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Prefazione La «bolla di sapone»
«Quei tre mi ricordano Caino e Abele. Pensa, tra tutti il più simpatico è Moggi. Ti basta per farti capire la mia opinione sulla dirigenza della Juve...?». E ancora: «Del Piero? Un lusso» (Lapo Elkann, intervista al mensile Max, 27 settembre 2005)
Quando la Juventus è finita in serie B, travolta dallo scandalo delle intercettazioni telefoniche che hanno aperto uno squarcio sul marcio del nostro sistema-calcio, le parole di Lapo Elkann, fratello di John, vicepresidente della Fiat e dell’Ifil (la finanziaria che controlla la Juventus), sono apparse a molti un po’ troppo profetiche. E qualcuno si è subito chiesto se i nipoti di Gianni Agnelli, l’Avvocato, non fossero stati, se non proprio la “manina” che ha scatenato la bagarre, almeno i complici consapevoli del naufragio della squadra bianconera. Non è apparso proprio l’avvocato Cesare Zaccone, rappresentante della Juventus, il più “rassegnato” tra i difensori delle squadre coinvolte nel primo processo sportivo? Qualcuno lo ha scritto senza perifrasi: gli Elkann, in particolare John, non sono mai stati tifosi militanti e il futuro finanziario della Juve, aldilà dei virtuosismi di bilancio che l’hanno quasi sempre fatta apparire una società in attivo, si profilava plumbeo. La grande Famiglia che discende dal Fondatore della Fiat è stata 11
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abituata a “staccare” dividendi, non a coprire passivi, e al suo interno gli juventini più accaniti sono la vedova e i figli di Umberto, che rappresentano circa il 10 per cento del capitale della Giovanni Agnelli e C., la cassaforte dell’Impero. Cassaforte che ha attraversato anni difficili per la crisi della Fiat e i cui azionisti non vogliono correre altri rischi. In questo contesto, una Juventus retrocessa, dimagrita quindi dal peso di alcuni stipendi, riportata in fretta in serie A e venduta con un ottimo ricavo, poteva apparire un’idea allettante. Tanto allettante da tentare di realizzarla. Fantaeconomia? Probabile, ma negli ambienti finanziari torinesi tutti sanno che la Lafico di Gheddafi, azionista della Juventus, non avrebbe difficoltà a fare un’offerta. Per non parlare di certi russi… In fondo Abramovich ha fatto la fortuna del Chelsea. Vedremo. Comunque, questo libro non nasce per tracciare scenari futuri, bensì per dare un senso storico a quello che abbiamo vissuto dal 1994 a oggi, gli anni della Triade juventina Bettega-Giraudo-Moggi, con il primo nel ruolo marginale di uomo-immagine e gli altri due di grand-commis della proprietà (Giraudo come amministratore delegato e Moggi come direttore sportivo). Grand-commis, non schegge impazzite. Spietati esecutori di un mandato: vincere a ogni costo, senza pesare sui bilanci. Quando il primo obiettivo è rimasto, ma il secondo ha cominciato a traballare, anche il destino dei tre è parso segnato. Già, ma come giustificare di fronte ai tifosi il licenziamento di chi inanellava scudetti su scudetti? La svolta dei rapporti tra la Triade e la proprietà ha una data precisa, 27 maggio 2004, il giorno della morte di Umberto Agnelli, loro “sponsor”. Da quel momento, per sopravvivere Giraudo e Moggi (più Bettega) dovranno continuare a vincere e lo hanno fatto con tutti i mezzi di cui si erano già dimostrati capaci e che le intercettazioni effettuate durante il campionato 2004-’05 hanno abbondantemente rivelato. Ma, se nel settembre 2005 le parole di Lapo erano suonate come una campana a morto, soprattutto con l’entrata nel Consiglio di amministrazione della società di Jean-Claude Blanc 12
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(sostituto di Giraudo dopo lo scandalo), le “sfortune sentimentali” del più giovane degli Elkann e la marcia inesorabile degli uomini di Fabio Capello, sembravano aver messo la Famiglia con le spalle al muro. All’inizio della primavera, infatti, la Triade rinnovava il contratto. Un trionfo. Poi, però… A questo punto è come se un apprendista stregone avesse combinato pasticci con le sue magie. Se fossimo in politica potremmo parlare di una “crisi pilotata” sfuggita di mano a chi voleva gestirla (i fratelli Elkann e la nuova dirigenza Fiat?). Non era perfetta la condotta della Procura di Torino, che senza approfondire le indagini sul “sistema Juve”, inviava imbarazzanti intercettazioni alla Federcalcio perché prendesse provvedimenti sul “sistema Moggi”? E che si avviava a contestare il falso in bilancio all’amministratore delegato Giraudo? Un doppio blitz giudiziario che avrebbe potuto (dovuto?) spazzare via il vertice juventino con danni collaterali limitati per la società. In questo contesto anche l’assoluzione di Giraudo e del dottor Riccardo Agricola − medico sociale della Juventus − dalle accuse di doping potevano far parte di un diabolico complotto. I due imputati, pur assolti, erano schiacciati dalle durissime motivazioni della sentenza di appello, che denunciava l’abuso di farmaci senza coinvolgere la società in una frode sportiva che avrebbe potuto cancellare qualche chiacchieratissimo scudetto. Con questo scenario, tutto organizzato a Torino, la proprietà avrebbe potuto licenziare in tronco Giraudo e Moggi, riprendersi il controllo della società, risanarla e poi venderla con buon profitto. Certo, chi si immaginava che i magistrati napoletani stessero ancora indagando? E che cosa sarebbe successo se Berlusconi non avesse perso le elezioni per ventiquattromila voti? La “Santa Alleanza” Juventus-Milan avrebbe retto all’urto delle rivelazioni? Nessun Guido Rossi sarebbe arrivato alla Federcalcio? In fondo il calcio italiano era abituato da sempre a grandi polveroni finiti in nulla. Qualche vittima sacrificale (il Milan malconcio dei primi anni Ottanta mandato in B, Moggi e Giraudo cacciati ora) e si sarebbe ricominciato come prima, magari con qualche 13
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buon ritorno finanziario. Non inganni la forte rivolta di casa Juventus dopo la sentenza di secondo grado della Federazione: improvvisamente la società bianconera si è trovata l’unica a dover affrontare il campionato di serie B, con il Milan addirittura riammesso ai preliminari di Champions League. Un po’ troppo anche per eventuali burattinai. Difficile distinguere in questo contesto il vero dal falso, le coincidenze possono trarre in inganno. Restano i dodici anni juventini della Triade e sette scudetti (otto, senza il “diluvio” di Perugia) sui quali pesa più di un’ombra. Il libro che state per leggere è la storia sportiva di questi dodici campionati. Permettete, però, agli autori qualche ulteriore riflessione. La prima è che per noi un tifoso del Chievo vale quanto un tifoso della Juventus e che alla prima giornata di campionato tutte le squadre partono da zero punti. Una banalità? Non tanto. L’unico vero cavallo di battaglia difensivo della Juventus (ma anche di Milan, Fiorentina e Lazio) è stato questo: non si possono punire milioni di tifosi innocenti. Come se la giustizia, anche quella sportiva, dovesse funzionare a colpi di maggioranza: siamo in tanti, quindi non dobbiamo rispettare le regole. Che sport è questo? La seconda riflessione riguarda le “vittime”. I dodici anni della Triade non sono trascorsi soltanto tra cene con i designatori, auto sportive vendute con lo sconto a personaggi del giro arbitrale, partite più o meno “taroccate”. Dove sono finiti i Cecchi Gori, i Cragnotti, i Tanzi, i Gazzoni Frascara, colpevoli – specie i primi tre – di aver cercato, e talvolta persino essere riusciti a spezzare il monopolio juventino? Trascinati in una corsa sempre più pazza al rialzo dei costi, alla fine si sono schiantati. Ed è giusto che a colpi di arbitraggi e giochi economici al rialzo, Sensi sia stato – come dire? – domato e che la stessa fine abbiano fatto i fratelli Della Valle? Nessuna giustificazione per gli orologi d’oro della Roma agli arbitri (peraltro iscritti a bilancio) o per l’imbarazzante supplica dei Della Valle, che ha salvato la Fiorentina mandando in B l’innocente Bologna (ma forse la vittima predestinata era il Parma). Resta il fatto, però, che sia Sensi 14
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che i Della Valle sono state vittime della prepotenza del “sistema Juventus”. Un “sistema” reale o solo una montatura, come sostengono Giraudo e Moggi? Una «bolla di sapone», secondo la celebre battuta di Berlusconi? È quello che abbiamo cercato di scoprire.
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