Con ago e filo. Trauma psicologico, lacerazioni e cure possibili

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Con ago e filo

Trauma psicologico, lacerazioni e cure possibili

Giuseppina Calvo

Giuseppina Calvo Con ago e filo

Trauma psicologico, lacerazioni e cure possibili

“Vidi la mia vita diramarsi davanti a me come il verde albero di fico del racconto. Dalla punta di ciascun ramo occhieggiava e ammiccava, come un bel fico maturo, un frutto meraviglioso. Un fico rappresentava un marito e dei figli e una vita domestica felice, un altro fico rappresentava la famosa poetessa, un altro la brillante accademica, un altro ancora era Esther Greenwood, direttrice di una prestigiosa rivista, un altro era l’Europa e l’Africa e il Sud America, un altro fico era Costantin, Socrate, Attila e tutta una schiera di amanti dai nomi bizzarri e dai mestieri anticonvenzionali, un altro fico era la campionessa olimpica di vela, e dietro al di sopra di questi fichi ce n’erano molti altri che non riuscivo a distinguere. E vidi me stessa seduta sulla biforcazione dell’albero, che morivo di fame per non saper decidere quale fico cogliere. Li desideravo tutti allo stesso modo, ma sceglierne uno significava rinunciare per sempre a tutti gli altri e, mentre me ne stavo lì incapace di decidere, i fichi incominciarono ad avvizzire e annerire finché, uno dopo l’altro, si spiaccicarono a terra ai miei piedi”

Sylvia Plath, The Bell Jar

Indice Una favola per iniziare .................................................................... 9 “Con lei qui” Psicoterapia congiunta genitori-bambino .................................... 15 Voglia di volare La narrazione come possibilità di significazione. La storia di Melissa ........................................................................ 21 Valentina e la “Donna Nera” La domanda che cerca dimora nella sofferenza psichica ............ 29 Si sta come le foglie d’autunno: Celeste ...................................... 33 Acquadicielo e la “verità” .............................................................. 39 La madre morta Giada e gli oggetti che respirano ................................................... 51 Elia e gli “angeli neri” I peccati in eredità .......................................................................... 59 L’abisso e lo psicoterapeuta ........................................................... 65 “This is the end”? La “fine” del percorso psicologico .................................................. 71 Buon vento Le angosce abbandoniche .............................................................. 77 Una favola per lasciarsi ................................................................. 81 Bibliografia ..................................................................................... 85

Una favola per iniziare

La donna scheletro

“Aveva fatto qualcosa che suo padre aveva disapprovato, sebbene nessuno più rammentasse cosa. Il padre l’aveva trascinata sulla scogliera e gettata in mare. I pesci ne mangiarono la carne e le strapparono gli occhi. Sul fondo del mare, il suo scheletro era voltato e rivoltato dalle correnti.

Un giorno arrivò in quella baia, dove un tempo andavano in tanti, un pescatore. Ma quel pescatore veniva da lontano e non sapeva che i pescatori locali si tenevano ormai alla larga da quella piccola baia che dicevano frequentata da fantasmi.

L’amo del pescatore scese nell’acqua e si impigliò nelle costole della Donna Scheletro. Pensò il pescatore: ‘Ne ho preso uno proprio grosso!’ Intanto pensava a quanta gente quel grosso pesce avrebbe potuto nutrire, a quanto sarebbe durato, per quanto tempo avrebbe potuto restarsene a casa tranquillo. E, mentre stava cercando di tirare su quel gran peso attaccato all’amo, il mare prese a ribollire, perché colei che stava sotto stava cercando di liberarsi. Ma più lottava e più restava impigliata. Inesorabilmente veniva trascinata verso la superficie, con le costole agganciate all’amo.

Il pescatore si era girato per raccogliere la rete e non vide la testa calva affiorare dalle onde, non vide le piccole creature di corallo che guardavano dalle orbite del teschio, non vide i crostacei sui vecchi denti d’avorio. Quando si volse, l’intero corpo era salito in superficie e pendeva dalla punta del kayak, tenendosi con i lunghi denti anteriori.

‘Ah!’, urlò l’uomo, e il cuore gli cadde fino alle ginocchia, gli occhi per il terrore si nascosero in fondo alla testa, e le orecchie diventa-

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rono rosso fuoco. ‘Ah!’ gridò, e la gettò giù dalla prua con il remo, e prese a remare come un demonio verso la riva. Non rendendosi conto che era aggrovigliata nella lenza, era sempre più terrorizzato perché essa pareva stare in piedi e seguirlo a riva. Per quanto andasse a zig zag restava lì dietro ritta in piedi e il suo respiro rovesciava sulle acque nuvole di vapore, e le braccia si lanciavano in acqua come per afferrarlo e trascinarlo nelle profondità del mare. ‘Ahhhhhhh!’, gemeva cercando di raggiungere la terra. Saltò giù dal kayak, prese a correre tenendo stretta la lenza, e il cadavere bianco corallo della Donna Scheletro, sempre impigliata alla lenza, lo seguiva a balzelloni. Corse sugli scogli, e lei lo seguiva. Corse sulla tundra ghiacciata, e lei lo seguiva. Corse sulla carne messa a seccare, riducendola in pezzi poiché vi affondava con i suoi ‘mukluk’. Lei gli era sempre dietro e intanto afferrò un pesce congelato e prese a mangiarlo, perché da gran tempo non si rimpinzava. Alla fine l’uomo raggiunse il suo igloo, si lanciò nella galleria e, a quattro zampe, penetrò all’interno. Ansimando e singhiozzando giacque nell’oscurità, con il cuore che batteva come un tamburo. Finalmente al sicuro, sì, al sicuro, grazie agli dei, al sicuro… finalmente. Ma quando accese la lampada all’olio di balena, eccola, lei era lì, ed egli cadde sul pavimento di neve con un tallone sulla sua spalla, un ginocchio dentro alla gabbia toracica, un piede sul suo gomito. Non seppe poi dire come fu: forse la luce del fuoco ne ammorbidiva i lineamenti, o forse perché era un uomo solo, fatto sta che sentì nascere come un sentimento di tenerezza, e lentamente allungò le mani sudicie e, con le parole dolci che una madre avrebbe rivolto al figlio, prese a liberarla dalla lenza.

‘Ecco, ecco’, prima liberò le dita dei piedi, poi le caviglie. ‘Ecco, ecco’. E continuò nella notte, e la rivestì di pellicce per tenerla al caldo. Le ossa della Donna Scheletro erano esattamente nell’ordine che dovevano avere in un essere umano.

Cercò la pietra focaia, usò i suoi capelli per avere un po’ più di fuoco. Di tanto in tanto la guardava mentre ungeva il legno prezioso della sua canna da pesca e riavvolgeva la lenza. E lei non diceva una parola – non osava – perché altrimenti quel cacciatore l’avrebbe presa e gettata dagli scogli, e le sue ossa sarebbero andate in pezzi.

All’uomo venne sonno, scivolò sotto le pelli e cominciò ben presto a sognare. Talvolta, durante il sonno, una lacrima scivola giù dall’occhio

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di chi sogna, non sappiamo mai quale sorta di sogno la provoca, ma sappiamo che è un sogno di tristezza o di struggimento. E questo accadde all’uomo. La Donna Scheletro vide la lacrima brillare nella luce del fuoco, e d’improvviso sentì un’immensa sete. A fatica si trascinò accanto all’uomo addormentato e posò la bocca su quella lacrima. Quell’unica lacrima era come un fiume, e lei bevve e bevve finché la sua sete di anni non fu placata.

Mentre giaceva accanto a lui, frugò nell’uomo addormentato e gli prese il cuore, il tamburo possente. Si mise a sedere e si mise a picchiare sui due lati del cuore: ‘Bum! Bum!’.

Mentre suonava si mise a cantare: ‘Carne, carne, carne! Carne, carne, carne!’. E più cantava più si riempiva e ricopriva di carne. Cantò per i capelli e per buoni occhi, e per mani piene. Cantò la linea tra le gambe, e il seno, abbastanza grande da trovarvi calore, e tutte le cose di cui una donna ha bisogno. E quando ebbe tutto fatto, cantò i vestiti, che si togliessero dal dormiente, e scivolò nel letto con lui, pelle a pelle. Rimise il grande tamburo, il suo cuore, nel suo corpo, e così si risvegliarono stretti uno nelle braccia dell’altra, aggrovigliati dalla loro notte, in un altro mondo, bello e duraturo. Quelli che non rammentano il perché della sua cattiva sorte di un tempo, dicono che lei e il pescatore andarono via e furono ben nutriti dalle creature che lei aveva conosciuto nella sua esistenza sott’acqua. Dicono che è vero, e che è tutto quanto loro sanno.”

(Estes, 2011)

Accade, purtroppo, che l’adulto mostri una violenza che il bambino non può comprendere e dalla quale viene turbato a volte, lacerato in altre. Se poi, questo adulto è uno dei riferimenti affettivi del piccolo, la ferita è ancora più profonda: ci si sente respinti, abbandonati e spogliati da ogni valore possibile. Nello sguardo giudicante e nel gesto violento, l’anima infantile prova un’esperienza scarnificante e si inabissa nel profondo del proprio fragile sé.

“[…] Trascinata sulla scogliera e gettata in mare. I pesci ne mangiarono la carne e le strapparono gli occhi. Sul fondo del mare, il suo scheletro era voltato e rivoltato dalle correnti […].”

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Ma poi l’incontro con un Altro vivificante, diviene occasione per risalire dal fondo, per ritornare alla luce, per ritornare a respirare e, nel calore del fuoco relazionale provare ad esserci, provare a scegliere di starci in questa vita.

“‘Ecco, ecco’, prima liberò le dita dei piedi, poi le caviglie. ‘Ecco, ecco’. E continuò nella notte, e la rivestì di pellicce per tenerla al caldo.”

A pezzi si riduce la mente infantile, sotto gli attacchi di esperienze distruttive e violente con un Altro, che poco ha da mettere in campo per proteggere, contenere, sostenere. E nella stanza d’analisi, questi pezzi intrisi di sangue, questi brandelli di pelle vengono dolorosamente portati dai pazienti, protagonisti di questo scritto che ha l’intento di condividere e rendere più digeribile la sofferenza dell’anima.

“Non c’è dolore più grande che portare una storia non raccontata dentro di te” (Angelou, 2015)

Melissa, Valentina, Lucia e Virginia, Simona e Melania, Celeste, Elia e Salvatore si presentano a me con le loro stoffe bucate, strappate, lacerate dalla violenza dell’incontro con l’Altro e, con lo sguardo da bambine/i deluse e rassegnate, si siedono accanto a me; nell’iniziale silenzio dapprima osserviamo la stoffa, gli scampoli; proseguiamo analizzando lo strappo ed infine, con ago e filo, proviamo a ricucire con pazienza e con lentezza, il tessuto dell’anima.

“L’attesa è tutto e si attende insieme” (Hillman, 2010)

La violenza squarciante del trauma viene presentificata nella relazione terapeutica e così si ha la possibilità di sperimentare in prima persona, accanto al paziente, la vertigine data dal trovarsi sull’orlo del burrone, del precipizio; la continuità esistenziale è stata interrotta, al suo posto abbiamo un buco nero che attira al proprio interno, come in un vortice, emozioni, sensazioni, spinte vitali, fiducia e capacità di starci in questa vita.

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Il trauma “relega la relazionalità e la soggettività non nominate, non accolte e violate nel corpo… dove la paralisi della libido e della vitalità, per così dire spaventate e traumatizzate, vengono ad esprimere l’impotenza, il terrore, l’orrore e il dolore…”1. Spesso l’unico pensiero unificante, che tiene insieme i brandelli della mente, è la possibilità del suicidio; una scelta mortifera diviene in tal modo qualcosa di vivificante, perché possibile opzione davanti alla paralisi dell’esperienza traumatica.

“Non c’è da spiegare alcun mistero, riguardo al suicidio. Il suicidio è semplicemente un metodo mediante il quale possiamo trasformare il morire da una casualità a una scelta. Come ogni atto che compiamo nella vita, l’atto che vi pone fine non riguarda affatto la medicina, mentre riguarda, moltissimo, ‘l’anima’” (Hillman, 2010)

Il posizionamento del terapeuta diviene occasione di cura, nel senso di prendersi cura, di prendere con sé la fatica dell’altro, la scelta del paziente e, maneggiandola con delicatezza, dare spazio e tempo.

“L’analista non può negare questo bisogno di morire. Dovrà accompagnarlo. Il suo compito è quello di aiutare l’anima nel suo percorso. Non osa opporsi a quel bisogno impellente in nome della prevenzione, perché sa che la resistenza non fa che rendere più cogente il bisogno e più fascinosa la morte concreta.” (Hillman, 2010)

E in questo “stare-con” del terapeuta, in questo tollerare e tenere il dolore senza risolverlo frettolosamente, in questo esercizio di “capacità negativa” è possibile che si creino le condizioni per mettere i primi punti di sutura.

“… quando un uomo è capace di stare nell’incertezza, nel mistero, nel dubbio senza l’impazienza di correre dietro ai fatti e alla ragione […] perché incapace di rimanere appagato da una mezza conoscenza.” (Keats, Bion 1917)

Guidati da una flebile luce, nel silenzio, può accadere che l’anima emetta un ultimo guizzo decidendo di riprovare ancora

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una volta e di dare una possibilità alla relazione, all’incontro con l’Altro e “quando due personalità s’incontrano si crea una tempesta emotiva”2. Nell’intimità di una stanza accade qualcosa di magico quando “due personalità s’incontrano” autenticamente: la condivisione può avvenire, la storia può iniziare e si può cominciare… a filare.

“Sic volvere Parcas” (Virgilio, 1990)

Note

1. Borgogno, 1999.

2. Bion, 2010.

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“Con lei qui”

Psicoterapia congiunta genitori-bambino

… è che così da sola ho paura di tutto… con lei qui, adesso è diverso… è reale

Quale esperienza “estetica” è l’incontro della mamma con il suo bambino! L’odore buono della pelle, la morbidezza del corpo, le manine paffutelle, gli sguardi che si toccano e si fondono.

Quante emozioni e di quali intensità permeano il rapporto del neonato con chi si prende cura di lui! Ma anche quanta fatica e smarrimento è possibile provare nel cammino verso una consapevolezza della propria maternità.

La potenza dell’esperienza di genitorialità è tale da richiedere che la madre venga essa stessa accudita da un ambiente-contenitore, che con rispetto, presenza mai intrusiva, attenzione calda le permetta di contattare le proprie risorse e, soprattutto, affrontare la fatica del passaggio da una fase del proprio femminile ad un’altra.

È importante che alla neomamma venga permesso di rifugiarsi, di riposare quando ne ha bisogno, di essere cullata quanto e forse più del suo bimbo; infatti diventare genitore comporta un lungo ed a volte doloroso lavoro di digestione del proprio ruolo di figlia e del rapporto con i propri genitori.

Winnicott sosteneva che “non esiste un bambino senza la madre”, ad indicare che, per comprendere il comportamento di

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Dal film di Nanni Moretti, Tre piani

un bambino, il filtro che l’osservatore deve utilizzare è quello dato dalle “rappresentazioni” consce e inconsce che i genitori hanno di lui.

Forse potremmo aggiungere anche che non può esistere una mamma senza una “madre-ambiente” che avvolge, nutre, sostiene e facilita l’incontro fra i due protagonisti della nuova coppia. Un ambiente-contenitore dove figure femminili e maschili svolgono funzioni di accudimento, di significazione, di caldo incoraggiamento.

Purtroppo non sempre questo è presente, con conseguente grande sofferenza sia della madre che del bambino.

“… dopo un po’ che siamo io e lei senza parlare con nessuno, comincio a sentirmi strana e mi faccio paura da sola…” (Dal film di N. Moretti, Tre piani)

Lucia e Virginia

Incontro Lucia in un caldo pomeriggio d’estate; la donna si presenta con un vestito smanicato dove sono evidenti i violenti segni dei tagli: ferite che si sono rimarginate; altre, invece, che denunciano uno stato ancora presente di sofferenza.

Lucia sembra abbia la necessità di portare prima se stessa della figlia, una bimba che rimane sullo sfondo come un’ombra. Controllando ogni mia reazione, riporta la propria storia e, solo al termine dell’incontro, trova spazio per la sua piccola Virginia.

In effetti, la domanda iniziale riguardava una valutazione dello stato psicologico della bambina, visto che a scuola le maestre segnalano una preoccupazione in riferimento ad un atteggiamento di Virginia segnato dalla “tristezza”, dal ritiro, dalla demotivazione.

Lucia è una giovane donna di 23 anni che lotta contro se stessa, che non trova pace, vittima di una feroce guerra fra Eros e Thanatos. I profondi tagli, le cicatrici testimoniano le lacerazioni della sua anima e lei sembra identificarsi con esse, vuole che le veda, che le osservi, che me ne prenda cura.

In questo mare di sofferenza rischia di affogare Virginia, bellissima bimba di 6 anni, dai lunghi capelli lisci color della noce e

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dallo sguardo serio e profondo. Lucia mi parla di sua figlia come di una bimba pacata, ubbidiente, “buona”.

Il papà è presente ma “mi occupo solo io di lei”, afferma Lucia fra l’orgoglioso ed il polemico.

Il giorno dell’incontro con Virginia, mentre sono entrambe sedute in sala d’attesa, la bambina vomita e Lucia appare in affanno nel tentativo di ripulire. Si imbrattano, si impiastricciano nel vano sforzo di lavare lo sporco; è necessario intervenire guidandole verso il bagno e fornendo loro acqua, sapone, carta assorbente.

Lucia e Virginia, Virginia e Lucia sembrano immerse ancora l’una dentro l’altra; Lucia ha bisogno della propria figlioletta per tenersi e Virginia non può nascere, andare, esistere senza la spinta della madre.

Sono di fatto combinate in un’unica figura e così decido di incontrarle insieme.

“I genitori vengono qui con un mandato per il loro bambino e dobbiamo tenere a mente il bambino in trattamento, i cui bisogni possono essere a volte vissuti come in competizione con il bambino bisognoso del genitore […] Dobbiamo entrare in comunicazione con l’adulto nel genitore. Questo implica distinguere tra la parte adulta del genitore e quella che è un bambino o un bebè e considerarle ambedue.“ (Miller, 2008)

Il modo in cui una famiglia si presenta e si muove nel setting della terapia, dimostra qualcosa di molto importante sul proprio comportamento inconscio riguardante la relazione con i propri riferimenti affettivi.

Decido di accogliere la coppia madre-bambina, consapevole che all’interno della stanza saranno presenti tanti personaggi: Lucia e Virginia innanzitutto e poi la bambina che Lucia è stata, i genitori di Lucia, in particolare la sua mamma ed infine ci

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La nascita dei confini, il “limite come possibilità”1

sono anch’io, con la mia parte adulta e con quella bambina che a momenti alterni risuonano, si svegliano sintonizzandosi ora con l’uno o con l’altro dei personaggi.

“Il dolore dell’altro, la malattia, l’affievolirsi della vita sono realtà che non si fermano alla buccia, entrano nella polpa umana, scavano cunicoli e grotte dentro di noi, nelle fibre del nostro inconscio corporeo.” (Ravasi Bellocchio, 2017)

Pian piano creiamo una rappresentazione teatrale estremamente reale, complessa, articolata, faticosa emotivamente; nel tempo, con lentezza, ascoltiamo le diverse parti in gioco e proviamo l’intenso dolore della “bimba Lucia” maneggiata malamente dalla propria madre, ferita nel profondo della propria femminilità dalla violenza del padre. C’è un tempo per le lacrime della “bimba Lucia” ed uno per la cura delle ferite della sua anima. Così facendo, incontro dopo incontro, Lucia ormai “sufficientemente” sfamata, può lasciare spazio a Virginia, può permettere che lo sguardo si distolga da lei senza che questo le accenda vissuti di abbandono e di competizione affettiva con la propria figlia. Ormai soddisfatta come una neonata che ha mangiato a sazietà, si/ci concede di occuparci di Virginia. Lucia nel fare esperienza di accudimento, comincia a prendersi cura della propria piccola: all’inizio è solo un’attenzione degli aspetti più superficiali come comprarle degli abiti o i quaderni del formato corretto per la scuola. Successivamente, Lucia soggettivizza Virginia, riconoscendole bisogni ed intenzioni e provando a rispettarla nella sua individualità.

Un giorno speciale

A seguito di un incontro in cui avevamo giocato al “gioco dello scarabocchio”, Lucia mi dice che Virginia vorrebbe raccontarmi qualcosa che le è accaduto al parco: “… sabato è stato un giorno speciale!” esclama, ed aggiunge che sarebbe meglio che io vedessi da sola la piccola.

Ha inizio così una nuova fase: Lucia, ormai appagata dalla costruzione e dall’esperienza di una narrazione che arriva fino

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alla figlia, può permettere che questa nasca, può lasciare che si faccia strada al di là della sua presenza; mi concede di tagliare il cordone ombelicale e di prenderla fra le mie braccia con la forza di una fiducia che nutre i figli e li spinge ad andare nel mondo con speranza.

Ma a questo punto la stessa Virginia è già trasformata, rivitalizzata dalla feconda separazione.

“[…] La situazione del medico nella cura analitica ricorda sotto molti aspetti quella dell’ostetrico, il quale deve comportarsi nel modo più passivo possibile e rassegnarsi al ruolo di spettatore di un processo naturale, ma che nei momenti critici deve essere pronto con il forcipe in mano per portare a termine un parto che non progredisce spontaneamente…” (Ferenczi, 2004)

Ogni separazione ha in sé una parte di dolore ma al tempo stesso permette il movimento vitale dell’incontro con il mondo circostante. Nella prima separazione, durante il parto, il dolore è lacerante, una parte del corpo viene espulsa; si piange, si urla e poi la gioia immensa di una nuova possibilità, una nuova potenzialità, un’occasione per tutti i protagonisti coinvolti.

Virginia, inizialmente tentenna, ma poi andrà gioiosa, fiera incontro alla vita che l’attende e a “modo suo”!

Sarà difficile vederti da dietro

Sulla strada che imboccherai

Tutti i semafori

Tutti i divieti

E le code che eviterai

Sarà difficile

Mentre piano ti allontanerai

A cercar da sola

Quella che sarai

(Ligabue)

1. Ceruti, 1996.

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Note

A volte accade che l’adulto mostri una violenza che il bambino non può comprendere e dalla quale viene turbato, lacerato. Se poi questo adulto è uno dei riferimenti affettivi del piccolo, la ferita è ancora più profonda e porta l’anima dei piccoli ad inabissarsi nel profondo del proprio fragile sé. L’incontro con un adulto vivificante, però, diviene occasione per risalire dal fondo, per ritornare alla luce, per ritornare a respirare e, nel calore del fuoco relazionale, provare ad esserci, provare a scegliere di starci in questa vita.

È nella stanza d’analisi che si cerca, insieme, di ricucire con ago e filo gli strappi del tessuto dell’anima, ormai ridotta a brandelli che, con pazienza e lentezza, si cerca di riparare, come nelle storie di Melissa, Valentina, Lucia e Virginia, Simona e Melania, Celeste, Elia e Salvatore narrate in questo testo.

Il percorso con il terapeuta, in questi casi, diviene occasione di cura, nel senso di prendersi cura, di prendere con sé la fatica dell’altro, la scelta del paziente e, maneggiandola con delicatezza, dare spazio e tempo.

Nell’intimità di una stanza accade qualcosa di magico quando “due personalità s’incontrano” autenticamente: la condivisione può avvenire, la storia può iniziare e si può cominciare… a filare.

Euro 13,50 (I.i.)

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