dorsetto 3,67 mm Versione con scritte dorsetto al limite
Marco Tuggia
pericoloso
Marco Tuggia, pedagogista e formatore in educazione familiare, svolge attivitа di formazione, consulenza e supervisione pedagogica per Servizi sociali ed educativi dell’Ente Pubblico e del Terzo Settore. È membro del gruppo di ricerca LabRIEF dell’Universitа di Padova, Dipartimento di Scienze dell’Educazione. Ha pubblicato Non di solo mamma e papа vivono i figli e Padre dove vai? per la Armando Editore e ha curato il volume Quasi come Mary Poppins per la Erickson Live.
L’EDUCATORE GEOGRAFO DELL’UMANO Accompagnare famiglie con bambini in situazione di vulnerabilità
L’EDUCATORE GEOGRAFO DELL’UMANO
Una professione come quella educativa, orientata spesso alla costruzione di relazioni “significative” all’interno della quotidianità di nuclei familiari in situazione di vulnerabilità, ha bisogno di dotarsi di una struttura e di strumenti di lavoro soprattutto nella fase iniziale dedicata alla conoscenza delle famiglie, da cui la figura dell’educatore è spesso esclusa. L’educatore invece concorre al pari di altre professioni e con specifiche attività alla costruzione di un Progetto Quadro inteso come insieme degli interventi che rispondono ai bisogni di un bambino/adolescente e della sua famiglia. Le fasi e gli strumenti del metodo della conoscenza educativa proposte in queste pagine sono l’esito della rilettura del metodo della Valutazione partecipata presentato nelle Linee d’Indirizzo Nazionali, emanate dal MLPS del 2017, dal punto di vista della professionalità educativa. Per questa ragione il libro può essere d’aiuto anche ai professionisti di area sociale e psicologico/psichiatrica che desiderano comprendere meglio il particolare contributo che i loro colleghi educatori possono dare valorizzandone le specificità. L’educatore come geografo dell’umano è allora un’immagine che rappresenta il modo di esprimersi di una professione che fa della prossimità la cifra del proprio essere ed agire in équipe. Le famiglie in situazione di vulnerabilità si trovano metaforicamente come in una barca nel mare in tempesta e gli educatori sono essi stessi parte dell’equipaggio. La responsabilità dei professionisti implica però che essi si dotino prima di salire a bordo di una strumentazione tecnica fatta di mappe, bussole e funi, che aiuti a cercare e mantenere la rotta, tra le onde della bonaccia e i flutti della burrasca. E questo libro accompagna sicuramente a costruire un buon equipaggiamento.
Marco Tuggia
ISBN 978-88-6153-768-2 In copertina disegno di Fabio Magnasciutti
Euro 13,50 (I.i.)
9 788861 537682
edizioni la meridiana p a r t e n z e
Marco Tuggia L’EDUCATORE GEOGRAFO DELL’UMANO Accompagnare famiglie con bambini in situazione di vulnerabilità Prefazione di Ombretta Zanon
edizioni la meridiana
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Indice
Prefazione di Ombretta Zanon ......................... 9 Quando la crisi genera nuovi pensieri ........... 11 Prima fase: la prossimità umana immaginata ................... 21 Seconda fase: la prossimità umana temporanea ................... 33 Terza fase: la prossimità umana condivisa ....................... 39 Quarta fase: la prossimità umana vissuta ............................ 51 Ci vuole un “metodo bestiale” ....................... 59 Bibliografia ragionata ..................................... 61
Prefazione
Nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa verso quale porto andare. Seneca Con questa pubblicazione Marco Tuggia, amico e compagno di tante avventure umane e formative, ha proprio voluto far spirare quel vento citato da Seneca e che nella professionalità si chiama metodo, che indica, anche etimologicamente, il percorso per raggiungere un obiettivo, senza il quale si rischia di restare fermi in mezzo al mare o di intraprendere, magari senza esserne consapevoli, la rotta che, invece di avvicinarci, ci allontana dal porto sperato. Un metodo – vale a dire un insieme di intenzioni, atteggiamenti, tecniche, strumenti e contesti per la conoscenza, la progettazione e la valutazione nell’intervento professionale – che nell’esperienza quotidiana, sicuramente appassionata e competente, degli educatori che operano nell’ambito della prevenzione e della protezione con bambini e famiglie è per tanti motivi più spesso praticato che messo in parola, e soprattutto non in forma intersoggettiva. Ed è questo l’approdo verso cui il libro ci invita a veleggiare e, quando apparentemente arrivati, a ripartire: mettere in ordine e attribuire significato e motivazioni pedagogiche alle fasi e alle azioni utili per accompagnare bambini e genitori che vivono in situazione di vulnerabilità verso un maggior ben-essere (per tutti gli attori, compresi i servizi), ricavando dalla specificità delle prati-
che riflettute dall’autore nei contesti di formazione e supervisione con tanti operatori gli elementi generalizzabili in nuovi apprendimenti. Lo stile colloquiale e la scrittura in prima persona del testo contribuiscono ad evocare nel lettore una sorta di ambiente discorsivo virtuale e inevitabilmente collettivo, uno spazio-tempo di pensosità in cui sentirsi parte alla pari come esperti riconosciuti della propria esperienza professionale, in cui non ci sono “verità” da svelare, ma vissuti da narrare criticamente e nuovi saperi da ri-costruire grazie ad una mente collettiva. Il filo rosso di questa conversazione intrattenuta dall’autore – calda e puntuale insieme – è il tema della prossimità con le famiglie (che nel libro da immaginata si fa temporanea, per diventare finalmente condivisa, perché partecipata), un movimento di avvicinamento graduale tra le persone che, con ruoli diversi, mettono in comune temporaneamente un pezzo della loro strada e della loro storia. Vi è nel riferimento trasversale al costrutto di prossimità la decisa sottolineatura della centralità della (buona) relazione come primo fattore di efficacia dell’intervento di cura, senza esentare per questo i professionisti dalla conoscenza e dall’utilizzo rigoroso di un repertorio di tecniche e strumenti. Ma prima ancora della prossimità con genitori e bambini, di cui l’educatore con l’équipe multidisciplinare ha la responsabilità di accompagnare e sostenere, questo lavoro di Marco Tuggia pone l’accento sulla necessità per gli educatori della prossimità con se stessi, con la propria biografia personale e formativa e con la propria identità pedagogica, che ne esce così rafforzata e maggiormente definita. E credo che questo non sia di poco conto per il lavoro educativo, che ha patito a lungo la vaghezza di ruoli e funzioni e l’incertezza nei servizi del riconoscimento interprofessionale. Il processo che in questo modo si sviluppa aiuta gli operatori a rimanere in contatto con i propri L’EDUCATORE GEOGRAFO DELL’UMANO
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pensieri, emozioni e teorie, solo quel tanto che basta perché ci aiutino a comprendere l’altro, e soprattutto a fondare l’agire educativo sull’intenzionalità e sulla trasparenza, ossia su ragioni chiare e dicibili, nutrite teoricamente ed eticamente. La parola-chiave prossimità richiama anche necessariamente la tensione cognitiva e operativa – talvolta faticosa, ma sempre vitale – che è connaturata alla professione educativa, volta a co-immaginare (nella progettazione) e poi a co-attualizzare (nella pratica) i prossimi passi che le persone che sperimentano delle fragilità possono e vogliono compiere verso una vita migliore. In un passaggio del testo l’autore suggerisce che le famiglie in situazione di vulnerabilità si trovino metaforicamente come in una barca nel mare in tempesta e che gli educatori non guardino dalla riva quello che succede, ma siano essi stessi su quell’imbarcazione. La responsabilità dei professionisti implica però che, accanto alla comunanza tutta umana con genitori e bambini di timori e speranze, essi si dotino, prima di salire a bordo, di una strumentazione tecnica fatta di mappe, bussole e funi, che non garantisce di conoscere a priori quale sia la direzione “giusta” da prendere, ma che aiuta a cercarla e a mantenerla, tra le onde della bonaccia e i flutti della burrasca. E questo libro fa parte sicuramente di un buon equipaggiamento, per trovare guida e conforto in quel viaggio che ogni incontro umano ci costringe e ci dà l’opportunità di compiere. Sono buoni esploratori quelli che pensano che ci sia terra, anche se vedono solo mare. Francesco Bacone Ombretta Zanon1 1. Psicologa e formatrice, docente di Lavoro sociale alla SUPSI (Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana).
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Quando la crisi genera nuovi pensieri La nostra capacità di manipolare noi stessi perché lo zoccolo delle nostre credenze non vacilli neanche un po’ è un fenomeno affascinante. Ecco quindi il mio pensiero profondo: per la prima volta ho incontrato qualcuno che cerca le persone e che le vede oltre. Io invece supplico il destino di darmi la possibilità di vedere al di là di me stessa e di incontrare qualcuno. Muriel Barbery, L’eleganza del riccio
La crisi dei Servizi Educativi Per comprendere quanto ho scritto in questo testo è necessario andare alla sua genesi che colloco all’interno della grande crisi economica che ha colpito l’Italia nel primo decennio del Ventesimo secolo e che in brevissimo tempo s’imbattè impetuosa anche tra le mura dei Servizi Sociali ed Educativi. In quegli anni gli operatori sociali, oltre ad iniziare a risentire della continua e progressiva riduzione delle risorse economiche a disposizione del Welfare, causato dalla cecità delle scelte politiche, tra l’altro tutt’ora persistenti, entrarono in una fase di grande sconforto con effetti paralizzanti sul piano operativo. All’aggravarsi delle situazioni di disagio sociale, essi avvertivano l’impotenza di rispondere con mezzi sempre più
inadeguati e incongrui rispetto alle problematiche sociali. Grazie al mio lavoro, avevo la possibilità di interagire con molti professionisti dei Servizi Educativi e in particolare con coloro che lavoravano all’interno delle comunità educative per i bambini e gli adolescenti. Un dato su tutti emergeva: nelle comunità, impoverite di risorse, stavano arrivando solo i “casi difficili”, a volte impossibili. Per un momento (breve a dire il vero) credetti anch’io alla linearità di questa narrazione, ma poi iniziai a pensare che la riduzione delle risorse non poteva essere l’unica spiegazione delle difficoltà che stava incontrando il sistema dei Servizi Educativi. Cominciai ad introdurre nel dibattitto pubblico due ragionamenti che mi sembravano degni di attenzione: 1) il fatto che alle comunità educative arrivassero situazioni molto complesse era, almeno in parte, una buona notizia: mi sembrava che questo fosse un indicatore che la comunità non era più usata in maniera impropria e che nel territorio si stessero finalmente attivando altre forme di accompagnamento più adatte alle reali situazioni dei bambini, degli adolescenti e delle loro famiglie. Parlo dell’affidamento familiare, del Servizio di Educativa Domiciliare e Territoriale, dei Centri Diurni e delle Comunità educative diurne; 2) più che parlare di aggravamento delle situazioni, forse era più opportuno iniziare a prendere atto che il disagio dei bambini, degli adolescenti e delle loro famiglie stava mutando e, quindi, la vera questione con cui ci si doveva confrontare era (ed è) se il sistema di protezione dei bambini e degli adolescenti, di cui le comunità educative fanno parte, così come concepito e costruito negli anni Sessanta/Settanta del secolo scorso, consolidatosi nel corso degli anni seguenti, fosse congruente con i bisogni espressi oggi.
Per cercare di farmi capire meglio su questo secondo aspetto, mi sembrava che tutta la filiera del sistema dei servizi di protezione e cura dovesse far fronte a questa mutazione in maniera simile a come aveva fatto il Sistema Sanitario di L’EDUCATORE GEOGRAFO DELL’UMANO
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fronte all’apparire sulla scena mondiale dell’HIV. La storia dell’epidemia da HIV è fatta risalire ai primi anni Ottanta del secolo scorso, anche se in realtà esisteva già ben prima ma era stata scambiata per altro. Bene, una volta correttamente diagnosticata, nessun medico si è sognato di dire che all’ospedale arrivavano casi troppo gravi. La questione per la comunità medica diventò: come dobbiamo riorganizzarci per far fronte a questa malattia di cui conosciamo pochissimo e che, pertanto, necessita di essere studiata e affrontata con nuovi strumenti e terapie? Mi sono reso conto che questo approccio scientifico alle novità poste dalla realtà, che richiede grande capacità di analisi e disponibilità all’innovazione, stentava a decollare nel mondo dei Servizi Educativi. Il confronto, le resistenze, il dibattito, le prove e gli errori, sono stati tutti preziosi processi che mi hanno permesso di appassionarmi alla ricerca, di capire cosa si celasse dietro alle lamentele sulla mancanza di risorse, alle accuse sull’inadeguatezza dei Servizi dell’Ente Pubblico, alla rabbia verso l’assenza dei professionisti di area psicologico e psichiatrica all’interno delle équipe, allo smarrimento generato dalla gravità dei “casi” di cui ci si doveva occupare. Ho cominciato così ad ipotizzare che ci fossero alcuni “bug”2 nel sistema che stavano impedendo di generare non solo cambiamento, ma anche innovazione all’interno dei Servizi Educativi. La formulazione dei 5 “bug” (+2), che ora presento in maniera sintetica, non rappresenta delle novità per chi opera in questo ambito. Ho solo cercato di fornire una mia personale formulazione, in chiave pedagogica e, soprattutto, di metterli in relazione tra loro, convinto che essi producano una figura che deve essere vista e affrontata nella sua complessità. 2. Il bug identifica, in informatica, un errore nella scrittura del codice sorgente di un programma software.
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Il primo “bug”: l’esclusione dello sguardo educativo dalla conoscenza delle situazioni Negli anni ho raccolto un leitmotiv tra gli educatori dei Servizi Educativi che più o meno dice così: I bambini e i ragazzi che accogliamo sono spesso diversi da come ci vengono presentati dai Servizi Sociali. Se li avessimo conosciuti prima di inserirli, avremmo deciso un progetto diverso. Inoltre siamo costretti a perdere un sacco di tempo prima di riuscire a calibrare l’intervento, fino a quando non riusciamo a conoscerli bene.
Vi sono diverse ragioni che hanno generato un sistema di protezione e cura che non prevede, se non in casi eccezionali, che nella fase iniziale di conoscenza della situazione di una famiglia ci sia il contributo dello sguardo della professionalità educativa. Ragioni che qui non possiamo approfondire. Ma una cosa è certa: questo fatto non solo rende incompletala conoscenza della situazione, ma rischia di far perdere inutilmente tempo e risorse e, soprattutto, generare un progetto di intervento che si rivela, in diverse circostanze, poco adeguato alla reale situazione e difficilmente modificabile in corso d’opera. Risulta evidente che questo primo bug può essere riconosciuto solo se condividiamo l’ipotesi che la professionalità educativa non si esaurisca assolutamente in un intervento frutto della conoscenza compiuta da altre professionalità.
Il secondo “bug”: l’esclusione dei genitori e dei bambini/ragazzi dalla conoscenza della loro situazione È un dato oramai riconosciuto che, nonostante tutte le ricerche internazionali convergano su questa direzione e, nonostante i fiumi di parole spese o scritte sull’argomento, il tema della partecipazione delle famiglie alla conoscenza della loro situazione e alla costruzione del loro progetto, ri-
mane ancora patrimonio di un’élite di Servizi e, in ogni caso, scarsamente sostenuta da pratiche che si rifacciano ad un preciso metodo di lavoro. Tutti conosciamo bene come questa fragilità rappresenti un grosso tallone d’Achille per i Servizi: a mio avviso, questa è una delle principali cause delle molteplici forme di resistenza che le famiglie mettono in atto per opporsi alle direzioni di cambiamento che non riescono ad accettare poiché frutto di valutazioni e decisioni dalle quali sono state escluse. Qui ci interessa rilevare che, essendo l’intervento educativo, per sua natura, caratterizzato dal “far con” le persone all’interno della loro quotidianità, questo secondo bug è conseguente al primo. L’esclusione degli educatori dalla fase di conoscenza non consente di realizzare una serie di azioni volte a far emergere il punto di vista dei bambini, dei ragazzi e della loro famiglia nel loro contesto di vita, al fine di promuoverne la partecipazione attiva alla comprensione di quello che sta accadendo nella loro vita e all’individuazione delle decisioni conseguenti da intraprendere.
Il terzo “bug”: la rigidità del sistema delle risposte Cosa accade se ci rendessimo conto, a posteriori, che la scelta di aver inserito un ragazzino in una comunità residenziale non è stata la migliore? Oppure, saremmo in grado di affiancare a questo dispositivo un intervento di supporto educativo ai genitori presso la loro casa oppure di favorirne la partecipazione ad un gruppo genitori o di sostenerli in un lavoro di ritessitura di relazioni sociali all’interno del territorio di appartenenza? Il nostro sistema di protezione e cura è poco attrezzato a rispondere a queste domande perché non prevede soluzioni che richiedano flessibilità e capacità di adattamento alle evoluzioni biografiche degli individui. Il sistema è costruito in
modo tale che l’output della conoscenza sia unico all’interno di un range di soluzioni predefinte: questo bambino è adatto a, ha necessità di, a cui segue l’attivazione di un’unica tipologia di servizio educativo e, solitamente, specie nel caso della comunità, l’intervento coincide con il dispositivo stesso e termina con esso. Ci troviamo di fronte ad un sistema non solo rigido, ma anche ingessato, dove esiste una palese incomunicabilità e difficoltà all’integrazione tra Servizi Educativi diversi, anche appartenenti alla medesima organizzazione o ente gestore. È un sistema che prevede delle soluzioni lineari (ad un problema corrisponde una e una sola tipologia di Servizio Educativo) e fatica ad immaginare la possibilità di attivare dei Percorsi Educativi3 in cui, nella stessa situazione, possano essere attivati più dispositivi contemporaneamente, in grado di modularsi e trasformarsi nel tempo. È un sistema che, anche da un punto di vista amministrativo, presenta tali rigidità di gestione della spesa, che impediscono di uscire dalla logica della retta standard e dell’impegno di spesa definito a prescindere dal progetto educativo.
Il quarto “bug”: i Servizi Educativi si occupano dei bambini/adolescenti e l’Ente Pubblico delle famiglie Questa separazione di competenze è così antica e radicata che pochi si sono permessi di metterla in discussione. Anche in questo caso non mi è possibile analizzare in questo scritto che cosa ha generato tale stato di cose. Il bug in questione è facilmente rilevabile nella frustrazione provata dagli educatori, derivante dal trovarsi a constatare frequentemente che l’evoluzione dei bambini/ragazzi, osservabile all’interno dei loro Servizi Educativi, non è ac3. Tuggia, 2014.
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compagnata da una parallela evoluzione del loro sistema familiare, fatto questo che prima o poi incide sul loro benessere. Il sistema non prevede, istituzionalmente, che vi sia la possibilità di affiancare ad un intervento sociale e/o psicologico uno specifico intervento educativo con le famiglie, in particolare con i genitori, in cui gli educatori possano condividere delle esperienze con loro, sostenendoli nella genitorialità, nelle risposte che essi cercano di offrire ai bisogni dei loro figli. Il sistema, in altre parole, non riesce ad assumere fino in fondo l’ottica della Riunificazione familiare4, ossia lavorare nella direzione del raggiungimento del miglior livello possibile di relazione tra i bambini/ragazzi e la loro famiglia, riconoscendo la loro appartenenza a quel sistema familiare e mantenendo attive il più possibile le risposte dei genitori ai bisogni dei loro figli.
Il quinto “bug”: la presa in carico Questo quinto bug ha come origine un’idea profondamente radicata non solo tra gli educatori ma, in generale, tra tutti gli operatori sociali e che si chiama “presa in carico”. Questa espressione tecnica ha una forte valenza simbolica: rappresenta un fardello che, come Sisifo, ci portiamo sulla schiena e di cui ci dobbiamo occupare in toto, pur essendo tutti ben consapevoli che si tratta di un’impresa insostenibile. Tutti sappiamo che l’educazione è primariamente un fatto comunitario: è il prodotto di una serie di relazioni che vanno ben al di là del ruolo svolto dai genitori nella nostra vita5. Tutti noi siamo il frutto di una storia di relazioni con persone e ambienti che, fortunatamente, hanno arricchito e compensato le fragilità delle nostre famiglie6. Vano è allora pensare che il tutto si possa risolvere sostituendo i genitori con altri adulti edu4. Canali et al., 2001. 5. Tramma, 2009. 6. Tuggia, 2009.
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catori. Al di là della loro competenza, personale e professionale, mi sembra molto pericoloso per i bambini stessi dover sperare nella bravura dei loro educatori. Rivedere l’idea di presa in carico significa, prima di tutto, ripensarsi non come nuovi protagonisti della vita dei bambini, ma come facilitatori di processi e di relazioni che, nell’ottica della resilienza7, restituiscano un senso al loro vivere. Vuol dire dedicarsi alla costruzione, ricostruzione o, semplicemente, alla attivazione dell’ambiente di vita di quel bambino, che progressivamente si allargherà e che li accompagnerà nella loro crescita. Questo significa togliersi dal centro della scena, che ben presto diventerà insostenibile e insufficiente, per occuparci maggiormente di popolare la scena di tanti altri attori. Quelle figure che Cyrulnik chiama “soffiatori d’anima”8, capaci, nella loro quotidianità, di offrire pezzi di vita ad un’anima ferita. Ma questo richiede una precisa scelta professionale e, soprattutto, la decisione di iniziare una qualsiasi storia di accoglienza ponendoci una precisa domanda: Come possiamo andarcene dalla vita di questo bambino/ragazzo il più presto possibile, lasciandogli un mondo di relazioni che lo accompagni nella ricerca e nella scoperta del suo posto nel mondo?
Altri bug all’orizzonte Per concludere la presentazione dei bug del sistema, vorrei proporre due questioni che sospetto siano altri due nuovi bug con cui dovremo fare i conti nel prossimo futuro e che, pur riguardando specificatamente le comunità educative, aprono delle riflessioni che riguardano trasversalmente tutti i Servizi Educativi per i bambini, gli adolescenti e le loro famiglie. 7. Milani, Ius, 2010. 8. Cyrulnik, 2009.
La prima questione riguarda il rapporto con la realtà. Le comunità rientrano in una strategia di intervento volta a proteggere il bambino/ragazzo dai pericoli provenienti dal suo ambiente. La necessità del controllo è spesso molto alta e quindi molto dispendiosa per chi deve esercitarla. Con gli amici della Cooperativa Arimo di Milano, che gestiscono il progetto “Chiavi di casa” per ragazzi vicino alla maggiore età e neomaggiorenni, stiamo sostenendo una prospettiva che richiede una diversa visione della realtà: L’oggetto di lavoro si sposta quindi dal proteggere dai rischi presenti nella realtà al proteggere dai rischi prodotti dall’averla evitata, non avendo appreso gli strumenti per maneggiarla9.
La questione è proprio questa: come si può arrivare alla maggiore età senza avere gli strumenti per interagire con la realtà? Non si dovrebbe forse rivolgere l’attenzione molto prima dei diciott’anni ad anticipare, anzi, provocare l’incontro con la realtà e lavorare proprio su quello che questo incontro mobilita? Non è compito delle comunità “apparecchiare le circostanze” di questo incontro invece che tutelare dai rischi? La seconda questione è ancora più delicata. Le comunità, alla loro nascita, erano state pensate proprio come una risposta “comunitaria” al disagio, ossia sfruttare la forza generativa della relazione tra pari e con gli adulti educatori, riproponendo un modello il più simile possibile a quello familiare. Questo ha però dei corollari importanti, come ad esempio la necessità di introdurre regole di convivenza uguali per tutti oppure la spinta esercitata dal gruppo a uniformare le modalità di vivere i momenti cruciali della quotidianità (i pasti, il riposo, l’igiene personale, il momento dello studio, le vacanze, ecc.). 9. Per una esaustiva presentazione di questa esperienza, si vedano gli articoli presenti nei due inserti “L’autonomia dei giovani in uscita da spazi di liberta”, in Animazione Sociale, n. 9/2018 e 1/2019, Gruppo Abele, Torino.
Questa pressione al conformismo, tipico di ogni gruppo sociale di appartenenza, si è cercato di mitigarla con la costruzione di progetti educativi individualizzati, ossia introducendo delle specificità in sintonia con i bisogni di ciascun bambino/ adolescente. Ma la tensione tra progetto educativo della comunità e progetto educativo individuale è sempre stata molto forte ed è cresciuta esponenzialmente negli ultimi anni. Infatti la cultura occidentale è attraversata da una forte richiesta rivolta a ciascun individuo ad impegnarsi in prima persona a realizzare se stesso, a trovare il proprio posto nel mondo, a valorizzare la sua autonomia, il suo potere e le sue particolarità. È chiaro che un così potente messaggio sociale è arrivato anche ai ragazzi che sono inseriti in una comunità educativa. Prova ne è che molti educatori raccontano come l’insofferenza dei ragazzi verso la pressione ad adeguarsi alla vita comunitaria sia aumentata e stia mettendo tutt’ora in grande difficoltà gli educatori. Ci stiamo quindi ponendo una domanda, ancora sottovoce: il modello comunitario è ancora la strada giusta da proporre? O, in maniera più moderata, non è venuto il momento di ripensare nuove modalità di lavoro che consentano una gestione più personalizzata della tensione che si genera tra individuo e comunità, affinché la comunità, o cosa essa diventerà, non sia vista come un luogo da cui scappare, da cui emanciparsi, ma un luogo dove rifugiarsi e riposarsi dopo le fatiche causate dall’alta esposizione richiesta dalla vita di oggi?
Come i “bug” hanno generato questo libro C’è stato un momento in cui, nel corso del mio lavoro di formatore e consulente pedagogico di realtà che si occupano di accompagnare bambini e adolescenti, con le loro famiglie in situazione di vulnerabilità, mi sono reso conto che quando L’EDUCATORE GEOGRAFO DELL’UMANO
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esponevo alcuni miei pensieri sull’esistenza di uno specifico sguardo educativo nella conoscenza di queste situazioni, ricevevo dei feedback che potrei tradure con la parola: smarrimento. La cosa si è fatta ancora più evidente quando mi sono spinto ad affermare che, prima che qualcuno arrivi a definire se quel tal bambino abbia bisogno di uno specifico intervento (educativa domiciliare e territoriale; centro diurno; comunità educativa, diurna o residenziale), è necessario che la conoscenza sociale e psicologico/psichiatrica sia integrata da elementi proposti da una conoscenza educativa, comunemente definita come “osservazione educativa”. Un modo questo per affermare che la professionalità dell’educatore non si esaurisce nell’azione educativa decisa da altri, bensì concorre con le altre professioni e con specifiche attività, alla definizione di un Progetto Quadro inteso come insieme degli interventi che rispondono ai bisogni di un bambino/adolescente e della sua famiglia. L’apice dello smarrimento l’ho letto negli occhi dei miei interlocutori quando, in linea con quanto oggi sancito ufficialmente nelle Linee d’indirizzo nazionali “L’intervento con bambini e famiglie in situazioni di vulnerabilità. Promozione della genitorialità positiva” (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2017), ho affermato che i bambini, gli adolescenti e le loro famiglie devono veder riconosciuto il loro diritto di partecipare attivamente come partner alla pari dei professionisti dei Servizi, seppur con ruoli diversi, alla costruzione del percorso di accompagnamento visto che in gioco è la loro vita e il loro futuro. Vi sono molteplici origini di questo smarrimento, ma non è l’obiettivo di questo lavoro approfondirle. Ciò che ad un certo punto ha cominciato ad apparirmi chiaro è che molte delle difficoltà ad accogliere e a tradurre in pratica queste prospettive scaturivano da una mancanza o carenza di metodo.
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Mi è divenuto sempre più chiaro che una professione come quella educativa, così orientata al fare su indicazioni progettuali fornite da altri professionisti e, soprattutto, così esasperatamente formata a dedicarsi primariamente alla costruzione di relazioni “significative” all’interno della quotidianità, ha bisogno di dotarsi di una struttura e di strumenti di lavoro che le consentano di governare con maggior consapevolezza il proprio agire. Questo, in particolare, in una fase del percorso di accompagnamento delle famiglie, come quello della conoscenza, in cui storicamente questa figura professionale è esclusa in quanto il suo contributo non è considerato necessario. In questi anni ho avuto due grandi fortune. La prima è l’onore di far parte di LabRIEF10 (Laboratorio di Ricerca e Intervento in Educazione Familiare) del dipartimento F.I.S.P.P.A dell’Università di Padova. Questo gruppo di ricerca ha condotto la sperimentazione prima e l’implementazione poi, tutt’ora in atto, del Progetto P.I.P.P.I. in collaborazione con il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Il patrimonio di esperienze e di riflessioni che ha visto coinvolti migliaia di operatori sociali in tutta Italia, ha permesso di realizzare le sopracitate Linee d’indirizzo nazionali. La preziosità di questo documento è che contiene una proposta di metodo di lavoro con le famiglie in situazione di vulnerabilità, inteso come “percorso di accompagnamento”, ossia un processo di intervento, integrato e partecipato che coinvolge risorse professionali e informali, che si basa sul riconoscimento, la valorizzazione delle risorse (personali, familiari, di contesto) che consentono alle figure genitoriali di rispondere in maniera positiva ai bisogni di crescita dei bambini11. 10. Non posso che ringraziare la prof.ssa Paola Milani, responsabile del gruppo di ricerca e del Progetto P.I.P.P.I., e tutti i membri di LabRIEF, per l’esperienza fatta in questi anni di lavoro insieme e soprattutto per gli spazi di discussione che siamo riusciti a ricavarci, senza i quali non sarebbe stato possibile produrre questo testo. 11. Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (2017), Linee d’indirizzo nazionali “L’intervento con bambini e famiglie in situazioni di vulnerabilità. Promozione della genitorialità positiva”, Roma.
La seconda fortuna è stata quella di lavorare con alcune Cooperative Sociali e Servizi di Enti Pubblici12 che hanno accettato il rischio di prendere sul serio l’esistenza dei “bug” illustrati in precedenza e di iniziare un percorso volto ad aprire nuove piste di lavoro in grado di andare oltre queste difficoltà. Se non avessi avuto la possibilità di lavorare fianco a fianco sia con i ricercatori dell’Università sia con gli educatori, questo testo non sarebbe stato possibile e per questo li ringrazio profondamente. Queste due esperienze che mi son trovato a vivere contemporaneamente sono diventate via via sempre più interconnesse. Mi è così diventato sempre più chiaro che era necessario realizzare una traduzione specifica del metodo proposto dalle Linee d’indirizzo nazionali nel campo dei Servizi Educativi. Le fasi e gli strumenti del metodo della conoscenza educativa che propongo in questa pubblicazione sono pertanto l’esito di quanto ho elaborato, assieme alle realtà sopra indicate, cercando di rileggere il metodo della Valutazione partecipata presentato nelle Linee d’indirizzo nazionali13 dal punto di vista della professionalità educativa. Credo che possa essere d’aiuto agli educatori per valorizzare il contributo di conoscenza che questo specifico sguardo professionale può offrire sia alle famiglie stesse che agli altri colleghi. Questo libro può essere d’aiuto anche ai professionisti di area sociale e psicologico/psichiatrica che desiderino comprendere meglio il particolare contributo che i loro colleghi educatori possono 12. Permettetemi di citare tutte (in ordine alfabetico) le realtà che hanno più direttamente e continuativamente condiviso con me questo percorso di ricerca, non solo per riconoscenza ma anche perché, chissà mai, che non vi venga voglia di incontrarle per confrontarvi con loro. Terzo Settore: Casa famiglia San Pio X (Venezia), Cooperativa Carovana (Galliera Veneta), Cooperativa Codess (Verona), Cooperativa CSA (Verona), Cooperativa Kirikù (Montebelluna), Cooperativa L’albero (Verona), Cooperativa Radicà (Calvene). Comuni: Comune di Bologna; Comune di Verona. 13. Ministero delle Lavoro e delle Politiche Sociali, op. cit., p. 19.
dare al lavoro in oggetto e, valorizzandone le specificità, possono trarne un deciso vantaggio. Per completare questa introduzione sulle origini e le finalità del testo, è a questo punto necessario porre due questioni e conseguenti precisazioni. Nelle svariate occasioni di incontro e di discussione con gli educatori è spesso stato evidenziato come l’assunzione di un metodo porti con sé il rischio di un irrigidimento del lavoro educativo a scapito della autenticità della relazione educativa che deve essere salvaguardata. Credo che qui emerga innanzitutto una grande confusione tra il concetto di autenticità e quello di spontaneità: la relazione educativa non ha nulla di spontaneo, come può essere invece nella relazione tra consanguinei o in quella di tipo amicale. Siamo chiaramente in presenza di un incontro forzato dalle circostanze in cui un professionista è “costretto” ad entrare in relazione con la vita di un nucleo familiare, il quale a sua volta è “costretto” a dover interagire con una realtà esterna alla sua vita. Esplicitiamolo chiaramente: se potessero scegliere, nessuna delle parti desidererebbe questo incontro. Ci troviamo quindi di fronte al tentativo di costruire artificialmente una relazione e quindi è palesemente improprio aspettarsi che ciò avvenga nella spontaneità. È invece più corretto parlare di intenzionalità, costrutto tanto caro alla pedagogia e altrettanto ricco di criticità14. Da questo punto di vista, chi non possiede un metodo non può che agire spontaneamente, di volta in volta senza un riferimento, sperando nella bontà delle sue decisioni, in balia della sua spontaneità e delle sue capacità intuitive di orientarsi nella scena. D’altro canto, chi invece intenzionalmente ha un metodo come riferimento per il proprio agire, può permettersi di piegarlo secondo le esigenze di una relazione reale, finanche decidere di liberarsene quando risulta troppo stretto o inadeguato. Quindi sono convinto che 14. Cambi, (2004).
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solo chi possiede un metodo, teoricamente fondato, è libero di scegliere di farne a meno. Un metodo permette all’educatore di essere il meno “pericoloso” possibile per sé e soprattutto per gli altri, che rischiano altrimenti di essere esposti ai suoi umori, al suo estro, alle sue emozioni e alle sue competenze o incompetenze. Un metodo permette all’educatore di rileggere ciò che sta accadendo a sé e agli altri, non solo in termini di qualità della relazione generata, ma soprattutto come processo che sta generando quel tipo di relazione. Una seconda questione riguarda la validità del metodo presentato in questa pubblicazione. In altri termini, il percorso che verrà esposto è da considerarsi complessivamente e nei suoi singoli elementi definitivo? La risposta è assolutamente negativa. Si tratta solo di ciò che la riflessività sull’esperienza è riuscita a produrre in me e nelle persone con cui ho collaborato. È un materiale in fieri, tutto da provare, riprovare, modificare, aggiustare e, soprattutto, arricchire. Abbiamo solo tracciato una strada e cerchiamo altri appassionati esploratori di nuovi sentieri che ci aiutino in questa impresa.
Nel corso del 2015 ho avuto la fortuna di leggere Geografie di prossimità15, un testo scritto da un’équipe di geografi che descrivono il metodo di lavoro che utilizzano quando si approcciano ad un nuovo ambiente che intendono conoscere. Sono stato colpito dalle profonde sintonie che riconoscevo tra il loro modo di costruire questa progressiva prossimità con la geografia dei luoghi e con le persone che in essi vi abitano e il modo che immaginavo potesse caratterizzare l’agire conoscitivo degli educatori. L’approccio
etnografico alla conoscenza della geografia dei luoghi era per me lo stesso che gli educatori potevano assumere per aprirsi alla conoscenza della geografia dell’umano, di quella umanità che essi incontravano nelle storie delle persone. Nel testo si parlava di una prossimità ai luoghi tutta da costruire con pazienza, curiosità, delicatezza, rispetto. Una prossimità che si costruisce progressivamente, secondo precise fasi di lavoro, corredate di strumenti e caratterizzate da un attento lavoro su di sé per impedire che pre-cognizioni e pre-giudizi possano ostacolare una conoscenza aperta anche all’imprevisto e all’incespicare di chi, incerto, non riconosce dove si trova e non sa di preciso dove sta andando. La riflessione su questo materiale, intrecciata con l’esperienza che via via si stava costruendo nel lavoro di supervisione e formazione, mi ha portato alla scrittura di un articolo, “L’educatore geografo dell’umano”16, in cui iniziavo a tracciare i primi contorni di un metodo capace di orientare il lavoro conoscitivo degli educatori. Nuove riflessioni e nuove esperienze mi hanno aiutato a definire con maggior precisione le caratteristiche di questo metodo e mi hanno permesso di giungere alla scrittura del presente testo. Sono così arrivato alla conclusione di mantenerne il medesimo titolo per evidenziare che si tratta di un approfondimento e un ampliamento di quanto tracciato in quell’articolo. L’educatore come geografo dell’umano è allora un’immagine che rappresenta un modo di esprimersi di una professione che fa della prossimità la cifra del proprio essere ed agire. Esistono oggi diversi termini in campo sociale per definire l’attività attraverso la quale le diverse professionalità sociali cercano di approfondire la conoscenza delle situazioni di cui si occupano, per poter in seguito individuare un progetto d’intervento appropriato: si parla di
15. Bertoncin, Pase, Quadrida, 2014.
16. In “Animazione Sociale”, gennaio 2016.
Il titolo
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valutazione, di assessment, di analisi. A questi si aggiunge, nell’ambito pedagogico, l’espressione osservazione educativa per indicare specificatamente il contributo dell’educatore nell’attività conoscitiva. Ad essere sinceri nessuno di essi mi ha mai convinto per due emotivi: il primo, che riprenderò in seguito, riguarda il fatto che, almeno nella mia esperienza, questi termini rimandano ad un’azione di un soggetto (l’esperto) verso un altro soggetto (il bambino/ragazzo e la sua famiglia) che di fatto diventa l’oggetto dell’atto conoscitivo. Ciò che non mi quadra è la mancanza in questi termini di una reciprocità conoscitiva che evidenzi il contributo attivo del soggetto (non più oggetto, destinatario, utente) nella costruzione di una conoscenza condivisa della sua situazione all’interno di un percorso in cui anche l’educatore deve essere conosciuto. Il concetto è molto semplice: per fidarmi di una persona che entra nella mia vita per conoscermi, devo conoscerla a mia volta. Il secondo motivo nasce da un dato molto pragmatico: ogni qual volta gli educatori con cui lavoro si sono trovati a spiegare alle famiglie che avrebbero iniziato un periodo di osservazione educativa, era evidente negli occhi delle persone il totale sconcerto di fronte ad una terminologia non solo assolutamente incomprensibile a loro, ma generatrice di fantasmi minacciosi da cui non potevano che difendersi. Con gli educatori abbiamo discusso molto su questa questione: da un lato eravamo consapevoli che non ci trovavamo di fronte ad un problema meramente nominalistico, poiché richiamava temi ben più profondi di carattere epistemologico, teorico ed etico. Dall’altro potevamo constatare quanto le parole possano diventare barriere che richiedono tempo ed energie per disinnescarne le conseguenze perverse. A volte, tali barriere diventano sin da subito palesemente insormontabili proprio a causa di un linguaggio
usato non per comunicare ma per affermare un potere nella relazione. Ad un certo punto ci siamo accorti che la risposta l’avevamo sotto il naso: cosa stavamo facendo e proponendo? Conoscenza! Per poter decidere di fare un percorso educativo insieme è necessario conoscersi reciprocamente per cercare convergenza nella lettura della situazione e scegliere le attività da intraprendere per volgersi verso un obiettivo condiviso. Recuperata l’idea di reciprocità, abbiamo anche potuto constatare che i bambini, gli adolescenti e le loro famiglie avevano molta meno difficoltà a capire cosa significasse questo termine, evitando quindi l’insorgere in loro di grosse preoccupazioni e resistenze. Ecco allora che il nostro metodo per l’osservazione educativa è diventato, convintamente e semplicemente, metodo per la conoscenza educativa!
Com’è costruito e come si legge il testo Infine, alcune indicazioni per orientarsi nel testo. Ho deliberatamente scelto di non seguire le regole della scrittura di tipo accademico. Questo per una serie di motivi. Il primo fra tutti è che conosco la difficoltà che gli operatori sociali hanno nella lettura di materiale professionale per la scarsità di tempo-lavoro che viene riconosciuto dagli enti committenti a questa finalità. Per qualcuno, a volte, si tratta anche di una poca attenzione a considerare l’importanza strategica di continuare ad alimentare la propria professione tramite la lettura della produzione scientifica della materia. Vi è però un terzo motivo a cui ricondurre questa difficoltà: gli operatori di oggi sono figli della rivoluzione e della cultura digitale e come tali tendono a preferire un approccio al mondo, e quindi anche alla lettura, di tipo “superficiale”17, 17. Baricco, 2018.
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ossia la preferenza a cogliere il senso profondo delle cose quando è fatta risalire sulla superficie del mondo, liberandola da tutta la complessità che l’ha generata e che può rimanere sotterranea senza pregiudicarne l’importanza. Di conseguenza l’approccio con una scrittura accademica, ricca di citazioni e riferimenti bibliografici, nonché a rischio di pesanti ridondanze, risulta per alcuni un ostacolo insormontabile che fa desistere anche i più volenterosi nell’intento. Questo mi ha portato a decidere di scegliere una scrittura semplice e diretta, tanto da rivolgermi in prima persona ai miei interlocutori, come se fossi nel corso di una formazione o di una supervisione. Il rischio è di apparire un po’ direttivo e prescrittivo, ma credo che in questo caso possa avere una qualche efficacia. È un testo quindi breve, asciutto, con scarse citazioni e poche indicazioni bibliografiche presenti direttamente nel testo per lasciare che il flusso della comunicazione non sia continuamente interrotto. Ho quindi preferito raccogliere tutti i riferimenti teorici che fanno da cornice al metodo proposto e la correlata bibliografia di riferimento, in un unico capitolo, aggregando teorie e testi per aree tematiche, così da facilitarne la consultazione e l’eventuale scelta personale di approfondire lo studio. Ringrazio mia moglie Anna e mia sorella Antonella per la paziente lettura del testo per scovare errori o indicarmi possibili modifiche. Infine vorrei ringraziare in maniera particolare la dott.ssa Ombretta Zanon non solo per la sua disponibilità a scrivere la prefazione al testo, ma anche per avere pazientemente letto le bozze e avermi donato le sue preziose osservazioni, frutto della sua profonda sensibilità umana e di un’altissima professionalità, che mi hanno permesso di migliorare lo scritto. A lei devo molto anche rispetto al contenuto del testo perché è anche il frutto delle nostre lunghe discussioni telefoni-
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che, incontri virtuali via Skype, confronti serrati nel corso di comuni e, a volte, interminabili viaggi di lavoro da una città all’altra o più semplicemente al bar, davanti ad una tazza di caffè.
Prima fase: la prossimità umana immaginata
La raccolta e l’“elaborazione” della richiesta Vorrei iniziare con una premessa importante: l’attività di un Servizio Educativo18 non prende avvio dal momento in cui un educatore o un’équipe di educatori inizia a “lavorare” direttamente con un bambino nel conteso del proprio servizio. No. Comincia molto prima. Più precisamente quando il Servizio Referente19 di una famiglia, solitamente un assistente sociale, convoca il responsabile del vostro SE per presentare una richiesta di inserimento di un bambino/adolescente. Quindi è necessario che il resposnabile del vostro SE sia attrezzato per iniziare una nuova storia perché, se riusciamo a farla partire bene, abbiamo maggiori probabilità che possa finire altrettanto bene. In questo incontro, il responsabile riceve una certa quantità di informazioni che varia a seconda delle conoscenze possedute dal SR relative a quella specifica situazione familiare, sotto forma di racconti verbali e di eventuale documentazione cartacea prodotta dai professionisti che sino a quel momento possono aver incontrato il bambino/adolescente e la sua famiglia. 18. Da questo punto in poi SE. 19. Da questo punto in poi SR.
Oltre alla quantità, il responsabile si trova a dover gestire la modalità con la quale queste informazioni gli vengono presentate, modalità che non sempre ha una struttura ordinata, a volte non contiene tutte le informazioni che egli si aspetta di ricevere e, in ogni caso, risente profondamente del punto di vista di chi racconta la situazione. Il responsabile del vostro SE ha quindi sin da subito bisogno di possedere un metodo con cui interagire sia con il suo interlocutore, sia con le informazioni stesse da questo comunicate. Nella pratica ho constatato che risulta difficile costringere il SR a seguire una modalità diversa dalla propria nell’esporre le informazioni in suo possesso. È quindi preferibile lasciare che la comunicazione si svolga secondo le preferenze di quell’operatore. Ma ci sono due semplici strategie che il responsabile del SE può adottare: 1) avere una Scheda di raccolta della richiesta predisposta all’interno del vostro servizio che, usata come griglia mentale dal responsabile del SE, lo guidi nel corso dell’incontro mentre pone le domande utili alla ricerca delle informazioni che si desiderano avere; questa interlocuzione semistrutturata ha anche la finalità di far emergere le aree che presentano delle criticità sia per scarsità di informazioni e conoscenze possedute dal SR, sia per divergenti o controverse valutazioni da parte di altri professionisti nella lettura della situazione; 2) concluso il colloquio, è opportuno che il responsabile dedichi del tempo alla riorganizzazione del materiale, trascrivendone l’esito e le informazioni ricevute all’interno della suddetta Scheda di raccolta della richiesta. Tutti i SE possiedono una scheda con questa finalità. Solitamente è composta da una parte dedicata alla raccolta dei dati anagrafici della famiglia e da un’altra parte in cui è raccontata la storia della
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famiglia e gli eventuali interventi sociali, psicologici ed educativi in atto o realizzati in passato. Vi è infine una terza parte, più o meno strutturata, in cui sono inserite le informazioni riguardanti le caratteristiche personali e relazionali del bambino e della sua famiglia. Questa terza parte mi sembra la più interessante, perché la qualità e la quantità di queste informazioni, nonché la modalità con la quale sono sistematizzate, può avere un’importante influenza sul futuro percorso. DI COSA HO BISOGNO PER CRESCERE
A questo riguardo nel Box 1 potete vedere un esempio di questa terza parte della Scheda di raccolta della richiesta che ho sperimentato in questi anni e che ha come quadro di riferimento il Mondo del Bambino (v. Immagine 1), che costituisce la nostra cornice teorica di riferimento che è descritta nelle citate Linee d’indirizzo nazionali (2017). In sintesi, il Mondo del Bambino20, traduzione italiana del modello denominato Assessment Fra-
ELEMENTI DESCRITTIVI
ANNOTAZIONI E COMMENTI PERSONALI
EVENTUALI IPOTESI DI INTERVENTO
ELEMENTI DESCRITTIVI
ANNOTAZIONI E COMMENTI PERSONALI
EVENTUALI IPOTESI DI INTERVENTO
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ANNOTAZIONI E COMMENTI PERSONALI
EVENTUALI IPOTESI DI INTERVENTO
SALUTE E CRESCITA EMOZIONI, PENSIERI, COMUNICAZIONE E COMPORTAMENTI IDENTITÀ E AUTOSTIMA AUTONOMIA RELAZIONI FAMIGLIARI E SOCIALI APPRENDIMENTO GIOCO E TEMPO LIBERO DA CHI SI PRENDE CURA DI ME CURA DI BASE, SICUREZZA, PROTEZIONE CALORE, AFFETTO E STABILITÀ EMOTIVA GUIDA, REGOLE E VALORI. DIVERTIMENTO, STIMOLI E INCORAGGIAMENTO AUTOREALIZZAZIONE DELLE FIGURE GENITORIALI NEI LUOGHI IN CUI VIVO RELAZIONI E SOSTEGNO SOCIALE PARTECIPAZIONE E INCLUSIONE NELLA VITA DELLA COMUNITÀ LAVORO E CONDIZIONE ECONOMICA ABITAZIONE RAPPORTO CON LA SCUOLA E LE ALTRE RISORSE EDUCATIVE
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20. Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, op. cit., pp. 85-97.
Immagine 1 mework, nato in Inghilterra, offre da un lato una meta-cornice teorica di riferimento per gli operatori, professionali e non, entro cui collocare i propri sguardi, le proprie conoscenze e trovare un linguaggio comune per comunicarle; dall’altro è uno strumento di supporto per far emergere i bisogni di sviluppo e le potenzialità di ogni bambino e di ogni famiglia nel corso dell’intervento. L’immagine grafica è molto intuitiva: il benessere del bambino (che poniamo al centro) è frutto della relazione esistente tra i suoi bisogni di sviluppo, il tipo di risposta a questi bisogni da parte di chi si prende cura di lui e dalla qualità della relazione esistente tra il bambino, la sua famiglia e il loro ambiente. Uno sguardo ecologico
di questo tipo, in grado di abbracciare molteplici dimensioni, consente una lettura più articolata dei problemi, ma anche una maggiore possibilità di intravedere future e possibili evoluzioni positive del nucleo familiare. La Scheda di raccolta della richiesta, integrata con la griglia proposta permette quindi di visualizzare con immediatezza la quantità e la qualità delle informazioni presenti in ciascuna sotto-dimensione reperite dagli operatori che sino a quel momento sono entrati in contatto con la famiglia. È possibile anche capire su quali dimensioni sia stato raccolto il punto di vista del bambino/adolescente e di chi si stia occupando di lui o se, al contrario, emerga solo la prospettiva dei professionisti. L’EDUCATORE GEOGRAFO DELL’UMANO
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L’ascolto di sé Solitamente a questo punto il vostro responsabile del SE, se reputa che la richiesta ricevuta possa essere presa in considerazione, la presenta e la discute con la vostra équipe educativa. Analizziamo ora che tipo di materiale vi trovate di fronte: alcune informazioni sono di tipo descrittivo dei fatti, mentre altre sono interpretazioni, valutazioni, diagnosi, finanche giudizi che alcuni operatori hanno prodotto sollecitati da questi fatti. A questo si aggiunge anche che il vostro responsabile presenta queste informazioni secondo la sua cornice di riferimento, producendo a sua volta non solo informazioni descrittive della realtà ma anche proprie rielaborazioni. Questo processo, in cui le descrizioni della realtà si mescolano e a volte si confondono con le interpretazioni di tutti i soggetti sin qui apparsi sulla scena, non è assolutamente terminato perché ora ci siete anche voi. Infatti, a vostra volta, nel ricevere questo materiale, iniziate automaticamente a produrre pensieri ed emozioni “su” quanto vi è comunicato, secondo il vostro quadro interpretativo di riferimento, costituito da teorie esplicite ma anche implicite, esperienze personali ed emozioni che queste informazioni vi evocano. La questione diventa seria: come potete affrontare i rischi generati da queste operazioni mentali? O meglio: come potete difendere la famiglia dall’insorgere di un velo di interpretazioni che non solo rischiano di nasconderla ma anche di bloccarla entro categorie pre-concette, soprattutto da chi, come voi, non ha ancora conosciuto faccia a faccia questa famiglia se non tramite il mondo interpretativo degli altri? E ancora: come potete immaginarvi di entrare in relazione con questa famiglia senza essere già appesantiti da un’immagina indotta dalle interpretazioni di altri e contemporaneamente senza misconoscere il valore informativo e professionale dei resoconti di questi altri professionisti? 24
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A questo punto c’è bisogno di fare un po’ di pulizia e, anche in questo caso, di uno strumento che la possa favorire. Avrete sicuramente notato che nella Scheda di raccolta della richiesta presentata nel Box 1, oltre alla colonna dedicata alla trascrizione dei dati e delle informazioni riportate in modo descrittivo, vi sono altre due colonne. La colonna denominata Annotazioni e commenti personali è lo spazio in cui ciascuno di voi può trascrivere tutte le domande, i dubbi, i pensieri, le fantasie, le interpretazioni, le valutazioni, finanche i giudizi che insorgono dentro di voi a seguito dell’ascolto della presentazione fatta dal responsabile. Si tratta di considerazioni e reazioni che un gruppo ben allenato a questa pratica può imparare a riconoscere, a verbalizzare e condividere tra colleghi. Esse, “portate fuori dalla propria mente” e collocate in uno spazio altro, iniziano ad essere distinte dai fatti, compresi quelli mancanti. L’intento è quello di generare un processo mentale collettivo: riconoscendo i rischi delle proprie percezioni, ma consapevoli al contempo del loro valore, si impara a controllarle senza negarle; si valorizzano perché riconosciute come parte del proprio mondo conoscitivo, ma si cerca al contempo di contenere il loro potere condizionante, certi della loro potenziale e invasiva pericolosità. Una prima pulizia tra fatti (descrizione) e interpretazione dei fatti è così possibile. La medesima funzione ha la terza colonna, avente per titolo Eventuali ipotesi d’intervento. In questo caso la specificità di questo spazio è quella di raccogliere tutte le idee di intervento che, all’affluire delle informazioni e del loro impatto in voi, si possono generare spontaneamente. Idee che devono mantenere il valore di ipotesi da confermare o confutare nel prosieguo del lavoro e che, pertanto, devono essere tenute sotto stretto controllo affinché non impediscano tutta quell’apertura necessaria all’incontro con le persone reali che deve ancora verificarsi a questo punto del vostro lavoro.
La scrittura dell’ipotesi di Programma della Conoscenza Educativa Ora che avete fatto un po’ di ordine e pulizia, ai vostri occhi appare un materiale variegato che, osservato nella sua globalità, non può che generare un forte desiderio di approfondire questa conoscenza. Si aprono così delle nuove domande: • domande di approfondimento di aree che richiedono una maggiore o diversa esplorazione per insufficienza di dati o per divergente interpretazione degli stessi; • domande riguardanti aree per nulla esplorate o la cui esplorazione non ha prodotto sino ad ora nessun esito; • domande che richiedono l’interlocuzione con soggetti che nessuno ha per il momento interpellato; • domande volte a verificare interpretazioni, valutazioni e diagnosi prodotte dai diversi professionisti sin qui coinvolti; • domande che nascono dal vostro desiderio di conoscere il punto di vista di tutti i membri della famiglia. Il prorompere di queste domande è il segno che si è avviato un processo di curiosità pedagogica, ovvero una forma specifica di creatività che si mette a disposizione degli altri, che ci mette a disposizione degli altri perché ci spinge a pensare all’esperienza che potremmo condividere con gli altri21.
Per l’educatore si tratta di un desiderio di conoscenza operativa che potremmo sintetizzare in una domanda: Quali esperienze vorremmo fare assieme al bambino/adolescente, alla sua famiglia e alle persone appartenenti al loro ambiente di vita per cono21. Marchesi, 2019.
scerli meglio, per capire che cosa guida le scelte della loro vita, quali sono i loro desideri ed aspirazioni e che cosa impedisce di realizzarli, quali sono le risorse su cui si può contare e quelle che, ora nascoste, possono essere mobilitate?
Questa domanda è la base su cui la vostra équipe e può costruire il Progetto di Conoscenza Educativa. O meglio, può costruire un’ipotesi di progetto, a brevissimo termine che, come vedremo in seguito, va condivisa, discussa, smontata e ricostruita assieme al SR e alla famiglia stessa. Andiamo con ordine. Ho parlato di fare esperienze assieme22 perché la conoscenza educativa per sua natura si caratterizza per l’allestimento di esperienze in cui le persone che vi partecipano, compresi quindi anche voi, si possano reciprocamente vedere, conoscere e riconoscere, nonché abbiano la possibilità di scoprire ciò che al momento si presenta poco visibile o del tutto sconosciuto. Il presupposto è che qualcosa, che oggi è invisibile, ci debba essere necessariamente, altrimenti non esisterebbe uno spazio per l’agire educativo (la Zona di Sviluppo Prossimale, come Vygotskij ci ha magistralmente insegnato) e quindi per un possibile cambiamento. Alcune di queste esperienze in realtà sono già date perché sono parte della vita della famiglia e quindi vanno solo incontrate e con-vissute: parliamo del momento del pranzo, dello studio, dello sport praticato dal bambino, delle relazioni che la famiglia ha con il suo territorio. Sono momenti e luoghi che appartengono alla vita quotidiana della famiglia, di cui non basta parlarne, bisogna viverle, respirarle e assaporarle. Altre esperienze non possono invece che essere provocate o generate: in questo caso è il bagaglio dei vostri strumenti che offre delle occasioni di confronto e che dà alle persone la possibilità di esprimere parole e gesti per raccontarsi, per far emergere il loro punto di vista, i loro pensieri, le 22. Tuggia, 2016.
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loro emozioni, i loro desideri. A questo riguardo, sono un utile riferimento, oramai confermato dall’esperienza di centinaia di operatori in tutta Italia, gli strumenti proposti all’interno del programma P.I.P.P.I.23, di cui si trova una rassegna nel testo di Serbati e Milani. Gli strumenti proposti sono da intendere come supporto per il confronto tra persone diverse, tra professionisti, tra professionisti e famiglia. Sono strumenti che servono a <dare parola> a tutti gli interlocutori, anche a quelli che non sono abituati ad averla […]24
solo sulle informazioni ricevute dal responsabile del loro servizio e non ancora condivise con la famiglia. Nel Box 5 potete invece leggere un esempio di un Programma di Conoscenza così come è stato effettivamente realizzato nel corso di circa due mesi di lavoro. Si ha così la possibilità di osservare come il programma si trasformi con l’evolvere della relazione tra i due educatori coinvolti nell’attività e la famiglia.
Entro il quadro teorico in cui mi sto muovendo, l’ipotesi di Progetto di Conoscenza Educativa può essere costruita tenendo presenti le tre dimensioni del Mondo del bambino, come presentato nel Box 2. “Fare insieme” al bambino o all’adolescente
Significa, innanzitutto, condividere “fisicamente” i diversi momenti e le diverse attività della sua vita quotidiana, come il risveglio, l’alimentazione, l’igiene personale, lo studio, il gioco, l’interazione con i suoi genitori, con i fratelli, con gli amici e con le persone presenti negli ambienti da lui frequentati, ecc. Allo stesso tempo significa anche proporgli delle attività, utilizzando strumenti finalizzati a fare emergere il suo punto vista rispetto a quello che egli sta vivendo.
“Fare insieme” a chi si prende cura del bambino/adolescente (genitori, altri parenti o figure sostitutive)
Significa, anche in questo caso, condividere alcune occasioni della loro vita quotidiana: il risveglio, i pasti, il gioco, il momento dei compiti e il rapporto con la scuola, ecc.; ma anche proporre loro delle attività specifiche per raccoglierne il punto di vista, l’idea di genitorialità, i bisogni dei loro figli e le modalità adottate per rispondervi.
“Fare insieme” all’ambiente di vita
Significa dedicare del tempo ad attraversare fisicamente il territorio dove si svolge la vita del bambino e dei suoi genitori. Si tratta infatti di incontrare i suoi insegnanti, i suoi educatori (sportivi, parrocchiali, ecc.), e dove possibile tutti gli adulti (il pediatra, i vicini di casa, ecc.) che a vario titolo hanno a che fare con lui e la sua famiglia. Lo scopo è ascoltarne il punto di vista e la loro conoscenza della situazione.
Box 2 Nei Box 3 e 4 vi propongo due esempi di Progetto di Conoscenza Educativa scritti dagli educatori appartenenti a due Servizi di Educativa Domiciliare e Territoriale25 costruiti prima di incontrare e conoscere la famiglia, basati pertanto 23. Milani et al., 2011; Serbati, Milani, 2013. 24. Serbati, Milani, 2013, op. cit., p. 174. 25. Cooperativa Radicà, Calvene (VI) e Cooperativa Kirikù, Montebelluna (TV).
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Marco Tuggia
MONDO DEL BAMBINO
ATTIVITÀ PROPOSTE
PERSONE COINVOLTE
“Fare insieme” al bambino o all’adolescente
Bambina • Ecomappa, SDQ, Mondo del Bambino e altre attività (Intervista doppia, Se Genitori fossi…) finalizzate a far emergere il punto di vista di M. • Condivisione dei compiti scolastici. Confronto con ragazza che aiuta M. a fare i compiti. • Condivisione di momenti di gioco sia in casa che fuori (parco giochi). • Alcune osservazioni nella quotidianità: igiene personale (lavarsi le mani prima di mangiare), alimentazione (merenda), preparazione della tavola e sistemazione dei giochi e della camera.
“Fare insieme” a chi si prende cura del bambino/ adolescente (genitori, altri parenti o figure sostitutive)
• SDQ, Mondo del Bambino con entrambi i genitori. • Osservo la preparazione della merenda, della cena e della tavola. • Momenti di gioco soprattutto condivisi con la madre. • Osservo il padre come si confronta con la figlia e con la moglie.
“Fare insieme” • Situazione di M. a scuola sia da un punto di vista dell’apprendimento sia delle all’ambiente di vita relazioni con i pari
Genitori
Insegnanti
Box 3 MONDO DEL ATTIVITÀ PROPOSTE BAMBINO “Fare insieme” • proposta di fare il Mondo del bambino per definire come si vede lei nei tre lati e al bambino o pensare a “cosa pensa di aver bisogno”. all’adolescente “Fare insieme” a chi si prende cura del bambino/ adolescente (genitori, altri parenti o figure sostitutive)
PERSONE COINVOLTE A.
Nonna Famiglia affidataria
Conoscere la nonna • Partecipare ad un incontro protetto • Incontrare una volta la nonna a casa sua Conoscere la famiglia affidataria • Presentare alla famiglia affidataria il progetto con il periodo di conoscenza e la successiva definizione del progetto sulla base di quanto emerge nella fase di conoscenza con l’apporto di tutti i soggetti coinvolti. • Fare il Mondo del bambino con la famiglia affidataria • Proporre alla famiglia di partecipare al gruppo genitori a partire da gennaio 2019.
“Fare insieme” Conoscere A. nella vita fuori dalla famiglia all’ambiente di • Ecomappa (dalla descrizione del servizio sembra una ragazza sola, vorremmo vita capire se e quali relazioni ha o le sembra di avere). • Interessi di A. (proporle di partecipare ai laboratori della nostra comunità come ad esempio Master Chef, che possano rispecchiare alcuni interessi che lei dice di avere). • Osservare come si relaziona con gli adulti (accompagnarla a danza e andare a prenderla a scuola per vedere come si rapporta ai suoi insegnanti, al maestro di danza, ecc.). • Osservare come si relaziona con i pari in un contesto “protetto e mediato” come la comunità (un pranzo a settimana e un pomeriggio di compiti). • Incontro con la coordinatrice di classe.
A. Comunità Danza Scuola Famiglia affidataria del fratello
Conoscere la famiglia affidataria del fratello • Incontrare la famiglia affidataria. • Vedere i due fratelli insieme, in due occasioni, a casa della famiglia affidataria, se hanno occasioni di incontro.
Box 4 L’EDUCATORE GEOGRAFO DELL’UMANO
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dorsetto 3,67 mm Versione con scritte dorsetto al limite
Marco Tuggia
pericoloso
Marco Tuggia, pedagogista e formatore in educazione familiare, svolge attivitа di formazione, consulenza e supervisione pedagogica per Servizi sociali ed educativi dell’Ente Pubblico e del Terzo Settore. È membro del gruppo di ricerca LabRIEF dell’Universitа di Padova, Dipartimento di Scienze dell’Educazione. Ha pubblicato Non di solo mamma e papа vivono i figli e Padre dove vai? per la Armando Editore e ha curato il volume Quasi come Mary Poppins per la Erickson Live.
L’EDUCATORE GEOGRAFO DELL’UMANO Accompagnare famiglie con bambini in situazione di vulnerabilità
L’EDUCATORE GEOGRAFO DELL’UMANO
Una professione come quella educativa, orientata spesso alla costruzione di relazioni “significative” all’interno della quotidianità di nuclei familiari in situazione di vulnerabilità, ha bisogno di dotarsi di una struttura e di strumenti di lavoro soprattutto nella fase iniziale dedicata alla conoscenza delle famiglie, da cui la figura dell’educatore è spesso esclusa. L’educatore invece concorre al pari di altre professioni e con specifiche attività alla costruzione di un Progetto Quadro inteso come insieme degli interventi che rispondono ai bisogni di un bambino/adolescente e della sua famiglia. Le fasi e gli strumenti del metodo della conoscenza educativa proposte in queste pagine sono l’esito della rilettura del metodo della Valutazione partecipata presentato nelle Linee d’Indirizzo Nazionali, emanate dal MLPS del 2017, dal punto di vista della professionalità educativa. Per questa ragione il libro può essere d’aiuto anche ai professionisti di area sociale e psicologico/psichiatrica che desiderano comprendere meglio il particolare contributo che i loro colleghi educatori possono dare valorizzandone le specificità. L’educatore come geografo dell’umano è allora un’immagine che rappresenta il modo di esprimersi di una professione che fa della prossimità la cifra del proprio essere ed agire in équipe. Le famiglie in situazione di vulnerabilità si trovano metaforicamente come in una barca nel mare in tempesta e gli educatori sono essi stessi parte dell’equipaggio. La responsabilità dei professionisti implica però che essi si dotino prima di salire a bordo di una strumentazione tecnica fatta di mappe, bussole e funi, che aiuti a cercare e mantenere la rotta, tra le onde della bonaccia e i flutti della burrasca. E questo libro accompagna sicuramente a costruire un buon equipaggiamento.
Marco Tuggia
ISBN 978-88-6153-768-2 In copertina disegno di Fabio Magnasciutti
Euro 13,50 (I.i.)
9 788861 537682
edizioni la meridiana p a r t e n z e