DELITTO IMPERFETTO

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1. Storie di Stato. I sentieri della solitudine

«Miei cari ragazzi, le circostanze hanno condotto il Governo nazionale a far sì che io uscissi dalle file attive dell’Arma e dalla sua massima carica, prima ancora che i tempi previsti giungessero alla loro scadenza. Se da un lato sono onorato di tanta fiducia - che in qualche modo tocca anche la “nostra” famiglia -, dall’altro avverto, nel trauma spirituale del delicato momento, una somma di sentimenti che, nel loro intimo tumultuare, non fanno che ripropormi, prepotente e cara, l’immagine stupenda di mamma! So bene − e da sempre − quanto Le debbo nel succedersi delle tappe che mi hanno portato avanti in questi ultimi quarant’anni e quanto [...] noi tutti Le dobbiamo. Mi sembra ieri, quando, partendo da Firenze nell’agosto 1949 quale volontario per le squadriglie contro il banditismo (allorché le ripetute interpellanze erano da tutti respinte), mamma - al settimo mese di Fernando - versò alla Stazione di S. M. Novella le sue prime lacrime; ma nulla fece perché il suo Carlo, di cui voleva essere orgogliosa innanzi a chiunque, rinunziasse alla sua fede e al suo entusiasmo. Vidi Nando che aveva ormai nove mesi e dopo che, nel febbraio 1950, me ne aveva mandato una fotografia. Sacrifici, rinunzie, ansie, tormenti, anche le soddisfazioni e le gioie - molte delle quali legate al vostro divenire - segnarono il viaggio stupendo che potei compiere al suo fianco [...]. Scusate, miei cari, se sono stato un po’ lungo. Vi voglio bene, tanto, ed in questo momento vi chiedo di essermi vicini, così come nei mesi e negli anni che verranno. Vogliatevi soprattutto e sempre il bene di ora! Quanto vi ho scritto, l’ho fatto a 7-8000 37


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metri di altezza, in cielo, mentre l’aereo mi portava veloce verso Palermo; dietro mi lasciavo, con gli alamari, la giornata di Pastrengo [...]. Vi abbraccio forte, forte. Il vostro papà» Con questa lettera, scritta a Rita, a Simona e a me, mio padre aveva voluto, prima di giungere a Palermo, dividere tra i figli e i nipotini (anche quelli... futuri) i gioielli di nostra madre. Non si trattava di un atto notarile. In quei gioielli, ciascuno dei quali segnava rinunce e momenti di felicità, custodiva gelosamente l’immagine di un’unità familiare e di un’esperienza matrimoniale che avevano riempito di senso la sua vita. Se quel giorno faceva la scelta di dividerli tra noi non era senza motivo. La partenza per la Sicilia costituiva per lui una doppia traumatica separazione dal suo passato, da un mondo intero di affetti e di valori. Perché, appena possibile, si sarebbe risposato, dopo più di quattro anni di solitudine, con Emmanuela. E perché, partendo, abbandonava gli alamari di carabiniere, che aveva servito con fede quasi mistica per circa quarant’anni. Una separazione, questa, del tutto innaturale. Ed è proprio nelle sue cause che occorre iniziare a ricercare le origini del destino che lo avrebbe atteso quattro mesi dopo in via Carini. Io penso che, soprattutto quando si tratta di mafia o terrorismo, gli omicidi «importanti» vengano sempre da molto lontano, che oltre che di pallottole e di intenzioni assassine essi siano intessuti anche di parole, di meschinità, di gelosie, di invidie, di illegalità da coprire. C’è un mondo che si mette in movimento intorno a un uomo e che progressivamente lo isola, gli fa il vuoto intorno fino a offrirlo al carnefice su un vassoio d’argento. Con mio padre questo movimento iniziò − per l’appunto − molto tempo prima che egli arrivasse in Sicilia. Era stato lui stesso a prospettare al governo l’opportunità di conferirgli un nuovo incarico fuori dell’Arma. Ma perché, questo è il punto, un uomo che ama l’Arma dei carabinieri e con essa identifica la propria vita, perché un uomo che − come egli ricordava con compiacimento − si sente «gli alamari cuciti sulla pelle», può adoperarsi per lasciare il servizio attivo prima della sua scadenza? Si potrebbe rispondere, e qualcuno mi pare lo 38


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abbia fatto, argomentando che un uomo di potere come lui non potesse accontentarsi della carica formale e onorifica di vicecomandante generale dell’Arma. Sotto il profilo psicologico vi è un fondo di verità. Ma il fatto è che quando passò dal comando della Divisione Pastrengo (quella del Nord-Italia) al vicecomando generale, mio padre era perfettamente consapevole di quali poteri e prerogative gli spettassero nella nuova carica. Una carica cui teneva anche affettivamente, essendo già stata ricoperta, quasi trent’anni prima, da suo padre. E il suo futuro, dal progetto del nuovo matrimonio alla casa di campagna, all’appartamento affittato a Firenze per la pensione, era stato tutto tracciato in vista di una chiusura serena della carriera. Se in lui prevalse, a un certo punto, lo «spirito di scissione», non fu certo per ottenere più poteri, visto che, come ribadì più volte, a quel punto avrebbe abbandonato il servizio in ogni caso. Altri meccanismi avevano agito su di lui, spingendolo a prendere una decisione che altrimenti non avrebbe mai preso. C’è che a Roma un ristretto nucleo di ufficiali generali gli aveva creato una situazione insostenibile, che nulla aveva a che fare con l’osservanza del regolamento o del modello previsto di divisione dei poteri. Lo si era voluto colpire, umiliare. Le gelosie, la paura che mio padre, anche solo con la sua influenza o il suo prestigio, potesse di fatto «comandare» in viale Romania (sede del Comando generale), erano state perfettamente utilizzate per mettergli contro l’ambiente, a partire dal grado più elevato. Sicché in uno Stato che neanche un anno dopo avrebbe dichiarato di essere tanto a corto di funzionari di valore da dovere affidare contemporaneamente alla stessa persona (il dottor De Francesco) la direzione del Sisde e l’Alto commissariato per la lotta alla mafia, in uno Stato siffatto il generale dalla Chiesa, l’uomo che aveva contribuito decisivamente alla sconfitta del terrorismo, trascorreva le sue giornate a correggere i temi degli allievi ufficiali. Al di là dei poteri, era accettabile da parte di un uomo abituato ad agire quel tipo di impiego? Possibile che in nulla, neanche in una singola indagine, la professionalità, l’istinto di investigatore anche, di mio padre potessero risultare utili? Dunque proprio più nulla poteva offrire all’Arma e al Paese? Mio padre reagì a quello stato di inutilità coatta e cercò di offrire la sua esperienza in qualche filone di indagine. In un’occasione prese lui l’iniziativa favorendo il conseguimento di 39


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importanti risultati in un’operazione contro il terrorismo rosso. Tornato a Roma, trovò riconoscenza a denti stretti per quanto aveva fatto. Maggiori e più inquietanti chiusure subì in altre direzioni. Magistrati di Bologna, che incontravano ostacoli e vischiosità in alcuni livelli regionali dell’Arma, si rivolsero a lui per ottenere collaborazione nelle indagini sulla strage della stazione dell’agosto ’80. Mio padre annotò sul suo diario diversi incontri con loro e con ufficiali dei carabinieri nonché con imprecisati esponenti dello spionaggio internazionale. Aveva buone speranze di riuscire a giungere a risultati di rilievo. Tant’è che sulla pagina del suo diario dell’11 marzo, quando già si profilava il suo passaggio a un incarico esterno all’Arma, egli scriveva: «Spero che in un successivo incontro qualcosa in più possa nascere o concretizzarsi e mi piacerebbe che, qualora davvero un altro e diverso incarico mi venisse affidato, possa concludere in questo settore con qualcosa di grosso». Ma la sua attività non risultò gradita. Le «competenze», già allora, dimostrarono di essere infinitamente più importanti dell’interesse generale. Pochi giorni dopo annotò con grande amarezza di essere stato «turbato dalla mattinata che, per circa due ore, mi ha visto contrapposto al Com.te Generale [il generale Valditara, n.d.a.] che, ovviamente alimentato dal solito personaggio [il generale De Sena, capo di stato maggiore, n.d.a.], mi andava contestando una volta di più il contributo che, a titolo esclusivamente personale, avevo dato alle indagini per la strage di Bologna. Non si è voluta comprendere l’importanza non solo del lavoro svolto ma anche e soprattutto che l’Arma intera trarrà dal molto probabile successo, molto, molto prestigio». A lui, vicecomandante generale, che veniva tenuto all’oscuro perfino delle riunioni antiterrorismo o delle visite del capo della polizia, venne dunque intimato di non compiere più azioni o operazioni se non dopo averne informato, dettaglio per dettaglio, come non si chiede neanche a un capitano, il Comando generale. Poteva mai compiere nuove imprese il generale dalla Chiesa quando proprio a Roma alcuni anni prima, «bruciando» i tempi operativi (e dell’episodio si trova traccia anche in un intervento di Indro Montanelli su il Giornale nuovo dell’8 agosto 1981), gli avevano mandato a monte una delicata azione antiterrorismo perché non fossero lui e i suoi uomini a trarne prestigio? Naturalmente no. E non poteva anche perché, a mio avviso, alla 40


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radice di questo insieme di diffidenza e di ostilità non stavano solo i sentimenti propri della mediocrità umana. Stava altro. Ci ho pensato spesso dopo il 3 settembre a quanto mi era passato sotto gli occhi nei due-tre anni precedenti. E mi sono convinto che è molto, molto probabile che vi fosse chi aveva forti interessi a che mio padre non mettesse piede al Comando generale a Roma. Ma a questo punto è necessario fare un breve salto indietro. E riandare alla storia della P2. Di essa non so altro, evidentemente, se non quello che mi ha detto mio padre, che è poi esattamente quanto egli dichiarò all’epoca ai giornali. Verso la metà degli anni Settanta, in una condizione di relativo isolamento (si ricordino le ostilità che incontrava allora in larghissimi settori dell’opinione pubblica progressista), mio padre fu ripetutamente contattato e richiesto da suoi superiori di entrare nella loggia segreta di Gelli, tramite la quale avrebbe ottenuto solidarietà e sostegno. Decise di farne domanda, anche − aggiungeva − per rendersi conto di che si trattasse, di quali interessi vi si annidassero. Il fatto è che la sua domanda non fu mai accolta (non si trovò il suo nome nell’elenco degli iscritti). Se ciò non avvenne − questa è la mia opinione − è perché una più attenta valutazione del temperamento di mio padre e del suo atteggiamento verso le istituzioni aveva portato a concludere che la sua presenza fosse, per la famosa loggia, «controindicata». Perché, se no, rinunciare a un uomo fra i più potenti d’Italia, e per giunta a un «uomo forte», per sostenere i propri disegni? Astute controdeduzioni, mosse a partire dalla presenza di suo fratello Romolo nel famoso elenco, sono del tutto infondate. Mio padre non ne era in ogni caso al corrente. «Oggi sono usciti finalmente i famosi elenchi della nota Loggia» annotò infatti sulla pagina del 21 maggio 1981 «e se sono stato alfine soddisfatto di far sapere a tutti che non c’ero, mi è dispiaciuto non poco trovarvi il nome di Romolo. Non solo non me ne aveva mai accennato, ma non lo pensavo come possibile. E può darsi che nei giorni decorsi l’equivoco nei miei confronti sia sorto proprio da ciò. Speriamo che il trauma per il Paese non si traduca in qualcosa di irreparabile ed anche di sproporzionato, fino a coinvolgere delle manovalanze in perfetta buona fede [tale egli considerava comunque mio zio, n.d.a.] e che nulla hanno a vedere con le capriole e l’opportunismo di 41


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pochi. Ma speriamo anche che se un disegno esiste alle spalle del tutto, questo venga in superficie con tutti i suoi responsabili». Certo quell’episodio, quella domanda intendo, incise, e molto, sulla vita di mio padre. Non parlo degli anni successivi alla sua compilazione, ma di quelli successivi alla sua pubblicizzazione (1981-82), che sono quelli che più direttamente ci interessano. La domanda, di cui fu data notizia sulla stampa nel maggio ’81, fu infatti il pretesto per tentare di espellerlo dall’Arma dei carabinieri; un tentativo condotto con inaudita determinazione dal generale Cappuzzo, attuale capo di stato maggiore dell’esercito e allora comandante generale dell’Arma. Fra mio padre e Cappuzzo i rapporti non erano mai stati distesi. La mia opinione è che Cappuzzo non gli perdonasse la popolarità, il successo, il fatto che fra i carabinieri quando si parlava del «nostro generale» si alludesse a mio padre (com’era naturale peraltro, visto che ci aveva trascorso quarant’anni di vita). Non si spiegherebbe altrimenti perché un comandante generale che predicava ossessivamente il verbo della «spersonalizzazione» fosse contemporaneamente anche il primo e l’unico nella storia dell’Arma a battere scientificamente tutta la stampa italiana (dal Corriere della Sera a Famiglia Cristiana) per rilasciarvi interviste. Se in qualche occasione un giornale si interessava a mio padre, Cappuzzo si faceva parte diligente per lamentare che a lui avessero riservato al confronto meno spazio; lo fece ad esempio col Corriere della Sera, reo, in occasione di una seduta della Commissione Moro, di aver dato minor rilievo alla sua deposizione che a quella di mio padre, che aveva alle spalle anni di antiterrorismo. E lo fece in forme ancor più plateali quando, in occasione delle interviste televisive concesse da mio padre nel febbraio ’81 alla Rai e a Enzo Biagi per una Tv privata, Cappuzzo insistette fino a ottenere di essere intervistato anche lui nel corso della medesima trasmissione Rai (Tam tam). Già allora i colpi alle spalle che mio padre riceveva da Roma non si contavano. Tant’è che alla precisa domanda di Biagi «Chi è un mafioso?» egli rispose: «È uno che [..] prima di uccidere, intendo assassinio anche come morte civile, è anche capace di usare delle espressioni come: “paternamente, affettuosamente ti consiglio”». La domanda di iscrizione alla P2 costituì il pretesto ideale per 42


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scatenare contro il generale dalla Chiesa un linciaggio in grande stile. Che qualche gratitudine gli si dovesse, che qualche vantaggio l’istituzione ne potesse ancora trarre, che la domanda fosse rimasta senza esito e risalisse a cinque anni prima, tutto ciò era ininfluente. Perché fare eccezioni? Non è la moralizzazione un interesse superiore? E il metodo scelto per moralizzare era quello che più si attagliava alla statura morale dei moralizzatori: le veline giornalistiche. La notizia della domanda di iscrizione e della presunta appartenenza venne sparata su L’Espresso. Ed è oltremodo significativo che, di fronte alla querela sporta da mio padre, il direttore del settimanale gli avesse fatto sapere tramite il capo del Sismi (?!) che egli intendeva incontrarlo, «pronto a scrivere» annotava mio padre il 6 maggio ’81 «qualunque cosa io voglia». Ancor più sospetto fu il secondo episodio giornalistico. Dopo che mio padre ebbe fornito la sua versione, sostenendo fra l’altro di avere cercato di sapere chi nella P2 potesse nuocergli in un incarico esposto e rischioso come il suo, spuntò una incredibile velina su Panorama (1° giugno 1981). Lì, oltre a fornire anonimamente una serie di notizie riservate, dall’interno del Comando generale si giunse a sostenere: «Cinque anni fa, dalla Chiesa non era più esposto di decine di altri ufficiali dei carabinieri». Mio padre, che era da anni il bersaglio numero uno dei terroristi, rimase incredulo. Non riusciva a concepire, come scriveva sul suo diario il 22 maggio, che quegli attacchi e tanta malafede potessero venirgli dall’interno dell’Arma, «un’Arma che ho servito in ginocchio, alla quale ho dato tutto». Benché avesse colto con chiarezza l’ostilità che gli veniva dalla coppia Cappuzzo-De Sena, pure non avrebbe mai pensato che a tanto cinismo si potesse giungere. Restò così disorientato che per la prima volta, dopo tanti anni, si aprì in famiglia, cercandovi conforto e sostegno. Non dovette essergli facile, a lui che cercava sempre di presentare a tutti, e soprattutto ai figli, un’immagine immacolata delle istituzioni affinché vi si potesse credere quasi religiosamente. Cercammo di stargli vicini. Né la diversità di storie personali e di idee mi impedì, proprio su quella vicenda, di schierarmi totalmente al suo fianco, tanto nitidi erano i contorni dell’operazione con la quale lo si voleva colpire. Un mattino cercò di avere un chiarimento per telefono con Cappuzzo. Protestò contro il dilagare delle veline. Fu una telefo43


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nata tormentata. Cappuzzo gli consigliò (amichevolmente, si capisce) di prendersi un mese di ferie, tanto per «sottrarsi alle polemiche» e di non tenere il discorso alla festa dell’Arma il 5 giugno successivo, per problemi di immagine. A questo si era arrivati. Mio padre, l’uomo che il popolo italiano considera il carabiniere per eccellenza, lui creava «problemi di immagine»! Mio padre non si prese le ferie. Era evidente che, se lo avesse fatto, al ritorno si sarebbe trovato destituito. E alla festa dell’Arma parlò. Ma viveva un clima di tormento e di macerazione. Dopo la festa andammo a mangiare con lui. Era così teso che a tavola, per una birichinata di mio figlio Carletto, cui era legato come più non si potrebbe, mandò in frantumi, stringendolo, il bicchiere che aveva in mano. Fu uno dei periodi più sofferti della sua vita. Conoscendone il senso dell’onore tememmo addirittura il peggio. Non era un timore del tutto infondato. Sulle pagine del 29 e del 31 maggio del suo diario compare uno sfogo disperato, rivolto immaginariamente a mia madre e che spiega per intero alcune delle sue scelte successive: «È stato un passato pulito, onesto, sofferto, ed è l’unico patrimonio che lasciamo ai nostri figlioli. Vorrei tanto raggiungerti». E continuava due giorni dopo: «L’atmosfera è peraltro tale da avvertirne il peso e sarò lieto di constatare che prevarrà il buon senso e non la volontà di nuocermi e di distruggermi moralmente. Non resisterei [...] alla mortificazione di non essere nel credito dei miei collaboratori e di tanti tanti cittadini che, in mille modi, hanno detto di volermi bene. Allora davvero sarei lieto mi prendessi con te perché quanto ti avevo promesso all’inizio si sarebbe compiuto: poter vivere ancora tanto quanto fosse sufficiente a sentirti ancora orgogliosa di me». Per fortuna, una volta tanto, rimediarono i politici. Nell’ambito della commissione che doveva decidere la sorte degli ufficiali coinvolti a vario titolo nella vicenda P2, mentre Cappuzzo insisteva per l’allontanamento di mio padre, i ministri Rognoni e Lagorio, con l’appoggio del generale Rambaldi − capo di stato maggiore della Difesa − decisero per l’archiviazione del caso e per la riconferma della fiducia del governo. Mi sono preso io, suo figlio, la responsabilità di ricordare queste note di vita, perché, per quanto possano scalfire ritratti puramente oleografici di mio padre (i cui meriti restano peraltro 44


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lì davanti alla storia), esse sono del tutto indispensabili per comprendere, dall’inizio, il senso degli avvenimenti successivi su due piani fondamentali e tra loro comunicanti. Il primo è quello della «solitudine». Perché c’è un visibile legame tra il linciaggio montato sul pretesto P2 nell’81 per allontanarlo dall’Arma prima del suo arrivo a Roma come vicecomandante e l’isolamento ferreo che gli viene imposto, nell’82, una volta che vi è giunto. È vero che le burocrazie pullulano di gelosie e rancori, anche maniacali. Ma qui si delinea un’altra probabile (almeno per me) spiegazione: qualcuno ha interesse a che egli non abbia modo di interferire o venire a conoscenza di specifici fatti, indirizzi operativi, circuiti di relazioni. Una precisazione è d’obbligo. Nutro per l’Arma e per chi vi opera rispetto e affetto. Né potrebbe essere diversamente, venendo da una famiglia che all’Arma ha appartenuto per due generazioni. Io stesso vi sono stato ufficiale di complemento e ho vissuto la mia vita di ragazzo dentro le caserme seguendo i trasferimenti di mio padre. È un ambiente che in qualche modo sento ancora «mio». Non è in gioco l’istituzione. Ma alla luce di tutto quanto venne poi non trovo irragionevole ipotizzare che singoli personaggi (mio padre in un paio di occasioni parlò di una «banda dei quattro») potessero fungere lì da anelli di collegamento con sistemi esterni di interesse illegali. Fantasticherie? Purtroppo ben reali sono i fatti che si sono sincronizzati nella seconda metà del decennio Settanta. Un comandante generale della Guardia di Finanza con tanto di padrini politici che organizza direttamente, con i suoi più fidi accoliti, il contrabbando; i servizi segreti invischiati nei traffici internazionali di armi; Attilio Ruffini (quello in primo fila ai funerali di don Calogero Volpe, quello delle cene elettorali con gli Spatola e gli Inzerillo) ministro della Difesa; i vertici militari e dei servizi segreti controllati dalla P2; e tutti gli altri misfatti che solo ora stanno venendo alla luce con i loro responsabili e ispiratori. Nulla di strano dunque che un generale dalla Chiesa a Roma potesse essere considerato «scomodo». E che verso di lui si operasse di conseguenza. Certo è che l’effetto fu raggiunto. Mio padre si separò dai suoi alamari anzitempo e fu lui, dopo soli due mesi dall’arrivo a Roma − e non certo a cuor leggero −, a compiere i primi passi perché l’amministrazione dello Stato lo utilizzasse altrimenti. Quella solitudine ne avrebbe preparata un’altra 45


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più drammatica; senza per questo provocare molti scrupoli nei responsabili originari dell’isolamento, i quali pubblicamente e privatamente lo avrebbero anzi accusato, di lì a qualche mese, di fronte all’eccidio di via Carini, di «essersela proprio voluta». Ma vi è un secondo piano su cui occorre cogliere l’influenza di quegli avvenimenti; ed è quello della psicologia di mio padre. Da tutta la vicenda egli non uscì senza traumi. In primo luogo, e in particolare nella primavera dell’81, aveva dovuto sperimentare nel modo più bruciante che i superiori, i «comandanti», non sono sempre − come egli aveva sinceramente e non retoricamente continuato a pensare − guide spirituali e protettori dei propri subordinati. All’osservatore disincantato questa può sembrare nient’altro che una banale ovvietà. Ma in mio padre essa provocò una frattura che mutò ai suoi occhi l’etica, l’immagine del potere. Era l’etica militare imparata da suo padre, la sua visione della gerarchia, maturata entro una educazione giovanile intrisa di ideali risorgimentali e di disciplina fascista, che veniva messa in crisi, in lui che pure doveva conoscere molte cose e vicende del Palazzo. In secondo luogo e forse soprattutto egli si portò dietro il peso della domanda P2 come un assillo silenzioso. Della lotta contro il terrorismo ciò che più lo aveva gratificato non erano stati tanto il potere o il successo che pure non gli dispiacevano, ma la fiducia di cui si sentiva circondato dalla gente. L’uomo o la donna qualunque che incontrandolo gli dicessero «Dio la benedica» o «Auguri, generale» erano per lui la più grande ricompensa alle sue fatiche e il più grande stimolo a continuarle. Questo era un tratto caratteristico della sua visione del potere e dello Stato. Una visione del tutto particolare, su cui avevamo avuto spesso lunghe discussioni, e in cui a una diffidenza di fondo verso l’azione di controllo della stampa e dell’opinione pubblica si saldava la domanda (talora la «pretesa») di una piena fiducia della gente verso le istituzioni. La gente non doveva controllare, doveva fidarsi. E le istituzioni dovevano raccogliere e meritare fiducia. Dunque il fatto che dopo molte incomprensioni la gente ora credesse in lui, accettasse volentieri di vedergli ricoprire incarichi delicati e riservati, ecco, questo lo faceva sentire pienamente realizzato come uomo e come Carabiniere. E lo aveva, per contro, reso meno diffidente verso la politica e verso la stampa, anche verso quella tradizionalmente più critica. La vicenda P2, 46


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la sua pubblicizzazione a colpi di veline avevano incrinato − a suo modo di vedere − quel rapporto di fiducia e anche di gratitudine. Per lui restò un cruccio interiore inaccettabile. Fu per questo che fra gli incarichi propostigli dal governo, dalla direzione degli istituti di pena alla prefettura di Napoli, al coordinamento della lotta alla mafia, egli accettò con entusiasmo il più esposto e più pericoloso; quello che però, se avesse ben meritato, gli avrebbe restituito per intero quel rapporto di fiducia. Non fu, come si è mormorato in qualche luogo infido, perché il futuro matrimonio con Emmanuela gli avesse iniettato velleità giovanili e rivoluzionarie. Quando a metà aprile a Roma, commosso, mi mise a parte dei suoi progetti matrimoniali, egli aveva già accettato − nonostante le prime minacce − di raggiungere la Sicilia. E aveva già deciso che linea di condotta adottare. Fu dunque con queste lacerazioni alle spalle che mio padre, il giorno dell’assassinio di Pio La Torre, lasciò l’annuale cerimonia di commemorazione della carica di Pastrengo e si recò a Roma. E fu col pieno senso del passaggio che stava compiendo, che quel giorno stesso − sull’aereo per Palermo − scrisse ai suoi figli un vero e proprio testamento spirituale.

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