NATA IL 19 LUGLIO

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1. Via D’Amelio. La fine e l’inizio

Sono Rita Borsellino, sorella di Paolo. Sono nata il 2 giugno 1945 e sono rinata il 19 luglio 1992. Voglio dirlo subito: anche se mi impegno in politica con il mio nome e non con quello di mio fratello, la storia che ho vissuto negli ultimi 14 anni e che adesso metto a disposizione esiste proprio perché Paolo non c’è più. Forse sarei ancora chiusa tra le mura di casa a vedere che cosa capita fuori se non fosse successo quel che è successo. Lo so, ad alcuni dà fastidio. E c’è chi dice cose ovvie: «Il mondo è pieno di persone geniali o eroiche che hanno figli o fratelli cretini: il cognome non dà diritti a priori, tutt’altro». E c’è chi scrive cose tremende: «Usare il cadavere di un fratello ammazzato per accreditare una propria capacità politica è fuori da ogni canone democratico, e forse anche morale». Preferisco rispondere a chi ha criticato la mia scelta affermando una cosa molto giusta: «Paolo Borsellino è un patrimonio di tutti». Appunto, ma se è un patrimonio di tutti bisogna assu13


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merlo con coerenza, bisogna metterlo in pratica e non sbandierarlo a parole e tradirlo nei fatti. Io credo di averlo assunto con coerenza. Loro non sanno che cosa succede quando sei nella tua casa al mare, a Trabia, trenta chilometri da Palermo, e alla televisione senti che tuo fratello è stato ucciso da un’autobomba e arrivi lì e ti sembra di essere dentro a un film, le auto che bruciano, quattro palazzi divelti, 174 appartamenti inagibili, e la tua casa non c’è più, e tuo fratello non c’è più. O quando, come capitò a Saveria Antiochia il 6 agosto 1985, sei a Roma, stai stirando, e alla radio senti il nome del commissario Ninni Cassarà ucciso con un agente di scorta e capisci d’istinto che quel poliziotto senza nome è tuo figlio Roberto, e non hai bisogno che ti raccontino che è morto subito cercando col suo corpo di proteggere il capo, lo sai già. Io so che cosa avviene, ne ho parlato tante volte con Saveria, che non si è lasciata annientare da questo dolore ma si è messa a chiedere giustizia con una forza e una serenità eccezionali: ti senti “obbligato”, non nei confronti degli altri ma per un debito che contrai con la persona a cui hai voluto bene. Dopo questi fatti non possiamo più tirarci indietro. Subentra un meccanismo strano, un meccanismo che ti dà una forza straordinaria. Il dolore c’è, è forte, è violento, ma si trasforma in una forza che ancora una volta è la forza dell’amore: non ho esitazioni a usare questo termine, perché di questo si tratta. Perché quello che ci spinge, che spinge tanti familiari delle vittime della violenza a mettersi in gioco, a mettersi in cammino, a partire subito dopo (anche se prima non si è fatto 14


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niente) è voler incontrare gli altri per cercare di comunicare qualcosa, per cercare di costruire qualcosa, per dare un senso al sacrificio dei propri cari. È amore, è voglia di far continuare quello che loro stavano facendo. Paolo, Roberto lavoravano per la giustizia, per la legalità, e tu ti dici: «Ma è mai possibile che soltanto perché qualcuno ha pensato di poterli fermare pigiando sui tasti di un telecomando, schiacciando il grilletto di un kalashnikov, questo possa cancellare la loro carica vitale, la loro carica di amore, di emozioni, di valori, tutto quello per cui hanno voluto sacrificare la loro vita?». Perché Paolo, Roberto e tutti gli altri sapevano di andare incontro a questo. Paolo non diceva: «Se un giorno mi ammazzeranno», Paolo diceva: «Quando un giorno mi ammazzeranno», con la consapevolezza che ciò che faceva, così come lo faceva, lo avrebbe portato a trovare una morte violenta. Ma lo aveva accettato. Lo aveva accettato perché non aveva scelta, non poteva venire meno a quelli che erano i suoi ideali, il suo credo, il suo amore per gli altri, il suo amore per la giustizia, non poteva scendere a compromessi, non solo per gli altri ma per se stesso, per la sua coscienza. Scatta questo meccanismo per cui tu pensi proprio questo: «Ma devo dargliela vinta? Ma è possibile che dobbiamo dargli ragione? Li hanno ammazzati e non c’è più nulla, non resta più nulla di Paolo Borsellino, di Roberto Antiochia, di tutti quelli che sono morti così? È mai possibile che non debba restare più nulla?». Allora ci si mette in cammino, ci si mette in gioco, per cercare di trasmettere quello che noi abbiamo vissuto intensamente e dolorosamente negli anni in cui tutto questo si è preparato e nel momento in cui poi questa morte si è materializzata. 15


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E si comincia ad andare, si comincia a incontrare persone, si comincia a sentire, come diceva Paolo, «la bellezza del fresco profumo di libertà». È proprio vero, è il silenzio che puzza, la complicità, anche soltanto la contiguità, anche soltanto il girare la testa dall’altra parte, è quello che puzza di morte. La libertà, la voglia di giustizia hanno un profumo bellissimo che ti contagia, di cui non puoi più fare a meno. Se incontri gente e senti che chi ti incontra condivide, che chi ti incontra è con te, che è solidale, che si sensibilizza probabilmente per una parola che tu non sai neanche che effetto possa ottenere, per un sorriso, per una stretta di mano, se tu sai che questo accade e può accadere e può accadere ancora, sai che regali momenti di vita alla persona che non c’è più, la tieni in vita, la fai palpitare ancora, fai in modo che l’ideale per cui è morta rimanga vivo e si moltiplichi e si sviluppi in ogni nuova persona che incontri. Questo ti dà un senso quasi di liberazione, ti libera dalla voglia di cedere al dolore, alla disperazione, ti aiuta a sentire meno la mancanza fisica della persona a cui hai voluto bene, perché chiunque ti abbracci o ti stringa la mano o ti dica una parola di solidarietà è come se ti restituisse un po’ dell’affetto della persona che hai perso. Per te diventa una necessità, diventa un impegno di vita e se devi dire di no a qualcuno che ti chiede di parlare ti senti in colpa e dici: «Ma che diritto ho io di restarmene chiusa nella mia stanchezza, nel mio dolore, nei momenti di scoraggiamento, che diritto ho io se c’è qualcuno che vuole ascoltare, che vuole condividere, che vuole capire e che mi chiede di farlo insieme? Io non posso dire di no. I nostri cari non si sono 16


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mai tirati indietro, mai, neanche davanti alla morte, che diritto abbiamo allora noi di tirarci indietro?». Di fronte alle tante cose che sono successe in questi anni, alle disillusioni, ai passi indietro, ai tanti “ma chi te lo fa fare”, qualche tentazione mi è venuta. Ma darei ragione a loro, sarebbe offendere Paolo e far morire il suo progetto, un progetto che era più grande di lui, un progetto al cui servizio si era messo, un progetto straordinario di vita, di amore, di comunione con gli altri, un progetto di giustizia, di uguaglianza, di legalità. Fortunatamente quando un poliziotto muore, quando un magistrato muore c’è sempre qualcuno che prende in mano e porta avanti i suoi ideali, la sua tensione morale. La famosa frase di Giovanni Falcone «Le nostre idee cammineranno sulle gambe di altri» è forse solo uno slogan? Sbagliava forse Roberto Antiochia a mettere la benzina con i suoi soldi nell’auto di servizio per fare un pedinamento? Sbagliava Paolo a moltiplicare il suo impegno anche e soprattutto dopo la morte di Falcone, che considerava il suo scudo? Se ti senti parte di questo progetto devi fare qualche cosa. Io sono stata presa in questo ingranaggio della società civile che si era risvegliata. E per me, chiusa, timida, riservata quasi a livelli patologici, è stato particolarmente difficile. La rabbia è una molla che è scattata anche per me, ma al rallentatore. In via D’Amelio, lo confesso, io avevo voltato le spalle. Quando una cosa è troppo difficile da accettare, una forma di autodifesa è rifiutarla. Lo so, è una reazione infantile. Rifiutare come modo per non affrontare la realtà. Ho avuto la fortuna di avere accanto la mia famiglia. I miei ragazzi sono stati più razionali, hanno avuto più forza. Marta, 17


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la mia figlia più piccola, ha voluto guardare suo zio lì per terra. Claudio, il maggiore, sentendomi dire «Non ci voglio più tornare qui» mi ha preso per le spalle, mi ha scosso e ha detto: «No, dobbiamo restare qui perché questo ormai è un luogo sacro». Che contrasto fra la mia reazione infantile e la loro reazione matura! Quello fu il momento decisivo, mi vergognai e poi pian piano mi guardai attorno e questo mi permise di vedere quello che c’era di positivo e di trovare la forza di tornare a vivere proprio lì, di tornarci il prima possibile. E, da allora, di passare ogni giorno davanti al portone dove c’era il cratere, in quello che è un luogo della memoria. Solo 57 giorni prima c’era stata la strage di Capaci, con la morte di Giovanni, di sua moglie Francesca Morvillo e degli agenti Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro. La gente era ancora scossa ma chi aveva un po’ più di esperienza percepiva che si stava già fermando tutto, anche se c’erano stati quei funerali così intensi, con Rosaria Schifani, giovanissima vedova con un bambino di 5 mesi, che aveva chiesto giustizia sussurrando: «Io vi perdono ma vi dovete mettere in ginocchio». Una sorta di rassegnazione stava riprendendo il sopravvento e si diceva «non cambierà mai niente». Poi ci fu l’attentato a Paolo, che chiaramente era la vittima designata. Lo sapeva lui e lo sapevano tutti. E in una manifestazione alla Biblioteca comunale, il 25 giugno, ne aveva parlato lui stesso e i presenti erano rimasti colpiti, allarmati, gli si erano visibilmente stretti intorno per mostrargli di essere vicini. Ecco, a quella gente sembrava che questa persona fosse stata mandata a morire. 18


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Chiedersi come fosse stato possibile organizzare un attentato con tanta facilità, perché non c’era alcun deterrente nell’unico luogo dove Paolo andava regolarmente per trovare nostra madre, fece montare ancora di più la rabbia. Capisco la sensazione che ha portato i ragazzi di Locri a scrivere su uno striscione: «E adesso ammazzateci tutti». Era quella la sensazione che si provava. Tutti si sentivano abbandonati se persino il più esposto, quello che si sapeva essere nel mirino, non era stato difeso neppure con il semplice accorgimento di mettere una zona rimozione in via D’Amelio. Io quei giorni semplicemente non li ho vissuti, non ho visto la tivù né letto i giornali. Solo dopo ho saputo dei cortei spontanei che andavano in prefettura a cercare delle risposte e di quella fortissima presenza davanti al Palazzo di Giustizia durata due giorni e due notti. La gente si stringeva intorno a quei morti, perché i morti erano l’unico punto di riferimento. Facevano la fila per ore, e poi c’era chi si rimetteva in fila, con la stessa presenza cosciente e appassionata che poi ho rivissuto con la camera ardente dei soldati di Nassiriya. In mille discussioni, si cercava il perché e ci si chiedeva: «E adesso che facciamo?». Ci fu una vera rivolta popolare, per i funerali c’era la cattedrale presidiata da poliziotti venuti da fuori Palermo che dovevano impedire ai palermitani di partecipare ma poi non riuscivano a non fraternizzare: mi hanno raccontato scene strazianti, del capo della Polizia quasi picchiato, dei fischi agli uomini delle istituzioni che si erano dimostrati inefficaci e inefficienti. Ho davanti agli occhi delle immagini che, un po’ come fossero tessere di un mosaico, compongono la mia svolta, una 19


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presa di coscienza che si trasformava gradatamente in impegno. Pian piano, trovandomi davvero nuda di fronte a questa situazione, perché non avevo neppure la mia casa-guscio a proteggermi e quindi ero costretta a guardare fuori, mi sono confrontata con una città che era ben diversa da quella che io ero abituata a vedere e a giudicare negativamente. Ricordavo una città estranea a quello che accadeva, rassegnata se non addirittura complice dell’illegalità e invece, trovandomi in mezzo alla gente, senza possibilità di proteggermi in nessun modo, mi resi conto che la città mostrava ben altro, reagiva in maniera forte, violenta, decisa, chiara. La prima immagine è quella di un manifesto delle “Donne del digiuno”: su me, che ero sempre stata molto distante dai fatti della realtà siciliana, osservatrice attenta ma distaccata, ebbe un impatto notevolissimo. Nei primi giorni dopo l’attentato mi ero sistemata a casa dei miei suoceri anche perché da un momento all’altro avrebbero dovuto permetterci una rapida visita nel nostro appartamento devastato e ancora pericolante, solo per recuperare le cose essenziali. Per me quell’attesa si sarebbe rivelata inutile: la prima volta che entrai in casa rimasi immobile a guardare quella che non era più la mia casa. I vigili del fuoco mi sollecitavano a fare in fretta perché c’era pericolo di crolli. In mezzo ai calcinacci mi guardavo attorno sbalordita, vedevo violentata la mia vita privata, riuscii solo a prendere da terra un soprammobile e a sistemarlo sulla scrivania posta sotto la finestra che guarda il Monte Pellegrino. In qualche modo, volevo mettere a posto. Mio marito mi portò via. Dunque, un giorno, uscendo dal portone della casa dei suoceri, vidi questo manifesto delle donne del digiuno e non so 20


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perché mi soffermai a lungo. Lo lessi e rilessi. Mi impressionò tantissimo, mi emozionò. Forse perché erano donne, forse per la forma di protesta che portavano avanti: «Digiuniamo perché abbiamo fame di giustizia» dicevano. Questa cosa mi incuriosì e mi coinvolse positivamente perché di solito e fino ad allora le proteste erano state più che altro generiche lamentele. E invece loro dicevano con chiarezza cosa c’era di sbagliato ma soprattutto che cosa volevano: devono andare via quelli che riteniamo responsabili almeno di omissione nella protezione di quest’uomo, via il capo della polizia, via il Procuratore della Repubblica, via il prefetto, il questore… Così prestai attenzione a questo movimento che si andava delineando. Ho saputo dopo che in Piazza Politeama, nel cuore di Palermo, c’era una tenda dove non solo si faceva lo sciopero della fame ma si prendevano adesioni per allargare questo digiuno a staffetta. Era una presa di coscienza collettiva, ci si scambiavano le impressioni, le prospettive, si pianificava quello che si doveva fare. Palermo doveva essere vuota per l’estate e invece ho avuto molte conferme che parecchie persone, anziché scappare via, erano tornate dalle vacanze, stavano in piazza, sentivano il bisogno di presidiare questa città: la mafia è anche controllo del territorio e io credo che lì, per la prima volta, gli onesti volessero riprendere il controllo del territorio. Dopo la morte di Falcone ognuno era tornato alle proprie abitudini, invece in quell’estate la gente pensava di doversi occupare personalmente del proprio futuro. La seconda immagine riguarda il funerale di Paolo, che per giusta scelta di mia cognata e dei suoi figli, furono privati: 21


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non contro le istituzioni ma per rispetto di quel popolo a cui ormai Paolo apparteneva, che lo ha abbracciato nella camera ardente, che aveva provato a proteggerlo con l’affetto dimostrato nelle uscite pubbliche precedenti l’attentato. Ai funerali di Paolo mi sono accorta di quanto una folla enorme sentisse la nostra tragedia come un fatto proprio. Piangevano e lo chiamavano per nome e lì per lì io provai una forma di gelosia, questo nome scandito da tutti mi turbò. Pensavo: «Ma perché lo chiamano Paolo?». Ho capito dopo che era il segno di ciò che questo magistrato era stato per loro e di quello che avrebbe potuto essere. Lo ripeto: ero un’osservatrice critica, sono sempre stata molto netta nell’individuare e criticare le cose che non mi piacevano, ma non sono mai stata propositiva, pensavo di dovere e potere occuparmi soltanto del mio lavoro e della mia famiglia. Poi, certo, c’era Paolo con il suo lavoro e le sue scelte che condividevo, anche il fatto di esporsi: lui l’aveva fatto accettare a sua moglie Agnese e ai suoi figli, e anche a noi. Lo vivevamo tutti come un grande peso, ma silenziosamente, consapevoli che l’unico modo per aiutarlo era fargli sentire il nostro affetto. Ricordo mia madre che diceva: «Non facciamogli vedere che abbiamo paura perché altrimenti gli rendiamo le cose più difficili, dobbiamo fargli vedere che lo sosteniamo». E lo abbiamo sostenuto fino all’ultimo sapendo esattamente i rischi che correva: per lui sarebbe stato più doloroso continuare a farlo (perché l’avrebbe comunque fatto) sapendo che noi di questo soffrivamo. Mi ricordo che qualche giorno dopo la morte di Giovanni, in famiglia ci siamo confidati il timore che potesse succedere 22


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anche a lui: a quel tempo, ne parlavano tutti. Mia madre ebbe la tenerezza di prendermi da parte e di dire: «Parliamone solo fra di noi». Ecco, se devo trovare un momento che segnò il mio cambiamento, ripenso al funerale: ricordo quando uscimmo dalla chiesa, protetti dalle transenne sotto un sole terribile, una folla enorme ferma sui gradini della chiesa piangeva e lo chiamava per nome. Per tutta la vita io ero stata con gli occhi bassi, è sempre stata la mia abitudine, non guardavo in faccia le persone: lì, invece, mentre passavamo, mi guardavo attorno, avevo bisogno di capire, stavo vivendo una situazione troppo più grande di me, un pezzo di Storia… E guardavo, guardavo da una parte e dall’altra, guardavo le persone e a un certo punto al passaggio della bara di Paolo molti facevano il gesto della vittoria. Io mi vergognavo ma avvertii profondamente questa esigenza: e quasi di nascosto, con la mano giù e solo per me, spontaneamente feci il gesto di vittoria. Forse non stavamo vincendo noi, ma loro non avevano vinto: li avevano ammazzati ma non era quello il momento in cui si potesse dire «la mafia ha vinto». Chi stava vincendo, in quel momento, erano quelle migliaia di persone, erano i palermitani che stavano reagendo. La mia prima, piccola vittoria è stata tornare appena possibile a vivere in via D’Amelio. Ci sono riuscita anche grazie a un piccolo imprenditore, un mastro che aveva fatto dei lavori a mio fratello sia a casa sia nella villa al mare. Un giorno mi telefonò in farmacia e, superando la mia diffidenza, mi invitò a chiedere referenze a mia cognata intimando: «A casa sua i 23


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lavori devo farli io». Questo atteggiamento quasi mi diede fastidio, dissi che mio marito li aveva già assegnati ad altri… «Io non sapevo neanche che il dottore Borsellino avesse una sorella, ma l’ho sognato e mi ha detto: devi rifare la casa a mia sorella. Ho questo debito nei confronti del dottore Paolo Borsellino che mi ha sempre trattato come un figlio. Si faccia dire la cifra e io farò comunque di meno. E qualunque cosa si debba fare, ci metterò meno di un mese». Lavorarono giorno e notte e consegnarono la casa con tanto di carta da parati entro un mese. Vivere in un luogo ormai simbolico significava vedere ogni giorno nuovi fiori e nuovi messaggi. Nei primi tempi le ragazze portavano i loro bouquet da sposa a Emanuela Loi. Cagliaritana di Sestu, è venuta qui a morire a 24 anni, lei che non ci voleva neanche entrare in polizia. Aveva il diploma di maestra, la sorella la convinse a fare il concorso insieme, una non passò e l’altra sì. Proteggeva la moglie di Libero Grassi, ucciso perché non pagava il pizzo, e cinque giorni prima del 19 luglio la assegnarono a Paolo. «Sono io che devo proteggere te dalle attenzioni dei tuoi colleghi» disse lui con una risata. E invece… la sua mano, con la pistola, è stata trovata al quinto piano. Ma questo luogo divenne ancora di più simbolico perché qui tornò a vivere nostra madre. Appena la ritrovai dopo la strage mi chiese di andare a cercare i famigliari degli uomini della scorta: ha vissuto gli anni che le sono rimasti con un forte senso di colpa, perché Paolo stava venendo qui per lei. E proprio lei ha voluto, per il primo anniversario, che qui fosse piantato un ulivo proveniente da Betlemme, un albero 24


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che considerava una creatura viva: aveva sempre paura che gli facessero del male, la mattina si affacciava, guardava l’ulivo e si faceva il segno della croce. Allora, le tante persone che facevano cose belle, che cercavano fortemente una possibilità di incidere, che si erano organizzate, presero a considerare un gesto normale venire a salutare mia madre. E il cerchio si allargava sempre di più davanti a lei, seduta nella poltrona d’angolo. C’era il meglio della società civile palermitana, persone davvero forti, persone che io ho intorno ancora oggi: il Comitato dei lenzuoli, le Donne del digiuno, quelli dell’Antimafia, l’Arci, il Centro Peppino Impastato… Venivano a portare a mia madre il messaggio forte di una Palermo impegnata, raccontavano gli incontri avuti con Paolo, ricordavano la serata alla Biblioteca comunale, quella torrida, drammatica sera di giugno che fu il momento più forte, fino ad allora, dell’antimafia palermitana. In quei giorni, per evitare a Paolo di uscire, io e mio marito portavamo la mamma a casa sua. Quella sera Paolo si ritirò stanco, dopo una giornata intensissima, si mise in pantaloncini e ciabatte. Era teso, triste. Arrivò una telefonata dell’avvocato Alfredo Galasso che gli diceva: «Ti stiamo aspettando». Si era completamente dimenticato l’appuntamento! Paolo chiuse il telefono dicendo di essere troppo stanco, si mise a tavola ma non mangiava; poi disse a nostra madre: «Ti dispiace se ci vado?». Mi ricordo che io lo incoraggiai: vai, tanto ti aspettiamo qui. Quando uscì ci venne in mente di vedere se per caso qualche televisione locale trasmetteva la diretta. Con me c’era Agnese e il suo discorso visto in tivù ci colpì: «Questi elementi che io porto dentro di me debbo per prima 25


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cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria: l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni». Fu troppo particolare ciò che disse e il tono e quel cercare le parole: a quel punto ci siamo guardate con grande angoscia. Sono convinta che quella frase abbia quantomeno accelerato la decisione di un attentato. Tutte quelle persone, comunque, venivano a raccontare le cose che organizzavano e che avevano in mente di organizzare. Io mi sentii parte di quel percorso, anzi pian piano mi misi anche a organizzare, insieme a questi amici, il percorso. E pensare che in tutta la mia vita, la prima manifestazione pubblica alla quale avevo partecipato, turbata e a malincuore, e solo per non dire di no a Paolo, era stata la fiaccolata e la veglia nella chiesa di San Domenico. Era il trigesimo di Falcone. Davanti a migliaia di scout, mio fratello fece una sorta di omelia che trasmetteva la sua voglia impetuosa di verità e giustizia: «Nessuno… ha perso il diritto, anzi il dovere sacrosanto, di continuare questa lotta. Se egli è morto nella carne ma è vivo nello spirito, come la fede ci insegna, le nostre coscienze se non si sono svegliate debbono svegliarsi». Quando concluse dicendo che dovevamo dimostrare «a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo», una ragazza, in piedi su un banco dietro di me, in fondo alla chiesa, mentre batteva le mani disse: «Ma chi è quest’uomo?». Io, istintivamente, feci una cosa che forse le poté sembrare sciocca ma per me era importante. Mi girai e dissi: «È mio fratello». Sì, ma dopo la sua morte che cosa potevo fare io? Io che ero così timida da non riuscire nemmeno a parlare, se non con 26


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i clienti della farmacia che chiedevano qualche consiglio? Accadde che nel settembre ’92, alla riapertura delle scuole, mi telefonò una maestra che in passato aveva avuto in classe una delle mie figlie. Raccontò di aver trovato bambini traumatizzati, alcuni avevano avuto la casa distrutta, tanti avevano paura; disse che doveva in qualche modo fargliela elaborare questa paura. Forse mi ha scosso il fatto che fossero bambini così piccoli… ho detto sì, vengo io a parlare con loro. Ma poi dicevo: e adesso che cosa dico? Quando arrivai lì mi guardavano con gli occhi spalancati: sarà stata una tentazione di proteggerli, sarà stato istinto materno, ma mi venne spontaneo (e ringrazio Dio di questa spontaneità a cui mi abbandonai in quel momento) cominciare a raccontare gli episodi di quando eravamo bambini, delle monellerie che Paolo faceva, del fatto che fosse molto vivace, di quando mia madre lo voleva punire e lui andava ad abbracciarla e le dava i morsetti sulle guance... I bambini cominciavano a conoscerlo, si capiva che desideravano conoscerlo come persona e non come giudice e lo facevano con le domande della loro età: qual era il suo giocattolo preferito, se aveva un cane… Piano piano li portai al suo impegno, a quello che voleva fare. Spiegai che i prepotenti non volevano lasciarglielo fare e avevano fatto questa cosa terribile portando danno a tante persone. Alla fine uno mi disse: «Possiamo chiamarlo zio Paolo?».

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