PREMESSA
“Chiamo per conto di un amico, una giovane uccisa si trova vicino allo stabilimento ex Enichem”.
È un giorno di novembre piovoso quello in cui la telefonata, ovviamente anonima e inquietante, giunge al commissariato di Manfredonia. I poliziotti corrono e rinvengono il corpo di una giovinetta con il volto sfigurato e privo di alcuni denti. I jeans abbassati fino alle ginocchia. La ragazzina non aveva le scarpe e indossava una maglia gialla dal collo alto. Le braccia rivolte all’indietro.
Il viottolo dove il corpo è disteso è di terra battuta e procede parallelo alla statale che porta alle spiagge di ciottoli bianchi di Mattinata e alle scogliere dei lidi di quella frazione di Monte Sant’Angelo dal breve nome di “Macchia”.
Un luogo appartato, anche se vicino ci sono masserie frequentate da pecorai.
Resti di biancheria intima, disseminati qua e là sull’erba, ne fanno intuire l’uso e il tipo di gente che lo frequenta quando cala la sera.
Il corpo avrà presto un nome: Giusy. È la figlia quindicenne di Grazia Rignanese e Carlo Potenza, di cui era stata denunciata la scomparsa il giorno prima dai genitori, pazzi di terrore e rabbia. Inizia il giallo più sconcertante che abbia mai vissuto questa terra garganica, già insanguinata da faide e violenze. I suoi figli, però, seppur spesso presi da incomprensibili attacchi di violenza, mai si erano macchiati del sangue di una ragazzina innocente.
In queste pagine è raccontata quella storia.
È un diario-cronaca perché registra i fatti, documenta le vicende, riporta gli atti giudiziari e le testimonianze raccolte
negli interrogatori e nelle fasi processuali; ma registra anche ciò che lo sguardo della donna avvocato, cittadina di Manfredonia, mamma di due ragazze, educatrice scout, non può fare a meno di vedere.
Nella vicenda di Giusy si può entrare in modi diversi. Con la curiosità morbosa dei media o con il legittimo dovere di far luce sulla verità. Con i “lo avevamo sempre detto” della folla anonima e numerosa, sempre presente ad ogni cambio e colpo di scena o con il grido “vendetta e non giustizia” del nonno. Con la rabbia composta ma all’improvviso furente e aggressiva del padre o con il silenzio assordante del suicidio della mamma, ancora più assordante per la morte con lei del bimbo che ha un nome ma non viene al mondo. Con lo sguardo dolce e ammiccante di Michela e il suo prendersi cura, nell’abisso della tragedia, dei capelli di chi le sta accanto: “posso farti i capelli?”.
Io ci sono entrata perché coinvolta come avvocato di parte. La famiglia mi ha dato fiducia, abbandonandosi totalmente a me.
Ci sono entrata al punto tale da capire che la ragione vera da trovare in questa storia non è solo quella della morte di Giusy, ma la ragione per cui si può morire a quindici anni in una città come Manfredonia (ma è solo Manfredonia?) che guarda a se stessa e ai suoi giovani voltando lo sguardo dall’altra parte.
La posizione privilegiata di chi è catapultato in una vicenda drammatica e complessa, tragica nel suo apparire e nel suo evolversi, mi ha permesso di avere uno sguardo più profondo.
Di quello sguardo il libro non priva il lettore, il quale può scegliere, una volta terminata la lettura, di ritenere la vicenda conclusa.
Oppure può ricominciare, pagina dopo pagina, a rileggere la storia e le domande vere che quel corpo trovato di fronte all’orizzonte lasciano aperte.
A queste domande ho dato forma non per futura memoria di Giusy ma per il futuro dei ragazzi che a quindici anni hanno molte domande, molti sogni, molti problemi. Ma non sempre hanno la fortuna di trovare le persone giuste.
CAPITOLO 1
Per diversi giorni le televisioni nazionali e locali avevano utilizzato i loro spazi per annunciare l’orribile morte di Giusy Potenza, ma io, presa come sempre dal mio lavoro e dalla mia famiglia, non ci avevo prestato particolare attenzione. Una mattina, improvvisamente, la signora che governa la mia casa, appena rientrata, mi dice quasi sussurrando: “Ha citofonato stamattina qui il papà di quella povera creatura, gli ho detto di venire nel primo pomeriggio. Non ti muovere, mi raccomando”. Avevano deciso di rivolgersi proprio a me. Urlai a mio marito la notizia, per coinvolgerlo subito, insieme con me, in questo caso, interessante e sofferto.
Essere avvocato penalista, donna, in una città come Manfredonia, nel Sud, potrebbe sembrare difficile. Per mia fortuna, per me era stato sempre troppo facile. Questo caso, però, mi ha cambiata come nessuno dei casi seguiti in venti anni di lavoro.
Carlo arrivò accompagnato dal cognato, alto e biondo. Lui, invece, scuro di carnagione, era vestito di nero, i suoi occhi verdi erano scintillanti e lucidi. Mi chiedevo se fosse il caso di dargli le condoglianze, di rappresentargli il mio disappunto per quello che era accaduto. Il cuore mi batteva forte; mi sentivo incredibilmente inadeguata.
Carlo mi risolse immediatamente il problema, iniziando a parlare speditamente e illustrandomi le motivazioni che lo avevano spinto a rivolgersi ad un legale, precisando la ragione per cui aveva scelto me: “Hanno ucciso mia figlia, la seconda delle mie figlie. Non ho pensato a mettere subito un avvocato perché credevo avrebbero capito subito chi è l’assassino. Si ricorda di me? Mi ha difeso molti anni fa, per quel fatto del tossico che mi aveva rubato a bordo. Molti amici mi hanno parlato bene di lei.
Ho fiducia, mi aiuti!”.
Avrò rapporti solo con lui, gli altri della famiglia mi si sono negati per diverso tempo.
Mi vesto in fretta, di nero? Non saprei! Devo raggiungere il commissariato insieme a lui, inizio le mie indagini parallele. Ho promesso a Carlo: “Prima di Natale sarà arrestato l’assassino”.
Incontro il commissario che si occupa del caso. Ci riceve in una stanza luminosa e ordinata. Mi pare rispecchi il gusto ricercato... di chi la usa.
Il commissario scherza e cerca di tranquillizzare Carlo, assicura che stanno indagando a 360 gradi (come amerà spesso ripetere), ma lo sguardo mi sembra quello di chi non sa che pesci prendere e non sa cosa dire ad un uomo così terribilmente provato.
Nonostante i miei burrascosi precedenti con qualche esponente della PS di Manfredonia, decido di provare ad offrire collaborazione. D’altra parte non ho né mezzi né possibilità per operare da sola. Chiedo di incontrare in privato il commissario per parlare con uno dei ragazzi che fanno parte dell’associazione di cui sono un capo, l’AGESCI. Il ragazzino frequentava Giusy, come tanti altri, e aveva assicurato che poteva dare notizie utili.
Giusy era bella, piccola, appena formata, occhi luminosi, sempre propensa al riso e alla battuta scanzonata. Manesca come poche, non si teneva niente. Metteva tutti al proprio posto senza paura: “Se dimagrisci ti sposo”, promessa e illusione sul telefonino del ragazzo grassottello, troppo innamorato del cibo per appassionarsi a questa promessa. Il commissario cerca in tutti i modi di mettere a suo agio A., che già lo è di per sé, dato che nei suoi sogni c’è quello di fare il carabiniere e sicuramente questa gli appare un’occasione d’oro per mettersi in mostra. Dopo essere rimasti circa un quarto d’ora nella macchina, ci accorgiamo che lui non sa nulla di quel terribile 12 novembre 2004 e, anche se sa, non rivela alcunché sulla vita segreta di questa tormentata e affascinante giovinetta.
Riflettendo, decido che io sì, ho qualcosa di importante da dire. Conosco bene il teste oculare, M., il ragazzo a cui sono state
riferite le ultime parole di Giusy: “Devo andare, mi aspetta un cugino di mio padre”. Quasi un’accusa, precisa e sferzante. Chiedo al commissario se hanno indagato su tutti i parenti. So che Carlo ne ha qualcuno violento. Dice: “Solo io e te Innocenza crediamo alla tesi del parente”. Partono telefonate e disposizioni di indagine su tutti i cugini di Carlo e in particolare interrogatori su come questi abbiano impiegato la giornata del 12 novembre. Traggo un sospiro di sollievo, ritengo che un passo avanti sia stato fatto, e così decido di andare a casa di Carlo per raccontargli gli esiti del mio incontro.
Carlo è a casa dei suoceri, la stanza a pianterreno è gremita di gente in lutto e in lacrime. Il funerale si è già tenuto. Ho negli occhi l’immagine televisiva di Grazia sorretta dai familiari e dal sindaco. Così la riconosco nella sottile figura pallida ed emaciata seduta in un angolo, lontana da tutti.
Carlo mi presenta il suocero, contadino dall’aria robusta, e la suocera, bionda e dolce, nonostante l’età avanzata.
Carlo decide che dobbiamo parlare da soli e conduce me e mio marito in un appartamento, evidentemente disabitato ma arredato lussuosamente, affianco al pianterreno che si raggiunge attraverso una scala. Lucido a specchio nei pavimenti, nei marmi e negli argenti. Ci raggiunge Grazia, che è quasi assente e piange continuamente e per qualche attimo appare Michela, la sorella superstite, quasi disinteressata alla mia presenza che avvia, senza ragione, una lavatrice. Saluta appena e sparisce. In quei pochi attimi non sono riuscita a mettere a fuoco né l’aspetto fisico né quello morale della sorella maggiorenne della piccola assassinata. Carlo, come immaginavo, segue con intelligenza e, anzi, contribuisce descrivendomi tutti i suoi parenti e sottolineando gli stessi miei dubbi su quelli ubriaconi e violenti. Mi saluta fiducioso. Grazia mi mostra la foto di Giusy che mi appare come una ragazzina spiritosa e arguta, di non eccezionale bellezza ma di straordinaria simpatia. Conosco anche il cane di Giusy, piccolo volpino dal pelo biondo furente ed esagitato. In lui confida nonno Matteo, per ritrovare eventuali tracce utili a scoprire l’identità dell’assassino. Mi raccontano,
infatti, che quando sono andati sul luogo dove era stato ritrovato il cadavere, il volpino si era agitato e poi si era fermato dove era stato trovato il corpo di Giusy, guaendo di dolore.
Ci sentiamo messi all’angolo e facciamo ben poco per venirne fuori.Ci adattiamo ad una vita rimpicciolita e costretta a spazi angusti.I progetti vengono accantonati. Forse per quieto vivere o, peggio ancora, perché delusi o scoraggiati, accettiamo di imporci il silenziatore.A volte mi sembra che tra noi si faccia strada una strana deriva nichilista.Non siamo più capaci di rivolta contro forme ipocrite e larvate di male, di rifiuto di un mondo che non ci appartiene. Facciamo nostra l’affermazione di un canto in voga nelle nostre assemblee:lascia che il mondo vada per la sua strada, e ci rifugiamo in comodi alibi che non cambiano la stortura imperante;corriamo il rischio di non saper più condannare come male ciò che mortifica la nostra dignità. Lasciamo che solo pochi, che consideriamo idealisti o illusi, perseguano l’impegno e la lotta che, fuori dall’accettazione di regole e dalla condivisione di comuni interessi, spesso si trasformano in ribellione assurda, mistificante e distruttrice anche di regole certe del vivere sociale.[...]
Guardo alle nostre comunità, guardo alla nostra, alla mia Manfredonia e mi sembra cha abbia indossato i panni di una vedova che ha scelto come abituali e duraturi i panni del lutto.Sembra che per noi si siano ermeticamente chiuse le porte della speranza e della fiducia.Un inedito tirare a campare non può appartenerci.Mi sembra che in questa ora della nostra storia viviamo come tra due mondi: un mondo che muore e un mondo impotente a nascere, perché noi cristiani non ci impegniamo con audacia e con coraggio a fare spazio alla novità del Vangelo che chiede nostre conversioni e novità di presenze che non si impongono con i progetti ma che passano attraverso la testimonianza di una vita nuova.
Omelia pronunciata in cattedrale dall’arcivescovo di Manfredonia, mons.Domenico D’ambrosio, durante la Messa pontificale del 7 febbraio 2006 (tratto da www.manfredonia.net).
Decido che è ora di presentarmi all’autorità giudiziaria che si occupa del caso. Che persona incredibile ed esplosiva è il pubblico ministero dott. Bafundi. Dai modi raffinati ma dalla battuta pronta. Offro la mia collaborazione. Incredibile, l’accetta felice; quante volte ci siamo visti per immaginare, riflettere, ricercare.
Sono certa che M., il teste oculare, deve sapere qualcosa di più della semplice frase riferita per concludere l’incontro; ne conosco le inquietudini e le paure. È il tipico esempio di come i ragazzi di Manfredonia vivano in modo ibrido, sempre altalenanti nelle scelte tra il bene e il male: attratti dal fascino di chi ha deciso di delinquere, ma spaventati da quelle che sarebbero le conseguenze di quella scelta. Penso che M. sia una persona infingarda, ma l’avventura in cui si è coinvolto è talmente particolare e pericolosa che ho accettato e deciso di aiutarlo a crescere. Nel tempo M. cambierà e migliorerà.
Lo convinco, andiamo dal PM Bafundi che, vestito sportivo, fa finta di essere mio amico e di darmi del tu e lo mette a suo agio... mente! Lo porta via al commissariato, non posso più assistere, sono furente. Ma è un bene, senza la mia protezione parla dell’apparizione di una Punto verde in cui sono sedute due ragazze e dietro un uomo. Giusy parla con loro mentre queste mettono in moto; poi M. si allontana e non vede più nulla.
“Mi sono recata alle spalle del predetto negozio, dove ci sono delle scale che portano ad un giardino. Appena scesa le scale ho notato sull’erba l’ombrello di mia figlia”.
Grazia Rignanese
“Non conosco il nome della ragazza, ma nel pomeriggio di ieri, non ricordo l’ora precisa, ma ricordo benissimo che avevamo appena acceso le luci esterne al negozio, quindi sicuramente dopo le ore 17,00 e non dopo le 17,45, notavo una ragazza di circa 15-16 anni che entrava nel mio negozio per acquistare una pila da 100 di cd vergini... Appena acquistata la merce la ragazza si tratteneva sull’uscio del negozio a conversare con un ragazzo della presumibile eta’ di circa 16-17 anni, anch’esso assiduo frequentatore del mio negozio per acquistare ricariche... in un momento in cui rivolgevo l’attenzione verso la merce esposta casualmente udivo la ragazza che proferiva: “No sigarette non ne ho... no c’e’ mio zio che sta aspettandomi in macchina”.
R.Z., negoziante
Si’, notavo di fronte il negozio... dietro le aiuole, una Fiat Punto verde con a bordo... e... e un uomo che non conosco seduto dietro. Mi ricordo che dovevano essere le ore 17,10 o 17,15.
D.T.
Manfredonia - Rione Monticchio
Rapita a forza? Violentata e massacrata da chi? Chi ha inferto il colpo mortale che le ha sfracellato il capo?
Carlo e Grazia in studio: pallidi, occhi gonfi, neri e distrutti. Giusy era uscita così com’era rientrata da scuola, con i capelli legati, la maglia gialla. Niente gel che sempre metteva sui capelli quando usciva con gli amici. Carlo è certo: Giusy era uscita senza appuntamento, all’improvviso, solo su richiesta della madre: occorrevano cd da duplicare, per arrotondare quello che Carlo portava a casa a settimana, quando al porto si faceva il conto.
La casa resta in attesa: il bagno ha il sapone gel sulle pareti da risciacquare, anche la cucina è disegnata da Giusy con strisce blu. Ma solo il giorno dopo, un’altra mano finirà quello che era stato iniziato da una piccola mano, svelta e sottile.
Il nonno mi racconta dopo giorni di silenzio: “Giusy era la più svelta delle nipoti, veniva in campagna con me, raccoglieva i pomodori, ‘5 euro – mi diceva – nonno, devo ricaricare il telefonino’; gliene davo 20, felice, lavorava meglio di un uomo.
In più mi dava il suo sorriso e il luccichio dei suoi occhi neri”. La nonna non ne parla, un unico amore, “Michela” la bionda dagli occhi obliqui, interesse primario negli interrogatori di questa fase delle indagini per il giovane PM, specializzato in reati a sfondo sessuale e in reati a carico di minori, che la interpella con dolcezza chiamandola “tesoro”.
Michela ne è entusiasta. Il dito è puntato su di lei. In televisione Michela, con le extensions bionde, mette un bouquet sulla pietra che ha cancellato il volto della sorella per sempre. Mormora qualcosa; i media affermano: ha detto “perdonami”. La giovane zia cerca in lacrime di trattenerla e sorreggerla.
Il giallo diventa incubo, cosa sa la giovane sorella parrucchiera di meno di 20 anni? Interrogatori fitti. Le amiche di Michela: donne equivoche, violente, sfruttatrici di minorenni in cerca di soldi facili?
Il commissario indaga a 360 gradi e ripeterà di nuovo anche in TV che la ricerca è definita: Giusy baby prostituta. Un mare di cose scritte e dette. Fantasie? Deliri giornalistici o verità?
Uno scaltro giornalista di Verissimo intervista le ragazzine dinanzi alla chiesa il giorno del trigesimo: Giusy aveva paura di una donna e frequentava gente sospetta. Ma il fidanzatino afferma: “Giusy era bella e dolce, non fumava perché a me non piaceva, era pura”.
Non ho presenziato ai funerali ma decido di partecipare alla messa per il trigesimo che si svolgerà presso la chiesa di S. Michele Arcangelo, protettore e difensore dal maligno della nostra terra garganica. Si dice che l’unico angolo della terra che non sarà distrutto il giorno del giudizio universale sarà proprio la grotta dove lui è apparso.
Mamma Grazia in chiesa prende il ragazzino per mano: “Devi rimanere fedele a lei anche dopo la morte”. Gli dà la sua fotografia. Il parroco taglia corto: “Il più piccolo sulla Terra è il più grande nel Regno dei cieli; il più piccolo nel Regno dei Cieli è il più grande sulla Terra”.
Arriva Grazia, è presente nella mente. “Te l’ho detto Grazia, tu devi essere come la Madonna Addolorata”, le dirà il sacer-
dote. Ricordo solo questo. È strano, non ricordo i volti e il dolore degli altri.
Tutto sfuma nella mia mente con la poesia struggente di una lontana parente poetessa che sull’altare legge e dipinge la piccola come un angelo, come un esempio di mitezza e purezza, tra le lacrime che le annebbiano la vista. Sul lato della chiesa un gruppo di ragazzine, “tutte tirate a lucido”, con i capelli biondotinti la guardano impassibili. Improvvisamente sprofondo in un mondo contrastato di colori e sfumature come i sentimenti, indefiniti e indefinibili.
Innocenza Starace, nata a San Giovanni Rotondo nel 1961, vive e lavora a Manfredonia dove esercita la professione di avvocato penalista. Moglie e madre di due figlie che definisce “fate”, è capo scout del gruppo AGESCI di Manfredonia.
ISBN 979-12-5626-046-1
Euro 12,00 (I.i.)