Educazione bene comune. La voce dei ragazzi e delle ragazze

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ISBN 978-88-6153-909-9

Euro 15,00 (I.i.)

R. Mantegazza - A. Romagnolo

Annamaria Romagnolo ha insegnato Lettere nella scuola secondaria di secondo grado e si occupa di formazione per adulti, di progettazione di attività e servizi, di verifica e valutazione di prodotti, risultati e impatti, di organizzazione e di processi di innovazione e gestione del cambiamento nei sistemi culturali e formativi. Nel 2016 è diventata socia fondatrice dell’associazione “Circola – Cultura, Diritti e Idee in movimento”, con la quale ha condiviso la realizzazione di numerose iniziative nel campo della partecipazione, dell’educazione alla cittadinanza, della formazione e della valorizzazione di beni comuni e confiscati.

La scuola, sfidata dalla drammatica emergenza sanitaria, vive oggi un momento di smarrimento, mostrando crepe profonde da affrontare con coraggio e decisione, ma soprattutto in modo collettivo, provando a dare voce ai veri protagonisti dell’essere e fare scuola solitamente dimenticati, inascoltati, nei confronti e nel dibattito pubblico sulla scuola: gli studenti e le studentesse. Questo libro racconta un’iniziativa, “Educazione Bene Comune: riflessioni – tra presenza e distanza – sulla scuola che (NON) c’è”, promossa dall’associazione Circola – Cultura, Diritti e Idee in movimento, che nel tentativo di analizzare la situazione della scuola post pandemia ha interpellato gli studenti di tre scuole di diverse regioni d’Italia (il Liceo Scientifico Lorenzo Respighi di Piacenza, l’Istituto Tecnico per il Turismo Marco Polo di Firenze e l’IIS Liceale Quinto Orazio Flacco di Portici), immaginando un progetto in cui i ragazzi potessero far sentire la loro voce, nella convinzione che solo integrando diversi punti di vista, esperienze e contesti, si possa comprendere quel che realmente sta accadendo nelle nostre scuole. L’analisi è partita dal bisogno di capire, in particolare, come si sia potuto verificare che – pur in una situazione straordinaria – l’interruzione del diritto allo studio non abbia scandalizzato troppo, e di come ne siano stati ignorati i riflessi sulla vita di un’intera componente della comunità scolastica, la principale, la più fragile, la più bisognosa di attenzione: quella studentesca. Capire quali siano le paure, le emozioni, le riflessioni e le proposte dei ragazzi è sicuramente un dovere per gli educatori, la società civile e le istituzioni, ma è anche un’occasione rara per ripensare in ogni suo aspetto il sistema scolastico, in crisi da anni e inadeguato ad affrontare le complesse sfide globali dell’immediato presente, ancor prima di quelle del futuro. Questo libro, con la ricerca e le parole degli studenti e delle studentesse, è un prezioso contributo al futuro della scuola.

R. MANTEGAZZA - A. ROMAGNOLO

EDUCAZIONE BENE COMUNE

La voce dei ragazzi e delle ragazze Prefazione di Cesare Moreno

EDUCAZIONE BENE COMUNE

Raffaele Mantegazza insegna pedagogia presso l’Università di Milano Bicocca e realizza interventi di ascolto, aggiornamento e formazione nelle scuole con particolare attenzione agli incontri con studenti e studentesse. È socio ordinario dell’associazione “Circola – Cultura, Diritti e Idee in movimento”.


Raffaele Mantegazza Annamaria Romagnolo

Educazione bene comune La voce dei ragazzi e delle ragazze Prefazione di Cesare Moreno


INDICE

Prefazione di Cesare Moreno

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Introduzione di Raffaele Mantegazza

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Dal progetto alla ricerca-azione di Annamaria Romagnolo 15 Il senso della scuola

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DAD

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Strategie didattiche

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Sistema di valutazione

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Relazioni fra pari

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Il presente e il futuro tra pandemia e normalità

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L’immagine del docente

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Contributi

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Breve antologia di documenti condivisi online dalle studentesse e dagli studenti

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Introduzione di Raffaele Mantegazza

Perciò va’ pure a scuola per non far scoppiar casino studia matematica ma comprati un violino impara a lavorare il legno ad aggiustar ciò che si rompe che non si sa mai nella vita un talento serve sempre Eugenio Finardi, La scuola Attorno c’era il silenzio della pandemia, le strane parole intervallate e disturbate, tipiche della didattica a distanza. C’era la sensazione che qualcosa sarebbe cambiato per sempre, e soprattutto che a cambiare sarebbe stata la scuola, che era chiamata a ripensare se stessa nel momento in cui affrontava le grandi paure e le grandi angosce legate al Covid. In quel momento ci è venuto in mente che un progetto di ascolto degli adolescenti e delle adolescenti della scuola secondaria di secondo grado potesse essere il nostro contributo alla rinascita e al ripensamento della forma scuola. Dietro questo progetto c’è quindi non solo una serie di angosce e di dubbi ma, soprattutto, una grande speranza: che la scuola diventi o continui ad essere un deposito di senso e di significato e uno spazio all’interno del quale le ragazze e i ragazzi trovino la possibilità di collocare le loro speranze, i loro dolori, le loro ansie, i loro sogni; che possa essere un’esperienza che immerge i mondi affettivi dei giovani in un ambiente vitale che li valorizzi e al contempo provi anche a dare loro una direzione. Il sogno è quello di 9


una scuola che permetta ai ragazzi e alle ragazze di crescere non attraversando i contenuti in modo quasi anonimo e neutro, ma venendone impregnati e attraversati, come in un tuffo nell’acqua fresca o in un respiro in alta montagna. In questo senso le discipline potrebbero essere un pretesto per “disciplinare” l’anima e l’immaginario dei ragazzi, non nel senso di sottoporli a un controllo o a un indottrinamento, ma regalando loro quel senso della disciplina che è proprio dell’artista, dell’atleta, dell’alpinista che cerca di arrivare in vetta. Una scuola che non usa il latino per punire ma per innamorare, e che regala ai ragazzi e alle ragazze l’emozione della prima versione che sia simile a quella del primo appuntamento. Una iniziazione alla cultura, dunque, con tutto il portato emotivo ma anche cognitivo dei riti iniziatici. Qualcuno potrebbe chiedersi: perché dovrebbe essere proprio la scuola a fare questo? La risposta è molto semplice: perché la scuola è questo, lo è da sempre; quando dimentica o rifiuta di esserlo viene meno al suo dovere, lavora contro se stessa. La scuola non è al servizio dell’azienda, degli interessi della concorrenza, del capitale, di qualunque altro sapere o potere che non sia il dovere civico di crescere cittadine e cittadini responsabili. Il che significa alla fin fine far innamorare i giovani e le giovani della democrazia, dei suoi riti e dei suoi meccanismi. A scuola troppo spesso si sta male. Stanno male i ragazzi e le ragazze, stanno male gli adulti, sta male la scuola stessa, strattonata da una classe politica che a volte sembra non sapere proprio cosa farsene, da un sistema mass-mediatico che la utilizza semplicemente per fare titoli roboanti, da direttive quasi mai pensate per il bene delle persone che vivono nella scuola e troppo spesso invece studiate per un funzionamento anonimo dell’istituzione. È la vecchia questione del sabato che è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato: troppo spesso il sistema scolastico sembra girare a vuoto; Riccardo Massa proponeva l’immagine kafkiana dell’erpice inceppato, possiamo anche pensare al remo 10


del vogatore che non prende più acqua. Tutto sembra funzionare, ma ciò che accade non ha presa sulle coscienze e sulle anime dei ragazzi e delle ragazze, manca l’aggancio ai mondi emotivi interni dei protagonisti umani della vicenda scolastica. Come pedagogista da anni entro nelle scuole, al punto che spesso definisco la scuola la mia seconda casa: ci entro col rispetto dovuto a un luogo sacro, senza forzare i tempi e gli spazi, assoggettandomi alla disciplina scolastica insieme ai ragazzi e agli insegnanti. Ci entro passando gli intervalli con i ragazzi, parlando con loro, condividendo le entrate e le uscite dall’edificio. Da anni assaporo il rito quotidiano della lezione, della pausa, della campanella: è una pedagogia militante che non vuole giudicare ma vuole lasciarsi impregnare dal profumo della scuola. Credo che un pedagogista (accademico o meno, la differenza non ha più senso) che voglia parlare di scuola e non abbia mai fatto il suo ingresso in un edificio scolastico negli ultimi dieci anni sia un po’ simile a un ornitologo che non ha mai visto un volatile, o a un geologo che non ha mai sentito il profondo silenzio di una grotta. Parlare della scuola è possibile soltanto se si frequenta il suo dispositivo, se si capiscono i suoi riti, anche quelli da modificare, anche quelli che sembrano sbagliati o addirittura assurdi. In questo senso la scuola è un continuo richiamo nei confronti della pedagogia: la invita a modificare le sue categorie, ad aggiornarsi, a percepire quei cambiamenti che anno dopo anno, mese dopo mese, i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze portano all’interno delle aule scolastiche. E anche queste ultime cambiano, si modificano, diventano quasi organismi viventi, in continua metamorfosi; così come muta continuamente la relazione educativa che non muore mai, che vive sempre della crescita e del cambiamento delle persone che la mettono in atto. E allora, se dovessi indicare qual è il principale difetto del dispositivo scolastico attuale, direi senza ombra di dubbio che si tratta della sua rigidità. Rigidità di tempi, di spazi, di 11


pratiche, di procedure, di metodologie: un tentativo non si sa quanto cosciente di ingabbiare un mondo della vita che continuamente si rinnova all’interno di schemi e di categorie; il problema è che queste ultime non servono per valorizzare quel mondo interiore o per dargli un qualche ordine (o meglio ancora per fargli trovare un ordine intrinseco) ma spesso solo per soffocarlo. Una scuola che non è ricalcata sui tempi vitali dei ragazzi e delle ragazze − che non vede o finge di non vedere i loro corpi, il loro sudore, i loro sorrisi, i loro brividi − è una scuola che non fa la scuola, che non è scuola. È uno spazio che rischia di non avere nessuna presa nelle autobiografie emotive e cognitive dei ragazzi: un’occasione persa. E dire che non esiste autobiografia del Novecento che non preveda, almeno in una sua parte, anche in senso critico, una riflessione, una narrazione relativa al mondo della scuola. Chissà cosa scriveranno i ragazzi protagonisti di questa ricerca, protagonisti della DAD, quando rifletteranno su questi anni così difficili e così disorientanti al cospetto della pandemia. Anche in questo progetto abbiamo provato a varcare la soglia della scuola, con rispetto e con ascolto, capendo insieme ai ragazzi e alle ragazze quali possano essere i punti di forza di una scuola del futuro. Abbiamo praticato un ascolto non banale e non retorico, lasciando realmente liberi i ragazzi di parlare ma anche proponendo loro tracce, spie, percorsi. Abbiamo chiesto loro di raccontarci la loro scuola, soprattutto nel momento in cui con la pandemia o con la didattica mista essa era mutata, lasciando forse posto anche alla malinconia per la scuola “com’era prima”, a volte fin troppo mitizzata. Non è stata la DAD a creare problemi all’interno della scuola, semmai la DAD è servita come evidenziatore per nodi che erano irrisolti anche precedentemente. Nodi che abbiamo cercato di far emergere, non sempre riuscendoci per la timidezza dei ragazzi e anche per il fatto che questi giovani non sono abituati ad avere adulti che realmente li ascoltino e siano davvero interessati alle 12


loro proposte di cambiamento. Le scuole ci hanno accolto, ci hanno aiutato, ci hanno ascoltato: hanno capito che il cambiamento o lo si governa o lo si subisce; solo che a subirlo sono come sempre i ragazzi, e tra i ragazzi i più fragili, i più deboli, quelli che hanno meno possibilità di far sentire la loro voce. Molti anni fa Riccardo Massa sosteneva che cambiare la scuola significava prima di tutto cambiarne il dispositivo: un dispositivo che è fatto di spazi, tempi, corpi, simboli, linguaggi che si articolano l’uno sull’altro e l’uno all’interno dell’altro. Un congegno che chiunque entri in una scuola coglie sulla propria pelle, perché è caratteristico di un’esperienza unica, appunto quella scolastica. Gli insegnanti sono o dovrebbero essere gli esperti di questo dispositivo, coloro che sanno che cosa cambia nell’atmosfera di una mattinata di scuola quando si sposta una sedia, si modifica un orario, si salutano i ragazzi con un cenno della mano, si introduce in aula un oggetto che entra in un cerchio magico come quello del teatro o dell’arte. Gli insegnanti come architetti della formazione, come gli unici professionisti in grado di attrezzare uno spazio specifico (appunto quello scolastico) che è diverso dalla vita e proprio per questo sappia proporre una riflessione profonda sulla vita. Crediamo che questo dispositivo abbia molto da cambiare ma che non sia da buttare, crediamo nella scuola come esperienza per il momento insostituibile; ce lo dice la grande voglia di scuola che i ragazzi e le ragazze hanno esibito in questi mesi di pandemia, ce lo dice anche la sofferenza, il mal di scuola, perché si sta male solo se dietro il dolore c’è un desiderio; se tanti ragazzi sono delusi dalla scuola significa che in qualche modo vivevano e vivono ancora l’illusione di uno spazio scolastico a misura delle loro emozioni e dei loro sentimenti. Una scuola che risultasse indifferente a tutti: questa sarebbe la vera sconfitta, questo è ciò che occorre assolutamente evitare. Crediamo in una scuola che abbia il coraggio di modificare i propri riti e i propri miti ma che 13


sappia anche che senza riti e senza miti non si educa, anzi si lascia il campo alla vuota ritualità e ai miti di cartapesta di chi, oggi come ieri, vuole espropriare l’umano. Crediamo insomma alla scuola come uno spazio di resistenza. Da anni propongo una pedagogia della resistenza e continuo a pensare che la scuola possa esserne uno dei perni fondamentali, certo non l’unico, ma per certi versi il più pervasivo, quello che ha la possibilità di lasciare tracce più profonde nelle coscienze civiche e democratiche dei ragazzi e delle ragazze.

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Dal progetto alla ricerca-azione di Annamaria Romagnolo C’è chi insegna guidando gli altri come cavalli passo per passo: forse c’è chi si sente soddisfatto così guidato. C’è chi insegna lodando quanto trova di buono e divertendo: c’è pure chi si sente soddisfatto essendo incoraggiato. C’è pure chi educa, senza nascondere l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni sviluppo ma cercando d’essere franco all’altro come a sé, sognando gli altri come ora non sono: ciascuno cresce solo se sognato. Danilo Dolci, Il limone lunare. Poema per la radio dei poveri cristi1 Le ragioni profonde Perché ora? Perché con queste modalità? Le motivazioni profonde si possono forse riassumere con poche parole: la lunga e appassionata militanza in campo educativo e l’improcrastinabilità dell’agire. La ragione occasionale è stata, come spesso accade, un incontro. Una sintonia umana e professionale che ha reso possibile una collaborazione fattiva e convinta tra Raffaele Dolci D., Il limone lunare. Poema per la radio dei poveri cristi, Laterza, Bari 1971.

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Mantegazza, docente di pedagogia all’Università Bicocca di Milano e me, ex docente della scuola superiore, socia fondatrice di un’associazione “Circola – Cultura, Diritti e Idee in movimento”2, cui Raffaele ha poi aderito, condividendone i valori e le tematiche di riferimento, in particolare quelle riguardanti la delicata e complessa questione dei beni comuni e le modalità di lavoro, basate sulla moltiplicazione degli sguardi, l’ascolto attivo, la cooperazione creativa, l’ibridazione, l’integrazione armonica e consapevole tra teoria e pratica. L’educazione e l’istruzione sono un bene comune globale3 e si caratterizzano per un vincolo di destinazione comune, universale: l’esser funzionali alla realizzazione dei diritti fondamentali e al soddisfacimento dei bisogni essenziali di tutte le persone. In tale accezione e prospettiva richiamano una responsabilità condivisa che interpella le istituzioni e ciascuno di noi4. Attribuendo all’educazione e all’istruzione lo status di bene comune immateriale si può assegnare, analogamente, alla scuola quello di bene comune materiale, per sottolineL’associazione “Circola – Cultura, Diritti e Idee in movimento” è stata fondata nel 2016 da un’avvocatessa, Veronica Dini, che si occupa di beni comuni, ambiente, beni confiscati alla criminalità, diritti di cittadinanza. 3 Cfr. il volume Ripensare l’educazione – Verso un bene comune globale? a cura dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (UNESCO), 2015. La bibliografia sul tema è vastissima. Mi limito a riportare qui la definizione ancora oggi più accreditata di bene comune, che ben mostra il legame con il concetto di educazione: “I beni comuni sono beni essenziali per la sopravvivenza dell’uomo e per lo sviluppo della persona umana, strettamente collegati ai diritti fondamentali” (Commissione Rodotà – DM 21.6.2007). 4 La Camera dei deputati, lo scorso 8 febbraio 2022, ha approvato definitivamente la proposta di legge che modifica due articoli costituzionali, il 9 e il 41, al fine di tutelare l’ambiente, le biodiversità, gli animali e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. In particolare, per quel che riguarda l’art. 9, viene introdotto un nuovo comma. Questo il testo definitivo (in corsivo le parti nuove): La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali. 2

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are anche il valore dello spazio, della struttura, del contenitore e insieme di tutto ciò che fa della scuola una sostanza concreta e un organismo vivo, in cui ogni interlocutore ha pari dignità e contribuisce a dar vita a un’alleanza virtuosa e a generare nuove prospettive. La scuola ha progressivamente disatteso quanto sancito nella nostra Costituzione5 e ha mostrato le sue crepe in modo sempre più evidente e preoccupante negli ultimi decenni, ma l’epoca oscura e spaesante che ci troviamo a sperimentare, e che ha privato tutti, non solo i più giovani, di riti e punti di riferimento che costituivano una normalità accettata se non subita, ha inferto un colpo durissimo alle istituzioni scolastiche; operando un profondo iato e una lacerazione dolorosa nel quotidiano percorso formativo, svelando ogni magagna, ogni debolezza, facendo vacillare instabili equilibri e obiettivi formativi sporadicamente ma faticosamente 5

Si ricordano di seguito gli articoli 3, 33 e 34: 3. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. 33. L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato. La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali. È prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale. Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato. 34. La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso. 17


raggiunti da alcune singole scuole o vanificando, in parte o del tutto, sforzi creativi e proposte innovative di isolati gruppi di docenti e dirigenti, preparati e combattivi, che hanno cercato di arginare il declino e provato a integrare il percorso ordinario con interventi aggiuntivi, che, però, relegati di solito in orario extrascolastico senza intaccare l’impianto generale, non si radicavano organicamente e spesso finivano con l’essere considerati solo un fastidio. Per i colleghi, un intralcio al tranquillizzante regolare svolgimento delle lezioni, per gli studenti, un ulteriore sgradito aggravio di lavoro. Un di più, un corpo estraneo, che non si integrava con il modo consueto di fare scuola la mattina, a volte non prevedeva neppure un voto in qualche registro ufficiale ed era destinato a non lasciare traccia o quasi nel curriculum degli studenti. Nel caso in cui si trattava invece di un progetto che faceva assaggiare modalità altre di fare scuola, più stuzzicanti e coinvolgenti, agiva quasi come un boomerang, lasciava rimpianti e malesseri nei ragazzi, costretti a tornare poi all’ordinaria amministrazione, al consueto procedere quotidiano che inghiottiva e annullava ogni scheggia di novità e cambiamento. E l’esperienza, nel migliore dei casi, rimaneva per un po’ nelle mani di qualche singolo docente e poi finiva nel dimenticatoio. Chiusure a singhiozzo, direttive ministeriali e indicazioni regionali spesso incomprensibili o confusive, scarsa abitudine del corpo docente alla flessibilità e alla riprogettazione, a un lavoro condiviso, esperimenti talvolta improvvisati e frettolosi di didattica alternativa, sciatte lezioni a distanza hanno minato definitivamente la credibilità e l’affidabilità dell’istituzione scolastica e hanno generato, all’interno degli istituti di ogni ordine e grado, disagio, sconcerto e demotivazione, stravolto ritmi e organizzazione di lavoro. Malesseri e inefficienze di cui i ragazzi sono stati le vittime principali, nell’indifferenza dei decisori politici e dei componenti della società civile che non hanno mai sentito l’urgenza di tutelare il settore educativo né, tantomeno, di 18


ascoltare la voce degli studenti che, alla lunga, dopo quasi un anno, si sono sentiti abbandonati da tutti. Proprio a questo atteggiamento di colpevole disinteresse, come associazione impegnata a promuovere la cittadinanza attiva, la centralità dei diritti e dei beni comuni e come singoli professionisti da anni sul campo − sia pure in mondi e con modi diversi − Raffaele ed io abbiamo deciso di reagire. Abbiamo ritenuto che fosse diventato un impegno non più differibile quello di uscire dalle enunciazioni e dai proclami, dalle indicazioni teoriche, dalle raccomandazioni della letteratura comunitaria e internazionale, dalle proposte di recenti documenti − anche nazionali, espressione di gruppi avanzati del terzo settore, di piccole comunità di dirigenti e docenti, pedagogisti, sociologi e giuristi − per provare a dare un contributo personale basato però su un intervento concreto, che unisse sperimentazione e riflessione aperta e condivisa e che non rinunciasse a creare e coltivare speranza e bellezza. Abbiamo preso la decisione di provare a leggere e analizzare la situazione odierna interpellando gli studenti di tre scuole poste in diverse regioni d’Italia, al Nord, al Centro e al Sud, per inserire in un unico abbraccio-percorso di ricerca realtà dissimili geograficamente ma unite da problemi analoghi per indurle a dialogare al loro interno e tra loro, prima ancora che con noi, creando uno spazio privilegiato, in cui i protagonisti in assoluto fossero appunto le ragazze e i ragazzi6. Mettere in moto una dinamica di ampliamento delle opzioni. Inventare, quindi, un luogo e un tempo dedicato, in cui gli studenti potessero far sentire finalmente la loro voce, chiara e forte, offrendo la possibilità a chi si mettesse in ascolto e in osservazione − con rispetto, attenzione e deLe tre scuole secondarie di secondo grado sono state scelte in contesti geografici diversi e hanno indirizzi diversi. Prevalentemente si tratta di un Liceo Classico, un Liceo Scientifico, un Istituto Tecnico, anche se al loro interno esistono ulteriori opzioni molto variegate. Si tratta pertanto di istituti con una utenza piuttosto differenziata.

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siderio − di comprendere e far emergere dal silenzio e dal buio ferite e proposte, riflessioni ed energie per tentare una possibile diagnosi se non un protocollo di cura. Abbiamo individuato e correlato a distanza tre contesti scolastici disponibili ad accettare la sfida di un’avventura complessa: il Liceo Scientifico Lorenzo Respighi di Piacenza, l’Istituto Tecnico per il Turismo Marco Polo di Firenze e l’IIS Liceale Quinto Orazio Flacco di Portici. Abbiamo inoltre promosso un’iniziativa dal titolo “Educazione Bene Comune: riflessioni – tra presenza e distanza – sulla scuola che (NON) c’è” costruendo ad hoc un percorso progettuale condiviso, molto flessibile, rispettoso delle singole storie e delle diverse realtà, da arricchire in itinere mediante i contributi di energie e idee di tutti i soggetti coinvolti, nella convinzione che solo l’integrazione di diversi e molteplici punti di vista, esperienze e contesti e la contaminazione di saperi e di professionalità variegate, possano condurre a un’interpretazione pluralistica e maggiormente esaustiva di quel che sta accadendo nelle nostre scuole. Di come, in particolare, si sia potuto verificare che una situazione straordinaria, l’interruzione del diritto allo studio, pur se causata da un evento eccezionale come una pandemia, divenisse una routine, una nuova normalità che – soprattutto inizialmente – non scandalizzasse più di tanto nessuno e di come ne siano stati colpevolmente ignorati i riflessi sulla vita di un’intera componente della comunità scolastica, la principale, la più fragile, la più bisognosa di attenzione, quella studentesca. Cercare di capire quali siano le paure, le emozioni, le considerazioni, i pensieri reconditi, le riflessioni e le proposte dei ragazzi è sicuramente un dovere per gli educatori, la società civile e le istituzioni, ma è anche un potente strumento e un’occasione straordinaria per ripensare in ogni suo aspetto (didattico, organizzativo, relazionale, sociale, politico) il sistema scolastico, in crisi da anni e tristemente ma palesemente inadeguato ad affrontare le sempre più complesse sfide globa20


li dell’immediato presente, ancor prima di quelle del futuro. Una istituzione di retroguardia, insomma, da rivoluzionare. Abbiamo deciso così, Raffaele ed io, di aprire un canale di comunicazione privilegiato e stabilire una connessione periodica con i ragazzi, una settantina per ogni contesto, dando valore al loro ruolo, mostrando interesse e fiducia nella loro capacità di raccontare e raccontarsi e di contribuire a rifondare su principi più equi, inclusivi e rigorosi, ma anche più creativi e coraggiosi, il sistema scolastico, per riportarlo al centro del dibattito culturale, civile e politico e decretare la fine di un modello che si è rivelato puramente trasmissivo, funzionalista e socialmente ingiusto.

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Il senso della scuola

La riflessione sul senso della scuola è stata sviluppata a partire dal fatto che la DAD ha messo in discussione quel significato vitale ed esperienziale che essa aveva un tempo, ma che ha poi progressivamente, se non smarrito del tutto, almeno visto sfuocare. La scuola era in crisi prima della DAD, e la sua era una crisi di senso; non tutti i ragazzi erano convinti che “valesse la pena” frequentarla, anche se lo si faceva spesso per routine o per non deludere i genitori (che, a loro volta, consideravano e considerano, sempre di più, “il pezzo di carta” che i figli riceveranno al termine del percorso di studio un ascensore sociale o un lasciapassare nel mondo del lavoro sempre meno pregiato e appetibile). Si è chiesto ai ragazzi se considerassero ancora la scuola un’esperienza qualificante, anche rispetto ad altre, vissute parallelamente. Non sempre ciò accade, anzi a volte essa è percepita come una sorta di male necessario, se non come tempo sottratto ad attività ben più stimolanti e appaganti. Addirittura, in qualche non raro caso, l’impressione è che la domanda li stupisca, che si tratti di una ipotesi – considerare la scuola importante e appagante – mai precedentemente presa in considerazione. La questione risulta complessa e legata a numerose variabili. Una cosa, ad esempio, è la Scuola con la S maiuscola, l’istituzione, considerata generalmente un’entità astratta, parte importante di un sistema avvertito come oscuro, poco conosciuto, lontano, a cui si rivolgono critiche o – più rare 43


– lodi, abbastanza generiche e stereotipate; una cosa è la scuola, l’istituto reale che si frequenta quotidianamente, in cui si vivono esperienze concrete che sono oggetto di valutazione, positive o negative, di solito più circostanziate e sentite. In quest’ultimo caso, a volte, convivono un diffuso senso di appartenenza, fiducia e orgoglio con sporadiche critiche a singoli docenti o a specifiche pratiche didattiche. Altre volte, al contrario, il giudizio complessivo è basso e riscattato solo da incontri felici con un insegnante speciale o una sperimentazione particolarmente riuscita. Di certo, i ragazzi non hanno esitato a riconoscere e sottolineare gli aspetti soddisfacenti della propria scuola, hanno avvertito il tentativo di taluni dirigenti e docenti di instaurare pratiche organizzative o didattiche più aperte e creative, di creare un ambiente più attento al loro ben-essere, ma a prevalere, nelle loro considerazioni, era comunque un senso di inutilità, la convinzione che quelle gocce non avrebbero mai formato un mare, che la battaglia, se non la guerra, fosse comunque persa. A prevalere, così, è una sorta di noia esistenziale, aprioristica e difficile da smussare, che rende impermeabili alle richieste di maggiore attenzione e impegno, rivolte dagli insegnanti, spesso demotivati quanto i propri allievi e incapaci di trovare le modalità per ri-sintonizzare i ragazzi sul canale del desiderio. Di certo anche il momento in cui gli studenti sono stati chiamati a riflettere su questo tema, così delicato, ha influito sul tono e sul contenuto delle risposte. Per quel che concerne il rapporto con la scuola, il valore che i ragazzi attribuiscono a questa esperienza, abbiamo notato che il giudizio sembrava ondivago se non contraddittorio. Controllando però sulla nostra agenda il contesto e il periodo in cui era stato affrontato il problema, facendo riferimento all’input che aveva generato la discussione, ci siamo accorti che la considerazione di cui sembrava godere la scuola mutava se il focus era costituito dal momento contingente, quello della pandemia e soprattutto della chiusura delle scuole, 44


dell’utilizzo massivo della DAD, oppure se la conversazione, in modo più tecnico e specifico, verteva su temi legati alla didattica, alla relazione con i docenti e, soprattutto, al sistema di valutazione. Nel primo caso, ad esempio, in pieno caos organizzativo, è apparso evidente che la brusca cesura tra presenza e distanza operata dall’emergenza sanitaria aveva avvolto in un melanconico alone di rimpianto anche la scuola, perché aveva interrotto il rito per eccellenza: svegliarsi, abbandonare la propria cameretta e recarsi a scuola. Passare dalla cerchia ristretta della comunità familiare a quella, più ampia, della comunità scolastica. Un rito che nessuna catastrofe o evento eccezionale sembrava potesse cancellare. Il Covid, invece, era riuscito a privare i ragazzi della socialità consueta, della possibilità di ritrovarsi in una situazione di amicalità diffusa, aveva frantumato i gruppi, reso incerto il futuro, oltre che il presente. Ed ecco che la scuola veniva descritta, al pari della casa, della famiglia, come un nido protettivo, un luogo sicuro e amicale nel quale voler ritornare. Se invece si affrontavano gli stessi problemi, ma avulsi dalla drammatica e spaesante situazione contingente, o in giorni in cui la situazione sembrava migliorare e lasciava balenare un possibile ritorno alla “normalità perduta” o quando, nelle nostre conversazioni si affrontavano i nodi più dolorosi, le questioni cui gli studenti erano più sensibili (compiti, interrogazioni, verifiche e valutazioni) la scuola tornava a mostrare il suo volto più realistico – anche ostico – ed emergevano con maggiore frequenza insofferenze e insoddisfazioni molto concrete. Il tono si faceva più sprezzante e duro. Il nido diveniva sempre più simile a una prigione che a un luogo desiderato, importante, significativo, in cui potersi realizzare. Alla provocazione posta dalla domanda se andare a scuola sia come andare dal dentista, alcuni ragazzi rispondono affermativamente: 45


Sì, mi sento un po’ come andare dal dentista, anche se ci sono materie o persone che mi piacciono, ma è un po’ come una cosa che si deve sopportare. (Susanna, Istituto Istruzione Superiore Liceale Quinto Orazio Flacco)

Un passaggio inevitabile, dunque, ma non particolarmente affettivizzato; qualcosa che c’è, c’è sempre stato e ci deve essere, ma che proprio per questa scontatezza non deve necessariamente risultare “bello”. Può essere anzi faticoso, noioso, come è spesso stato per i ragazzi di tutte le epoche e di tutti i mondi, ma si sa, occorre rassegnarsi, cercare di adeguarsi per “cavarsela” al meglio. Alcuni, però, il senso riescono anche a trovarlo e a frequentare con diligenza, serietà e un po’ di motivazione. Altri, avvertono che si tratta di un’occasione di crescita, hanno delle richieste, delle fantasie, delle aspettative, ma poi gustano solo alcune porzioni di ciò che viene imbandito, si mettono in cammino solo su alcuni sentieri, procedono insomma in modo selettivo e discontinuo, privilegiando esclusivamente alcune discipline o argomenti che, per una bella lezione, un interesse personale, un feeling particolare con un docente, un motivo contingente, hanno svegliato l’interesse, tralasciando il resto dell’offerta, operando delle scelte tanto individuali quanto categoriche che, come in un catalogo on demand, contribuiscono a disintegrare la mappa, a far perdere il senso del percorso, a smagliare la rete lasciando aperti strappi che non verranno ricuciti. Il piacere dell’andare a scuola, da qualche decennio in qua, ha infatti sempre meno a che fare con il desiderio, l’avventura dell’apprendere, la curiosità di confrontarsi con argomenti nuovi e tematiche sconosciute, di mettersi alla prova, scoprire le proprie attitudini, coltivare i propri sogni e prepararsi per affrontare il futuro con qualche buona carta da giocare. La società, del resto, non crede più molto nell’istituzione scuola, non incoraggia i giovani a frequentarla con orgoglio e rispetto. C’è come un pregiudizio ini46


ziale che congela, blocca la speranza di un’avventura che valga la pena di essere vissuta. I ragazzi inoltre arrivano a scuola con storie culturali, sociali e affettive molto diverse ma sono accomunati dall’abitudine ad apprendere sempre di più in situazioni anche non formali, in una pluralità di ambienti diversi, più o meno strutturati, sofisticati e tecnologici, in modo collettivo e divertente, utilizzando il pensiero in modo olistico più che analitico, dentro e con il gruppo, anzi, i molteplici gruppi con cui hanno a che fare quotidianamente, soprattutto mediante una frequentazione assidua di social e web, in modo più veloce e libero, meno riflessivo e noioso. Gruppi e ambienti che sempre con maggiore velocità si aprono e chiudono, compongono e scompongono, appaiono liquidi, volatili, e convivono con altri, più tradizionali, consueti, frequentati per imposizione familiare, ma anche per scelta personale e interessi non banali. Di tutti questi ambienti e gruppi di socializzazione, in particolare dei primi, on line, spesso, i genitori, poco o niente sanno. Dopo averli accompagnati per anni a lezione di lingue straniere, musica e danza, a laboratori di teatro, all’oratorio, a praticare sport, giocare a scacchi, a calcio… durante l’adolescenza cominciano a perderne le tracce e a non conoscerne emozioni e desideri, aspettative e necessità… Gli adulti (a cominciare dai familiari) che circondano i ragazzi sono talvolta poco attenti se non quasi assenti (o, al contrario, troppo presenti), non sempre autorevoli o competenti, a volte depressi e confusi, e non offrono un esempio o un sostegno adeguato. Le giovani generazioni non sono quindi disposte a rispettare necessariamente le regole che gli adulti di riferimento impongono o semplicemente propongono, se le considerano vessatorie, onerose, complicate, o anche solo noiose, limitanti la propria libertà di movimento, utilizzo del tempo, scelta degli amici… Concedono fiducia e attenzione solo a chi sa guadagnarsele, come vedremo, per meriti sul campo, negli altri casi vale la regola 47


del minimo coinvolgimento necessario o della messa in atto di strategie difensive. Ciò detto (la concorrenza di altri più appetibili luoghi per apprendere, la scarsa considerazione di cui gode la scuola, il diminuito rispetto per gli adulti), recarsi in classe viene ancora percepita da una parte rilevante dei giovani e giovanissimi come un’occasione positiva perché costituisce una delle poche possibilità di uscire di casa; rimane, insomma, per una buona percentuale di loro, uno dei luoghi più facilmente accessibili e importanti di socializzazione trasversale, in cui cimentarsi con la capacità di stabilire relazioni affettive significative, anche se numerosi ragazzi si rivelano emotivamente fragili e poco abituati a confrontarsi con l’altro e con se stessi, ad affrontare possibili divergenze, difficoltà e conflitti, responsabilità e situazioni nuove. E la situazione appare notevolmente peggiorata in questa emergenza pandemica, spaesante e oscura. L’aspetto relazionale, dunque, nell’esperienza scolastica, prevale ancora, e diventa preponderante anche per quel che riguarda il rapporto con gli insegnanti. Di conseguenza, il piacere di andare a scuola è legato fondamentalmente a due variabili, che purtroppo sappiamo casuali, all’incontro con compagni affini o non troppo diversi e problematici (argomento, quello dei pari, della classe, che abbiamo trattato in molte occasioni e del bullismo, di cui non parleremo perché in questa ricerca non è emerso in maniera particolare) e docenti/argomenti interessanti, che siano in grado di motivarli e rendere accettabile anche la fatica dello studio. Ci soffermeremo in un’altra sezione sui desideri degli studenti circa i docenti, e cercheremo di comprendere quali sono, secondo loro, le caratteristiche che favoriscono una relazione basata su fiducia e rispetto. Una studentessa aveva avanzato la proposta di compilare una sorta di decalogo/ carta del docente “perfetto”, poi è mancato il tempo e non se n’è fatto più niente, ma la sua idea è servita ad affrontare, per coerenza, anche un altro tema simmetrico, e cioè 48


che cosa vuol dire essere studente, come è stato interpretato questo ruolo negli ultimi decenni e come viene interpretato oggi, in una situazione emergenziale (e non ancora post-emergenziale) che presenta molte differenze rispetto al passato in quanto lo stravolgimento di riti, prassi e regole, lo spostamento delle lezioni in uno spazio virtuale, provocati dalla pandemia, ha coinvolto anche la definizione dei ruoli, dei compiti, delle attività dei vari soggetti accelerando la crisi già in atto e modificando ulteriormente finanche l’utilizzo dei linguaggi e l’assunzione dei comportamenti: Per me andare a scuola è come andare dal dentista. Sono pochi gli incontri che ti fanno dire che non è così. In un percorso culturale si trovano al massimo due persone che ti danno qualcosa. Non voglio dire che non ci siano persone che conoscono la materia ma non sanno insegnare, non sanno comunicare. (Gioia, classe quarta, Istituto Istruzione Superiore Liceale Quinto Orazio Flacco)

La scuola è dunque un luogo di incontri più o meno fortunati; lo si dice da anni, “va a fortuna”, “dipende dagli insegnanti che trovi”. Il che è piuttosto preoccupante in un sistema formativo statale che dovrebbe garantire il meglio per ciascuno studente indipendentemente dalle soggettività degli insegnanti (anzi, semmai valorizzando quest’ultima ma sulla base di un cassetto degli attrezzi condiviso). Invece la scuola è una sorta di succedersi di percorsi interrotti, di cambi di passo, alcuni positivi, altri negativi, dei quali gli studenti faticano a vedere la coerenza e la progettualità: Penso che sia una questione che varia da persona a persona e nella stessa persona, da momento a momento, è una questione dinamica, soggettiva, che dipende dalle idee e dalle esperienze che si fanno e che può cambiare nel corso del percorso a seconda degli incontri e delle esperienze che si fanno, che non sono lineari ma cambiano con il tempo. (Claudio, classe quinta, Istituto Istruzione Superiore Liceale Quinto Orazio Flacco)

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Tutto questo ha un impatto molto forte anche su alcuni ragazzi che potrebbero prendere in considerazione la carriera di insegnanti. La ricorsività delle pratiche subite (per usare un termine di Riccardo Massa), il fascino della frase “si è sempre fatto così”, fanno temere che il piacere che si potrebbe provare nell’insegnamento sarebbe affossato dalle dinamiche ripetitive e asettiche del “sistema”: Io avrei anche avuto piacere di insegnare perché in fondo mi piace, ma non mi sarebbe interessato essere un docente che chiede due date in storia o due cose sul Foscolo e basta. Io vorrei dare un libro e poi sentire che cosa pensano i miei allievi, anzi, vorrei che me lo consigliassero, il libro. E poi ne potessimo parlare. Non mi piace l’ambiente della scuola, io non mi ambienterei e non mi ci conformerei. Con tutte le mancanze del sistema non mi piacerebbe per nulla insegnare, sarebbe entusiasmante, ma per ora la vedo un’idea lontana. (Gioia, classe quarta, Istituto Istruzione Superiore Liceale Quinto Orazio Flacco)

E a proposito di sistema, c’è chi allarga il discorso: c’è chi vede del buono nella propria scuola ma poi non riesce a trovare fiducia in un sistema scolastico nazionale che non riesce a valorizzare le esperienze diverse e le avanguardie, cosa che influenza negativamente il giudizio su cinque anni di scuola superiore: Io evito di criticare la mia scuola perché ci ha dato molto più di altre scuole. Ci prova attraverso progetti, classi parallele, ma non ci sarà mai una classe-laboratorio, non riuscirà mai ad essere una scuola completamente diversa, che non si ferma alla teoria ma ci fa sperimentare. Io non vedo l’ora che arrivi il momento dell’esame, di farlo e andarmene via. I problemi non sono della mia scuola [...], ma sono della Scuola italiana che è un paese tradizionalista. Ci sarà sempre un distacco tra insegnante e studente, l’insegnante rimane un burocrate che non si mette davvero accanto a noi per insegnare, o almeno solo pochi docenti lo fanno. (Marisa, Istituto Istruzione Superiore Liceale Quinto Orazio Flacco) 50


Ma cosa farebbero i ragazzi se fossero degli insegnanti, per motivare e vincere la tristezza e il disinteresse che sembra spesso aleggiare nelle aule, e dare speranza alla classe? Le risposte a dire il vero non sono molte. Anzi, sembra che vi sia un diffuso apatico adattamento a un modello di scuola che si percepisce come imperfetto e lontano ma che non si saprebbe come modificare. Evidentemente non hanno avuto modelli cui ispirarsi, non hanno assaggiato sapori diversi, non hanno fatto esperienze così eccellenti da imprimersi nella mente, da lasciare un segno indelebile. In realtà, in qualche caso abbiamo avuto la prova che i ragazzi hanno sperimentato modi diversi di apprendere, magari proprio per iniziativa dei propri docenti, attraverso progetti e percorsi che li hanno messi in contatto con altre realtà esterne, associazioni, università, enti, e li hanno proiettati in ambienti innovativi, creativi, aperti alla collaborazione, o semplicemente diversi, lontani dalle mura claustrofobiche della scuola. Ma l’impressione, non solo nostra, è che siano rimaste occasioni perdute, perché separate dalla normale attività scolastica che poi riprendeva senza cambiare di una virgola. Anzi, in qualche studentessa che pure apprezzava la disponibilità della dirigenza a proporre con frequenza attività integrative valide e interessanti, queste esperienze mordi e fuggi hanno finito per lasciare l’amaro in bocca, perché evidenziavano in modo stridente il contrasto con la rigidità del percorso “normale”, l’inefficienza delle strategie didattiche e l’inattualità dei contenuti proposti quotidianamente agli studenti. Commentava tristemente una studentessa: Noi non avremo mai quei laboratori, non potremo mai replicare quotidianamente quelle esperienze. La nostra scuola non diventerà un unico grande laboratorio. Rimangono cose separate dal normale svolgimento delle lezioni. (XXX)

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Il rientro in una situazione ordinaria appare dunque come un ritorno alla noia, alla prevedibilità. Il meglio rimane nel mondo che è fuori. Queste e altre considerazioni simili, ci confermano la convinzione che, se rimane un’opzione irrinunciabile quella di perseguire strade diverse, uscire dalle aule per incontrare realtà altre, aperte e stimolanti, occorrerebbe però non confinare in orari extrascolastici queste iniziative, né farle solo per assolvere una sorta di incombenza amministrativa (come purtroppo capita spesso per i PCTO…), o peggio, lasciarle sulla carta, in documenti infarciti di lessico burocratico e buoni propositi, bensì integrarle nel percorso di lavoro ordinario, magari coinvolgendo docenti di discipline diverse (e perché no, anche esterni, professionisti, educatori, esperti, docenti in altre scuole o università…) per una coprogettazione allargata anche agli studenti. Solo in questo modo si può evitare che siano vissute, nella migliore delle ipotesi, come una boccata d’aria nuova, un’esperienza arricchente, nella peggiore, invece, come una trovata “pubblicitaria” per aumentare la fama e la visibilità della scuola, un capriccio momentaneo, l’idea peregrina di un docente, o, addirittura, solo un sovraccarico di lavoro, che non si saprà, alla fine, se e come valutare. E che finisce nel dimenticatoio. Certo è che, proprio alla fine di un incontro, una studentessa di terza ha insistito perché prendessimo visione dei risultati di un questionario sottoposto a sette altre classi e non abbiamo potuto fare a meno di rilevare la gravità di quel 7 a 0 per la domanda che chiede quanto la scuola influisca su quello che sono gli studenti.

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ISBN 978-88-6153-909-9

Euro 15,00 (I.i.)

R. Mantegazza - A. Romagnolo

Annamaria Romagnolo ha insegnato Lettere nella scuola secondaria di secondo grado e si occupa di formazione per adulti, di progettazione di attività e servizi, di verifica e valutazione di prodotti, risultati e impatti, di organizzazione e di processi di innovazione e gestione del cambiamento nei sistemi culturali e formativi. Nel 2016 è diventata socia fondatrice dell’associazione “Circola – Cultura, Diritti e Idee in movimento”, con la quale ha condiviso la realizzazione di numerose iniziative nel campo della partecipazione, dell’educazione alla cittadinanza, della formazione e della valorizzazione di beni comuni e confiscati.

La scuola, sfidata dalla drammatica emergenza sanitaria, vive oggi un momento di smarrimento, mostrando crepe profonde da affrontare con coraggio e decisione, ma soprattutto in modo collettivo, provando a dare voce ai veri protagonisti dell’essere e fare scuola solitamente dimenticati, inascoltati, nei confronti e nel dibattito pubblico sulla scuola: gli studenti e le studentesse. Questo libro racconta un’iniziativa, “Educazione Bene Comune: riflessioni – tra presenza e distanza – sulla scuola che (NON) c’è”, promossa dall’associazione Circola – Cultura, Diritti e Idee in movimento, che nel tentativo di analizzare la situazione della scuola post pandemia ha interpellato gli studenti di tre scuole di diverse regioni d’Italia (il Liceo Scientifico Lorenzo Respighi di Piacenza, l’Istituto Tecnico per il Turismo Marco Polo di Firenze e l’IIS Liceale Quinto Orazio Flacco di Portici), immaginando un progetto in cui i ragazzi potessero far sentire la loro voce, nella convinzione che solo integrando diversi punti di vista, esperienze e contesti, si possa comprendere quel che realmente sta accadendo nelle nostre scuole. L’analisi è partita dal bisogno di capire, in particolare, come si sia potuto verificare che – pur in una situazione straordinaria – l’interruzione del diritto allo studio non abbia scandalizzato troppo, e di come ne siano stati ignorati i riflessi sulla vita di un’intera componente della comunità scolastica, la principale, la più fragile, la più bisognosa di attenzione: quella studentesca. Capire quali siano le paure, le emozioni, le riflessioni e le proposte dei ragazzi è sicuramente un dovere per gli educatori, la società civile e le istituzioni, ma è anche un’occasione rara per ripensare in ogni suo aspetto il sistema scolastico, in crisi da anni e inadeguato ad affrontare le complesse sfide globali dell’immediato presente, ancor prima di quelle del futuro. Questo libro, con la ricerca e le parole degli studenti e delle studentesse, è un prezioso contributo al futuro della scuola.

R. MANTEGAZZA - A. ROMAGNOLO

EDUCAZIONE BENE COMUNE

La voce dei ragazzi e delle ragazze Prefazione di Cesare Moreno

EDUCAZIONE BENE COMUNE

Raffaele Mantegazza insegna pedagogia presso l’Università di Milano Bicocca e realizza interventi di ascolto, aggiornamento e formazione nelle scuole con particolare attenzione agli incontri con studenti e studentesse. È socio ordinario dell’associazione “Circola – Cultura, Diritti e Idee in movimento”.


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