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1. E dopo una settimana Judith ha detto: non puoi stare qui senza soldi e senza lavoro. Devi pagare il mangiare, il dormire. Devi lavorare. E per chi non ha documenti il lavoro è uno solo. Quale, ho detto io. Eh, quand’è il momento lo vedrai, ha detto lei. Così una sera mi ha portato al posto di lavoro. Ha detto alle ragazze che stavano con me nella casa: datele un vestito per lavorare, qualche cosa che non mettete più. Mi hanno dato il vestito. Era solo un paio di mutande. Sul posto di lavoro si mette questo, ha detto Judith. Era il 26 dicembre del 2000. Come posso dimenticare quel giorno? A Torino c’era la neve. Era la prima volta che la vedevo. Ma quant’è bella, ho detto. Tutto bianco e immobile e quasi incantato. È sempre così bello, qua in Italia? Però faceva freddo. Molto freddo. Così ho detto: io ’ste mutande non me le metto; e ho tenuto i miei jeans. Sul marciapiede faceva un freddo cane. Judith ha detto alle altre: questa è Izogìe, da oggi può stare qui. Quando finite di lavorare la portate a casa. Erano tutte in mutande, con le calze pesanti, due o tre paia. E coprispalle che non arrivavano a coprire le spalle. E scarpe ridicole, coi tacchi altissimi. Ma voi siete matte, ho detto. Con questo freddo, a stare in mutande. Che freddo. Che freddo. Stavo lì a guardare le ragazze in mutande e morivo di freddo. Non mi staccavo dal fuoco. Le mani erano calde ma i piedi gelati. Guardavo le altre in mutande e pensavo: non è possibile non è possibile non è possibile. 9
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Era possibilissimo. Arrivavano le macchine, e sulle macchine degli uomini. Soli. Le ragazze dicevano qualcosa, salivano, andavano via con loro. Io non mi staccavo dal fuoco. I piedi non li sentivo più. Si è fermato un tizio, vuole te. Ma non ci penso nemmeno, ho detto, vada da sua sorella. E dopo un attimo è arrivata la polizia. In quell’attimo sono scappate tutte nella boscaglia e mi hanno lasciato lì, sola, vicino al fuoco. Non mi avevano neanche detto come, perché, e dove scappare. Così sono rimasta lì vicino al fuoco, le ho viste andare via come in un sogno. Un poliziotto è venuto a parlarmi. Stai bene? Non capivo una parola di italiano. Così hanno chiamato la poliziotta che sapeva l’inglese. E lei ha cominciato: non puoi stare qui. Oggi è il primo giorno che mi hanno portato qui, ho spiegato. Ma cosa ci fai qui? Lavoro. Ma qui non si lavora. Questo non è un posto di lavoro. Vai via. Non so dove andare. Dove abiti? La strada non la so. Chi ti ha portato? Sono scappate tutte. 10
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Vai via, su. Devo aspettare che loro tornino, non so dove andare. Dopo un po’ si è stufata: pleeeease, vai via, qui non puoi stare. Ma alla fine se n’è andata via lei. Io sempre lì, vicino al fuoco. E dopo mezz’ora sono tornate le altre. Una per volta, spaventatissime. È arrivata anche Judith. Ma come, non sei scappata? C’era la polizia… Lo so, ho risposto. Ci ho parlato. E che ti hanno detto? Che non devo stare qui. Che qui non c’è nessun posto di lavoro.
2. Nessuno mi ha obbligato a partire. Nessuno mi ci ha costretto. Nella trappola mi ci sono messa da sola, per mia libera scelta. Ma non era questo che mi aspettavo quando sono partita. Questa situazione. E nessuna via d’uscita.
3. Quando siamo tornate a casa Judith mi ha spiegato tutto per benino, il mestiere è così, si fa così, la situazione è questa, il sistema è questo. E quando arriva la polizia devi scappare, sennò ti portano in questura e ti rimandano a casa. Mi ha messo dentro il terrore della polizia, non solo sul posto di lavoro, ma sempre sempre sempre. Anche quando esci per la 11
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spesa, per le passeggiate. Non uscire mai, non parlare mai con nessuno. Eccetera. Il terrore della polizia è tale che le ragazze quando vedono passare la polizia si fanno il segno della croce, dicono I’m covered by the blood of Jesus, il sangue di Gesù mi copre e mi protegge. E a vederle così spaventate ti spaventi anche tu. Poi vedi quando fanno le retate, e la furia con cui la polizia corre verso le ragazze, una scappa di qua, una di là, e tutte urlano, e tutte piangono; sembrano i topi che fuggono davanti ai gatti. Urlano e piangono e scappano nel bosco, scappano nella notte e nel fango, e quando tornano a casa sembra siano state graffiate da una tigre. E poi si passano ore a togliere le spine. Come fai a non farti contagiare dalla paura?
4. Io non volevo. Ho detto: non se ne parla proprio. Non è questo che mi avevate promesso. Allora Judith ha detto: troveremo dell’altro. E mi ha presentato un tizio. Sii carina, ha detto, lui può offrirti un lavoro. Sii gentile. Molto molto gentile. Che cosa vuol dire essere gentile. Non capivo. O forse non volevo. Lui era un bianco. Aveva le unghie lunghe e sporche, ma mi ha portato a cena in un posto elegante. Sei molto bella, ha detto. Una ragazza come te dovrebbe fare la modella. Sfilate. Spettacoli. Cose così. Io quasi non ascoltavo, perché intanto non sapevo come mangiare la pasta che avevo ordinato. Se bisognava usare il coltello oppure no. Morivo per l’imbarazzo. 12
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Lui intanto parlava e parlava. Ha detto: ovviamente non è che ci sono sfilate tutte le sere. Bisogna adattarsi, fare qualcos’altro. Le serate nei locali, per esempio. Bei posti. Si balla, si parla con la gente, non è difficile. Poi quello che succede quando esci dal locale è affare tuo, la tua vita privata riguarda solo te. Ha detto: non è necessario che tu vada a letto con qualcuno, al locale basta che ti fai offrire da bere. Che tu sia gentile coi clienti. È così che funziona l’Europa. Se non fai la schizzinosa fai i soldi; e poi fai come hanno fatto le altre. Allora ho chiesto: come hanno fatto le altre? Ed è stata una delle poche cose che ho detto quella sera. Lui s’è messo a ridere. Fanno soldi, ha detto, comperano una ragazza, la portano in Europa e quella lavora e guadagna al posto loro. Sveglia, ragazzina. È questo il business. E mi ha portato a vedere un night. C’erano le luci basse e i velluti e la musica, e le ragazze erano vestite bene, ma la situazione era ancora più brutta che sul marciapiede. Albanesi, russe, rumene. Sono andata in un camerino, sono riuscita a parlare con due o tre ragazze. Mi hanno chiesto con chi lavoravo. Mi ha portato ’sto tizio, ho detto. È la mia prima volta. Loro hanno detto vai via. Scappa. Mi hanno detto che loro erano state vendute. Due erano più grandi di me, una aveva solo diciassette anni. Non avevano la minima possibilità di scappare. Se usci13
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vano dal locale per prendere aria, subito arrivava un albanese con la faccia cattiva, cosa fai qui, torna subito dentro. Dentro. Hanno detto: meglio che vai sulla strada, sei più libera. Non tornare più, non mettere più piede in un night. Perché adesso sei ancora in tempo a scappare, ma una volta che hai firmato il contratto non hai più scampo. E anche se dicono che non c’è bisogno che vai a letto coi clienti, dopo non puoi più rifiutare niente. Ma allora io devo andare sul marciapiede, ho detto. E loro hanno detto: ma cosa pensi che facciamo qui? Mi hanno portato in alcuni camerini dove c’erano delle donne in ginocchio, facevano dei pompini ai clienti. Ma è questo che mi aspetta? ho chiesto. Sì. Meglio la strada, ha detto una. Se solo potessi uscire di qui, io sul marciapiede ci andrei di corsa.
5. Ho detto al tizio: non se ne parla. Lui non s’è smontato per niente. Ha detto: c’è un altro locale dove richiedono ragazze di colore. Devi solo dire che sei cubana, perché le nigeriane non sono tanto richieste. Arrivo lì e vedo la stessa storia, un sacco di sudamericane e di brasiliane. Ci siamo seduti, abbiamo visto la sfilata delle ragazze. Lì non c’erano camerini, le ragazze se ne andavano in albergo con i clienti, ma prima dovevano avvertire, dove andavano, per quanto tempo, con chi. C’era una segretaria apposta, che stava lì a ricevere le telefonate delle ragazze e dei clienti. Tutto più raffinato. Ma la storia era sempre la stessa. 14
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Ti piace questo posto? Guarda quello com’è ricco, e quello, quando vedono una nuova arrivata si mettono in fila come le pecore. Ma a me non piaceva affatto. Sono tornata a casa e ho detto: non ci torno più. Lui allora s’è arrabbiato con Judith. Non avete ancora spiegato alla ragazza come stanno le cose, ha detto, la prossima volta ci pensiamo noi.
6. Le cose stavano così. Non avevo documenti. Non avevo soldi. Non avevo un posto dove scappare. Avevo il terrore della polizia, e l’unica parola che sapevo di italiano era vaffanculo. In più avevo il debito da pagare. Trentamila euro. E si sa cosa succede alle ragazze che non pagano. O che non vogliono lavorare.
7. Ma tutto questo io ci ho messo molto a capirlo. O forse l’ho capito molto in fretta, anche se qualcosa dentro la mia testa continuava a ripetere non è possibile non è possibile. Non è possibile che stia capitando proprio a me. Ci deve essere uno sbaglio, da qualche parte. È solo un incubo. Tra poco mi sveglio e il mondo ritorna al suo posto.
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8. I primi dubbi ho cominciato ad averli a Londra. Non quando sono partita da Benin City col mio zaino della scuola, non quando sono arrivata a Heathrow con un documento falso, non quando all’aereoporto ci hanno fatto uscire da un passaggio di servizio, facendoci saltare il controllo dei passaporti. Anzi. Quando ho visto l’uomo che ci apriva la porta, e ridendo ha fatto passare il gruppo delle ragazze, e tra risate e pacche sulle spalle ha preso una busta dalle mani di chi ci accompagnava, ecco, ho pensato: ma com’è tutto organizzato bene. Mi sono proprio messa nelle mani della gente giusta. E così quando ci hanno caricato sul pulmino, e ci hanno portato in un appartamento nel quartiere africano. Era un bell’appartamento. Un bel quartiere. Eravamo in sei e ci sembrava di essere arrivate in paradiso. Era quello il paradiso, era Londra e una casa a Londra e un lavoro a Londra che ci stava aspettando. Proprio noi, che arrivavamo da Benin City. Solo: non dovevamo fare rumore. Solo: potevamo uscire solo la notte, a turno, senza farci vedere da nessuno. Solo: i giorni passavano, passavano; e il lavoro non arrivava mai. Allora abbiamo cominciato ad ascoltare le telefonate. I nostri accompagnatori chiamavano qualcuno, dicevano è arrivata, dicevano manda i soldi. Chiamavano Parigi, Amsterdam, Torino. Dicevano: fino a quando non arrivano i soldi la teniamo noi. Dicevano: se non mandi i soldi la vendiamo a qualcun altro. Allora abbiamo cominciato ad avere paura. 16
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9. Passavano i giorni e noi ormai impazzivamo dalla paura. Quasi non avevamo il coraggio di guardarci in faccia. Chiedevamo l’una all’altra: te, ti hanno venduta? E io? Mi hanno venduta? Ma a chi mai ci hanno vendute? E perché? Quel non sapere nulla era spaventoso. E intanto loro continuavano a portarci a fare le passeggiate, senza perderci mai di vista per paura che scappassimo. Finché un giorno ho chiesto: e il lavoro? L’accordo con quelli di Benin City era che mi avrebbero trovato un lavoro. Mi avevano chiesto: tu cosa fai? E io: vendo frutta e verdura al mercato con mia madre. Ah, in Europa queste cose le vendono nei supermercati, fanno un sacco di soldi. E così mi hanno dato l’idea che c’erano un sacco di possibilità. Bene, ho chiesto io a quelli di Londra. E il mio lavoro? Ah, ancora ci stiamo organizzando. E mi hanno portato in un negozio che vendeva stoffe africane fabbricate in Olanda. Bellissime. E c’erano due commesse africane che lavoravano. Contentissime. Hanno detto: un lavoro così ti va bene? Caspita! Ecco, questo tipo di lavoro qui, in Italia ce n’è migliaia. A Londra adesso non ci sono tante opportunità, ma in Italia… ah, in Italia! Ci sono un sacco di donne che hanno un sacco di negozi del genere. E hanno bisogno di un sacco di commesse. Quando partiamo per l’Italia? ho chiesto solo.
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10. Ho fatto il viaggio in pullman. Londra-Parigi. Poi ParigiTorino. Mi hanno detto: all’ultima fermata scendi, si chiama Porta Nuova, aspetti fuori all’angolo della stazione, vicino all’ingresso; qualcuno ti verrà a prendere. Non è venuto nessuno.
11. Sono rimasta lì in piedi tutto il giorno, aspettavo e aspettavo. Avevo fame e sete e dovevo far pipì. Aspettavo. Ero stanca e mi facevano male i piedi e non avevo uno straccio di documento. Non avevo un soldo. Non sapevo dove andare. Aspettavo e aspettavo e ogni africano che passava per strada lo guardavo sperando che fosse quello giusto. Non era mai quello giusto. Stava diventando buio e avevo sempre più fame e più sete e più freddo. È diventato buio. Ero sempre lì, in piedi. E forse è stato lì, vicino all’ingresso di Porta Nuova, in quelle ore eterne di fame e di freddo, di angoscia e di rabbia, lì, esattamente in quel punto, mentre aspettavo chissà chi e chissà cosa, che ho capito che c’era una fregatura. Che mi avevano imbrogliata. Che ero finita in una trappola. Ma non potevo fare altro che aspettare. E dunque ho aspettato.
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