Foto di gruppo da Piazza Fontana

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1. Sipario

«Certamente è doloroso e triste dover vedere che la giustizia ha dovuto constatare che, nonostante tanti anni di investigazioni e processi, non è stato possibile acclarare i fatti, stabilire le responsabilità e trarre le conseguenze su chi fossero i colpevoli» (Carlo Azeglio Ciampi, Presidente della Repubblica)

«Presidente, chiedo una breve interruzione». Appoggia i fogli sul banco, si passa la mano sugli occhi. Roma, 28 aprile 2005, sono passate da poco le dieci di mattina. Nell’aula della Cassazione la tensione è palpabile. «Sono commosso, mai avrei pensato di dovermi occupare ora, dopo più di trent’anni, di questi fatti che hanno segnato il mio ingresso in magistratura». Enrico Delehaye è sostituto procuratore generale, rappresenta la pubblica accusa. Tocca a lui l’ultima requisitoria del processo per Piazza Fontana. «È una pagina di storia che merita rispetto. Mi dolgo di occuparmene ora e così, perché non ritengo che la Suprema Corte sia la sede più adatta per accertare la verità, quando la verità non è accertata nelle fasi precedenti di giudizio. E che la luce sulla verità dei fatti sia mancata mi pare evidente, tanto è che abbiamo avuto due verdetti di merito completamente opposti». Tre ergastoli inflitti in primo grado ai neonazisti Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi e Giancarlo Rognoni; tre − invece − le assoluzioni concesse in appello. «Mi è piaciuta di più la prima sentenza, ma questo non vuol dire che l’altra sia illogica, perché è 1


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anch’essa motivatissima ed esaustiva». Per quanto sia doloroso, insomma, bisogna rassegnarsi. E Delehaye allarga le braccia: «Chiedo il rigetto dei ricorsi, presidente. Chiedo la conferma di tutte le assoluzioni». Giù il sipario per l’ultima volta, il pubblico ministero getta la spugna. «Siamo davanti ad una sconfitta investigativa, che evidenzia come non sia stato possibile dichiarare nessuno colpevole, ma sarebbe una sconfitta ancora maggiore abbandonare i princìpi di diritto». Prende la parola l’avvocato dello Stato, Massimo Giannuzzi, per conto del ministero dell’Interno e di Palazzo Chigi. È di parere opposto. «Come parte civile siamo in diritto di chiedere, anche per rispetto del dolore delle vittime e per la storia e l’identità democratica del nostro Paese, che sulla strage di piazza Fontana ci sia quantomeno un nuovo processo che corregga la sentenza d’appello, una sentenza che non considera unitariamente tutte le risultanze processuali». «La verità è che c’è stato poco coraggio nel ricercare le responsabilità. Ci si trincera dietro i piccoli dubbi quando, in realtà, possibilità alternative non ci sono mai state», protesta l’avvocato Federico Sinicato, storico legale dei familiari delle vittime. «Non si può mettere una pietra tombale su 17 morti e 84 feriti, accettando le motivazioni di una sentenza contraddittoria che va fuori strada», gli fa eco l’avvocato Franco Coppi, altro difensore di parte civile. «Mi meraviglio che il procuratore generale non abbia colto la grande incongruità della sentenza che ha assolto una combriccola di delinquenti. Quel verdetto deve essere annullato perché è parcellare ed equivale ad un film visto per fotogrammi». Ma è un film che la Suprema Corte non intende rivedere. Respinti tutti i ricorsi, assoluzioni confermate, processo chiuso. E spese di giustizia a carico dei familiari delle vittime: conseguenza automatica e inevitabile − dicono − ma paradossale. Il sigillo arriva al termine di un’udienza che slitta di cinque giorni per colpa del mal di schiena di uno dei giudici, che a sua volta era appena subentrato ad un collega colpito da lutto familiare. Più che un film, sembra una farsa di Dario Fo. Trent’anni fa, il 2


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futuro premio Nobel per la letteratura scrisse due commedie intorno a Piazza Fontana: Pum, pum! Chi è? La polizia! e la celeberrima Morte accidentale di un anarchico. Oggi è tra i più indignati. «È una vergogna storica, una cosa indegna non essere riusciti ad arrivare alla condanna dei responsabili della strage. Mi viene in mente l’altra bomba, quella che per fortuna non esplose ma venne fatta brillare la sera stessa per la preoccupazione che potesse fornire qualche indizio. Penso alla storia delle borse acquistate da Freda, uguali a quelle che contenevano le bombe. Penso a Valpreda e alla necessità di avere un capro espiatorio, e poi al processo portato via a Catanzaro. Una storia orribile». Aldo Aniasi se n’è andato lo scorso agosto. Il 12 dicembre 1969 era sindaco socialista di Milano. «Questa sentenza non la accetto − ripete ai giornali − contrasta con la verità storica. Gli esecutori materiali sono stati i neofascisti. I mandanti e responsabili dei depistaggi i servizi segreti italiani e stranieri. Questo è innegabile, non c’è Cassazione che tenga. Del resto non è la prima volta che vengono assolti dei colpevoli». Aniasi non poteva dimenticare i terribili momenti di quel lontano pomeriggio di sangue. «Mi hanno avvertito che ero a un convegno, sono corso in piazza Fontana: una scena infernale. C’era il prefetto Mazza che dava una dichiarazione alla stampa: “Sono stati gli anarchici”. Ma come faceva a dirlo, a pochi minuti dalla strage? È evidente, quella era la verità prefabbricata dall’Ufficio affari riservati del Viminale. Il che dimostra che ci furono anche responsabilità della politica di allora: scarsa vigilanza, perfino tolleranza nei confronti dell’eversione». Anche il senatore ds Guido Calvi, storico legale dell’anarchico Pietro Valpreda, è convinto che di misteri, nella vicenda di piazza Fontana, ce ne siano ormai pochi. «C’è un’attitudine sbagliata anche nell’opinione pubblica di sinistra e nel mio partito, nel dire che sulla strage non è stata accertata la verità. Non è così. E bisognerebbe leggerle le sentenze, perché è certo che la matrice era quella della cellula eversiva veneta e che vi è stata una collusione con i servizi segreti deviati che hanno depistato le indagini. Con questi ostacoli, il grado di verità raggiunto è alto». 3


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Il giudice istruttore milanese Guido Salvini, che per un decennio ha indagato sulle attività eversive della destra a cavallo degli anni ’70, paragona Piazza Fontana al caso della morte del presidente dell’Eni, Enrico Mattei. «La verità giudiziaria non si esaurisce sempre nella condanna dei singoli responsabili. La sentenza d’appello che ha assolto gli imputati neofascisti ha affermato anche che gli attentati del 12 dicembre furono opera dei gruppi di Ordine nuovo. E questo rimane un punto fermo. Non è molto diverso rispetto agli esiti dell’indagine sulla morte di Mattei, conclusa di recente con la certezza acquisita che si trattò non di un incidente aereo ma di un sabotaggio, anche lì senza giungere ai nomi degli autori». Un’analisi che l’avvocato Gaetano Pecorella, deputato di Forza Italia e a lungo difensore di Delfo Zorzi, dopo essere stato quasi trent’anni fa legale dei dipendenti della banca al processo di Piazza Fontana, respinge al mittente. «Se non si trovano le persone fisiche che hanno commesso un fatto, è arbitrario attribuirlo a un gruppo politico». Maggi, uno dei neofascisti assolti definitivamente, la pensa allo stesso modo. «Non è vero che la matrice della strage era quella della cellula eversiva veneta − dichiara al Gazzettino − non è mai stato accertato nulla. Solo la Corte d’appello ha parlato di possibili colpe di Freda, che però è stato assolto. Dunque chi è stato? Io di sicuro no. Azzardo un parere: i giudici forse hanno mollato troppo presto la pista anarchica. Con questo, per carità, non voglio riesumare il fantasma di Valpreda». Il fantasma di Valpreda. Del resto lo evocò addirittura Bettino Craxi, anni fa, tornando a seminare dubbi sull’ex ballerino. Ma ora che Pietro Valpreda non c’è più, ora che sono passati più di vent’anni dalla sua assoluzione senza che nessuno abbia mai potuto trovare un minimo nuovo indizio da aggiungere a quelli che all’epoca lo tennero in carcere per più di tre anni da innocente; ora che tutte le sentenze, anche quelle assolutorie, puntano il dito sulla pista nera, c’è un personaggio che torna ad alludere a possibili responsabilità del vecchio ballerino anarchico. È il politico che da mezzo secolo si trova al centro dei più oscuri miste4


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ri della Repubblica e che, secondo l’ex procuratore Gerardo D’Ambrosio, conosce anche il segreto di Piazza Fontana. Lui risponde così: «Dovrebbero essere i magistrati a scoprire la verità. E poi un dettaglio mi ha sempre colpito. Il tassista che riconobbe Valpreda aveva annotato che indossava un cappotto diverso. Si scoprì poi che Valpreda era passato a casa di un parente e aveva cambiato cappotto. Un dettaglio, ma di quelli che in poche righe possono contenere la chiave di un giallo». Parola dell’eterno, immarcescibile, Giulio Andreotti.

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