A che punto è la notte? La vita e i tempi di Terzo Millennio

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La vita e i tempi di Terzo Millennio

ISIDORO DAVIDE MORTELLARO

A che punto è lA notte?

La vita e i tempi di Terzo Millennio

Isidoro Davide Mortellaro

Prologo 11

Atomica 45

Del conflitto e della guerra civile. L’eredità del XX secolo 131

Ascoltando il ticchettio... 253 Rattrappiti 337

INDICE
Prefazione 9

Mi si grida da Seir: “Sentinella, a che punto è la notte? Sentinella a che punto è la notte?”

La sentinella risponde: “Viene la mattina, e viene anche la notte. Se volete interrogare interrogate pure; tornate e interrogate ancora”.

Invecchiando, diventando nonni, gli occhi si stringono, la vista si aguzza, prova ad allungarsi nel domani. Ripensi al tempo trascorso ma l’assillo è tutto al futuro. E diventa insopportabile la sensazione – sempre più acuta – che non sarà migliore dei giorni che ti è toccato vivere. Che, anzi, ai tuoi nipoti è riservato un mondo forse più aspro di quello che hai attraversato.

Anni fa, proprio all’alba di questo secolo, iniziai a scrivere una storia degli USA. Volevo titolarlo Il volo dell’aquila, la vita e i tempi della egemonia americana. Tre anni prima mi ero misurato col passo nuovo che la Nato aveva rivelato in Kosovo. Giravo ancora l’Italia presentando quell’ultima fatica in assemblee assai partecipate. Quel largo interesse mi aveva spinto a provare a tratteggiare la vicenda americana da Hiroshima in poi.

Avevo già scritto le prime pagine e mi apprestavo a chiudere il primo capitolo a Parigi, in vacanza. Ricordo ancora l’ora fatale in cui – nelle stanze di una ONG francese con cui stavo preparando una conferenza – fummo interrotti dalle videate delle Twin Towers bucate dal primo jet. Telefonata immediata ai compagni della “Rivista del Manifesto”. Mi chiesero se volessi scrivere. Dissi che, puro caso, avevo appena finito alcune pagine su Hiroshima, il fungo fatale divenuto attualissimo. Si decise che quelle riflessioni potevano ben andare

9 Prefazione

a commento del cataclisma che stava sconvolgendo il mondo. Da allora e per anni ho continuato a scrivere quel libro. Mai pubblicato, sempre incompiuto. A Bush e ai neoconservatori è seguita la grande svolta di Obama e la sua discussa eredità. Poi Trump con le sue chiusure, la stagione populista. A frenarmi dal darlo alle stampe, non tanto la voglia di approfondire. Ha pesato soprattutto la mancanza di una committenza, di una platea cui dedicarlo.

Ho sentito in questi anni avanzare il deserto, arrochirsi le voci del mio tempo. Fino a spegnersi. Man mano mi hanno lasciato i compagni e gli amici cui ero solito inviare in anteprima articoli e bozze di saggi. Le mie serate non sono state più condite da riunioni o cene di amici. Sempre più solo ho cercato rifugio e rapporti nell’aula al mattino, a contatto con ragazze e ragazzi. Finché non è arrivato il Covid a imporre non solo l’acronimo odioso della DAD, la didattica a distanza: il velo del computer senza nemmeno le facce dei ragazzi, per non affogare la banda dedicata al sonoro.

È arrivato poi Putin con l’aggressione all’Ucraina e la minaccia di sfoderare l’atomica: tattica o meno. È stato come risvegliarsi per tornare a scrivere e anche a rileggere pagine e pagine buttate giù anni fa. E scoprire magari una loro attualità.

E così ne ho raccolte alcune. Quasi tutte inedite. Qualche legame l’ho ricreato rivedendo articoli o saggi pubblicati in passato o nei giorni più vicini della guerra in Ucraina.

Spero siano tutte di un qualche interesse. Dipingono un mondo non bello. Le speranze son tutte per le forze profonde che nel sottosuolo premono per venir fuori, per indirizzarlo altrove dalla corsa rovinosa che oggi lo muove. Questo l’augurio.

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Dovunque la ribellione nasce da diseguaglianza.

Aristotele

“Nel 1914, la storia prese la mia generazione per la gola”: così, con lo stridio di quest’unghiata sulla lavagna della memoria, Arnold J. Toynbee nel 1948, all’indomani della seconda guerra mondiale, scolpiva l’affaccio del mondo nel secolo breve. Allora la storia per strappi e salti, sempre più bruschi ed ampi, accelerò, oltre ogni fantastica previsione, la fusione delle civiltà in umanità. E di lì l’umanità prese a correre per il Novecento e oltre, con passo sempre più veloce e partecipe. A ergersi a soggetto di un’altra età.

Poi, non v’è più stata requie. Né modo di tirare il respiro. E ora, in pieno XXI secolo, è il mondo che afferra alla gola. Non quella sfera più o meno naturale, casa madre di una nuova “comunità immaginata”, di un globalismo romantico. Ma il globo stressato dall’assalto umano ben oltre la soglia dell’“ecospasmo”, minacciato di dissoluzione dalla follia dell’atomica, riprodotto dall’infaticabile radiografia del satellite, irretito e dissolto in flussi di bit e molecole, virtualizzato, clonato e moltiplicato in fantasmagorici ologrammi e composti, quando non pervertito in moderna pandemia. È questo compresso eppur infinito artifizio, in cui gli abituali confini si dissolvono assieme ad ogni distinzione tra natura e cultura, natura e scienza, che ora scaraventa l’umano in un’altra epoca. Cancellando spazio e tempo, sconvolge le abituali forme di interazione. Fino a negare quel controllo del futuro che, per lo meno in Occidente, si

11 Prologo

credeva d’aver riconquistato saldo nei Trente Glorieuses di Jean Fourastié, nel trentennio della crescita, quando il sistema di certezze contrapposte della Guerra Fredda offriva ripari nel mondo precario.

L’hanno chiamata globalizzazione. E i più, anche da sponde insospettabili, ne hanno specificato ambito e novità aggiungendo “dell’economia”. Era lo spirito del tempo, delle gerarchie ed egemonie che gli danno timbro. Confinare all’economico il salto di civiltà che da oltre mezzo secolo scuote il pianeta, fare dell’economia il dominus nella sconnessione di mercati, Stati e popoli che ha centuplicato le relazioni di ognuno con gli altri e col mondo, significa in realtà accettare di muoversi nell’orizzonte di segni, con il vocabolario del neoliberismo. Questi vive e si nutre della distinzione tra società civile e Stato, tra economia e politica: così che le evoluzioni dell’economico possano sembrar vivere quasi di vita propria, muoversi per orbite e leggi naturali, e tutte le scelte politiche che ne sostanziano i corsi e gli sviluppi possano apparire tecniche, servomeccanismi, portato magari d’un salto prodigioso nello sviluppo tecnologico.

In realtà, un impossibile scatto di istantanea coglierebbe nell’epocale passaggio di civiltà in corso, nella inusitata intensificazione delle relazioni umane sulla terra e con la terra, i tratti di una ben strana figura: il mondo e l’umanità venuti alle mani, l’uno stretto al collo dell’altro. Non v’è nulla che più e meglio di questo drammatico viluppo esprima il significato più autentico di quella “seconda modernità” o “modernità riflessiva” di cui hanno parlato in tanti – per primi Anthony Giddens e Ulrich Beck – a proposito della globalizzazione. Se la prima modernità si era applicata a consumare il suo opposto, la tradizione, la società ereditata dal feudalesimo, questa ora riflessivamente dissolve se stessa: la società dell’industrialismo fordista con le sue istituzioni, il mondo già una volta rimodellato dall’uomo associato, dalla democrazia dei moderni. La

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diagnosi di Carlo Marx sulla potenza dissolutrice del capitalismo – “tutto ciò che è fissato negli ordini sociali, tutto ciò che ha consistenza svapora: ogni cosa sacra viene sconsacrata” – rivela una straordinaria capacità di penetrazione della lotta che la modernità ha ingaggiato con se stessa, con le proprie conquiste, dello scontro che ora stringe e oppone il mondo e l’umanità. Zigmunt Bauman, dopo il Marshall Berman di “tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria”, ne fece il leitmotiv di uno dei suoi ultimi lavori, dedicato alla Liquid Modernity. Al contrario della prima modernità, capace di riterritorializzare – nella fabbrica fordista, nella città – gli attori prima deterritorializzati, strappati alle campagne, al lavoro saltuario, la modernità liquida in cui il globo naviga, dissolve i contrafforti della società fordista, libera l’impresa dai vincoli imposti da Stato e lavoro, produce individui, ma a spese della cittadinanza, d’ogni legame sociale, d’ogni nuova conquista di senso non risolta in produzione e consumo di merci. La stessa rideterminazione di nuovi spazi avviene in estraneità, a spese, quando non contro l’individuo, all’insegna comunque del temporaneo, dell’occasionale, del precario. Luogo principe della liquefazione post-moderna il lavoro. Come ricorda Bauman, “brevi incontri rimpiazzano duraturi impegni: per poter spremere un limone non v’è bisogno di piantare agrumeti”. Ulteriore conferma viene dall’attore incontrastato di quest’età: l’informazione, l’invasività dei nuovi mezzi di comunicazione. Come avevano da tempo intuito Marshall McLuhan e John B. Thompson, eccitano a nuove esperienze, ma non permettono di stringere rapporti, avviare riconoscimenti: l’esperienza rischia il congedo dall’incontro, dal legame sociale. Con acutezza, Beck ha analizzato le conseguenze di questa seconda dissoluzione: nell’epoca della modernità avanzata, “la produzione sociale va sistematicamente di pari passo con la produzione sociale di rischi”. L’inquinamento ambientale, le mutazioni impresse a secolari proces-

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si di domesticazione animale, assieme al passo travolgente assunto dalle nuove epidemie, ne sono prova eclatante e testimoniano di un processo che, in mancanza di cesure, si autoalimenta e finisce col mettere in discussione finalità e statuto della scienza. Da questa infatti dipendono – non automaticamente ma spesso in condizioni di conflitto – la definizione e l’individuazione stessa del pericolo e delle sue soglie, ma anche l’ulteriore creazione di nuove incognite. Si finisce allora per constatare come “nel gioco reciproco tra i rischi, che essa ha contribuito a causare e a definire, e la critica pubblica di questi stessi rischi, lo sviluppo tecnico-scientifico diventi contraddittorio”.

In realtà, i contrasti si manifestano su scala ben più ampia e profonda: il più delle volte mutano o agiscono in maniera differenziata, secondo le varie collocazioni: sociali, culturali, di genere. Spesso modificano forma e natura dell’agire sociale: la solidarietà, un tempo attivata dalla scarsità, dalla penuria, scatta ora, stringe e unisce sotto il vincolo della paura per il futuro, dall’ansia di chi vede terremotata la propria sfera vitale. Muta la visione della politica, mai come oggi concepita come azione di intrusione e sopraffazione – con buona pace del neoliberismo imperante, che adesso vede rivolgere alle proprie politiche di scasso sociale la bestemmia a lungo coltivata contro ogni intervento pubblico perturbatore dell’ordine naturale del mercato. A testimoniare di questo straordinario rivolgimento di significati sta il lavoro che da decenni ormai in Germania vede un apposito comitato scegliere la Unwort, la “parolaccia” dell’anno: spesso la selezione è finita su termini come “riforma”, “flessibilità”. Un tempo evocavano nel senso comune azioni positive, la capacità dell’uomo di modificare il corso delle cose, di migliorare la propria presa sul mondo. Da tempo le si sente impugnate da poteri ostili e lontani contro la propria sfera vitale, le si avverte a mo’ di grimaldelli disposti allo scasso degli abituali equilibri sociali, culturali ed istituzionali.

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Patologie

Già in altra epoca, in occasione di una guerra, subito assunta come “grande e la più memorabile” e poi costantemente indagata per i suoi tratti esemplari, è venuto uno storico avviso sul mutamento di senso delle parole. “Cambiarono a piacimento il significato consueto delle parole in rapporto ai fatti”: scrive Tucidide in uno dei passi capitali della Guerra del Peloponneso, dedicato alla descrizione della “guerra civile” a Corcira, la cosiddetta Patologia. Avverte che quel cambiamento è indice di una rottura profondissima: istituzioni e luoghi un tempo condivisi diventano incapaci di trattenere e significare ancora una storia comune. Vince, prevale definitivamente – grazie all’“uso specioso della parola” – lo spirito di parte, di fazioni che “a parole servivano lo Stato, in realtà lo consideravano alla stregua del premio di una gara”. Analoghi ammonimenti sulla radicalità della battaglia intestina, come verità ultima, rivelazione d’ogni conflitto, verranno di lì a poco – e significativamente in un momento fondativo della riflessione politica occidentale – da Platone. A lui toccherà, proprio nel momento in cui prova a fissare la visione della guerra come componente naturale e ineliminabile dell’esperienza umana – “sempre c’è la guerra per tutti gli stati contro tutti gli stati, continuamente, finché duri il genere umano” –, specificare che sempre “c’è guerra in ciascuno di noi contro se stesso” e che “vincere se stesso è la prima e la più bella di tutte le vittorie, cedere a se stesso è la cosa peggiore e la più vergognosa”. A cosa rinvia il groppo da globalizzazione che stringe alla gola, se non alla radicalità con cui si vede messo in discussione il senso finora assegnato a parole e termini fin qui condivisi? Cos’è che appare così epocale nell’attuale ondata della globalizzazione, se non l’assolutezza con cui dilaga, globale, un punto di domanda su come questo salto di età sta consumando il mondo e le regole che finora ne hanno orientato il corso, garantito la comune convivenza?

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Al passaggio del 2000 si è gridato al Millennium Meltdown: la fusione, il blocco delle macchine, delle memorie digitali, figlie del Novecento e delle sue assolutizzazioni, costrette, dal cambio di data, ad abbandonare le semplificazioni della datazione a due cifre per passare ad una gestione del tempo più complessa e matura. I computer e le reti, a prezzo di sforzi e con costi straordinari, hanno retto alla prova. Gli umani, invece, non ce l’hanno fatta a reggere il cambio di passo. Eclatante c’è stato il crack: a Seattle, sulla costa orientale degli USA, nel cuore dell’impero, ad un mese dalla fatale mutazione di data, attorno all’organismo, la World Trade Organization, WTO, che più emblematicamente con i suoi comandamenti ha rappresentato il corso della globalizzazione e che ambiziosamente era lì riunita per determinare l’agenda delle liberalizzazioni e privatizzazioni future, il Millennium Round. Una nuova generazione, in fuga da politiche ovunque ridotte, nei vari teatrini nazionali, a esangui ancelle del globalismo neoliberista, ma capace – grazie alla sua formazione globale – di reindirizzare grandi e straordinari flussi di comunicazione e informazione allo sviluppo di nuove sensibilità e solidarietà, ha denunciato il nuovo arbitrario “cambiamento di significato delle parole”. Alla ricerca di una politica altra, vogliosa di misurarsi nel governo planetario di potenze scatenate al di là dei confini naturali dell’esperienza, il nuovo movimento, dai tratti anche profondamente differenziati, trovò allora unità e forza politica nella denuncia dell’agenda apprestata dai potenti raccolti a Seattle. Nei codicilli che provavano a render più ampie e stringenti le maglie della regolamentazione sul commercio internazionale – soprattutto nei campi nuovi e ribollenti della proprietà intellettuale, dell’ambiente, del lavoro – il popolo di Seattle vide avanzare un nuovo “uso specioso della parola”, da parte di élites che a parola servivano le libertà comuni, ma in realtà provavano ad affermare in nuove tavole della legge visioni e interessi di parte. Nel fuoco di una battaglia radicale sul senso da conquistare alla

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globalizzazione, sul modo di governarla, su dove indirizzare il mondo, a Seattle si aprì una straordinaria questione di legittimità: chi, come e in nome di quali principi può metter mano alle regole della convivenza comune, manometterle.

Da allora varie volte rappresentanze anche foltissime del nuovo sentire globale hanno levato alta la voce contro i summit dei Grandi, contro le guerre, contro la pretesa di vecchie e nuove oligarchie di rinominare il mondo. Magari senza durature fortune o risultati. Se questa nuova fase della globalizzazione si apre su conflitti di tale natura, allora qualificare questa nuova modernità o età post-moderna – poco importa ora scegliere tra i due corni del dilemma – come “società del rischio”, o “accelerazione” e “compressione” del mondo, eccitazione della “mutua dipendenza”, aggiunge poco a quel processo di reificazione che disvela l’arcano della modernità, e che ora globalmente si staglia a fronte dell’uomo come reificazione del mondo. In fondo su di esso lapidariamente richiamava l’attenzione già Paul Valéry chiedendosi: “Può la mente umana governare quel che la mente umana ha prodotto”? C’è bisogno di scavare più a fondo nel duello che serra ed oppone il mondo e l’umanità. E in particolare vedere se esso non riproponga, in forme del tutto nuove, attualità ed invadenza di una figura antica: la guerra e, soprattutto, la guerra civile.

In realtà, il passaggio di secolo e millennio – con la “guerra umanitaria” della Nato, l’11 settembre, la seconda guerra irachena, i vari conflitti regionali e per ultima l’aggressione russa all’Ucraina – ha suonato smentita delle tesi che, dall’esame della “guerra fredda” e della sua dissoluzione nelle macerie del Muro e dell’URSS, pretendevano di individuare una epocale cesura della storia: la fine della “guerra come continuazione della politica”, delle “guerre costituenti” incaricate di tenere a battesimo rivolgimenti ed età, egemonie e imperi. Secondo queste vedute, da tempo, già dalla fine della seconda guerra mondiale, lo Stato-potenza avrebbe ceduto il passo al Trading State, allo Sta-

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to-mercante figlio della interdipendenza. La fine del bipolarismo, assieme al tramonto della centralità della potenza nelle relazioni internazionali, avrebbe completato l’opera, facendo infine venir meno – ad esempio, secondo Giuseppe Vacca – “le strutture che, sia pure come un simulacro, avevano continuato a giustificare la coppia amico-nemico”.

Di qui la necessità di “un nuovo pensiero” capace di guardare – libero delle categorie “polemologiche” del mondo di ieri – la nuova “morfologia della modernità”, le nuove “antropologie” che tipizzano l’interdipendenza e l’odierno mondo multipolare. Ammutolite o imbarazzate dal golpismo costituente consumato più volte dalla Nato, dagli USA o dalla Russia a danno dell’ONU e del diritto internazionale, queste visioni si sono rivelate deficitarie innanzitutto nell’analisi dei processi e dei soggetti eruttati dalla rottura della gabbia bipolare. Proprio la modernità e le antropologie rivelate dall’ingresso nel Terzo Millennio disvelano invece, opportunamente scandagliate, una nuova Patologia, tutta iscritta nel dilagare della guerra civile e della lotta di fazione. Lo ha fatto a suo tempo, in forma memorabile, Hans Magnus Enzensberger, ad esempio, a offrirla, con le pagine dedicate a Corcira e richiamando esplicitamente la Guerra del Peloponneso, “modello insuperato” della guerra civile come “forma primaria di tutti i conflitti collettivi”. A differenza che per il passato, oggi le fazioni del conflitto intestino, dilagato nel mondo orfano della disciplina bipolare, non si curano più nemmeno di mutare il significato alle parole. Tronfie di autistica esibizione di violenza si producono in azioni spesso prive di motivazioni. Nel globo abitato dallo scoppio molecolare del conflitto, in cui “ogni vagone della metropolitana può diventare una Bosnia in miniatura”, il “loro coraggio si chiama viltà”. Il nemico torna ad incombere nella realtà quotidiana della vita. A mano a mano che sbiadiscono o crollano i confini rassicuranti oltre i quali un tempo si riconosceva e mirava lo straniero, si torna ora a temere chi preme vicino. La “guerra civile molecolare” di

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Enzensberger non è però inintelligibile e cieca diffusione di violenza. È invito a guardare le nuove linee di faglia che frangono e terremotano il mondo. Caduti i contrafforti che serravano Oriente e Occidente, per Enzesberger non è più proponibile nemmeno una rappresentazione dello scontro in atto su scala mondiale lungo il fronte tradizionale segnato dalla “lotta per il riconoscimento” dei Dannati della terra di Franz Fanon. Tra i suoi vari effetti la globalizzazione ha anche quello di sconvolgere la geografia del Terzo Mondo, dissolvere la sua compattezza. Il servo non ha più una chiara visione del padrone. I termini della vecchia hegeliana dialettica si sono complicati. Sono avanzate sulla scena borghesie indigene, potenze regionali. Il Pacifico è ridiventato centro del mondo con le sue nuove “Vie della Seta”. Per converso, i vecchi poteri si sono spesso trasformati, quasi liquefatti, invisibili e impalpabili, in ragnatele di bit, filamenti genetici e commi contrattuali. La novità più eclatante è però rappresentata dal fatto che la globalizzazione più che mai rimescola arretratezza e sviluppo, Nord e Sud, riunificandoli nel “tempo unico” del mercato globale e delle sue costrizioni: “A New York come nello Zaire, nelle metropoli come nei paesi sottosviluppati sono sempre più numerosi coloro che vengono espulsi definitivamente dal circuito economico perché non vale più la pena sfruttarli”. È qui, secondo Enzesberger, su questo terreno che sorgono le guerre civili, che si determinano le nuove fazioni nell’odierna Corcira, nella polis globale: attorno alla “lotta per il riconoscimento” di chi è bollato o teme d’esser dichiarato “superfluo”. Nascono lungo questo crinale le “rivolte da globalizzazione”, annunciate a Pechino dalle donne o sulla Selva Lacandona o, ancora, intraviste da Erik Izraelewicz nel grande sciopero del novembre-dicembre 1995: il Grand Tournant, il punto di svolta che in Francia abbatteva il governo Juppé e al mondo annunciava Seattle. Sarebbero seguite in varie sembianze Genova col G8, Occupy Wal Street, e sull’altro fronte il Tea Party, oltre che i grandi sommovimenti per la

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pace che avrebbero fatto gridare alla nascita della “seconda superpotenza globale”.

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Ma una cosa sa per certo, ed è che lo spirito della bomba è impresso non solo nella fisica di particelle e raggi, ma nell’occasione che crea per nuovi segreti. Perché per ogni esplosione atmosferica, per ogni immagine fugace che riusciamo a cogliere della forza bruta della natura, quell’inquietante occhio senza palpebre che esplode sul deserto – per ciascuna di queste cose, Edgar immagina che almeno cento segreti vadano sotto terra, a moltiplicarsi e a tramare.

E la luce fu

“All’improvviso fui abbagliato da un lampo di luce, seguito immediatamente da un altro […] Le ombre del giardino sparirono. La scena, che un istante prima mi era apparsa così luminosa e gaia di sole, si oscurò, gli oggetti si fecero indistinti […] Con mio grande stupore, mi accorsi che ero completamente nudo.”

Con queste parole Michihiko Hachiya avrebbe poi ricordato il 6 agosto 1945, l’apocalisse. Ma anche su, in alto, il velo si era squarciato agli occhi di Robert Lewis, il secondo pilota dell’Enola Gay, il B-29 che aveva sganciato la bomba. “Dio mio cosa abbiamo fatto!”, aveva esclamato alla vista del fungo che divorava Hiroshima.

Così alle 8,16 di un terso mattino due testimoni – a terra e in cielo – avevano vissuto quello che, il giorno seguente, il segretario americano alla Guerra, Henry Lewis Stimson, avrebbe salutato come l’ingresso del mondo nell’“era atomica”. All’istante Little Boy – “ragazzino”, il nomignolo affibbiato all’ordigno in ricordo di Franklin Delano Roose-

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atomica

velt – spegne oltre 78 mila persone. A fine anno le vittime saranno 140 mila. Tre giorni dopo una seconda bomba, battezzata Fat Man, il “grassone”, in onore di Winston Churchill, fa 40 mila vittime a Nagasaki. Saliranno a circa 70 mila entro la fine del 1945. Il 10 agosto l’imperatore Hirohito offre la resa, perfezionata solo il 15, dopo ulteriori, devastanti bombardamenti. Umanità e progresso sono ad un tornante epocale. Lo storico Daniel Halévy, provando a misurare nel 1945 il salto, l’improvvisa “accelerazione della storia” prodotta da quell’atto, avrebbe sottolineato il superamento del limite segnato alla vicenda umana, al suo universo, dal sole, l’astro definito, sulla scorta di Renan, “la nostra madre patria e il Dio particolare del nostro pianeta”. Adesso “l’uomo deve fare i conti con una energia assolutamente sproporzionata rispetto alla sua essenza”, col fatto che “la sostanza del nostro globo può un giorno essere completamente volatilizzata, distrutta, come una bolla nell’aria”. Per Max Horckheimer e Theodor W. Adorno, invece, la storia umana, intesa come “illuminismo”, come “pensiero in continuo progresso” teso all’“obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni”, ora si invera. E si rivela: “L’illuminismo è totalitario” nella sua presa sul mondo. Come “signori della natura, Dio creatore e spirito ordinatore si assomigliano. La somiglianza dell’uomo con Dio consiste nella sovranità sull’esistente, nello sguardo padronale, nel comando”. L’immenso potere che l’uomo ha conquistato sul mondo può condurre alla catastrofe, all’“autodistruzione dell’illuminismo”, se non conquista coscienza della parabola regressiva che sospinge i suoi passi. Ora che “la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura”, è più che mai indispensabile comprendere perché “l’umanità invece di entrare in uno stato veramente umano, sprofondi in un nuovo genere di barbarie”, scriveranno nel 1947, nell’Introduzione a Dialettica dell’illuminismo. Albert Camus vedrà in quel passaggio d’epoca – “accendiamo in un cielo ebbro

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i soli che vogliamo” – il superamento del “limite” di cui i Greci sono stati rispettosi testimoni. Figli di “dismisura”, abbiamo “conquistato, spostato limiti, dominato cielo e terra. La nostra ragione ha fatto il vuoto. Finalmente soli, portiamo a compimento il nostro dominio su un deserto”. E perciò siamo destinati ad esser condannati dalla “vecchia Nemesi, dea della misura e non della vendetta”. Anni dopo, in un magistrale schizzo dell’avventura umana, anche Arnold Toynbee si fermerà sull’immagine del sole, per sottolineare il titanico sconfinamento dall’umano compiuto in quel 1945: “L’uomo si è imbarcato nella stessa avventura di Fetonte, il mitico semidio che rubò il carro del Sole, suo padre, finendo tragicamente”.

Non è un caso che luce e sole dominino ogni tentativo di padroneggiare, comprendere l’evento. In realtà campeggiano a piene lettere fin dall’inizio, nell’annuncio con cui in quel 6 agosto il presidente americano Harry Truman rende partecipi gli USA e il mondo dell’ennesima, faustiana evoluzione della storia: “La forza da cui il sole attinge la sua energia è stata scagliata contro chi ha portato la guerra in Estremo Oriente”.

Naturalmente non si tratta di un testo improvvisato. La dichiarazione è stata preparata da tempo. Grazie agli archivi oggi disponibili online, si sa che da giorni Stimson, il segretario alla Guerra, l’ha sottoposta in bozza all’attenzione di Truman, pronta all’uso, alla divulgazione planetaria richiesta e imposta dalla decisione di procedere nella utilizzazione in corpore vili della nuova bomba. Ha accolto suggerimenti e subito qua e là revisioni. Nel suo assunto principale è però rimasta immutata e in filigrana si scorgono già tutti i temi che faranno poi massa e epoca. Cuore e aura del comunicato sono nella sensazione di onnipotenza conquistata e nella volontà di rendere edotti alleati e nemici – una distinzione dissolta ormai dall’annuncio – della soglia varcata, della capacità di poter manipolare la forza del sole. Con analogo spirito, venti giorni prima,

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all’esplosione sperimentale, e segreta, della prima atomica nel deserto di Alamogordo, Robert Oppenheimer, responsabile del laboratorio di Los Alamos, aveva rammentato alcuni versetti di Sri Krishna dalla Bhagavad Gita, il Vangelo hindù – “Io sono la morte, che tutto divora” – e si era quasi trasformato agli occhi di Isidor Rabi, un altro dei membri del team di Los Alamos: “Camminava come Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco. Ce l’aveva fatta”. Indugiando sulle corde dell’onnipotenza, Truman si produce nell’annuncio fatale: “È una bomba atomica. Si tratta di una utilizzazione dell’energia fondamentale dell’universo”. E sottolinea come la manipolazione di questa potenza primaria abbia permesso il risultato strabiliante di racchiudere in un solo ordigno una forza maggiore di quella espressa da “20 mila tonnellate di tritolo”. Il tono è biblico, così come biblica è l’invettiva, la rivendicazione di una giustizia ridotta a legge del taglione applicata con esponenziale consequenzialità: “I Giapponesi hanno dato inizio alla guerra a Pearl Harbour, dal cielo. Sono stati ripagati più volte”. Riecheggiano le “settantasette volte” eternate nella Genesi per la prima vendetta seguita all’uccisione di Abele.

Il testo si adagia poi in più umane ma non meno terrificanti dimensioni. La guerra è ormai finita. Si aveva già netta percezione dello stremo giapponese dai rapporti dell’intelligence così come dall’analisi dei bombardamenti a tappeto. La nuova arma avrebbe dato il colpo definitivo. Non si rinuncia comunque a promettere, laddove non si volesse capitolare, la cancellazione di qualsiasi “impresa produttiva i Giapponesi abbiano edificato in qualsiasi città. Distruggeremo i loro porti, le loro fabbriche, le loro comunicazioni. È bene che non ci siano dubbi: cancelleremo completamente la possibilità del Giappone di far guerra”. Si tratta comunque di un capitolo chiuso, che serve soprattutto a comprendere e comunicare meglio urbi et orbi come e chi abbia saputo aprire una “nuova era nella comprensione umana delle forze della natura”. Assieme alla “guerra per

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terra, per aria e per mare” Truman annuncia che gli USA, uniti agli alleati e soprattutto all’Inghilterra, hanno anche “vinto la guerra dei laboratori”, contro quel nazismo che “era febbrilmente al lavoro per trovare il modo di aggiungere anche l’atomica agli altri strumenti di guerra con cui speravano di schiavizzare il mondo”. Il petto si gonfia d’orgoglio e numeri: “Abbiamo puntato due miliardi di dollari sulla più grande scommessa scientifica della storia, e abbiamo vinto”. È questa la dimensione su cui ora maggiormente si insiste: “Si è trattato della più grande conquista nella storia della scienza organizzata”. E il rapporto di Stimson, diffuso assieme alla dichiarazione del presidente Truman, precisa: “Il più grande avanzamento nella storia prodotto dallo sforzo congiunto di scienza, industria, lavoro umano e mondo militare”. La guerra ha fatto da culla alla Big Science e gli USA sono ben orgogliosi del ruolo di balia conquistato sul campo, così come d’aver “americanizzato” una scienza che aveva conosciuto i suoi maggiori progressi nel Vecchio Mondo. Truman vi si diffonde ampiamente:

“Il più grande prodigio non sta nella grandezza dell’impresa, nella sua segretezza, né nei suoi costi, ma nella capacità scientifica di mettere assieme, in un piano effettivamente funzionante, pezzi infinitamente complessi di conoscenze scientifiche possedute da tanti uomini nei più diversi campi del sapere. Né meno fantastica è stata la capacità delle imprese di progettare, del mondo del lavoro di realizzare, della catena produttiva di far cose mai fatte prima, cosicché il frutto dell’ingegno di tanti cervelli potesse concretizzarsi e funzionare così come si era supposto. Scienza e industria hanno lavorato assieme sotto la direzione delle Forze Armate americane, che hanno conseguito un successo unico nella gestione di un problema così inconsueto nel progresso della scienza, e in un tempo sorprendentemente breve. È dubbio che un’altra simile collaborazione potesse essere conseguita altrove, nel mondo.”

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Che su questa strada si voglia continuare per il futuro è subito chiarito non tanto dall’avvertimento che “sono in produzione altre atomiche nell’attuale versione, mentre se ne stanno sviluppando altre ancora più potenti”, o dalla decisione di mantenere il segreto “sui processi tecnici di produzione dell’atomica o su tutte le sue possibili applicazioni”, allo scopo di “proteggere gli USA e il mondo dal rischio di improvvise distruzioni”. Truman annuncia di voler raccomandare al Congresso “l’istituzione di una commissione appropriata per il controllo e l’uso dell’energia atomica negli USA”, ma anche l’adozione di tutte le misure per fare del nucleare “una forza potente e vigorosa per il mantenimento della pace nel mondo”. La bomba traghetta definitivamente dalla guerra alla pace. E gli USA di Truman sanno bene che il mondo nuovo sarà modellato in quel calco di cui adesso essi detengono un indiscusso copyright. Ben consci del passo difficile e inconsueto che stanno facendo – “non è mai stato costume degli scienziati di questo paese o politica di questo governo nascondere al mondo il progresso scientifico”, recita un inciso della dichiarazione – decidono e comunicano al mondo che proveranno a tenerselo ben stretto. Tre giorni dopo, il 9 agosto, nel rapporto alla Nazione sui risultati della Conferenza di Potsdam, chiarisce: “La bomba atomica è troppo pericolosa per esser lasciata andare in un mondo senza leggi […] dobbiamo ergerci a custodi di questa nuova energia, per prevenire il suo cattivo uso e mutarla in strumento al servizio dell’umanità”. A fine mese, inoltre, Truman proverà – secondo le testimonianze raccolte da David Broscious – a imprimere indelebilmente il vanto di quel nuovo potere direttamente nello stemma presidenziale. Roosevelt ne aveva voluto il ridisegno, senza riuscire a completarlo. E così il successore, anche a suggello della conclusione vittoriosa della guerra, aveva suggerito, tra le altre modifiche, di disegnare lampi di luce all’estremità delle frecce trattenute dall’artiglio sinistro dell’aquila imperiale, a simbolo del potere racchiuso dall’atomica. In

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maniera un po’ fortunosa, adducendo motivazioni estetiche, alcuni suoi consiglieri riuscirono a scongiurare la celebrazione della nuova arma.

Rimarrà il proclama, l’annuncio al mondo della nuova soglia varcata dall’uomo. Quel testo, assieme ad ogni singolo passo del Progetto Manhattan e poi ad ogni momento delle decisioni relative alla costruzione dell’atomica, alla sua utilizzazione, alla scelta dei suoi bersagli, è divenuto in seguito oggetto di un’analisi e d’una bibliografia sterminate, mai concluse, continuamente rilanciate dalla molteplicità di argomenti e dispute che le percorrono o dalle passioni che la stessa discussione scatena continuamente. In realtà, ormai si è fatto impossibile provare a riassumerne anche per vie generali la ricchezza di temi. Né è qui il caso di soffermarsi sulla straordinaria capacità analitica e di previsione rivelata da alcuni passaggi della vicenda: ad esempio, dai lavori dell’ Interim Committee insediato, a latere dello sviluppo del Progetto Manhattan, allo scopo di analizzare conseguenze e applicazioni, civili e militari, dell’energia e delle armi atomiche; o dal cosiddetto Rapporto Franck, elaborato da alcuni scienziati proprio per evitare il rischio di eleggere il Giappone a bersaglio di tanto devastante potere e di dar avvio all’inarrestabile corsa agli armamenti dell’Armaghedon. Urge trattenersi, piuttosto, su alcuni testi che meglio possono permettere di sottolineare il salto compiuto in quel fatale 6 agosto. Da allora ci si è avventurati in un’altra età della storia umana, proiettati in un’era di globalizzazione del tutto nuova, rispetto al passato, e nella quale – al di là delle successive, sbalorditive evoluzioni e metamorfosi –siamo tuttora immersi. A partire da quel 6 agosto del 1945 il mondo e l’umanità sono irreversibilmente avvinti in una comunità di destino integralmente esposta all’umano volere, sospesa dalla decisione di un pugno di oligarchi sull’orlo di un Olocausto globale. Si proverà altresì a chiarire – e a questa esigenza obbedisce la scelta dei testi da esaminare –

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l’apparente paradosso esistente tra l’ampiezza e la varietà delle analisi dedicate all’atomica, già di per sé indicative della cesura storica prodotta dall’evento, e l’esiguità della riflessione finora maturata sull’avvento di un’“era atomica”, ovvero di un ciclo affatto nuovo della storia e dell’avventura umana, quanto mai esposto alle ambivalenze e alle contraddizioni dell’etica faustiana, mai come adesso sospinto dall’imperativo eternato da Goethe – “solo se non ha requie l’uomo impegna se stesso” – all’incontro fatale con Mefistofele.

Anche ora, anche qui dove il cammino dell’uomo rischia di toccare il punto più estremo, può soccorrere il ricorso alle radici d’Occidente, al pensiero greco. In questo caso alla riflessione organica e continua operata dai Greci in rapporto alla politica e alla guerra.

È noto come, riferendosi alla guerra, essi operassero una sistematica distinzione tra polemos, la guerra della polis contro i nemici esterni, i barbari, e stasis, ovvero la guerra civile, il conflitto intestino tra adelphoi, fratelli, che minava la vita della città e spesso la conduceva alla rovina. Nel V libro della Repubblica di Platone se ne troverà la trattazione più organica:

“Mi sembra che, come si usano questi due nomi di guerra, polemos, e discordia, stasis, così anche siano due le cose, che si riferiscono a due sorte di dissensi. Queste cose sono per me una familiare e congenere, l’altra estranea e straniera. Ora, l’inimicizia con quella familiare si chiama discordia, stasis, quella con l’estranea guerra, polemos” .

La generale distinzione scende subito dal cielo del metodo, per guadagnare il concreto terreno della polis:

“Diremo allora che, quando combattono, gli Elleni fanno guerra ai barbari e i barbari agli Elleni; che si tratta di un’inimicizia naturale cui si deve dare il nome di guerra, polemos; e che invece, quando si scontrano Elleni con Elleni, essi sono per natura amici, ma in tale circostanza l’El-

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lade è malata e in preda alla discordia, e che per quest’inimicizia si deve usare il nome di discordia, stasis” .

Su quest’ultima naturalmente la condanna e la riprovazione sono senza appello:

“Considera dunque […] in quella che ora si è convenuto chiamare discordia, dovunque il caso si verifichi e uno stato si divida, in un reciproco saccheggio di campi e incendio di case, considera, ripeto, quanto odiosa sembri la discordia e quanto appaiano nemici della patria gli uni come gli altri; perché mai avrebbero dovuto osare di devastare la nutrice e madre”.

Termini e toni non dissimili da quelli con cui già Eschilo, celebrando l’avvento della democrazia, aveva chiuso le Eumenidi. Anche qui – in risposta ad Atena, che aveva chiesto di non sospingere i cittadini “come si aizzano i galli, a guerre civili, a violenze di fratelli contro fratelli” e che si augurava che “con nemici di fuori sia, se ha da essere, la guerra, che allora non è penosa, e un nobile amore di gloria muove i guerrieri” – le Eumenidi avevano elevato fervidi voti, augurando alla città un futuro mondo dalle perversioni fratricide della guerra:

“Mai nella nostra città si odano fremiti di guerra civile, insaziata di mali. Né mai la polvere delle nostre strade si abbeveri di nero sangue di cittadini per strappare alle case, in collere vendicatrici di morti, altri morti. E scambio ci sia di gioie nella comune concordia; e unanime odio ai nemici: delle molte calamità unica medicina è questa ai mortali”.

La cesura segnata nel 1945 dall’atomica nella storia sarà epocale perché annulla questa capitale distinzione tra interno ed esterno, perché cancella questo confine divenuto da secoli tratto emblematico della storia occidentale e del processo stesso di civilizzazione. Almeno a partire dal momento in cui l’uomo ha provato a mettere in forma la guerra,

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dovendo invece spesso rinunciare a trattenerla, a normarla quando esplodeva intestina.

Con acutezza hanno colto il mutamento già Günther Anders e, in altro contesto, Umberto Curi. Per Anders – sicuramente il pensatore occidentale che con maggiore impegno ha provato a misurare il nuovo passo impresso al mondo dall’atomica – “con la scomparsa dei confini, prodotta dalla situazione atomica, è scomparsa anche questa distinzione”, tra guerra esterna e guerra civile: “Anch’essa è esplosa con le esplosioni. Ogni guerra tra due paesi sarebbe oggi una guerra civile”. La disarmante conclusione è che l’effetto esclusivo ottenuto con la conquista dello status di “concittadini della terra”, “cittadini di un solo paese”, sarebbe la condanna a “condurre guerre civili”. Curi, dal suo canto, sottolinea come “la minaccia del Big Bang nucleare” finisca per “trasformare ogni polemos in stasis”, dal momento che “la fratellanza, quella condizione di adelphoi, fratelli, che rende deprecabile la guerra è imposta dall’incombere di una minaccia, che appiana totalitariamente ogni differenza, che pone tutti gli uomini sullo stesso piano, partecipi dello stesso destino”.

Lo sviluppo conseguente dell’atomica come arma totale, in un conflitto a pieno campo tra contendenti armati al livello permesso dai tempi, contempla in realtà il suicidio dell’umanità, o comunque livelli di distruzioni tali da annullare ab imis quel calcolo sottile – sopravvivere al nemico – che presiede alla decisione stessa di suonare la diana. Perché possa darsi guerra c’è bisogno di immaginare o, al limite, sognare un vincitore, che si possa progettare in costanza di un dato, in un universo di riferimento: l’immortalità del genere umano. L’adagio di Carl von Clausewitz, secondo cui “la guerra non è niente altro che la politica dello Stato proseguita con altri mezzi”, presuppone obiettivi, scopi, un guadagno sull’avversario da capitalizzare, spendere nel futuro. “La condotta della guerra nelle sue linee principali – affermava Clausewitz – è la politica stessa che sostituisce

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la penna con la spada ma non per questo smette di pensare secondo le proprie leggi.” L’atomica invece annulla in radice proprio questa condizione generale: la sopravvivenza di chi possa pensare, anche ad altre guerre. “Vivere con la bomba” – in obbedienza alla massima coniata, autonomamente l’uno dall’altro, da due scienziati, quali Leo Szilard e Carl Friedrich von Weizsäcker, già capifila della corsa all’atomica rispettivamente nel campo alleato e in quello tedesco – comporta convertirsi, adattarsi ad altri codici di condotta generali, riparametrare se stessi e le proprie azioni alla nuova, artificiale caducità del mondo e dell’umanità. Ora, nell’era atomica, dell’Ultimo Uomo si può dare una manifestazione diversa da quella narrata dallo Zarathustra di Nietzsche. Ora può rimanere solo un’ombra, questa sì immortale, simile a quella osservata da Anders sul pezzo di muro conservato al museo di Nagasaki con su impressa per l’eternità l’immagine, il negativo, dell’uomo lì poggiato al momento del flash finale:

“ecco che cosa resterà dell’ultimo uomo, il suo profilo sull’oggetto che il suo corpo verrà casualmente a riparare al momento del lampo. Sarà l’ultima immagine dell’ultimo uomo: ammesso che si possa chiamare un’immagine, poiché non ci saranno testimoni per ritrovarla e per riconoscerla”.

La Grande Guerra si era chiusa per Paul Valéry con una tremenda rivelazione – “noi altri, noi civiltà ora sappiano di essere mortali” – ma anche lasciando il mondo nell’incertezza di un altro capitale interrogativo: “quali sono i raggruppamenti che devono farsi la guerra? Razze classi nazioni o altri sistemi da scoprire?”. La risposta è arrivata col fungo che sigilla la seconda guerra mondiale: ora è l’umanità, divenuta soggetto e teatro di guerra globale, a scoprirsi mortale.

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Da tempo il mondo ci ha afferrato alla gola. Ci libriamo nel Terzo Millennio avvinti in un nodo mortale: l’umanità e il mondo venuti alle mani, l’una stretta al collo dell’altro. S’avvera la diagnosi di Carlo Marx: tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria. L’agire sociale ne è terremotato. Un tempo attivava solidarietà. Ora stringe nel vincolo della paura, di chi vede scossa la propria sfera vitale. Muta la visione della politica, mai come oggi subita come intrusione, sopraffazione, inganno. Corriamo senza meta, né requie o respiro. Entrati nel XXI secolo dalla “porta di fuoco” dell’11 settembre ora siamo all’aggressione in Ucraina e alla minaccia di Putin di sfoderare l’atomica. Non contenti del giorno e della sua luce dilatiamo spazi e tempi della mercificazione globale. Quella che un tempo era esplorazione della notte, fantastico ed esotico assaggio di frutti proibiti e lontani, ora è divenuta frequentazione quotidiana di universi manipolati il più delle volte da una “società incivile”. Fermiamoci un istante per ascoltare le scosse che cogliamo nel sottosuolo. Ci suggeriscono, segnalano che lì premono forze profonde. Vogliono venir fuori, provare a indirizzare il mondo altrove dalla corsa rovinosa intrapresa da tempo. È il caso di interrogarle. Di porsi in ascolto, attenti e partecipi. ISBN 978-88-6153-953-2

Euro 28,00 (I.i.)

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