Ci vuole un cuore. Avviare processi e percorsi comunitari creativi e di cambiamento

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Lucia Surano, nata nel 1974 di formazione umanistica, nel corso degli anni si è specializzata in progettazione socio-culturale dei modelli partecipativi e in processi di animazione di comunità. Cura eventi culturali, si occupa di formazione socio-pastorale e culturale, di comunicazione e di ricerca culturale.

In copertina disegno di Fabio Magnasciutti

Euro 14,00 (I.i.)

ISBN 978-88-6153-879-5

CI VUOLE UN CUORE Avviare processi e percorsi comunitari creativi e di cambiamento

CI VUOLE UN CUORE

Quando si parla di “animazione” la mente corre subito all’attività di carattere ludico, sportivo e ricreativo svolte all’interno di una struttura ricettiva da personale dedicato per intrattenere i clienti. Certo, è anche quella. Ma non solo. Il termine “animazione” ha una multiforme sfaccettatura. “L’animazione è quel processo che, infondendo vita, produce cambiamento”, pertanto il fine ultimo di un processo animativo è produrre un cambiamento, cioè fare nuove le cose. Questo vale soprattutto per l’animazione pastorale che ha due specifiche caratteristiche: è culturale ed è comunitaria. La prospettiva infatti in cui si viene a delineare l’intervento di animazione pastorale è la comunità competente, cioè una comunità capace di riconoscere i propri bisogni e di mobilitare e impiegare le risorse necessarie per soddisfarli. Questo testo, unico e primo nel suo approccio, si pone l’obiettivo di stimolare il desiderio che alberga nel cuore e nella mente delle persone, facendo leva sulle esperienze culturali poiché queste stimolano e appagano il bisogno di bellezza. Ogni pagina esorta alla curiosità, affinché l’animazione pastorale delle comunità sia tesa ad animarla e a renderla promotrice di cambiamenti. Questa è in fondo la grande sfida delle logiche pastorali, in questo tempo così nuovo e complesso che spinge a dover adottare nuove pratiche.

Lucia Surano

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CI VUOLE UN CUORE Avviare processi e percorsi comunitari creativi e di cambiamento


Indice

Introduzione .......................................................7 parte descrittiva

Etimologia e storia della parola “animazione”.....11 Significati sociali-culturali-antropologici dell’animazione . ...............................................15 La comunità: concetto e valore . ......................17 L’animazione di comunità ................................21 L’animazione pastorale .....................................25 L’animatore di comunità (profilo culturale).....29 La progettazione degli interventi di animazione di comunità . .....................................................37 appendice al progetto di animazione

Glossario della progettazione ..........................43 parte operativa

Premessa ...........................................................49 La narrazione ....................................................51 Il discernimento comunitario ...........................65 Progettazione partecipata ................................77 Conclusioni . .....................................................83



Introduzione

realizza processi di sensibilizzazione e coinvolgimento; perché sviluppa, con progettualità, nuove prospettive di azione e genera quella trasformazione che porta la comunità cristiana ad essere manifestazione concreta della propria fede e a realizzare il bene comune. Il testo si compone di due parti: una di tipo contenutistico in cui si affronta la pratica dell’animazione a partire dalla radice etimologica della parola; l’altra di tipo operativo che ha come modello di riferimento il brano dei discepoli di Emmaus.

Quando si parla di “animazione” la mente corre subito all’attività di carattere ludico, sportivo e ricreativo svolta all’interno di una struttura ricettiva da personale dedicato per intrattenere i clienti. Certo, è anche quella. Ma non solo. Il termine “animazione” ha una multiforme sfaccettatura. Tenterò, in questo testo, di declinarla nell’accezione riferita all’ambito pastorale, vale a dire al modo in cui la Chiesa si prende cura e coinvolge singoli e comunità in termini di promozione e responsabilizzazione. In particolare, tenterò di declinare l’animazione pastorale in chiave sociale e culturale, perché la promozione comunitaria in chiave culturale è tesa a stimolare lo sviluppo degli individui e dei gruppi, è orientata a sensibilizzarli nei confronti dei propri bisogni ed aspirazioni, e a favorire la comunicazione tra loro per porre in valore le proprie capacità creatrici. Inoltre l’azione culturale è considerata una forma di educazione che favorisce la democratizzazione della cultura e la formazione permanente. L’animazione pastorale presuppone capacità di conoscenza del singolo e della comunità, poiché CI VUOLE UN CUORE

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Parte descrittiva


Etimologia e storia della parola “animazione”

Il termine animazione ha, quindi, in sé la radice del termine anima. I termini con cui l’anima è designata appaiono quasi universalmente collegati con l’idea della respirazione (gr. ψυχή e ϑυμός [cfr. lat. fumus] e πνεῦμα; lat. animus, anima [cfr. gr. ἂνεμος, “vento”] e spiritus; e della mobilità con manifestazioni analoghe che vengono sperimentate come caratteristiche della vita). In particolare il greco ἂνεμος “vento” era concepito come il grande respiro dell’universo. Da un punto di vista culturale, non c’è popolo presso il quale non si trovi la nozione di un elemento “animatore” del corpo. L’animazione, dalla radice anima, si esplicita lessicalmente nel verbo animare, [dal lat. animare, “vivificare, dar vita”, der. di anĭma “anima”]. Ma animare ha anche la forma nell’intransitiva pronominale animarsi, acquistare anima, vita; “sembrava che il profilo del monte stesso si animasse e formicolasse di vita” (Verga). La più antica attestazione scritta è in Cicerone:

Animazióne, voce di origine latina, da animatio -onis, ricavata dal verbo anim-a-re mediante l’aggiunta del suffisso astrattizzante -tio (indoeuropeo -ti-), che forma nomi di azione. In senso proprio animatio, -onis si può dunque definire come actio animandi seu vivificandi1. Alla base sta infatti il sostantivo “anima”, propriamente “alito, respiro”, poi “principio di vita”, “anima”. I primi autori usano la parola secondo una valenza ancora concreta, riferendosi all’atto creativo divino di immissione dell’alito (della vita) negli animali o, per estensione, in altri corpi un tempo creduti animati. Il termine animale è anch’esso derivato dalla medesima radice e significa “respirante”, “vivente”. Afferma infatti Macrobio che con “la morte l’anima del vivente verrà allontanata” (Somnium Scipionis 2, 12, 18). 1. Atto di animare o di dare vita.

Erant autem animantium genera quattuor: quorum unum divinum atque caeleste, alterum pennigerum et aerium, tertium aquatile, terrestre quartum. Divinae animationis maxime speciem faciebat ex igne2. (Timaeus 35)

cioè i corpi celesti animati da mente divina. L’azione essenzialmente divina di dotare di soffio e di movimento gli esseri viventi ha già subito una dilatazione semantica, fino ad abbracciare l’intera creazione. Sant’Agostino sembra essere stato il primo ad aver usato la voce nel senso pedagogico di “risveglio dell’interesse” nell’uditore o nell’alunno per facilitare l’insegnamento. Primus actus docendi 2. C’erano tuttavia quattro gruppi di esseri viventi: uno dei quali divino e celeste, l’altro dotato di penne e dell’aria, il terzo acquatico, il quarto terrestre. Il Dio creatore ha creato la specie con la più ispirazione divina dal fuoco.

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causa dicatur animatio3 (De quantitate animae 35, 79). Tale sviluppo si interrompe con lui, per riapparire soltanto dopo secoli. Ma l’impiego in senso figurato ha sospinto il contenuto della parola verso un ventaglio di altri valori traslati, che andranno di mano in mano sviluppandosi col procedere delle conoscenze e con l’evolversi delle attività umane. Da quanto si ricava dal percorso fin qui riportato, la voce animatio, pur mantenendo un proprio itinerario costantemente inciso nella lingua, è rimasta piuttosto relegata al linguaggio settoriale della filosofia e della teologia o delle iniziative culturali con quelle connesse. Nel latino medioevale il sostantivo è continuato pressoché con le stesse valenze ereditate dal periodo anteriore. San Tommaso (Summa theologica 3, qu. 27 ad 2) apporta una distinzione tra creazione, che necessariamente precede, e animazione o “azione di infondere l’anima”. All’interno della lingua italiana, il processo semantico sembra ripetersi. Nelle fasi più antiche l’unico valore che si affaccia è sempre quello originario, concreto, legato alla creazione e all’infusione dell’alito divino negli esseri viventi. La prima testimonianza scritta di animazione nella nostra lingua ci è fornita dall’abate Isaac (verso la metà del sec. XIV) nel contesto religioso della creazione dell’uomo, e quindi con il valore tecnico di “infusione dell’anima, trasmissione della vita”.

Dirà ancora (Vico) che la poesia ha per suo fine l’animazione dell’animato, essendo il più sublime lavoro di essa indirizzato a dare vita e senso alle cose insensate. (La filosofia di Giambattista Vico, Bari 1911, p. 54)

Per sviluppi spontanei di tale senso traslato si giunse alle accezioni più generiche di “infusione di vitalità, di calore”, “movimento pieno di vita”, “vistosa e rumorosa vivacità”, “intenso movimento di folla”, “affollamento vivace”; “slancio dell’animo, entusiasmo”, “concitazione, eccitazione”4.

Viene rimarcata la distinzione tomista tra creazione (plasmazione) dell’uomo e animazione. Ancora nel Dizionario della lingua italiana di Ni-

Pur essendo rimasta sempre viva nella lingua italiana, almeno in uno spicchio dotto di essa, la parola animazione ha ricevuto un nuovo impulso verso la fine del secolo scorso, quando alcuni nostri autori l’hanno rivisitata semanticamente, caricandola dei valori riscontrati nella parallela formazione francese animation (GDLI, vol. 1, p. 484; Cortelazzo-Zolli, vol. 1, p. 56). A partire dal 1972 si inizia a definire animation anche “il metodo di condurre un gruppo, per favorire l’integrazione e la partecipazione dei membri alla vita

3. La prima azione dell’insegnamento si dice causa dell’animazione.

4. Prima attestazione in D’Annunzio, 1892; cfr. Devoto-Oli, vol. 1, p. 131.

E siccome la plasmazione è prima che l’animazione, così l’opere corporali sono prima che l’operazione dell’anima. (Collazione dell’Abate Isaac recata alla sua vera lezione, Roma 1845, p. 111)

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colò Tommaseo (1861) si legge: “Tant’è a l’Onnipotente l’animazione d’un insetto, quanto di milioni di miriadi d’universi”. Soltanto molto tempo più tardi il termine animazione incomincia di nuovo, quasi improvvisamente, a dilatare la propria sfera semantica, arricchendosi di colorazioni traslate, che in parte già possedeva nel tempo antico, ma che si erano perdute, almeno nei loro riverberi di superficie. Benedetto Croce, sviluppando un concetto della propria estetica, evoca la parola nel valore metaforico di “infusione di anima, di vita, di significato” in un corpo morto e inerte, per virtù dell’arte poetica.

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collettiva” (dinamica di gruppo). In molti Paesi africani francofoni il significato si è ulteriormente specializzato nell’accezione sociologica di “organizzazione d’attività collettive (come canti, danze, ecc.), destinate a sensibilizzare le masse all’ideologia e alla politica di un regime o di un partito” (groupe d’animation5). Il grande Lessico etimologico italiano diretto da Max Pfister rileva tre successive stratificazioni riscontrate nella storia della parola animazione. Riportiamo qui il capoverso, pregevole per la sua stringatezza e la sua precisione: “Vocabolo dotto dal lat. animatio, corrispondente al francese medio animation ‘ira’6, catalano animació ‘atto del dare la vita’, spagnolo animación, portoghese animação7”. Sono distinti i due significati già latini, quello proprio “principio della vita” (Cicerone, cfr. TLL), e quello traslato “ardore, animosità” (Itala, Tertulliano): in quest’ultima accezione le forme italiane risalgono al francese animation “vivacità del sentimento”8, “vivacità, ardore con cui si fa qualcosa”9. In Inghilterra il termine è penetrato dalla Francia nel sec. XVI, mentre il corrispondente verbo animate era stato accolto già un secolo prima. Le tre lingue prese in esame, italiano, francese e inglese, non hanno trovato ostacolo a un’osmosi reciproca nella trasmissione dei contenuti di animazione/animation, data l’antica radicazione, anche se differenziata, del vocabolo nelle rispettive tradizioni. Dal punto di vista del registro, si osserva ora un abbassamento a livello anche popolare di un vocabolo rimasto per secoli piuttosto ancorato al linguaggio dotto. Il Dizionario di parole nuove (1964-1984) di M. Cortelazzo e U. Cardinale 5. Cfr. Graves R., I miti greci, p. 381. 6. 1468 circa, Chastell, Trésor de la langue française [TLF], Paris 1971 ss., vol. 3, p. 42b. 7. Dal sec. XVI, Machado G.P., Dicionario etimológico da lingua portuguesa, Lisboa 1977, vol. 1, p. 259. 8. Dal 1800 circa, mot nouveau Prince de Ligne; W. von Wartburg, Französisches etymologisches Wörterbuch, Bonn 1922 ss., vol. 24, p. 597a. 9. Dal 1845, LEI 2.1, p. 1359.

(1986) riporta il termine animazione quale neologismo, definendone il contenuto come “attività dell’animatore (nel senso qui inteso, anch’esso neologismo) che richiama alla partecipazione attiva i componenti di un gruppo culturale, ricreativo, o simile” (A. Arbasino, dal 1977). Il “Corriere della Sera” del 13 febbraio 1983 si esprime con giudizio ancora pesantemente negativo nei confronti dell’accatto semantico: “Con uno di quei nomacci inventati nei nostri anni, si chiama animazione”. E l’animatore, oltre che “l’autore dei disegni animati”, è tanto “la persona che presenta uno spettacolo radiotelevisivo coinvolgendovi gli spettatori”, quanto “la persona che opera per facilitare il compito o il divertimento di un gruppo di studio, di lavoro, o semplicemente attività ricreative”10. In forma provvisoria, inizialmente, per il primo significato si era accolto il crudo anglismo americano cartoonist (p. 38). Animazione è voce presente da sempre nel nostro patrimonio linguistico e perfettamente acclimatata in esso dal punto di vista della sua struttura, anche se soggetta per l’intera parabola del suo sviluppo alle restrizioni accennate. Alla luce di questo excursus relativo all’etimologia, alla radice semantica e alla storia della parola, tentiamo una definizione di base: l’animazione è quel processo che, infondendo vita, produce cambiamento. E qui compaiono altri due lemmi: processo e cambiamento. Processo (dal lat. processus -us, propr. “avanzamento, progresso”, participio passato di procedĕre “procedere”; equivalente del gr. ἀπόϕυσις). Letteralmente quindi processo è avanzamento, progresso, nel significato di serie di atti, di fatti, di operazioni in successione tra loro. Cambiamento, per definizione è lo status che consente a ciascuno di leggere se stesso in altra 10. Cortelazzo-Cardinale, 1986, pp. 11-12.

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maniera. “L’intelligenza è la capacità di adattarsi al cambiamento”, diceva Stephen Hawking. Cambiare. Che parola incredibile. Fa riferimento al verbo che deriva dal tardo latino cambiare nel senso di mutare (in latino, infatti il verbo cambiare è muto, mūtas, mutavi, mutatum, mūtāre) e che a sua volta proviene da una parola di origine gallica, derivata dal greco kambein che significava “curvare”, “girare intorno”. Il cambiamento, infatti, coinvolge proprio il saper “curvare”, nel senso di essere elastici, di fare curve laddove necessario: disegnarle, percorrerle, essere noi stessi sinuose curve pronte a ridisegnare strade un tempo irte di rigidi rettilinei. Il verbo cambiare è un verbo sia transitivo che intransitivo, quindi l’azione del cambiamento è rivolta sia verso l’esterno (transita dal soggetto che lo propone al soggetto che lo riceve) che verso l’interno (l’azione del cambiamento non passa direttamente dal soggetto all’oggetto, ma si esaurisce nel soggetto). Quindi il cambiamento prodotto da un processo di animazione riguarda tanto il soggetto quanto il destinatario esterno. Due prime definizioni storiche sono invece le seguenti: GUIDO CONTESSA 1983 (Animazione sociale) L’animazione è una pratica sociale finalizzata alla presa di coscienza e allo sviluppo del patrimonio represso, rimosso e latente di individui, piccoli gruppi e comunità. DON ALDO ELLENA 1997 (Gruppo di lavoro nazionale sull’animazione, Torino) L’animazione è una pratica sociale finalizzata al cambiamento attraverso la partecipazione, con due funzioni: la presa di coscienza dei dinamismi interni del nostro agire e il potenziamento del tessuto connettivo sociale.

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Significati sociali-culturaliantropologici dell’animazione

Negli anni Cinquanta alcuni esponenti del socialismo umanitario promossero esperienze di animazione sociale allo scopo di affrontare i problemi connessi allo sviluppo sociale, culturale ed educativo di intere fasce di popolazione marginali o in condizioni di fragilità sociale e culturale. Successivamente l’animazione sociale ha assorbito gli umori culturali, le spinte al cambiamento, le tensioni sociali e politiche della contestazione studentesca e sociale degli anni Sessanta e ha esteso alla società complessiva quanto veniva sperimentato nella scuola: in particolare l’animazione nel territorio ha cercato di favorire lo sviluppo di modi nuovi di comunicare e vivere le relazioni sociali, e il protagonismo delle persone: sono state così riprese le tematiche della partecipazione attiva, della crea-

tività applicata al sociale, del non autoritarismo. L’animazione sociale ha però attinto anche: •

dalla tradizione orientale, molto esplorata negli anni ’60-’70, la ricerca di dimensioni contemplative e ludiche contrapposte alle spinte verso il produttivismo; dal movimento femminista il valore della riscoperta e la riappropriazione del corpo, delle emozioni e dei sentimenti. Da questo primo periodo di vita dell’animazione sono andate evidenziandosi due prime prospettive centrali per l’animazione sociale: – l’animazione, come metodo di intervento sul gruppo e sulla singola persona nel gruppo, produceva risultati significativi non soltanto sul piano della socializzazione e della stimolazione di capacità, ma anche per la formazione della personalità e per il superamento di alcuni condizionamenti; – l’animazione si andava profilando come una metodologia che basava la sua efficacia su alcune esigenze e dimensioni così radicate nell’individuo da dimostrarsi valide e coinvolgenti in qualunque condizione. Per questo, l’animazione svolge un ruolo fondamentale nei processi d’individuazione, lettura, analisi dei bisogni/desideri e nell’attivazione di percorsi in cui persone e organizzazioni possano riconoscersi e valorizzare il proprio potere d’azione in relazione a se stesse e al proprio contesto di vita, riscoprendo significati e prospettive dell’azione collettiva.

Essa contribuisce allo sviluppo delle competenze sociali e, allo stesso tempo, lavora al loro potenziamento sia a livello individuale che collettivo. Da un punto di vista sociale la sua finalità è, da un lato, quella del sostegno alle comunità nella riappropriazione della propria soggettualità sociale e politica e, dall’altro lato, lo sviluppo dei processi CI VUOLE UN CUORE

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di partecipazione e di autogestione tra i membri delle stesse comunità locali. Ma l’animazione gioca anche un importante ruolo culturale poiché è essenzialmente uno stile di vita, cioè un modo di vivere e di affrontare la vita e che riconosce alla dimensione della cultura la costruzione della singola identità e di quella storico-sociale e quindi collettiva dei soggetti di una comunità. Se con il termine cultura, originato dal latino colere, ovvero coltivare, intendiamo il processo capace di “coltivare” nell’uomo le doti spirituali e intellettuali, allora l’animazione ha una valenza fortemente culturale perché favorisce la presa di coscienza delle identità collettive, permette alle comunità di interesse di rappresentare meglio il loro ruolo e di costruire dei progetti per agire. L’animazione, allora, non ha solo valenza culturale: è un processo culturale. La cultura è un immane corpo in continuo movimento e in costante evoluzione, quindi è un “processo”, vale a dire un complesso di cambiamenti che si succedono e si accavallano seguendo il mutamento storico. È, come scrivono A. Benozzo e C. Piccardo un processo dinamico di costruzione, ricostruzione e distruzione di significati, processo realizzato attraverso azioni e decisioni individuali e collettive definite sulla base di uno scambio continuo intersoggettivo tra gli attori.

Ed è in questa dinamica culturale che l’animazione è un’antropologia, perché la sua funzione è la cura per l’uomo e per la sua vita. È un modo di pensare all’uomo e ai suoi dinamismi, ai processi in cui si gioca la sua maturazione. L’orizzonte di senso della funzione antropologica rimanda alla speranza come senso fondamentale dell’agire umano. E dunque, l’animazione aiuta a costruire ponti di dialogo per l’edificazione delle comunità. Coniugando antropologia e cultura, osando uno slancio culturale, si può affermare che l’animazione è “antropologia culturale”. La “cultura antropologicamente intesa” non è riducibile al solo bagaglio di conoscenze che si ac-

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quisiscono attraverso il processo di apprendimento formale, ma a processi di nascita, crescita, trasformazione e circolazione dei fatti culturali; la vita di una cultura che, appunto, non rimane mai “ferma”: è animata e a sua volta anima. Alla luce di queste considerazioni ne deriva anche una riflessione di tipo pedagogico: l’animazione è una pratica educativa. In quanto pratica educativa si possono riconoscere quattro filoni: attivismo, promozione sociale, alternativa sociale, cultura e tempo libero. Dall’intreccio di queste radici hanno preso forma i diversi “modelli di animazione”. Al di là della diversità dei modelli, il metodo animativo trova la sua ragione d’essere in alcune dimensioni antropologiche (la sensibilità, l’intersoggettività, l’espressività) che ne costituiscono i punti di riferimento e i significati portanti. In stretta connessione con questi significati il metodo animativo presenta una propria struttura dinamica riconducibile ad una trama esistenziale e ad un duplice movimento dell’animatore verso l’esterno e verso se stesso. In questo “movimento” l’animazione prende forma attraverso il far sentire, il far partecipare e il far esprimere. Queste operazioni possono essere “promosse ed attuate” attraverso diverse strade. Si possono avere perciò metodi e tecniche sull’espressività, altre sulla partecipazione, altre sulla sensibilità. Tali metodi, però, accrescono la loro capacità animativa nella misura in cui tengono insieme tutte e tre le dimensioni. Infine è importante mettere in luce come il metodo animativo nel suo concreto realizzarsi chieda di essere sostenuto da una razionalità “dialogica”. Si tratta infatti di passare da una logica lineare ad una logica “combinatoria”, da una logica meramente previsionale ad una logica di apertura, dall’esecuzione alla co-costruzione. In quanto metodo culturale, il verbo che connatura l’animazione è “ducere”, ma non nell’accezione del comandare, quanto del “tirare verso”.



Parte operativa


Premessa

Questi passaggi caratterizzano l’azione animativa come cammino fondato su tre dinamiche: 1. racconto 2. discernimento 3. progettualità

Il modello di riferimento per declinare ed attuare operativamente l’animazione della comunità che prendiamo a riferimento è il brano dei discepoli di Emmaus. L’analisi narrativa del testo, ci pone dinanzi a sei passaggi: 1. dall’estraneità al mettersi accanto “Gesù si avvicinò e camminava con loro…” 2. dal mettersi accanto al risveglio della coscienza “E cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro ciò che si riferiva a lui” 3. dal risveglio al rimanere per osservare “Ma essi insistettero: ‘Resta con noi…’” 4. dal rimanere al gesto che apre gli occhi “Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione… Allora si aprirono loro gli occhi…” 5. dall’aprire gli occhi al discernimento “Ma egli sparì dalla loro vista. Ed essi dissero ‘Non ardeva forse in noi il nostro cuore…’” 6. dal discernimento all’azione e testimonianza “Partirono senza indugio… e narrarono ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto”

In principio vi è però la relazione, se non c’è l’incontro con l’altro non ci possono essere dinamiche di animazione, cioè di “processi che infondono vita e producono cambiamento”. Gesù si mette accanto e racconta, narra e la narrazione porta al discernimento, il discernimento alla progettualità. Racconto, discernimento e progettualità possono essere tre metodi di animazione pastorale della comunità in chiave socio-culturale. Saranno così declinati: 1. narrazione 2. discernimento comunitario 3. progettazione partecipata

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La narrazione

La narrazione è un concetto trasversale all’oralità e alla scrittura; sia le civiltà alfabetiche che quelle illetterate ne hanno avuto forme più o meno sviluppate. La narrazione è in un certo senso connaturata all’uomo: non si ha testimonianza di civiltà che non abbiano utilizzato la narrazione. Essa traversa le culture, le epoche, i luoghi, è presente da sempre e forse, sarà sempre presente; si potrebbe dire che con il nascere della socialità, della relazione interumana è nata la narrazione ed insieme alla relazionalità stessa è l’unico elemento da sempre presente. Narrare necesse est. Abbiamo tutti bisogno di raccontare. “È sempre stato così ed è ancora così. Poiché noi esseri umani siamo le nostre storie e le storie hanno bisogno di essere raccontate.” Lo insegnava Odo Marquard, figura tra le più autorevoli nello studio della sensibilità estetica contemporanea. Le attività umane che prevedono l’uso delle storie sono infinite e ogni volta che narriamo una storia entrano in gioco tante parti di noi. Siamo, letteralmente, fatti di storie. Siamo, insomma, un capitale narrativo, cioè la somma dei contenuti che fanno di noi ciò che siamo, orientando il nostro vissuto di vita o di lavo-

ro, tanto da renderlo condivisibile con gli altri e accettato dagli altri. Il racconto, come tecnica espressiva di sé è l’elemento che permette di coinvolgere, costruire identità e relazioni. Con particolare raffinatezza Annamaria Iacuele Leonardi18 racconta la storia dell’evento narrativo e il suo significato: L’arte del narrare ha avuto in passato un ruolo fondamentale in tutte le culture e ancora oggi lo conserva nelle culture tradizionali sopravvissute ad un rapido processo di conversione tecnologica. In tempi antichi, non dominati dai miti dell’efficienza e della produttività propri della cultura tecnologica, ogni popolo conosceva una pluralità di linguaggi di grande spessore semantico e usava differenti modalità espressive a seconda del luogo, del tempo, della situazione o a seconda del referente della comunicazione o dell’argomento che doveva esserne l’oggetto. Ogni situazione, ogni contesto, ogni argomento richiedeva uno stile, un vocabolario, una modalità d’espressione, un’intonazione particolare. L’arte della retorica (cioè l’arte del dire) era considerata fino a qualche decennio fa, anche nella nostra cultura, erede della cultura classica […], indispensabile bagaglio di ogni uomo colto. In Grecia il narratore, l’aedo, era figura particolarmente venerata ed a lui era affidata la memoria del popolo, della sua storia, dei suoi valori, della sua tradizione, della sua areté (valore). Per i Greci l’areté (che i latini chiamavano virtus, cioè la dote propria di un uomo) consisteva nella capacità dell’uomo di vincere la battaglia con se stesso, con il male, con l’errore, con i nemici e doveva portare alla kalokagathia (realizzazione ad un tempo del bene e della bellezza) [...]. Un ricordo di questa antica, sacra arte del narrare permane ancora oggi, con tutto il suo incanto e la sua sacralità, nella narrazione di un mito (dal greco mythos, parola) o di una favola.

18. Psicoterapeuta e psicoantropologa, studiosa di ermeneutica e simbologia è stata docente e didatta della Scuola di Psicoterapia Interpersonale e Gruppo analisi SPIGA. Ha diretto dalla fondazione il Centro Studi Mythos e dal 1992 la rivista on line “Il filo di Ápoton”.

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La narrazione è stata lo strumento principe della costruzione e della trasmissione del sapere. “Coinvolgere” è la parola chiave, dunque. Attraverso il coinvolgimento si può attivare un capitale di storie che gettano ponti tra soggetti. A quale cultura appartiene la narrazione? La narrazione appartiene alla cultura dei valori umani. Essa tesse la sua ragnatela tra gli individui e li fa connettere, li fa crescere, li matura e li mette nelle condizioni di provare benessere immateriale. La struttura narrativa nell’esperienza umana si configura attraverso l’elaborazione di intrecci. È attraverso gli intrecci – e dunque entrando in una narrazione – che l’esperienza temporale dell’essere umano può acquistare un significato. In altri termini, con i racconti di cui diveniamo capaci variano le configurazioni che possiamo riconoscere nell’esperienza, riposizionandoci di conseguenza rispetto al passato e al futuro. Le narrazioni permettono inoltre di esplorare l’infinità dei significati possibili di un’azione, delle variabili connessioni che si possono istituire tra antecedenti, coincidenze, conseguenze e implicazioni: ecco anche perché c’è un nesso tra il narrare e il conoscere. E, cosa molto importante, la narrazione costruisce la storia, cioè la traccia del passaggio di qualcosa o qualcuno in un determinato tempo. Infatti narrare e narrazione discendono da precedenti latini che includono gnarus (esperto, conoscitore) e narro (racconto), i quali trovano a loro volta corrispondenze nella lingua greca (verbo gignosko, “conosco”) e rimandano ad una radice sanscrita (gnâ), che contiene in sé l’idea del “conoscere”. Dunque il significato etimologico del verbo è “far conoscere raccontando”. Il processo di costruzione e definizione dell’identità narrativa è anche una delle sfide dell’animazione. L’animatore, cavalcando l’onda dei mutamenti socioculturali, è investito di un ruolo significativo: colui che narra. Ma non si narra solo con le parole, si narra anche attraverso le immagini.

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La Vocazione di san Matteo di Caravaggio è un esempio di narrazione attraverso le immagini. In quest’opera Caravaggio oltre che con le immagini narra anche con la luce. Un raggio di luce attraversa tutto il dipinto, una luce netta, pura, determinata, come una spada taglia la materia in due [...] per la prima volta, vedevo raffigurati in pittura dei concetti così forti, il Bene e il Male, l’umano e il divino, il cosciente e l’inconscio. [...] Il raggio di luce che taglia la composizione è come sovrapposto, non è reale, ma ha la forza di un simbolo. È così che, infatti, Caravaggio decide di visualizzare il rapporto col divino, tramite la luce. E attraverso la luce attua una separazione netta: divide il mondo umano dal divino, il Bene dal Male, il passato dal futuro, il cosciente dall’inconscio. (Vittorio Storaro, Luce e ombra nell’opera di Caravaggio)

Potenza delle immagini! La lettura di questa opera ci svela cosa sia il narrare, l’offrire un intero mondo di percezioni, valori, complicità affidandoci ad un impareggiabile contrasto luce/ombra. In quest’opera Caravaggio costruisce lo spazio usando due piani: uno vuoto, quello superiore, attraversato solo da un fascio di luce; l’altro, quello inferiore, popolato di personaggi. Lo spazio tuttavia viene concepito come poco profondo, infatti la scena si sviluppa da destra a sinistra seguendo la mano indicante di Gesù e i personaggi disegnano un movimento centripeto. Lo spazio è talmente poco profondo che la dimensione più importante sembra essere proprio quella del tempo, a discapito appunto della dimensione dello spazio. Ma quale tempo? Il tempo di un’istantanea. A dirla con i greci, il tempo dell’aoristo. Nella lingua greca, infatti, l’aoristo è il tempo che caratterizza l’azione in sé e per sé, colta nel momento in cui si svolge, nel punto (ossia nel momento istantaneo) in cui essa avviene. Perciò si presta a essere impiegato nella narrazione. “Seguimi”, leggiamo nel Vangelo. Diretto. Istantaneo.


Narrare non è semplicemente raccontare. Narrare non significa mai solo raccontare una storia. Narrare significa raccontare un mondo, attraverso una storia e attraverso una storia raccontare un luogo, una società o una singola persona. Da questa complessità ha origine il bisogno di narrare, caratteristica profondamente umana, che riscopriamo ogni volta in maniera diversa. Dunque il racconto è l’oggetto, è ciò che il narrare crea. E narrare, che non è solo mettere in fila fatti e informazioni, significa prima di tutto trasmettere uno sguardo sul mondo e un’esperienza. Tutto ciò fa Caravaggio nella Vocazione di san Matteo: attraverso la storia e l’esperienza di Matteo narra, con la suggestione della luce, il collegamento tra i due mondi: quello terreno e quello divino. La luce invade tutti ma solo Matteo si accorge della chiamata. Con una mano conta le monete, con l’altra si indica: è l’esatto momento in cui deve decidere da che parte stare. Deve scegliere tra materiale e immateriale, tra bene e male, tra giusto e sbagliato. È questa la straordinaria grandezza di Caravaggio: la sua capacità di saper raccontare una storia, perché dietro ogni particolare si cela un messaggio. Scrive Umberto Eco: passeggiare in un mondo narrativo ha la stessa funzione che riveste il gioco per un bambino. I bambini giocano con bambole, cavallucci di legno o aquiloni, per familiarizzarsi con le leggi fisiche e con le azioni che un giorno dovranno compiere sul serio. Parimenti, leggere racconti significa fare un gioco attraverso il quale si impara a dar senso all’immensità delle cose che sono accadute, accadono e accadranno nel mondo reale.

Passeggiare nella narrazione. Ecco cos’è il processo narrativo: è un viaggio dentro se stessi, è una modalità per conoscere perché si caratterizza per il fatto di coinvolgere fortemente la dimensione affettiva e motivazionale.

Nel saggio Narrare il conoscere Donata Fabbri delinea una significativa e strutturale analogia tra la formazione e l’approccio narrativo, sottolineando come la formazione, procedendo come storia, per cicli e ritmi, generi una serie di trasformazioni che per dispiegarsi, per realizzarsi, necessiti di parole e di narrazioni. Pertanto la formazione, come la narrazione, valorizza il ruolo della parola e del linguaggio credendo che esso restituisca qualcosa di autentico per chi lo utilizza o per chi lo raccoglie. “In principio è il racconto” l’affermazione di Paul Ricouer (1985), filosofo al quale Bruner si è ispirato, sta a significare che il raccontare accompagna l’uomo fin dalle sue origini; è il contenitore che dà forma alle sue esperienze vissute. La narrazione di sé impone a chi la realizza il confronto con la propria identità e vede se stesso attivo sulla scena (della sua esistenza). Tale processo narrativo dell’io è, poi, in realtà, un processo formativo, un cammino di formazione che il soggetto compie in se stesso e da se stesso: un processo di autoformazione. Il processo è formativo poiché nel narrarsi, il soggetto si fa carico e si prende cura di se stesso. Ma è formativo anche perché pone, a se stesso, il problema della propria forma, della propria struttura/identità/ specificità e la pone come struttura in itinere e aperta nel proprio definirsi e ridefinirsi. “Molte aree del sapere guardano alla biografia come ad uno strumento efficace” (Schettini, 2000, p. 183), inizialmente, infatti, la narrazione autobiografica, veniva considerata unicamente come un genere letterario, oggi viene vista al di fuori di questo limite, essendo entrata di diritto nell’educazione e nella formazione. Oggi, quindi, con la parola autobiografia non si identifica più solo il genere letterario, ma si fa riferimento ad una metodologia che utilizza strategie e pratiche destinate alla “cura” di sé e degli altri, in contesti diversi: scolastici ed extrascola-

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stici, professionali, medici, ecc. Una pluralità di programmi all’interno dei quali la formazione autobiografica caratterizza sempre più quelle ricerche riguardanti aspetti di natura socio-cognitiva, motivazionale, trasformativa. La memoria autobiografica ci permette d’instaurare dei forti legami con i processi di costruzione dell’identità personale, soprattutto grazie alla sua capacità di servirsi degli eventi del passato per costruire il senso dell’esperienza soggettiva nel presente. Il raccontarsi rappresenta un momento di aiuto, una risorsa per ricomporre la propria esistenza, per comprendere quei bisogni ancora inespressi e quei desideri spesso soffocati. Duccio Demetrio (1996) è fra gli autori che da vari anni porta avanti l’idea del valore formativo dell’autobiografia. Egli vede l’autobiografia come una forma di “ginnastica mentale”, in quanto essa obbliga il nostro cervello ad analizzare, smontare e rimontare, classificare e ordinare, a collegare, a mettere in sequenza cronologica (Demetrio, 1996, p. 192). L’atto autobiografico è, quindi, inevitabilmente formativo, proprio perché dopo aver esposto una narrazione su se stesso, ciascun soggetto non è più quello di prima, in quanto nell’atto di raccontarsi ha ridefinito i rapporti con il sé intrapersonale da una parte e con quello interpersonale dall’altra. Del resto ogni autobiografia viene scritta proprio “perché l’autore aveva bisogno di attribuirsi un significato, anzi ben più di uno e presentarsi al mondo” (Demetrio). Gli strumenti della narrazione autobiografica, allora, si fanno veri e propri strumenti di formazione, attivano un processo di formazione che mette al centro il lavoro dell’interpretazione e quindi un iter logico/cognitivo che rimette costantemente e reciprocamente a fuoco soggetto e oggetto (io e vissuto), incardinandoli in un processo di scambio e proiezioni reciproche, il quale trasforma l’io e il vissuto, ma rende possibile la costruzione del proprio sé.

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Ed è questa la straordinaria grandezza della narrazione soprattutto quando il narrare è narrar-si cioè narrare di sé a se stessi o all’altro. Mentre raccontiamo le nostre esperienze, intreccio di punti di vista diversi e di diversi personaggi, diversi principi, altalenante giostra di incontri/ scontri, impariamo a renderci conto della molteplicità dei punti di vista, a nutrire convinta consapevolezza della legittima validità del nostro modo di osservare quanto di quello altrui; impariamo a metterci nei panni dell’altro, a comprendere le sue emozioni oltre che le nostre. Narrare e narrar-si è tutto questo e molto di più: è capacitarsi di quanto sia grande la complessità del nostro mondo e di come attraverso il racconto rinasciamo a nuova vita. Propongo di seguito uno strumento narrativo di animazione della comunità: la “Biblioteca Vivente”. La Biblioteca Vivente nasce a Copenhagen nella primavera del 2000 in seguito ad un grave atto di violenza. I fratelli Ronni e Dany Abergel danno vita alla Menneskebiblioteket: un evento in cui per quattro giorni di fila i “lettori” hanno a disposizione 50 titoli da ascoltare. I titoli però sono persone in carne e ossa, tutte volontarie, e spesso rappresentano minoranze o gruppi stigmatizzati. Essa infatti si caratterizza come esperienza di dialogo interculturale che favorisce la conoscenza di realtà di vita diverse dalla propria. Consente di sperimentare sulla propria pelle il superamento del pregiudizio nei confronti del “diverso da sé”, contribuendo a creare una cultura più aperta e disponibile al dialogo, che non discrimini le persone in base al paese di provenienza, alla religione, alle convinzioni personali, al genere, all’orientamento sessuale, all’età o alla condizione di disabilità. Più di mille persone partecipano alla manifestazione che pone le basi della “Human Library Organization”. La Biblioteca Vivente funziona come qualsiasi biblioteca: ci sono i libri da prendere in prestito, il


catalogo dei libri disponibili, i bibliotecari, una sala lettura con sedie e tavoli per la consultazione e infine lettori e lettrici. I libri, come detto, sono persone in carne e ossa che si assegnano un titolo a partire da un aspetto della propria identità e della propria esperienza di vita, che spesso le ha portate e le porta a essere vittime di pregiudizi e discriminazioni. Ogni lettore può prenotare un libro a scelta dal catalogo per una conversazione di circa mezz’ora, durante la quale i libri raccontano la propria esperienza di vita anche rispondendo alle domande poste dai lettori. La Biblioteca Vivente si presenta, a mio avviso, come un modello di narrazione utile e innovativo per costruire e animare comunità. In Danimarca nasce in seguito ad un evento ben preciso, ovvero un’aggressione a sfondo razzista che condusse gli ideatori a riflettere su una metodologia che fosse interattiva per parlare di discriminazione, affrontarla e possibilmente distruggerla. La metodologia, cioè la lettura di libri che sono persone, può essere adoperata per approfondire o discutere di qualunque tematica. Propongo di seguito una rielaborazione con annessi strumenti operativi pur mantenendo intatto il modello. Come organizzare una Biblioteca Vivente: 1. scegliere il tema da trattare; 2. decidere la data dell’evento; 3. avviare una sessione di brainstorming per la scelta dei libri-viventi, ovvero di persone la cui storia di vita o le cui esperienze incarnano il tema scelto; 4. iniziare il reclutamento dei libri-viventi scelti (da un minimo di 10 ad un max di 50 per evento); 5. realizzare una sessione di incontro con i libri-viventi che hanno aderito alla proposta per discutere del tema, del senso dell’evento e dello svolgimento. In questa occasione le per-

sone-libri scelgono e comunicano il titolo del loro libro; 6. scegliere il luogo; 7. progettare il piano di promozione dell’evento; 8. pubblicizzare e promuovere l’evento; 9. preparare il catalogo dei libri; 10. reclutare i bibliotecari; 11. organizzare lo spazio biblioteca. Predisporre tante postazioni quanti sono i libri viventi; la postazione dovrebbe avere un tavolino e due sedie. Sul tavolo va posta l’etichetta con il nome del libro e il titolo del libro. Assegnare a ogni postazione un codice di catalogazione. Qui, spazio alla fantasia e alla creatività per definire i codici di catalogazione! Si potrebbero, per esempio, usare dei simboli che richiamino il tema dell’evento; 12. il giorno dell’evento il lettore arriva alla Biblioteca Vivente, i bibliotecari lo aiutano a scegliere il libro dal catalogo dove sono presenti i titoli dei libri viventi all’interno della biblioteca. Il lettore, una volta selezionato il titolo, viene accompagnato dai bibliotecari nella postazione del libro vivente e fatto accomodare. Il lettore, prima di iniziare la lettura, proprio come si fa in una biblioteca, chiede al libro vivente di poterlo leggere rivolgendo la seguente frase: “Io xxx chiedo a Te xxx di poterti leggere”. Se la persona acconsente, firma la “scheda prestito”; 13. se i libri-viventi acconsentono si può chiedere, al termine della lettura, ad alcuni dei lettori di scrivere una recensione del libro fornendo loro una traccia per la recensione; 14. due settimane dopo l’evento organizzare un momento di ringraziamento; 15. valutazione dell’esperienza.

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Lucia Surano, nata nel 1974 di formazione umanistica, nel corso degli anni si è specializzata in progettazione socio-culturale dei modelli partecipativi e in processi di animazione di comunità. Cura eventi culturali, si occupa di formazione socio-pastorale e culturale, di comunicazione e di ricerca culturale.

In copertina disegno di Fabio Magnasciutti

Euro 14,00 (I.i.)

ISBN 978-88-6153-879-5

CI VUOLE UN CUORE Avviare processi e percorsi comunitari creativi e di cambiamento

CI VUOLE UN CUORE

Quando si parla di “animazione” la mente corre subito all’attività di carattere ludico, sportivo e ricreativo svolte all’interno di una struttura ricettiva da personale dedicato per intrattenere i clienti. Certo, è anche quella. Ma non solo. Il termine “animazione” ha una multiforme sfaccettatura. “L’animazione è quel processo che, infondendo vita, produce cambiamento”, pertanto il fine ultimo di un processo animativo è produrre un cambiamento, cioè fare nuove le cose. Questo vale soprattutto per l’animazione pastorale che ha due specifiche caratteristiche: è culturale ed è comunitaria. La prospettiva infatti in cui si viene a delineare l’intervento di animazione pastorale è la comunità competente, cioè una comunità capace di riconoscere i propri bisogni e di mobilitare e impiegare le risorse necessarie per soddisfarli. Questo testo, unico e primo nel suo approccio, si pone l’obiettivo di stimolare il desiderio che alberga nel cuore e nella mente delle persone, facendo leva sulle esperienze culturali poiché queste stimolano e appagano il bisogno di bellezza. Ogni pagina esorta alla curiosità, affinché l’animazione pastorale delle comunità sia tesa ad animarla e a renderla promotrice di cambiamenti. Questa è in fondo la grande sfida delle logiche pastorali, in questo tempo così nuovo e complesso che spinge a dover adottare nuove pratiche.

Lucia Surano

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