per metterci il vino, ma erano anche i cazzotti che a volte mi tirava mio fratello quando non facevo quello che diceva lui. Per questo il padre di Niki, fino a una certa età, tra me e me lo chiamavo “il signor Botte”. Ancora non riuscivo a capire che cosa avrebbe mangiato il mio omografo, né se avrebbe volato o avrebbe corso per il giardino. E mentre eravamo lì 10
a guardarlo, il signor Botte ha raccontato che anche lui da piccolo ne aveva avuto uno. Diceva che con il tempo gli omografi diventano di due colori diversi, nel senso che davanti prendono un colore e dietro un altro. Poi ha aggiunto che avrebbe fatto un salto a casa sua per prendermi un libro – che doveva avere da qualche parte – che spiegava tutto sugli omografi. Dopo mezz’ora è tornato con un libro che si intitola Se dici parole, 16 parole dove si racconta la storia di un professore di nome Niccolò che spiega ai ragazzi di una classe vivace, ma molto attenta, tutto quello che bisogna sapere sugli omografi, per non confondersi. «Per capire gli omografi» aveva detto il signor Botte a Niki e a me che lo ascoltavo con attenzione «bisogna conoscere bene le parole, compresa l’etimologia, e non farsi sfuggire mai il significato, perché è proprio lì che si nascondono sempre gli omografi, nel significato delle parole». Avendo letto questo bel libro sulle parole doppie, dico che il signor Botte aveva proprio ragione.
Adrián N. Bravi
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Un nome per il quaderno Il professor Niccolò ci ha detto che conoscere le parole doppie serve a non fare confusione. A non confondere una cosa con un’altra cosa che invece è proprio diversa. Per questo, una volta alla settimana, ci legge qualche pagina di un libro, trova le parole doppie e noi le scriviamo su un quaderno fatto apposta per questo tipo di parole. Ho scoperto che i nostri discorsi sono zeppi di parole doppie. Il professor Niccolò ha precisato che non importa se le parole doppie che scriviamo sul quaderno non sono in ordine alfabetico, perché nella nostra vita, adesso e quando saremo davvero grandi, l’ordine alfabetico non esiste; le storie, spesso, vengono a caso. Anch’io dico che vivere in ordine alfabetico è una cosa davvero strana, troppo strana, e per fortuna che non esiste. Prima di cominciare, abbiamo dato un nome al quaderno. Il mio amico Riki l’ha chiamato Superquad. Questo quaderno deve essere speciale, cioè super. Superquad è davvero un nome azzeccato. 17
Ho un fratello più grande di quattro anni. Si chiama Guglielmo, ma tutti lo chiamano Gully, con la ipsilon finale; lui ci tiene molto a scriverlo così il suo nome, con la ipsilon finale. Gully mi ha dato un suggerimento. A lui piacciono i giochi con le parole. Mi ha detto di chiamare Quaderno quadrone il mio quaderno. Come un grosso quadro, ho pensato io. Gully ha detto che quadrone è l’anagramma di quaderno. L’anagramma è scrivere una parola cambiando posto alle vocali e alle consonanti. “Quadrone”. “Quadrone”. Va bene. Anche al professore è piaciuto. Ci ha detto che le parole possono essere come dei disegni perché ci fanno vedere quello che dicono. «Tu dici giraffa, e vedi una giraffa». Poi ha aggiunto una cosa che ci ha fatto riflettere: «Chi conosce poche parole è come se vedesse male. Se voi non conoscete la parola giraffa e io dico giraffa voi non vedete nulla». Il professore ha preso il vocabolario, lo ha aperto a caso, ha puntato l’indice e ha letto a voce alta: «Impluvio». Poi ci ha scrutati, come per cercare qualcuno che quella parola lì, impluvio, l’avesse già incontrata. Tutti zitti. Ha così letto: «Impluvio. Nelle antiche case roma18
ne, vasca scavata nel pavimento dell’atrio – cioè l’ingresso – in cui si raccoglieva l’acqua piovana». Forse qualcuno si è ricordato di questa parola che aveva già sentito, qualcun altro ha invece imparato una nuova parola, anche se è antica, e forse non la useremo mai.
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La prima parola doppia che ho scritto sul mio Quaderno quadrone è berlina. Per capire meglio le parole dobbiamo andare a cercare da dove vengono, ha detto il professore, e ha chiamato questa ricerca delle parole “etimologia”. Il mio amico Riki, che è un tipo molto curioso, ha subito chiesto al professore da dove è venuta fuori questa “etimologia”. «Se dovessimo star lì a pensare da dove vengono le parole che diciamo quando parliamo non finiremmo mai di parlare. Il nostro discorso, sempre interrotto dai significati delle parole, sarebbe proprio sgangherato e incomprensibile. E anche molto noioso. Ma qualche parola particolare, che a noi sembra un po’ strana, conviene sapere da dove viene. Per capire meglio. Appunto. L’etimologia studia la storia delle parole. Etymos significa “vero”, cioè “il vero significato di una parola”, e logìa significa “studio”». Il professore ha visto qualcosa nei nostri occhi, perché ha continuato la sua spiegazione dicendo che non dobbiamo preoccuparci. Questa faccenda 21
dell’etimologia verrà fuori solo con le parole doppie e forse nemmeno con tutte quante. Il mio amico Riki ha fatto un bel soffio a fischio per il pericolo scampato. La parola “berlina” bisogna spiegarla, ha detto il professore, perché c’è di mezzo la storia. Quando c’è di mezzo la storia non significa che bisogna ricordarsi a memoria le date e i nomi dei personaggi. Il professore ci ha raccontato questa storia. Una volta – più o meno un centinaio di anni fa – i ladruncoli e i furfanti che non avevano commesso colpe troppo gravi erano condannati a una pena comunque abbastanza tremenda: essere insultati dalla gente. I ladruncoli e i furfanti erano immobilizzati da un pezzo di legno che aveva tre buchi: uno per stringere il collo e due per le mani. Questa tavola di tortura si chiamava “gogna”. A volte sulla tavola ci mettevano un cartello con scritto quello che il condannato aveva fatto, per farlo sapere a tutti. Ma la punizione più dura era che potevano insultarti e pure sputarti in faccia. C’era anche chi ti tirava delle pietre. Il nome berlina deriva da bredling, che è una parola del tedesco antico, che vuol dire “asse, tavolato”, e che sarebbe la tavola che ti stringeva il collo e le mani. Queste storie vere accadevano in una piazza, e pure la piazza veniva chiamata berlina. Il professore ci ha detto come la pensa lui. Erano comportamenti incivili, da parte della gente cosiddetta per bene. È giusto che un furfante venga pu22
nito, ma se ti prendono a sputi in faccia e ti dicono un sacco di parolacce contro ti viene solo da odiare chi fa così. Invece, la pena deve farti pentire e deve rieducarti. Io ho pensato: “Questo discorso sulla giustizia è abbastanza complicato, ma sono d’accordo”. Il professore ci ha detto che forse bredling deriva da “berlengo”, una antica parola italiana. Il berlengo era una tavola per mangiare o per giocare. Adesso so che quando portiamo in giro un compagno e ci divertiamo, mentre lui non si diverte per niente, noi lo “mettiamo alla berlina”. Ma non è finita qui. C’è un gioco che si chiama berlina e possiamo immaginare come si fa: si parla male (per scherzo) di chi “sta sotto”, uno dice le frasi e chi sta sotto deve indovinare chi le ha dette. Ora bisognava cercare la parola doppia di berlina. «È anche una macchina, vero?» ha domandato il mio amico Riki. Lui se ne intende di macchine. «Anche» gli ha risposto il professore, con un sorriso soddisfatto. Ecco trovata la parola doppia. Proprio forte, il mio amico Riki. La berlina era una carrozza a quattro ruote e a due posti, di trecento anni fa, costruita a Berlino, in Germania; capito perché si chiama così? Poi il nome è stato dato alle automobili a due o a quattro porte. Certo che le parole sono davvero strambe. Mettere qualcuno alla berlina e mettere qualcuno in una berlina. C’è una bella differenza. Non dici? 23
La seconda parola doppia che ho scritto sul mio Quaderno quadrone è amare. Sappiamo tutti cosa vogliono dire queste due parole, ha detto il professor Niccolò. Precisando che una è un verbo e l’altra un aggettivo. Io ho pensato: “È abbastanza facile. Amare una persona. Amare il calcio. E anche: le cicorie sono amare”. Ma quando il significato è così facile forse c’è un trabocchetto. Il professore ha capito che questa parola doppia noi l’abbiamo un po’ snobbata, e allora ci ha pregato di fare molta attenzione: amare può anche significare “mi piace”, e non è la stessa cosa. Quindi, amare il calcio non vale. Il nostro amare significa volere bene a qualcuno. O meglio: volere il suo bene. E cioè desiderare che questa persona stia bene. «Ma allora non è una cosa che senti dentro?» ha detto Taija. Taija è una ragazza davvero sveglia; lei è nata qui, i suoi genitori sono indiani. Taija ha gli occhi che brillano come due orecchini di diamanti. Mi sa che a Riki piace, e pure lui a lei. Anche a me piace. Come può non piacerti Taija? 25
Il professor Niccolò ha mosso la testa per dire “sì”, ma anche per dire “ni”. Certo, l’amore uno lo sente dentro, senti di amare, ma se il tuo amare resta soltanto dentro di te, se non lo dai a qualcuno affinché questo qualcuno stia bene – perché questo significa amare – allora non serve. Amare qualcuno che non lo sa non è proprio un vero amare. L’amore bisogna darlo. Il professore ha terminato il suo ragionamento e ha continuato a muovere la testa. Adesso so che io glielo devo dire a Taija che ho un amore per lei, e se lei starà bene il mio sarà un vero amore. Sì, è complicata questa faccenda dei sentimenti. Il professore si è rivolto a Riki: «Mi sa che dobbiamo farla venire fuori un’altra volta l’etimologia». Riki ha fatto le spallucce. Che significa: e va bene, facciamola venir fuori. Il professore ci ha detto che avrebbe cercato sul dizionario una parola molto bella, e sempre più rara: amicizia. Lui ha un dizionario un po’ strano, le parole sono tutte in ordine alfabetico, però molte parole questo dizionario te le spiega dentro altre parole, cioè da un’altra parte. «È perché le parole sono messe in ordine secondo la loro etimologia, secondo la loro origine. Sono parole che in qualche modo si assomigliano». Il professore ha aperto il suo strano dizionario, 26
verso le prime pagine, poi con il dito indice ha fatto come un mimo, e noi abbiamo capito che doveva cercare la parola “amicizia” da un’altra parte, perché era uguale ad un’altra parola. È tornato indietro di qualche pagina. E ha detto: «L’amicizia sta nella parola “amare”». Poi ha letto a voce alta: Amicizia, dal latino amicitia (prima l’ha pronunciata con la “ti”, per farci capire com’era scritta, poi l’ha letta con la “zeta”, per farci sapere com’è che si deve dire correttamente), da amicus, amico, derivato da amare. Ci ha guardati muovendo la testa. Quando muove la testa vuol dire che sta ancora dicendo un sacco di cose, ma in silenzio. Poi ha fatto un lungo “hhhheeeee” e quando noi sentiamo questa specie di soffio allora dobbiamo fare molta attenzione a quello che è stato detto, dal professore e anche da noi. Insomma, dobbiamo rifletterci sopra, alle parole, perché altrimenti – dice il professor Niccolò – non solo non ci facciamo capire, ma ci facciamo capire al contrario, e se gli altri ti capiscono male succede che tu parli parli, ma resti muto. L’attenzione era sul fatto che amare qualcuno contiene spesso un po’ di cose amare. Insomma, ti fa soffrire. Ti fa stare in apprensione. Ti fa stare in ansia. Però, certo, è davvero strano questo fatto dell’amare che contiene le cose amare. È così che queste due parole diventano uguali, ci ha detto il professore. Allora Gianni, che di sopran27
nome fa Oversaiz perché è grassottello, ha detto: «Le cose amare tienile care». Noi abbiamo un po’ riso. Oversaiz conosce tanti proverbi perché glieli racconta suo nonno, che è un tipo che parla sempre con i proverbi. Il professore come al solito ha fatto un giro d’occhi sulle nostre facce per vedere se avevamo capito il proverbio. Ma lui non è che aspetta, lui spiega subito perché non vuole metterti in imbarazzo: ciò che in quel momento ci sembra una cosa che ci fa soffrire, che so, una sgridata, un rifiuto, non dobbiamo scansarla, ma tenerla da parte, pensarci su. Anche un grande dispiacere può servire per imparare qualcosa. Un dolore è una grossa emozione. Le emozioni sono molti utili. Noi siamo rimasti in silenzio, poi per fortuna il professore ha spiegato che i dispiaceri – le cose amare – non bisogna certo andarseli a cercare, anche se, purtroppo, vengono, stiamone pur sicuri che prima o poi vengono. Sto ancora pensando alla stranezza della parola “amare”. Amare una persona pensavo fosse una situazione dolce.
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Benny ha portato a scuola un cd. È un dizionario. Il professore ha detto che ne ha uno uguale. Ha chiesto a Benny di spiegarci perché l’aveva portato in classe. Quando Benny ci ha informati che lì dentro, nel dischetto, c’erano 5116 parole doppie, noi abbiamo fatto molti bisbigli di sottofondo. «Non vorreste mica scriverle tutte e 5116?» ci ha domandato meravigliato il professore. Voleva dire che non l’avremmo scritte tutte. Il mio amico Riki ha fatto un bel soffio a fischio per il pericolo scampato. Ma non l’ha fatto solo lui. «Continua» ha detto il professore rivolto a Benny. E lei ci ha detto che queste parole doppie si chiamano omografi. Il professor Niccolò, muovendo un braccio, ha indicato tutta la classe. No, no, non per far intendere che gli omografi siamo noi, ma per spiegare a tutti noi il significato di questa parola. Benny ha fatto l’indagine sul dischetto, quindi doveva saperlo. Allora Benny, che ha una memoria davvero potente, ha detto, un po’ a cantilena, che gli omografi sono parole uguali per forma scritta, ma distinte per significato. Deriva da homógraphos (pi-acca si legge “effe”), composto da homós, che vuol dire “uguale” e da graphein, che vuol dire “scrivere”. Il professore ha fatto il suo solito giro d’occhi. Deve essersi fermato sugli occhi di Riki, perché Riki ha detto, da volontario, che l’etimologia bisogna tirarla fuori spesso poiché ci fa capire le parole strambe. 29
Dopo la seconda parola uguale, alcuni compagni hanno portato a scuola un piccolo elenco di omografi. Potremmo anche sceglierli a sorte, ma è meglio se li scegliamo con un ragionamento, ha consigliato il professor Niccolò. Ecco perché la terza parola che ho scritto sul Quaderno quadrone è gelosia. Da amore a gelosia la strada è breve. La gelosia è essere geloso. L’altra gelosia bisognava proprio sapere cosa fosse e io non lo sapevo. L’argomento è molto delicato, ha detto il professore. Si riferiva alla prima gelosia. La seconda è bella che risolta: si tratta della persiana, sì, la persiana che chiude la finestra. Precisamente: la parte bassa della persiana, quella che si apre davanti, verso fuori. Le parole spesso sono cucite assieme, come la trama di un racconto, nel quale i personaggi e i fatti che accadono sono legati uno con l’altro. Quando è così, la storia è più avvincente, ha spiegato il professore. Prendiamo la parola più semplice, la gelosia che è anche una persiana. Il Paese che oggi si chiama Iran 31
non troppi anni fa si chiamava Persia. Facile capire che la persiana ha avuto origine da questo Paese orientale. Ma noi occidentali perché chiamiamo gelosia una persiana? Il professor Niccolò ci dice spesso che un luogo nel quale meglio non andare è il luogo comune. Lo so, è un giochetto di parole. Ma il luogo comune esiste per davvero ed è abitato da quelli che pensano in maniera banale, ovvia e anche mediocre. Così dice il professore, e mica ha torto. Per noi occidentali gli orientali sono tutti gelosi. Le loro finestre sono costruite in modo che si possa vedere fuori senza far vedere dentro. Specialmente quando in una stanza ci sono delle donne. Le persiane sono fatte così. Gli orientali sono gelosi e quindi quel tipo di finestre noi le chiamiamo gelosie. Ma anche gli occidentali sono gelosi. In Iran le persiane non si chiamano le siciliane (ecco un luogo comune). Ogni tanto, la storia va al contrario. «Io sono gelosa di mio fratello» ha detto Alessia. «Io sono geloso quando mi toccano i giochi» ha precisato Lele. «Mia sorella Vivì è gelosa del suo fidanzato» ha detto Benny. «Io sono gelosa, però normale» ha puntualizzato Taija. «Io non sono geloso per niente» ha detto Riki. «Neanche io lo sono» ha detto appresso Cocò. «La gelosia è una cosa che ti pizzica dentro». A me 32
è venuto da dire così. Ho fatto un po’ ridere, ma ho avuto molti consensi. Il professore ha capito che noi avevamo capito. Ma le parole bisogna sempre acchiapparle da tutte le parti, per vedere meglio come sono fatte, così alla fine ci si capisce di più. La gelosia scombussola, vero? E noi a fare sì con la testa e con la voce. Un sì trasformato in eccome, certo, accidenti, come no, ti credo, urca, vero. Bisogna che adesso facciamo un bel salto, verso una delle ultime parole del nostro dizionario. E il professore dalla g (gelosia) è balzato alla z. Gelosia deriva dal latino zelus. E ci ha domandato se questa parola ci ricordava qualcosa. Benny ha detto che a lei ricordava un personaggio della mitologia, Zeus, cioè Giove, il capo di tutti gli dei della mitologia greca. Siccome Benny è molto spiritosa bisogna fare attenzione a quello che dice. E siccome il professore ha sorriso, la risposta di Benny era una vera battuta spiritosa, anche se era un errore. «Se dico “zelo” voi che pensate?» ha di nuovo domandato il professore. E allora tutta la classe è diventata spiritosa. Abbiamo più o meno risposto tutti con la stessa battuta: “Al voto di uno studente cinese che, intellogato, non ha lisposto a nessuna domanda”. Il professore ha sorriso. Però ci ha detto: molto spiritosi, ma poco fantasiosi. 33
Poi ha ripreso la spiegazione. Zelus significa zelo, che significa fare le cose con molto scrupolo, anche in modo esagerato. La gelosia è un qualcosa che ci fa sentire esagerati. Ma non solo questo. Alla fine della spiegazione ho capito che non dovremmo proprio essere gelosi, perché chi è geloso vuole qualcosa tutta per sé; essere geloso dei propri giochi significa che non vogliamo farci giocare nessuno, e questo non è che sia un comportamento da amico; essere geloso della fidanzata o del fidanzato significa non avere fiducia nella persona che amiamo. Insomma, la gelosia non dovrebbe esistere, ma non dovrebbero esistere tante cose che, non so come né perché, creano la gelosia. A casa mia ci sono le serrandine. E anche la gelosia, che pizzica dentro. «Se ti fidi e sei generoso non sei geloso» ha detto il professore, facendo la rima. Domani spalancherò la finestra della mia camera.
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Ci sono parole che arrivano da sole, seguendo quelle precedenti. Come ad esempio la parola affetto. Da amare si passa a gelosia e si arriva ad affetto, che nel Quaderno quadrone è la quarta parola che ho scritto. Il professor Niccolò ha precisato che nella nostra ricerca incontreremo molte parole doppie il cui significato è facile da sapere e da spiegare. Però le scriveremo lo stesso perché hanno una combinazione strana quando le pensiamo una accanto all’altra, quando ci ragioniamo un po’ sopra. Amare è una parola di questo tipo. E di questo tipo è anche la parola affetto. Provare affetto per qualcuno si sa cosa voglia dire. Non è come amare, ma in parte gli assomiglia. Provare affetto è – come aveva detto Tajia – avere qualcosa dentro. Qui ci viene in aiuto l’etimologia. Devo prima fare una piccola premessa: l’etimologia sarà sempre utilizzata, ormai abbiamo capito che per i nostri quaderni quadroni o superquad l’etimologia è importante, indispensabile. 37
Provare affetto è, come dicevo, qualcosa che possiamo sentire dentro. Affetto (affectus) significa “disposizione dell’animo” e cioè essere in una determinata condizione. Afficere, in latino, vuol dire “disporre”. È un sentimento bello. Affetto materno, paterno, fraterno e filiale; e anche per un amico, ha aggiunto il professore, per non restare sempre in famiglia. Poi, come parola doppia, c’è l’essere affetto da una malattia. Queste due parole sono uguali nella loro forma antica, perché etimologicamente hanno la stessa radice, ha spiegato il professore, ma pensate a come sono differenti nel significato reale. La prima è un sentimento bello, la seconda è una condizione che ci fa star male. E ha fatto un esempio su di sé: spesso sono affetto da artrosi cervicale. Che sarebbe un dolore dietro la testa, verso il collo. Poi ci ha detto di fare ancora attenzione. E noi ci siamo messi più comodi, più dritti con la schiena, e con le gambe a posto. Quando ci dice che dobbiamo fare ancora attenzione i casi sono due: o ti prepari, anche con il corpo, a capire qualcosa da capire bene oppure il significato è proprio perso. In genere, ci mettiamo tutti più attenti. «Allora, cerchiamo di capire perché due parole uguali sono poi totalmente differenti. Affetto può essere un sostantivo o un aggettivo. Un sostantivo è una parola, un nome, che indica una “sostanza” concreta (ragazzo, albero, casa). Possiamo considerare il so38
stantivo una forma “attiva”. Tenete in mente: attiva». «Affetto è il nome che diamo a questo nostro sentire qualcosa dentro». Il professore ha detto che questo è un esempio tirato via, ma ci siamo. Alla domanda: «Ci siete?» abbiamo risposto: ci siamo. «Affetto come aggettivo è una forma passiva: sono affetto da artrosi cervicale, a volte». Qual è il senso dell’attivo e del passivo? La voce del professore circolava tra i banchi. Questa è una grande domanda, ho pensato io, e deve averlo pensato anche tutta la classe, perché il silenzio era davvero silenziosissimo. Alla fine del ragionamento, che ci ha fatto stare molto tesi, siamo arrivati a queste conclusioni: se sei passivo, se non reagisci, se non sei tu che decidi quello che devi fare, finisce che l’affetto diventa essere affetto da qualcosa che ti fa star male. Non è sempre così, ha precisato il professore, non sempre le storie dipendono solo dalla nostra volontà, ma se sei attivo, e non subisci, forse le storie vengono meglio. Per qualche attimo ci siamo anche rattristati. Quando c’è stato l’esempio dell’affetto, nel significato di “essere affetto dal morbo di Parkinson, che è una brutta malattia”. Il mio amico Riki ha detto – calcando sulla parola – che l’argomento faceva un certo “effetto”. Il professore per alleggerire ha voluto scherzare, dicendo che l’affetto che aveva fatto un certo effetto 39
gli aveva ricordato che doveva pagare l’affitto e la cosa non lo divertiva affatto. Fortuna che a volte le parole sono bizzarre.
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