Non è stato il mare. Né a Cutro. Né altrove. Né prima. Né dopo.

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ANTONELLA MAGGI SALVATORE MAURIZIO MOSCARA

NON È STATO IL MARE

Né a Cutro. Né altrove. Né prima. Né dopo.

Antonella Maggi

NoN è stato il mare

Né a Cutro. Né altrove.

Né prima. Né dopo.

Mare nostro che non sei nei cieli, all’alba sei colore del frumento, al tramonto dell’uva di vendemmia, ti abbiamo seminato di annegati più di qualunque età delle tempeste. Tu sei più giusto della terraferma, pure quando sollevi onde a muraglia poi le riabbassi a tappeto. Custodisci le vite, le visite cadute come foglie sul viale, fai da autunno per loro, da carezza, da abbraccio, bacio in fronte di madre e padre prima di partire

(Mare nostro, Preghiera laica, Erri De Luca, 2014)

Ha colpito nel segno. Perché, altrimenti, sarebbe stata diversa questa introduzione. Ci ha davvero impressionato quella foto che ritrae una mamma e una figlia cacciate dalla Tunisia dalle autorità locali e deportate nel deserto: affinché non raggiungessero l’Europa. Obiettivo pienamente e maledettamente raggiunto: perché la foto, scattata dai miliziani libici e riportata dal quotidiano “Avvenire” del 21 luglio 20231, ritrae una mamma immobile che abbraccia la sua bambina nell’estremo ultimo tentativo di proteggerla

1 www.avvenire.it/attualita/pagine/la-foto-choc-dal-deserto

dal sole infernale del deserto che, da lunghe ore, consumava entrambe.

Senza volti. Riversi nella sabbia. Senza nomi. Nomi smarriti nella fuga dalla loro casa. In un luogo qualsiasi di un deserto qualsiasi, in un giorno qualunque. Perché quel “qualunque” significa ogni giorno; significa sempre.

Tutto questo lontano dai riflettori, salvo quelli accesi da giornalisti coraggiosi e mezzi di informazione indipendenti. E allora non contano il giorno, l’ora, il luogo. Non contano il tempo e lo spazio. Conta ciò che è accaduto, nella sua tragica quotidianità. Conta la morte, come evento e come responsabilità. Come a Cutro, nulla di tutto questo è casuale e certamente non è colpa del deserto, luogo santo e sacro, calpestato da piedi sacri, calpestato dai piedi di Dio. Ridotto a luogo di abbandono e di martirio dove, fra i tanti, è stato perpetrato anche questo assassinio, quello ritratto nella foto in questione. Sì, assassinio, perché di omicidio si tratta. Dell’omicidio di una madre e di una figlia, costrette a fuggire e ad attraversare il deserto alla ricerca di un riparo: dalle angherie, dalle violenze, dalle persecuzioni. Costrette a farlo di nascosto, nella notte, come ladre.

Cosa fareste, voi, se foste nati in un luogo dove i bambini muoiono di denutrizione, morbillo o polmonite? Se foste nati dove le donne vengono violentate, i loro uomini uccisi, i loro figli deportati solo per un’idea di libertà?

Se foste nati dove piovono bombe di giorno e missili di notte? Bombe a grappolo, ordigni chimici, esplosivi al napalm o all’uranio impoverito? Vi sentireste liberi di scegliere? Vi assumereste la responsabilità di restare, sapendo che un giorno potreste trovare vostra figlia dilaniata da un’esplosione, violentata da un fanatico, deportata da un predone? Non è colpa nostra? Negare i diritti è antidemocratico, negare i diritti umani è disumano. Costruire muri, impedire alle persone di viaggiare liberamente, costringerle a cadere

nelle mani di trafficanti di carne umana è un delitto. Sfruttare i popoli, occupare le loro terre, stringere accordi con regimi totalitari: sono crimini. Vendere armi, ufficialmente o di nascosto, agli eserciti che bombardano bambini, ospedali, scuole, campi profughi, luoghi sacri: anche questo è un crimine.

Siamo davvero sicuri che non sia colpa nostra? Perché queste sono le scelte dei governi che eleggiamo democraticamente.

Mani intrise di sangue. Sangue innocente. Sangue di una madre e di sua figlia, in fuga nel deserto, esauste, ustionate dal sole cocente, morte dopo un’agonia lunga chissà quante ore. I loro nomi resteranno scritti sulla sabbia, invisibili ai nostri occhi, ma scavati nei loro volti riversi e illuminati da una luce che non possiamo ignorare. I nostri nomi, invece, rimarranno nascosti, sepolti nell’ombra della vergogna e della viltà di aver preferito una vita comoda, senza troppe preoccupazioni; la viltà di chi ha scelto di non disturbare i manovratori che governano il nostro Occidente.

Una madre e una figlia sono lì. Le loro voci si uniscono ai novantaquattro assassinati al largo di Cutro, alle decine di migliaia lasciati annegare, senza soccorso, nel Mediterraneo, ai corpi uccisi nei deserti e davanti alle frontiere di terra. Voci che si uniscono ad Alan, ad Amal, ad Abdullah, a Khareena. Al piccolo Yasir2, che vi racconterà altre storie custodite in questo libro. Racchiuse e rinchiuse nel dolore, ma che ci tocca raccontare. Non è una scelta, non è un atto di generosità. È semplicemente un nostro preciso dovere come donne e uomini, come madri e padri, come figlie e figli. Perché ci sono momenti nella vita in cui “si deve fare ciò che si deve fare”. Senza alternative.

2 Sono i protagonisti del libro Marenostro, di Salvatore Maurizio Moscara (edizioni la meridiana).

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Quelle voci hanno il diritto di parlare, anzi di gridare. E noi abbiamo il dovere di annunciarle. E non ci sottrarremo a questo dovere. Dovranno parlare e dovranno gridare e parleranno e grideranno. Fino a quando qualcuno non le ascolterà.

Che la rassegnazione se ne rimanga a casa. Sdraiata sul divano, concentrata sul talk show di turno, gaudente, quasi, della sua inutile banalità, impaziente di sputare sentenze. Noi, però, non ci arrenderemo.

Come disse don Gallo a Fabrizio De Andrè: “Anche io, ogni giorno, come prete, verso il vino e spezzo il pane. Ma tu, Faber, mi hai insegnato a distribuirlo per le strade, nei vicoli più bui, tra chi vive nell’esclusione”.

Non è un compito solo dei preti quello di spezzare il pane e di versare il vino per riempire di giustizia la tavola dei poveri. È un dovere che appartiene a tutti noi. Stare dalla parte dei deboli e degli oppressi significa scegliere, senza esitazioni, da che parte stare.

Questo libro ha scelto. Sta dalla loro parte: quella degli oppressi.

A spAsso con i regimi totAlitAri

Il 16 luglio 2023 l’Unione Europea, durante una visita congiunta a Tunisi del Primo ministro italiano, Giorgia Meloni, dell’ex premier olandese, Mark Rutte (ora segretario generale della Nato) e della Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen (riconfermata nella legislatura UE 2024/2029) ha siglato un memorandum d’intesa con il Governo tunisino guidato dall’autocrate Presidente Saied. Un accordo dettato unicamente dalla preoccupazione per l’aumento degli arrivi irregolari dalla Tunisia in Italia a partire dall’autunno scorso (invertendo così la tendenza alle partenze dal territorio libico) e, dunque, dall’incapacità di gestire il fenomeno con una logica diversa da quella securitaria ed emergenziale (si parlerà più avanti, nella scheda di approfondimento “L’Europa e la notte della ragione” a p. 152, del nuovo Patto europeo sulle migrazioni e l’asilo).

La politica principale della UE rimane banalmente quella di  ridurre il numero degli arrivi irregolari verso l’Italia, soprattutto per andare incontro a una logica di conservazione del consenso e inseguendo le Destre estreme nelle loro politiche xenofobe di esclusione. Nulla cambia dunque rispetto al passato e rimane imperante la logica del contenimento: l’idea di fornire a un paese terzo come la Tunisia delle risorse finanziarie aggiuntive in cambio di un maggiore

impegno nel controllo e nella gestione dei movimenti migratori verso l’Europa era già contenuta negli  accordi tra UE e Turchia del 2016 (Presidente Erdogan, già definito dittatore dal Premier Draghi nel 2021) e in quelli dell’Italia con la Libia nel 2017 (premier italiano Claudio Gentiloni, ministro dell’interno Marco Minniti). Il memorandum è generico quando affronta il tema del contributo economico da corrispondere alla Tunisia e prevede:

• 105 milioni di euro: rafforzamento delle politiche di contenimento migratorio in Tunisia;

• 150 milioni di euro: stabilizzazione delle finanze tunisine;

• altri fondi: stanziati tramite un accordo con il Fondo Monetario Internazionale.

Ad ogni modo, la Tunisia ha rivendicato una completa autonomia nella gestione degli strumenti e delle strategie con le quali perseguire gli obiettivi concordati: ciò sta significando una totale assenza di forme concrete di salvaguardia delle persone migranti dalle numerose violazioni dei diritti umani perpetrate dalle autorità tunisine. Anzi, la legittimazione politica che il Presidente Saied trae dalla firma di un accordo di questo genere potrebbe anche rassicurarlo sulla possibilità di proseguire con questa condotta e di continuare a ricattare, come già hanno fatto altri dittatori prima di lui, l’Europa. Un’Europa incapace di concepire qualcosa di diverso dalla esternalizzazione delle frontiere, che in definitiva consiste nel delegare il compito del controllo delle frontiere ad altri Stati direttamente interessati dai fenomeni migratori.

La voce dei vinti

Il mIo nome è HalImaH

E poi, cosa sono dodici o quindici ore di lavoro al giorno?

Cosa ci provocano i fumi inquinanti o le temperature surriscaldate di qualche fornace?

Niente, non sono niente di peggio del nostro passato. Già, perché il nostro cancro lo abbiamo lasciato alle spalle. Il mare è il nostro disinfettante

(Dialoghi a bordo di un gommone, da Mare Nero, Gianni Paris, 2020)

C’era una volta una terra del Sud e un bel paesino diviso fra una ridente collinetta e il suo avamposto marino9. I ciottoli della spiaggia raccontavano degli antenati greci che, a futura memoria, avevano lasciato due grandi statue di bronzo: il vecchio per offrire la saggezza, il giovane per donare l’energia. I sentieri che si abbarbicavano su per la collina accompagnavano i viandanti verso le tre porte della città. La leggenda narra che queste porte rimanevano sempre aperte, di giorno e di notte, con la luce e con il buio, con la pioggia e con il sole e che nessun bandito o assassino aveva mai approfittato della fiducia dei suoi abitanti. Qualcuno aveva tentato di mettere in guardia il sindaco di quella città, di-

9 Nel capitolo si parla di Riace, centro della Calabria in provincia di Reggio Calabria, con poco meno di duemila abitanti, e del suo modello di accoglienza, ideato e impresso dal suo sindaco, Domenico Lucano (cfr. scheda di approfondimento “Riace: la colpa di essere modello” a pp. 53 e ss.

cendo che fidarsi troppo avrebbe potuto diventare pericoloso a lungo andare: ma lui pensava che chiudere anche solo una di quelle porte fosse un peccato imperdonabile avanti al Dio di tutti i colori. Credeva che avrebbe privato gli altri umani dei profumi, dei colori, delle luci e delle storie della sua terra; e che, allo stesso modo, i suoi cittadini avrebbero perso incontri e abbracci con persone diverse, impoverendosi irrimediabilmente.

Quel sindaco riteneva di non essere il proprietario né di quella terra, né dei cuori del suo popolo. Sapeva che le braccia dei suoi abitanti erano talmente larghe da poter stringere tutti i pellegrini e i viandanti giunti in quel luogo. Pensava che fosse giunto il tempo di Isaia, quando molti popoli verranno e diranno:

venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri… Forgeremo le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra. Casa di Giacobbe, vieni, camminiamo nella luce del Signore10.

E così fu che le genti di tutti i colori immaginati da una Signora di nome Bellezza giunsero presso quel borgo. Certo, molte volte, non ci arrivarono di loro volontà ma perché spinti, costretti, indotti dalle forze del Male, che martoriavano i quattro quinti della popolazione terrestre e che si aggiravano nei pressi di quella città. Ma, anche se popolata di gente forzata a lasciarsi alle spalle casa e affetti, quella città divenne sempre più allegra e variopinta.

Ora, in questo luogo festoso, tiepido d’inverno e fresco d’estate, i pellegrini di tutte le terre trovavano sorrisi, mani

10 Isaia 2, 1-5.

giunte e braccia aperte. Trovavano soprattutto carezze. Carezze che lenivano i tagli inferti da vite ingiuste e che erano come balsamo sulle ferite aperte e sanguinanti di oppressione e sfruttamento. Carezze che restituivano spirito alle anime spente. Carezze che ti tiravano fuori dall’inferno per non tornarci mai più.

Era stato così per Halimah Obi, donna della nera terra antica del fiume Niger. Halimah, che fu moglie e fu figlia, ebbe una madre che fuggì. La madre fuggì, ma Halimah rimase, seguendo la via tracciata da lei: una via buia, in cui si era condannati a vivere da piegati. Una vita in cui si poteva essere solo puttane, con il volto madido di sudore, le gambe aperte, il ventre vuoto, la schiena lucida di sperma. Halimah era un’anima che aveva pagato salato. Salato come il mare che la prese sul dorso e che ogni giorno del viaggio minacciava di inghiottirla. Ti catturerò, ti farò finire nel più profondo del mio ventre e non risalirai mai più, le diceva il mare. Ma quell’anima provata rimase in silenzio, pensando alle foglie di mangrovia che resistono e non vogliono ingiallire perché aspirano a diventare più belle dei fiori. Halimah guardava le onde alzando la testa; neanche il loro fragore le faceva abbassare lo sguardo. Halimah aveva sopportato, aveva sanguinato, aveva mangiato la terra con la testa schiacciata sul suolo e dunque nulla poteva farle paura. Finché il mare, con tutto il suo sale, cominciò a piangere: l’ingiustizia era tanta, troppa anche per un intero oceano. Non restava che arrendersi e portare la ragazza a riva. Ed era così arrivata la Signora Calma. Come se qualcuno o qualcosa le dicesse: è finita, non devi più temere. Il sereno sorgeva e risuonava allegro nelle viuzze della piccola e accogliente cittadina. Era arrivato anche il Signor Odore: il profumo dell’aria pulita, dell’aria netta. Ed era arrivato il Signor Calore: il tepore del sole, il conforto di una mano sulle spalle. E ancora, la Signora Tenerezza: cento carezze

che sfioravano le guance martoriate e poi le resuscitavano a vita nuova.

E così i lamenti divennero canti di risate. Le gambe rimasero finalmente chiuse, il ventre finalmente pieno, la schiena finalmente asciutta.

Riace l’approdo, Riace la terra, Riace le carezze. Le luci delle sue strade resistevano ad autunni e inverni e proponevano albe di vite libere e senza tramonti.

E furono canti e parole: parole sacre, di quel sacro che esce dalla terra, ti avvolge e ti fa sentire finalmente a casa. Anche se non è casa tua, perché casa tua non esiste. Ma non esiste neppure casa nostra e casa vostra; non esiste terra nostra e terra vostra. Esiste soltanto una casa, che è di tutti; e una terra, che è di tutti.

E furono amici e sorelle e fratelli che sedevano alla stessa tavola; che si guardavano negli occhi e si chiamavano per nome; che spezzavano il pane in dieci pezzi perché fossero distribuiti. E ogni volta quei dieci pezzi di pane diventavano cento e poi mille e poi diecimila; e ogni volta sprigionavano odori di forni antichi, costruiti da mani impregnate di lavoro e dignità. E quei pezzi di pane venivano messi al centro della tavola: un centro di convivialità per individui diversi e follemente innamorati l’uno dell’altro e tutti di tutti. La convivialità delle differenze11 .

Per Halimah sembrava che tutto fosse tornato a posto, anzi che proprio quello fosse il posto giusto. Ma la strega cattiva non esiste solo nelle fiabe. Le forze del male, in tutto quel tempo di pace, si stavano riorganizzando; la pace era uno scandalo perché finiva con il compromettere “il sistema”: quel sistema che appagava bocche affamate e voraci, che cercavano incessantemente il loro nutrimento. Ogni stupro di donna avvenuto nel la-

11 Pensieri e parole di don Tonino Bello (2013).

ger di Zuhara12, ogni brandello di carne rimasto attaccato alle fruste dei trafficanti del deserto del Mali, ogni lacrima versata nel Mediterraneo alimentava il dominio dell’uomo sull’uomo. Un sistema perfetto nella sua perversione. E dissero ad Halimah che non c’era più posto per lei, per le sue sorelle e per i suoi fratelli. Dissero che le loro terre li reclamavano (ma loro non avevano terra) e che le loro case li aspettavano (ma loro non avevano casa).

Dissero che Riace doveva essere chiusa, che non doveva essere più Riace, che doveva diventare Mariupol, Damasco, Sanah, Kabul, Baghdad. Che doveva diventare Bucha. Che doveva diventare Gaza.

Perché solo così le loro bocche avrebbero potuto sfamarsi: cibandosi di dolore, di discriminazione, di violenza. Ancora una volta nella storia dell’uomo, un giusto era chiamato a pagare. Doveva pagare per aver dato voce e vita alle parole giustizia, fraternità, convivialità: doveva pagare per aver sorretto anche le altre croci. E fu il trionfo. Il trionfo di quelli che si adoperavano e di quelli che rimanevano con le braccia conserte. E anche di quelli che parlavano, che sputavano sentenze, saltando sui predellini di una moralità pretesa e ingannatrice. Halimah fu spinta di peso fuori da Riace, come tanti altri; fu cacciata e sistemata altrove, non lontano da lì, in baracche di cartone, legno e plastica.

12 Zuhara è un noto campo di concentramento in Libia dove vengono tenuti in stato di prigionia i migranti provenienti dalle diverse rotte di terra prima di imbarcarsi nel Mediterraneo. Con il memorandum firmato dal Governo italiano per la prima volta nel 2017 e poi rinnovato fino ai nostri giorni, il sedicente Governo libico si è impegnato a fermare i migranti nel territorio libico in cambio di denaro, mezzi e prebende (pagati dai contribuenti italiani). In realtà, ciò non avviene perché i migranti vengono liberati e avviati verso le imbarcazioni pronte ad attenderli nei porticcioli della costa nord orientale libica dopo aver pagato un riscatto, o aver assentito a una violenza carnale o essere riusciti rocambolescamente a fuggire. Gli stessi vertici delle Forze armate di Tripoli hanno spiegato all’ONU che quelle galere “sono una necessità della politica migratoria degli Stati membri dell’Unione Europea”.

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In quel posto, in quella baraccopoli non c’erano fratelli e sorelle, non c’erano colori e abbracci, non c’era calore, non c’erano carezze.

Ma c’erano bestemmie. La bestemmia che tutto questo avvenisse in un luogo intitolato a un santo, san Ferdinando, appunto. E c’erano pesanti fardelli caricati sulle schiene curve di un esercito di diseredati. Ad Halimah aprirono di nuovo le gambe: quando la violenza non conosce limiti, quando il male diventa assorbente, si identifica con tutto e tutti. Quando vergognarsi è un lusso per pochi. Quando invochi Sodoma e Gomorra perché solo quella sarebbe giustizia.

Ma non era finita qui.

Purtroppo.

C’era bisogno di calore in quelle baracche, c’era bisogno di cibi caldi per scampoli di conforto dopo dure giornate nei campi. E il calore voleva il fuoco e fuoco fu: un caldo braciere fumante ad articolare i suoi tentacoli brucianti, ad avviluppare oggetti e persone. E fu così che l’incendio lavò la ragione e le fiamme alte si fecero vestito.

Halimah cominciò a sognare: gambe chiuse, ventre a riposo, schiena asciutta; sognò di essere un’ala spiegata con lo sguardo rivolto verso l’alto, che vedeva allontanarsi sempre di più quella terra bruciata d’inferno. Sognava anche il profumo della libertà, almeno per dimenticare la puzza acre di quei diavoli di uomini. E, sognando, Halimah divenne prima briciola di gambe, di ventre, di schiena; poi divenne cenere.

Il sognò finì con la cenere. E, allora, lei pensò che, a volte, la cattiva strada che prendi ti può condurre a quella buona. E che arriva un momento, nella vita e oltre la vita, in cui ti puoi sedere e guardare come sarà il futuro. Un futuro che, a questo punto, sarà perfetto perché laverà le sozzure del male, ridurrà in pula i pensieri violenti, annienterà le cervici

dure e le bocche voraci. Sarà un futuro perfetto: l’inferno è passato, è in arrivo la vita. Per la prima volta arriverà la vita.

A Riace, a Moria, nei lager libici, nei campi di prigionia turchi, sui fili spinati di Ceuta e Melilla, sui muri maledetti di Tijuana al confine tra USA e Messico, nelle stanze dove i potenti e i prepotenti decidono, intere generazioni di dirigenti, funzionari e politici hanno fallito la loro missione: di essere Stato, di essere Costituzione, di essere Giustizia. Di essere Umani.

Non esiste una sola ragione umana che secondo la nostra cultura, la nostra identità (esattamente identità) e i nostri convincimenti – religiosi, filosofici, scientifici, teoretici –giustifichi questa sovrabbondante ostinazione, che spieghi tanta imbecillità, che razionalizzi tanta inutile cattiveria. Mai gli animali arriverebbero a tanto, mai una bestia – anche la più repellente – riuscirebbe a progettare per i suoi simili una vita così disgraziata.

Per quanto tempo ancora penseremo di non dover fare i conti con la nostra coscienza? Per quanto tempo ancora i pifferai di Hamelin ci condurranno come sorci lobotomizzati a buttarci nelle cloache? Per quanto tempo ancora ignoreremo la storia? Quella storia dei regni fondati sul terrore e sulla persecuzione che durano al massimo vent’anni, prima di essere ridotti in cenere.

E poi ci sono gli effetti dei nostri sciagurati comportamenti. Una generazione di falliti – quella che ha costruito il terrore, quella che lo ha accettato e quella che è rimasta indifferente – che è una maledizione per le future generazioni: compromette il futuro dei suoi figli e dei suoi nipoti, trascina nel baratro gli innocenti di cui aveva la responsabilità.

Un giorno quelle generazioni ci chiederanno: padre, madre, dove eravate? Dove eravate quando il Mediterraneo ingoiava decine di migliaia di vite umane? Quando costruivate

muri e abbattevate ponti, quando puntavate il dito contro chi, quelle vite, le voleva salvare? Quando condannavate chi aveva raccolto e accolto migliaia di bambini? Quando imprecavate con la bava alla bocca contro chi curava le ferite di piedi che avevano calpestato migliaia di chilometri prima di arrivare al confine italo-sloveno?13

E ancora ci chiederanno dove eravate quando i vostri governanti vi istigavano a fare di questo pianeta un crogiolo di dolori e non uno spazio di gioia? Dove eravate voi che credevate in Dio? E come guardavate gli occhi del vostro prossimo? Come incrociavate lo sguardo di gente venuta da lontano in cerca di un riparo, di un rifugio? Dove eravate quando ve ne siete fottuti delle lacrime affogate nell’acqua, del dolore stampato sulla terra, delle sofferenze impresse sui volti? Dove eravate, maledetti, che avete inquinato il nostro futuro, le nostre speranze di pace? Che avete spento i sogni, che avete cancellato le speranze, avete rimosso la carità?

Quel tempo arriverà, perché la voce dei vinti bussa alla porta della storia e chiede essere ascoltata. Di raccontare le lacrime, le ferite, i tormenti. Quel tempo arriverà e sarà un tempo che avrà l’odore della fine.

13 Il riferimento è a Lorena Fornasir e a suo marito Gian Andrea Franchi che, con una piccola associazione (Linea d’Ombra odv), assistono da cinque anni le persone migranti nei pressi della stazione di Trieste (cfr. scheda di approfondimento “Riace: la colpa di essere modello” a pp. 53 e ss).

riAce: lA colpA di essere modello

Il modello di accoglienza Riace è stato un esperimento di integrazione innovativo e lungimirante, a lungo osservato ed elogiato in tutto il mondo. Gli ottimi risultati raggiunti sono stati, al tempo stesso, una conquista e una dannazione. Vediamo perché.

Domenico Lucano, detto Mimmo, è stato per quattro mandati sindaco di Riace (piccolo centro del reggino in Calabria) tornando in carica nel 2024 dopo essere stato scagionato da accuse giudiziarie. Durante la sua amministrazione della cittadina calabrese, circa 500 persone migranti (tra rifugiati e emigrati per altri motivi) si sono inseriti stabilmente nel comune jonico vivendo accanto ai 1.800 abitanti originari.

Nel 2010 si è classificato terzo nella World Mayor, un concorso mondiale organizzato da City Mayors Foundation che, a cadenza biennale, stila la classifica dei migliori sindaci del mondo. Nel 2016 è stato inserito tra i leader più influenti del mondo dalla rivista “Fortune”.

La visione prospettica e l’impegno del gruppo che ha lavorato con Mimmo Lucano hanno portato all’ideazione e creazione di un sistema di accoglienza inedito che ha riguardato vari aspetti per così dire collaterali. Il lavoro è stato condotto dopo un’attenta analisi delle condizioni date, in un contesto di abitazioni abbandonate

e di costanti partenze da parte della popolazione autoctona.

Si è così iniziato con la ristrutturazione delle case dismesse e l’impiego dei richiedenti asilo in laboratori artigiani locali al fine di creare le condizioni ideali per permettere: a) Una accoglienza dignitosa; b) Una integrazione tra pari; c) Una trasformazione dei beneficiari da ospiti in cittadini.

In particolare, vediamo alcuni punti salienti:

• Integrazione comunitaria: il modello ha favorito l’integrazione dei migranti nella comunità locale di Riace. Attraverso l’impiego nei laboratori artigiani e la partecipazione a eventi culturali, i migranti hanno avuto l’opportunità di interagire con i residenti e di diventare protagonisti della comunità.

• Ristrutturazione delle case dismesse: le case abbandonate sono state ristrutturate e adibite ad alloggi per i migranti. Questo ha migliorato la qualità della vita per entrambe le parti coinvolte e ha contribuito a ridurre il degrado urbano.

• Sostenibilità economica: l’impiego dei richiedenti asilo nei laboratori artigiani ha creato opportunità di lavoro e ha contribuito all’economia locale. La produzione di tessuti, vetro e confetture ha avuto un impatto positivo sulla sostenibilità economica del comune.

• Visibilità internazionale: il modello Riace ha attirato l’attenzione a livello nazionale e internazionale. È stato considerato un esempio di buone pratiche per l’accoglienza dei migranti e ha ispirato altre comunità a seguire un approccio simile.

In altri termini, il modello Riace ha dimostrato che esiste un sistema di accoglienza totalmente diverso da quello praticato normalmente in Italia ed Europa (che è già improprio definire “sistema di accoglienza”); che le buone prassi e l’integrazione producono non solo inclusione, socializzazione e affinità relazionali tra le comunità straniere e quella autoctona ma anche ricchezza in termini di PIL. Sotto il profilo teorico degli studi economici, questa non è una novità: le analisi economiche di ricercatori di tutto il mondo hanno da tempo dimostrato che il PIL del mondo aumenterebbe potenzialmente del 60/80% in pochi anni se vi fosse la libera circolazione delle persone. Naturalmente, ciò porrebbe questioni di altro genere (sicurezza, insediamenti, convivenza, ecc.) ma lo studio serve a dimostrare come sia possibile trasformare le dinamiche migratorie in opportunità per la stessa società chiamata ad ospitare. E Riace, nel suo piccolo, è stato appunto questo: una sfida alle politiche migratorie messe in atto dai governi occidentali in modo fallimentare che adesso consistono unicamente nella esternalizzazione, nel respingimento, nel contenimento. Si è compreso così che il sistema Riace costituiva un sistema alternativo potenzialmente in grado di

minare una politica che non ha mai avuto a cuore la realizzazione di una società plurale ma che perseguiva ben altri interessi e che aveva fatto della propaganda becera e screditante il suo principale cavallo di battaglia. In altri termini, una questione di approccio: da una parte la paura e l’incapacità di affrontare un fenomeno; dall’altra l’apertura e il coraggio di cogliere nuove sfide.

È così accaduto, dopo la costruzione di un impianto accusatorio teatrale, che il Tribunale di Locri condannasse l’ex sindaco a 13 anni e 2 mesi di reclusione nel 2021; ma la corte di appello di Reggio Calabria, nello scorso gennaio 2024 (quindi più di due anni dopo!), ha ribaltato la pronuncia di primo grado, riconoscendo solo un comportamento illegittimo residuo che ha perso la sua rilevanza penale in seguito alla riforma della giustizia del Ministro Nordio, approvata nello scorso mese di agosto. Anche i tribunali amministrativi, che negli anni si sono pronunciati, non hanno rilevato alcuna responsabilità in capo all’ex sindaco.

Il problema è che, nel frattempo, il modello è stato distrutto e molte persone migranti sono state costrette alla marginalità sociale.

Dal buio del mare ai deserti infuocati, dalle frontiere invalicabili ai sogni infranti, ogni pagina di questo libro racconta l’umanità profonda di chi parte per una vita migliore: corpi senza nome, senza storia, ma con un dolore che ci appartiene.

Cosa faremmo noi se fossimo nati in un luogo dove i missili piovono giorno e notte? Dove la libertà è un miraggio, dove l’amore è un ricordo? Dove una madre deve scegliere se vedere il figlio morire o lasciarlo partire affrontando l’incertezza del mare?

“Non è il mare a uccidere e non è neanche colpa del deserto: perché la vera tragedia non è solo in ciò che accade ma anche in ciò che lasciamo accadere; la responsabilità è da imputare alle politiche che chiudono le porte, ai muri che dividono, alle armi che vendiamo, alle indifferenze che accumuliamo.”

Questo libro è una testimonianza, un grido, un impegno. Si schiera dalla parte degli ultimi, di chi non ha più voce per raccontarsi. Le storie di donne e uomini, madri e padri, figlie e figli che troverete in queste pagine hanno il diritto di essere narrate e noi abbiamo il dovere di raccontarle. Annunciarle. Gridarle. Perché ci sono momenti nella vita in cui “si deve fare ciò che si deve fare”, non per generosità, ma per giustizia. E questo è uno di quei momenti.

Euro 18,00 (I.i.)

ISBN: 979-12-5626-050-8

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