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Introduzione di Nando dalla Chiesa
Anche parlando della mafia cinese in Italia è obbligatorio partire da un aureo principio. Se c’è una cosa che non si può fare, che non si può più fare, di fronte all’insorgenza di un fenomeno criminale, è perdere tempo. Perdere tempo a vederlo, a rilevarlo nelle mappe cittadine, negli intrichi di affari che nascono, nei delitti di tipo nuovo che irrompono o si insinuano nelle cronache giudiziarie, nelle dinamiche demografiche retrostanti. Perdere tempo a contrastarlo sulla strada, nel reticolo degli esercizi commerciali che offrono o fungono da riparo, nei luoghi canonici di incontro, organizzazione e reclutamento, negli snodi e nei collegamenti internazionali. Perdere tempo ad analizzarlo, a dotarsi delle banche dati e dei network operativi e di intelligence nazionali e internazionali necessari a combatterlo con strategie adeguate. Perdere tempo, infine, a segnalarlo con il dovuto rigore alle istituzioni politiche e all’opinione pubblica affinché elaborino tempestivamente le risposte necessarie: sul piano legislativo e operativo, ma anche della sensibilizzazione e dell’orientamento dei cittadini. E naturalmente non si può perdere tempo proprio nell’allestimento di queste risposte, a partire da quelle politiche. Il guaio è che il nostro sistema della sicurezza nazionale è caratterizzato proprio da una fisiologica tendenza alla perdita di 9
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tempo. Che si è storicamente ripetuta di fronte a ogni forma di criminalità organizzata. Per cicli, in modi diseguali, con intensità e responsabilità diverse. Ma che si è verificata sempre. È accaduto di fronte a Cosa Nostra siciliana, allorché la perdita di tempo è stata tutt’uno con la (consapevole) scelta di una quieta convivenza. È accaduto con la camorra, a intervalli quasi regolari. È successo con la ’Ndrangheta. Ma anche con il terrorismo politico. È un meccanismo che a volte sembra avere in sé qualcosa di ineluttabile. Che sembra obbedire a una sorta di legge bronzea della nostra storia istituzionale. Una legge non scritta che si nutre del lassismo autoritario al quale (nonostante alcune importanti innovazioni di costume e di cultura) si ispira mediamente il modello di intervento delle nostre forze dell’ordine. Che si alimenta poi dello straordinario divario che vi è tradizionalmente tra la reattività (bassa, burocratica) delle nostre istituzioni investigative e repressive nelle fasi della ordinaria quotidianità e la reattività (alta, professionale) nelle fasi dell’emergenza. Che si rafforza ulteriormente grazie al deficit di responsabilità che caratterizza la classe dirigente politica, usa trascinare il dibattito sugli interventi legislativi in una infinita rete di contrasti ideologici e di “posizionamento” per giungere solo davanti alle tragedie e alle emergenze a scelte normative e ad atteggiamenti culturali adeguati. Ecco, il caso della criminalità organizzata cinese sembra illustrare perfettamente i meccanismi di questa legge bronzea. La natura pacifica della presenza di etnie provenienti dalla Cina nella storia del paese ha senz’altro contribuito a sopire preoccupazioni e curiosità investigative verso “il nuovo che avanzava” dall’Oriente. A impedire che, di fronte alla moltiplicazione degli arrivi cinesi in Italia e ai relativi segnali di anomalie, scattassero allarmi tempestivi nella pubblica opinione così come è accaduto, talvolta con accenti di isteria civile, di fronte alle improvvise ondate migratorie di altre etnie, giunte a scaglioni dagli anni Novanta in poi. Si è pensato cioè, per lo più, che ci si trovasse davanti all’afflusso di nuove, più larghe quote di una popolazio10
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ne già insediata e che non si era mai distinta per creare alle autorità nazionali problemi di ordine pubblico. I cinesi? Brava gente, laboriosi, si fanno tutti i fatti loro, commerciano e crescono nella ristorazione. I cinesi? Non si integrano molto con il resto della popolazione, questo è vero. Ma non si ha notizia di effettive minacce alle nostre leggi e alle regole primarie della convivenza civile. Quale attenzione poteva mai suscitare dunque l’arrivo repentino di decine di migliaia di immigrati dalla Cina in un paese accogliente per tradizione e le cui grandi città ambivano anzi a valorizzare, specie nei servizi del tempo libero, i tratti del proprio cosmopolitismo? E invece qualcosa di nuovo e inquietante stava accadendo. Qualcosa che mutava in profondità la natura dei problemi. La caduta del Muro aveva liberato il pianeta da un impero totalitario ma gli aveva portato in dono, quasi per contrappasso, un nuovo, immenso vaso di Pandora. Un vaso micidiale, da cui stava fuoriuscendo di tutto. Un sistema di nuove dittature o di repubbliche improbabili, un traffico d’armi cresciuto sul disfacimento dell’esercito sovietico, masse umane indigenti finalmente “libere” di mettersi in movimento verso i paesi dell’opulenza, un pullulare di bande e organizzazioni criminali leste (loro sì!) a cogliere le opportunità aperte da quel vero terremoto politico, sociale, economico, demografico. Nacque un intero “menu” di reati e reti illegali nuovi, al cui centro stavano due fenomeni sconvolgenti tra loro intrecciati e che l’umanità sembrava avere dimenticato tra una gloriosa convenzione e l’altra sui diritti dell’uomo: il traffico di esseri umani e la riduzione in schiavitù. Fu nel mezzo di quegli imprevedibili cambiamenti che l’impetuoso sviluppo della presenza cinese si caricò – in Italia ma non solo – di un altro significato. Affiancando e anzi mescolandosi con le correnti di scambio e integrazione tipiche dei processi di globalizzazione dei mercati, si strutturò nelle cosiddette Chinatown una forte componente criminale il cui profilo e la cui vocazione non tardarono a evidenziarsi. Specie, come sottolinea il libro, a Milano, a Roma e in Toscana. Nacque così una organizzazione flessibile ma per tanti aspetti unitaria volta a succhia11
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re tutto il succhiabile dall’immigrazione clandestina. Un sistema che traeva legittimazione e consenso dalla capacità che mostrava di risolvere i problemi di sopravvivenza dei propri connazionali. Ma che, verso i connazionali immigrati, mostrava una ferocia inusitata, talora sconvolgente, simboleggiata dall’uso del machete come arma di offesa nelle risse e nelle spedizioni punitive. E che a furia di estorsioni, di sequestri, di intimidazioni fisiche, di sfruttamento del lavoro minorile (Giampiero Rossi e Simone Spina ne offrono nel libro un’ampia e ben selezionata casistica), ha edificato un mondo all’interno del quale – alla fine – la magistratura ha potuto più volte rintracciare l’esistenza e il dominio di organizzazioni perfettamente rispondenti ai caratteri previsti dall’articolo 416 bis, quelli cioè dell’associazione mafiosa. Eppure la tendenza è di nuovo, ancora oggi, quella che porta a una sottovalutazione. Riemerge a ogni tornante della cronaca il minimalismo interpretativo che, quando si impone l’eclatanza di qualche episodio di cronaca, fa consueto pendant con la denuncia scandalistica. I cinesi che si mangiano un quartiere di Milano o di Roma o che si conquistano l’industria tessile di Prato. I cinesi che non muoiono mai. I cinesi che ora sparano per strada. I cinesi che stipano decine di minori a lavorare per pochi euro in uno scantinato. Senonché, una volta scolorite le suggestioni della cronaca, l’allarme ripiega lestamente su se stesso, nella convinzione che ci si trovi davanti comunque a un fenomeno circoscritto, titolato a sollecitare in noi la stessa attenzione che si riserva a ciò che accade in qualche lontana enclave sociale, in qualche remota riserva etnica. “ È un fatto che riguarda i cinesi”. È – con tutti gli aggiustamenti del caso – l’equivalente del “si ammazzano tra di loro” che ha segnato, nella più assoluta incoscienza, e con effetti devastanti, l’atteggiamento della società politica e civile nazionale verso la mafia o la camorra. La certezza che tutto sommato non ne saremo mai coinvolti fa da retroterra a qualsiasi discussione sulla mafia cinese. E a dar man forte giunge, come sempre, il giusto invito a non generaliz12
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zare, a non confondere la mafia cinese con le tante Chinatown in via di formazione in Italia. Invito giusto, sensato; e salutare di fronte alle impennate, sempre in agguato, del pregiudizio etnico. Ma la cui funzione – proprio in questo specifico contesto – serve ulteriormente, e al di là di ogni intenzione, a rimuovere lo spessore del problema, la sua oggettiva internità a uno specifico fenomeno demografico e alle sue specifiche forme. In realtà i fatti accaduti in questi ultimi anni dovrebbero indurre ad atteggiamenti assai più vigili e responsabili. Anzitutto perché questa enclave sociale, ammesso che tale la si possa considerare, è cresciuta, si è estesa in continuazione e, come viene ben documentato dai due autori, sempre più muove a estendersi. Per ampiezza demografica, per dimensione territoriale, per quantità e qualità degli affari intrapresi. In secondo luogo perché all’interno di questa enclave si sono via via prodotti e manifestati comportamenti criminali sempre più aggressivi e plateali, indicando da parte di una minoranza sia pure contenuta la disponibilità a sfidare scopertamente le leggi nazionali. Come, con quale senso di responsabilità è dunque ancora possibile praticare lo schema del controllo a distanza? Come farsi sedurre, una volta di più, dai vantaggi supposti del temporeggiamento? Tra l’altro proprio le dinamiche che si sono rapidamente intrecciate nella costruzione e nello sviluppo della criminalità cinese, ossia l’accumulazione di capitali illegali e l’organizzazione di abilità militari, fanno ragionevolmente prevedere, senza indulgere ad alcuna sindrome di Cassandra, che gli interessi criminali cercheranno di valorizzarsi fuoriuscendo dai supposti rigidi confini dell’enclave etnica. Che i capitali alimentati dai reati di Chinatown si riverseranno cioè nella società italiana intera per trovare nuovi canali di investimento, per costruire sponde amministrative e politiche. Che deborderanno, insomma; come sono puntualmente debordati dai loro ambiti territoriali e sociali originari tutti i capitali e gli interessi criminali a un certo stadio del loro sviluppo. E come gli autori documentano sia già iniziato ad accadere anche in questo caso, insieme con le prime alleanze tra i clan cinesi e le maggiori organizzazioni criminali italiane. 13
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Per giunta queste dinamiche di fuoriuscita, di tracimazione – se così possiamo dire – si esprimeranno in un quadro reso sempre più favorevole da almeno tre fattori. Ai quali è giusto in questa Introduzione fare riferimento. Il primo fattore è l’ampiezza del network economico illegale al cui interno i capitali illegali cinesi potranno inserirsi e tessere alleanze in grado di allargare la loro “cittadinanza”, sia pure con la cautela e la discrezione che li hanno tradizionalmente contraddistinti. Il secondo fattore è l’imponente, eccezionale tasso di crescita dell’economia del paese di origine, che non potrà non svolgere una importante funzione di retroterra e di moltiplicazione delle opportunità. Non ci si troverà cioè più di fronte al prolungamento illegale di un’economia povera, ma al terminale criminale di un’economia ricca, il quale a quel punto potrà anche rinunciare a una parte del traffico di esseri umani su cui ha costruito la propria “accumulazione primitiva”. Il terzo fattore, infine, è l’estensione del diritto di voto che inevitabilmente l’Italia dovrà, in forza di una fisiologia democratica, concedere agli immigrati. Integrale o ridotta che sia questa estensione, si tratti cioè di voto politico o solo amministrativo, e ribadito come sia doveroso non confondere un’etnia con le sue manifestazioni criminali, una cosa è però indubbia. Il forte insediamento conquistato dalla mafia cinese in seno alla propria comunità di riferimento offrirà precisi ed efficienti serbatoi di consensi, che potranno rivelarsi assai utili per darle quel requisito decisivo in più su cui hanno potuto storicamente contare le maggiori organizzazioni criminali italiane: il rapporto con la politica. Il merito di questo libro, il valore dello scrupoloso lavoro di ricerca e di analisi che Giampiero Rossi e Simone Spina hanno svolto, dotandolo del brio narrativo e della vivacità aneddotica suggeriti dalle cronache, sta proprio nel quadro d’insieme che viene offerto alla nostra consapevolezza e alla nostra intelligenza. E che rappresenta un implicito, efficacissimo invito a non perdere tempo. A non perdere tempo ancora una volta. Il che dipenderà da noi. Dalle istituzioni, a tutti i livelli, e dall’opinione pubblica. Chiamate insieme, ancora una volta, a fare tesoro della storia. 14