LO CHIAMAVANO GIACINTO

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1. Quando nascevano i Giacinti (dove Facchetti scopre il calcio, incontra Meazza e Herrera, conquista l'Inter)

Quei nomi innanzitutto. Antichi. Guerrieri o gentili, reminiscenze greche e latine, di gentes romane, ricordo di uomini arditi, di fiori profumati. Giuliano, Tarcisio, Giacinto, Aristide, Armando... Nomi di italiani in gita. Sarti-Burgnich-FacchettiTagnin (poi Bedin)-Guarneri-Picchi. Non è una formazione dell’Inter, è una filastrocca generazionale. Non è una squadra di calcio, è una nenia di mamma, di quelle che ti fanno coraggio, l’auspicio bambino di una notte serena e di un giorno migliore. È un pezzo di storia collettiva. Titolari e riserve, campioni e gregari, tutti evocano un Paese antico che resiste alla trasformazione. Ci sono Enea (Masiero), Aurelio (Milani), Saul (Malatrasi). C’è Spartaco Landini. Persino i nomi comunissimi si fanno particolari. Sandro diventa Sandrino, Mario è Mariolino, come nei bar dello sport o nei negozi di barbiere della desolata periferia, nelle mille via Gluck: diminutivi, vezzeggiativi, che rendono unica anche la più operaia delle esistenze. Giacinto nasce a Treviglio, il 18 luglio del 1942. Il padre Felice è ferroviere, la madre Elvira lavora in casa. Giacinto ha un fratello, Luigi e tre sorelle, Franca, Giovanna, Giuseppina, che in famiglia chiamano Pina. Una vita fatta di piccole cose e poche pretese. Giacinto è un nome candido, a un violento potrebbe fare violenza per una vita intera, ma Facchetti è un mansueto, va subito d’accordo col proprio nome. Un giorno la maestra dà un compito in classe: che cosa vorreste fare da grandi? «Il muratore» scrive Giacinto. Che cosa potrebbe volere di più un ragazzo povero della bergamasca, terra di capimastri e carpentieri che ancora oggi affollano l’au11


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tostrada o la vecchia Rivoltana? Ormai tutti padroncini e impresari edili, all’assalto del ricco mercato milanese del cemento armato e delle ristrutturazioni chiavi in mano. Al ragazzo piace cantare, lo fa nel coro della parrocchia fino agli undici anni d’età. È ben intonato: una volta, quando è già nelle giovanili dell’Inter, i ragazzi nerazzurri si aggiudicano non solo il torneo al quale partecipano, ma anche una goliardica coppa per il miglior coro. La vincono cantando Marina, gli artefici dell’exploit sono Dellagiovanna, Vincenzi e proprio Facchetti. Un’altra volta, già affermato, racconta a un settimanale illustrato di quanto gli piaccia cantare in casa insieme alla moglie e alle due figlie già nate («magari anche a tavola. E insieme facciamo anche i cori» dice). In famiglia, oggi, lo ricordano canticchiare soprattutto in automobile: i motivi degli anni Sessanta, i successi di Modugno o Morandi, i cori degli alpini. In casa, da qualche parte, deve ancora esserci una vecchia cassetta audio con Giacinto e i bambini che intonano Sul cappello. È il calcio, però, a farsi strada nella vita del giovanissimo Facchetti. Lo prende pian piano, lo strega, infine gli affolla le giornate. Frequenta i salesiani, poi l’oratorio Sant’Agostino, appena nato a trecento metri da casa: basse palazzine popolari, attorniate da campi e cascine, all’angolo tra via Giotto e via Casnida, che oggi non esistono più. «Facevo il giocatore-allenatore-massaggiatorepresidente-difensore-attaccante del Rapid e delle Schiere Azzurre» ricorderà anni dopo Giacinto. Mette insieme squadre e con queste partecipa ai moltissimi tornei che si disputano in zona. Gioca da terzino sinistro, come il padre Felice, calciatore nella squadra dei ferrovieri anni prima, ai tempi della prima guerra mondiale. Felice, capo della squadra deviatori alla stazione di Treviglio, asseconda la passione del figlio, lo porta sui campi da gioco sulla canna della propria bici, ma non confida molto (agli inizi) nelle sue qualità. È un genitore vecchio stampo. Chi non lo è in quell’Italia ancora patriarcale, appena uscita da una guerra rovinosa. Inflessibile, intransigente, onesto e disciplinato, lo giudica Giacinto anni dopo, diventato a sua volta uomo e padre: «Quando non gli ubbidivo mi dava pesanti ceffoni, se ho alcune buone qualità, penso proprio di 12


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averle ereditate da lui». È ancora lontanissima la rivoluzione culturale che il Sessantotto imporrà al rapporto padre-figlio. Il premio per le vittorie di quei tanti Rapid-qualcosa è spesso null’altro che un bicchiere di spuma ghiacciata. Ma ci sono tornei più importanti degli altri, in questi casi ai vincitori possono toccare anche cinquecento lire a testa. Una sera Giacinto rimedia una multa: mille lire per essersi presentato, e aver giocato, in canottiera. Inutile far notare che la sua squadretta è così male in arnese da non avere neppure undici maglie di uguale foggia e colore. Niente, mille sono e mille lire di multa restano. Quella volta, papà Felice è una furia: volano anche un paio di sberle. Al vecchio Facchetti non piaceva spendere soldi in sciocchezze. Il vecchio, ai figli, ripeteva spesso: «Meglio un solo vestito, ma pulito». Giacinto gioca terzino, si diceva, ma ama fare gol. Quando le cose si mettono male, va in attacco per rimediare allo svantaggio, vuole sempre essere dove si trova la palla, prendere parte al gioco. Anni dopo si discuterà molto del terzino “cannoniere” (come si diceva una volta) dell’Inter, della scelta rivoluzionaria di Herrera di votarlo all’offesa sistematica, dell’invenzione del terzino fluidificante. Pochi, invece, ricorderanno che tutto era già nato sui campetti dall’erba incolta della bassa bergamasca. La prima vera squadra di Giacinto-bambino è la Mario Zanconti: ci giocano i ragazzi più promettenti dell’oratorio Sant’Agostino, dove ci si divide in Schiere Azzurre e Azzurri. «Nelle prime i più grandicelli, negli Azzurri i nati del ’42 e del ’43, tranne lui che era già enorme, adulto di fisico e di temperamento, subito in campo con le Schiere Azzurre» ricorda Domenico Casati, compagno d’infanzia di Facchetti, oggi allenatore, un passato da difensore in serie A con Juve, Atalanta, Brescia e Pisa. Nelle giornate di Giacinto c’è il calcio ma anche ogni altro tipo di sport praticabile. Corre gli 80 metri, gli 80 ostacoli, i 400 piani, gli 800, i mille, salta in alto, in lungo, fa le staffette veloci. E poi la pallavolo, la pallacanestro, per tre mesi frequenta persino un corso di rugby. Nel ’54 vince la gara dei 600 metri di corsa campestre alle “olimpiadi” del Vittorioso, il settimanale per ragazzi di ispirazione cattolica che in quegli anni vende centinaia di migliaia di copie. È alle scuole superiori, però, 13


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all’istituto tecnico Guglielmo Oberdan dove studia ragioneria, che intensifica la pratica della corsa: a sedici anni è campione provinciale studentesco, corre gli 80 metri ostacoli in 10 secondi e 8. Ha «un personale di 8”9 sugli 80 metri a 17 anni quando primatista era Ottolina con 8”8», si legge in uno dei suoi più bei ritratti giornalistici. Circostanza che può contribuire alla mitologia del superFacchetti, ma che trova smentita autorevole nello stesso Sergio Ottolina, recordman europeo dei 200 negli anni Sessanta e storico antagonista di Livio Berruti: «Correvo gli 80 in 9 secondi e 2, è difficile che Giacinto abbia potuto fare meglio. Aveva leve troppo lunghe, più adatto al mezzofondo che allo sprint». Il ragazzo di Treviglio, comunque, è un agonista nato, uno splendido risultato della genetica. Un atleta di Lussino, un Apoxyòmenos che affronta la gloria con quiete e compostezza, ma è il calcio ormai la sua ragione di vita. Poco gli importa se nella corsa potrebbe avere un futuro, si nutre della lettura del Calcio illustrato e la domenica, al cinema dell’oratorio, prima del film non si perde mai La settimana Incom, unico modo per vedere all’opera i campioni, idoli lontani, esseri quasi soprannaturali. È in questo contesto di situazioni e aspettative, che il terzino della squadra dell’oratorio si presenta a un provino organizzato dall’Atalanta, la gloriosa società del capoluogo. Lo supera, da predestinato, ma basta poco a don Guido Crippa, il prete che dal ’55 anima l’oratorio, per convincere papà Felice a non sradicare il ragazzo: c’è tempo per lasciare famiglia e paese. Giacinto resta, si accasa alla Trevigliese e gioca il campionato promozione ’57-’58. «Aveva 15 anni, per me era ancora un bambino, fu giusto non farlo andare via subito. Ricordo che la Zanconti ebbe per il suo cartellino 35 mila lire. Una bella cifra, a quei tempi, che ci permise di finanziare la squadretta a lungo» dice don Guido, oggi ottantenne. Per tenere d’occhio il ragazzino, cominciano ad arrivare anche gli osservatori di grosse società: ancora l’Atalanta, il Como, il Torino. E l’Inter, appunto. A capo delle squadre giovanili nerazzurre c’è una specie di monumento che cammina, autentico eroe popolare: è Giuseppe Meazza, il Peppin, il grande attaccante dell’Italia due volte campione del mondo. Il provino si fa a 14


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Rogoredo, periferia della metropoli, dove in quegli anni si allenano le giovanili nerazzurre. Giacinto si presenta insieme al compaesano Giuseppe Setti, un mediano. Meazza non ha dubbi: il difensore è da Inter e decide di portarlo immediatamente con sé, al torneo giovanile che si gioca come ogni anno a Ginevra. In attesa di una degna cornice, piegata in quattro, con i bordi ingialliti, i figli di Giacinto hanno ritrovato da poco tra le carte del padre, la lettera di convocazione di quel lontano torneo. Tenerla tra le mani è come un viaggio sulla macchina del tempo: «Milano, marzo 1958. Al giuocatore Facchetti Giacinto. Ci è gradito comunicarti che sei stato incluso a fare parte della comitiva che si recherà nelle prossime feste di Pasqua a Ginevra». Seguono indicazioni di massima («accertarsi di essere in possesso di documento», che gli indumenti siano «in perfetta efficienza»), consigli di sopravvivenza spicciola («procurarsi per proprio conto il necessario per la cena di venerdì sera»). E un avvertimento finale: «Ognuno è tenuto a mantenere, come sempre, un comportamento serio, educato, rispettoso e disciplinare. Saluti Meazza». I dirigenti della Trevigliese, però, hanno ben altro per la testa. Hanno fatto firmare a papà Felice una promessa di cessione alla solita Atalanta. Dicono: l’Inter non lo vuole più, il signor Facchetti non ha ragione di dubitarne. Bella storia. C’è un impegno scritto e carta canta, ma c’è anche il carattere di quel ragazzo all’apparenza mite, tutto d’un pezzo nel fisico come nello spirito. C’è, infine, l’antica saggezza contadina della gente al di là dell’Adda, dove non è ancora Milano e non è già più bergamasca; quel misto di concretezza e di deferenza che fa ancora dire: «Chi l’vòlta i spale a Milà, a l’volta i spale al pà». Giacinto vuole l’Inter. Ammira l’Inter in contrasto con gli amici di Treviglio che sono tutti della Juve. S’impunta: «Piuttosto lascio. Non giocherò mai più». Resta a casa due mesi e mezzo, consigliato dal factotum delle giovanili nerazzurre, un certo Anselmo. A novembre del ’59, la Trevigliese lo lascia tornare all’Inter. In cambio del suo giocatore la piccola società strappa un milione e mezzo, più una muta di divise nuove di pacca. Un affare. Una Fiat 500 modello “tetto apribile”, l’ulti15


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missima versione dell’utilitaria in produzione già da due anni, costa 435 mila lire. La vendita del cartellino prevede una percentuale anche per Facchetti. Incassa sessantamila lire, lo stipendio mensile di un impiegato. Tutte insieme, gli paiono una ricchezza: intonse, una sull’altra, consegna le banconote al padre che corre a metterle in banca. A Giacinto restano gli spiccioli per una serata al cinema con gli amici del paese. Milano, la grande città, la grande squadra. L’Inter. Non è difficile immaginare la tempesta di emozioni, il sovraccarico di speranze che tutto ciò deve rappresentare per un ragazzo di diciassette anni, seppure sorretto dai saldi principi e dalla parsimonia contadina inculcati dal padre. Quell’anno, il 1959, è il principio ed è anche la fine. C’è l’Inter e c’è la morte di mamma Elvira. Facchetti si concederà senza indugi alla stampa, negli anni a venire: nei suoi ricordi la figura del padre è onnipresente, quella di Elvira lontana, segreta, chiusa nel cuore. Soltanto una volta, nel 1963, racconta a Oggi Illustrato il dramma di quell’addio. Giacinto partecipa al suo primo torneo importante, in Austria, con la Nazionale juniores. Ci sono Rivera, Rosato, Bercellino... Gente che farà strada, davvero una bella squadra. Una partita del torneo è persino trasmessa in tivù. «Mia madre che soffriva da tempo di cuore, provò un’emozione fortissima. Tornai a casa appena in tempo, per abbracciarla per l’ultima volta. “Giacinto”, mi disse, “ho capito che questa è la tua strada. Continua a giocare, sono certa che diventerai un campione”. Morì mezz’ora più tardi». C’è tutto il sovraccarico stilistico del giornalismo da rotocalco popolare anni Sessanta in una simile ricostruzione. Ma tant’è. Elvira e il suo auspicio vivranno per sempre, sommessi, nel cassetto della memoria. Facchetti adesso è un pendolare del pallone, sospinto da una ferrea determinazione e dall’aiuto di papà. La mattina il lungagnone frequenta l’istituto tecnico a Treviglio, il pomeriggio, prima il solo giovedì, poi due volte alla settimana, fa la spola con Milano. Il padre alle dieci del mattino lo raggiunge a scuola e gli consegna sei panini imbottiti. Il ragazzo li fa fuori, uno dietro l’altro, in un’ora scarsa. Il pranzo a quel punto è archiviato. 16


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All’uscita il padre è di nuovo ad attenderlo, a cavallo della propria bicicletta e con un’altra, retta per mano fin là. Via! Alla stazione ovest: due chilometri di pedalata. Treno che parte all’una e diciotto in punto, arrivo in Centrale a Milano, poi in tram. Prima la linea 20, che oggi non esiste più: lento sferragliare da via Luigi Settembrini a piazzale Corvetto; da qui con il 32 fino a Rogoredo, altri cinquecento metri a piedi. A dire il vero, quasi sempre di corsa. Ed ecco l’allenamento con Meazza, ammantato di gloria, che arriva a bordo della sua 1100 verde pisello, l’unica auto (e che auto…) posteggiata ai bordi del campo. Infine, di nuovo tram, ancora treno e ancora il padre pronto a riportarlo a casa. Oggi il quartiere di Rogoredo è lambito dai lavori di un’immane opera di speculazione edilizia, «il più grande progetto di riqualificazione urbana d’Europa» recitano i depliant pubblicitari: una vera e propria città di residenze-lusso, voluta da Luigi Zunino, uno degli immobiliaristi più rampanti che animano la Milano dei primi anni Duemila, e affidata al genio visionario dell’inglese Norman Foster, architetto alla moda, conosciuto in tutto il mondo. Alla fine degli anni Cinquanta, però, Rogoredo non doveva apparire granché differente dalla Milano disegnata da Luchino Visconti in Rocco e i suoi fratelli. Un borgo operaio fagocitato dal mostro metropolitano, immerso nella nebbia, allora davvero fitta, alimentata com’era da mille fabbriche in produzione. I capannoni della Montedison, le ciminiere delle acciaierie Redaelli e la stazione ferroviaria, avanguardia della città per i convogli in arrivo da Sud con il loro carico misto di stanchezze e di speranze. Milano, in principio, per l’adolescente innamorato del calcio, è solo questo: un susseguirsi di cantieri edili e ciminiere che si alternano a campi ancora verdi e immacolati. L’annuncio di un benessere in embrione e la testimonianza della fatica quotidiana. Giacinto con le squadre giovanili dell’Inter disputa un paio di campionati. È terzino, naturalmente, per potenza fisica e per rigore interiore, ma anche qui si spinge in avanti senza ritegno. A Peppin Meazza non dispiace che negli ultimi dieci minuti di partita il ragazzo abbia carta bianca per le sue incursioni. Senza contare che Facchetti se lanciato a dovere lungo la fascia latera17


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le, è capace di confezionare cross precisissimi per i compagni attaccanti. Nel suo primo campionato federale con la formazione giovanile (oggi sarebbe il torneo Primavera che ha preso proprio il suo nome), Giacinto segna 18 gol: è il secondo cannoniere dietro Bruno Petroni, di professione centravanti, che giocherà a lungo nell’Atalanta e nel Catania. Insomma, il ragazzo è per l’Inter più di una promessa. A dispetto di quel fisico così poco da calciatore, Facchetti comincia ad allenarsi con la prima squadra. La sua fortuna si chiama Helenio Herrera. L’allenatore ha fama di innovatore, ha fatto benissimo in Spagna, si picca di avere inventato il catenaccio. Ha metodi da imbonitore, ma capisce come pochi altri di calcio e intuisce che quel giovane gigante di provincia fa proprio al caso suo. Herrera, all’inizio, prova a non arrendersi al difensivismo del campionato italiano. La sua squadra, d’altronde, è partita come un razzo. A Milano hanno cominciato a parlare con enfasi dei “diavoli di Helenio”, ma alla settima giornata, l’Inter ha rimediato una legnata dal Padova catenacciaro di Nereo Rocco e questo ha convinto Herrera a farsi più guardingo. Tanto da pretendere a novembre l’ingaggio di Balleri, il più classico dei liberi da piazzare davanti al portiere. Infine, per riconquistare lo slancio offensivo, si intestardisce sul fatto che, invece di arretrare un attaccante (il cosiddetto tornante) come si è soliti fare in serie A, la sua Inter dovrà sganciare uno dei due terzini. Facchetti con le sue lunghe leve, con la sua velocità, con la sua incredibile progressione, sembra l’ideale per i rapidi ribaltamenti di fronte, tipici del gioco di Helenio e necessari a sorprendere gli avversari. È il destino, insomma. Il primo incontro tra i due è sbrigativo. L’Inter gioca un’amichevole e l’avanspettacolo è affidato ai ragazzi della juniores. Al rientro negli spogliatoi, Facchetti si trova l’allenatore di fronte: «Hai i numeri, non perderti» intima Helenio. Ma da lì a poco Giacinto si ammala, i medici diagnosticano un’esotica febbre maltese. Lo scherzetto di un virus che per quattro mesi lo tiene al palo. «Riuscirò a recuperare il tempo perduto?» si chiede di continuo il ragazzo. Tranquillo. Herrera non l’ha dimenticato. 18


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Il terzino, perfettamente ristabilito, debutta quasi in sordina nella semifinale di Coppa delle Fiere a Birmingham. Non va affatto male, la sua prestazione soddisfa l’allenatore. L’esordio “vero”, quello in serie A, cioè, arriva due settimane dopo a Roma. Mancano tre partite alla fine del campionato 1960-’61 e l’Inter di Helenio Herrera si sente ancora in corsa (finirà terza in classifica), sebbene dopo un brillante girone d’andata, i nerazzurri adesso si mostrino stanchissimi. Facchetti intuisce che il momento è vicino, se ne parla nello spogliatoio e la cosa un po’ lo indispettisce, lo carica di responsabilità. Continua ad arrivare in treno per allenarsi, quasi sempre con i libri sottobraccio, tenuti insieme da quegli elasticoni azzurri o rosa che forse oggi ricordano in pochi. Quasi sempre primo. «Ma sempre vi trovavo Herrera: mi sa che quello va al campo all’alba – racconta qualche anno dopo – Eravamo soli, lui mi prese sottobraccio e mi disse: “Te la senti di giocare domenica?” E che si può rispondere, mi dica, ad una domanda così?». La domenica dopo è il 21 maggio 1961, si gioca Roma-Inter. I giallorossi hanno un attacco da paura, Menichelli più quattro oriundi sudamericani molto diversi tra loro per carattere e temperamento: Ghiggia, il connazionale Schiaffino, gli argentini Lojacono e Manfredini. A Facchetti tocca il primo, Alcides Ghiggia: un mostro sacro, seppure al capolinea. Uno che non ha timore di dire, di se stesso: «Solo tre persone sono riuscite a zittire il Maracanà: Frank Sinatra, il Papa e io». È suo, infatti, il gol che nel 1950 ha consegnato all’Uruguay il titolo mondiale nella partita decisiva di un inedito girone a quattro squadre, ha gelato l’intero Brasile e ha condannato il portiere Moacyr Barbosa all’ostracismo a vita. Sono passati undici anni, però. La polvere pesa più della gloria sulle spalle di Ghiggia, stortarello e malinconico, ma ancora capace (l’anno dopo, passato al Milan) di vincere uno scudetto. Herrera è il più grande motivatore che abbia solcato un campo di calcio, non lascia il ragazzo a fare i conti da solo con le paure dell’esordio. Prima della partita lo conforta, meglio, lo catechizza: «Sei più forte, sei più alto, sei più veloce di quel nanetto. Non gli farai vedere palla». Ghiggia è un’ala piccola e scattante, dalle 19


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gambe anch’esse minute, tutto dribbling e finte. Baffetti neri alla D’Artagnan, prova numeri da giocoliere, ma il giovanotto non abbocca e randella, per poi chiedere scusa con imbarazzo ad ogni contrasto vinto. La Roma colpisce pali e traverse, l’Inter applica con sufficienza il credo di Herrera. Due contropiede e due gol, finisce 0-2. Facchetti ha superato l’esame, ma nel commento di Gualtiero Zanetti su La Gazzetta dello Sport non ve n’è traccia. Neppure una riga, come è lontano il calcio in pay tv. Oggi, un esordio con una tale disinvoltura, non sfuggirebbe alle truppe cammellate di bordocampisti. Gioca anche le ultime due partite, contro il Napoli (ed è l’esordio a Milano) e contro il Catania, ma la conferma di essere finalmente “uno dell’Inter” giunge in maniera impensabile. Arriva da una mancata convocazione. Costretta dalla federazione a ripetere la gara con la Juventus, infatti, la società milanese risponde con un gesto di protesta rimasto clamoroso: invia a Torino la giovanile. È la partita del famoso 9-1, Facchetti non c’è: ormai è un nome da prima squadra. A San Siro, contro il Napoli, ha anche segnato il suo primo gol. Le cose sono andate pressappoco così: Armando Picchi ha stoppato una palla e si è portato in avanti con la solita autorevolezza. Palla al piede ha iniziato a correre sulla destra. Facchetti dall’altro lato ha fatto altrettanto. Picchi ha dribblato un avversario, poi ha crossato e ha visto il portiere Bugatti volare, ma non abbastanza da toccare il pallone. Facchetti che per istinto innato è corso fin lì, se l’è ritrovato sui piedi e di piatto lo ha spinto in rete. È il primo gol in serie A. Diciassette anni dopo, al termine della carriera, se ne conteranno 59. Una progressione che rappresenta ben altro della pedissequa conta aritmetica. Una rivoluzione copernicana del ruolo di terzino, di ciò che è bene un difensore faccia o non faccia. Una questione quasi filosofica, una provocazione modernista. Ci vorrà l’avvento degli olandesi, del loro calcio totale, a rendere Facchetti un precursore e non un fortunato atipico e questo, a scapito dello stesso Facchetti, protagonista della disfatta azzurra al Mondiale del ’74 e, suo malgrado, della cerimonia funebre del calcio all’italiana. 20


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