I fIglI deglI altrI
Esperienze in comunità
Presentazione di Grazia Vulpis
Essere comunità o fare comunità? Chi sono io educatore, quando per la prima volta varco la soglia di una comunità, quando per la prima volta affronto il primo turno di lavoro? Cosa sarò dopo un anno, dopo 10 anni di cura dei figli degli altri?
Quanto avrò curato quei bambini, quei ragazzi, quelle donne nelle notti infinite in cui sembra che nulla voglia rimettersi in ordine, in cui tutto sembra voler solo graffiare la pelle e la coscienza? Quanto avrò curato loro e quanto avrò curato quel bambino che è dentro di me, quello che avevo nascosto, quello che da sempre si sente “figlio degli altri”?
Un educatore di comunità non potrà mai rispondere a queste domande, una educatrice di comunità è sempre lì a porsi la domanda sbagliata, a cercare ostinatamente risposte che non arriveranno.
Prendersi cura dell’umanità offesa, tradita, lasciata non darà mai risposte.
Prendersi cura dei figli degli altri è un percorso verso se stessi, un percorso verso quella parte più intima e fragile che risiede in ognuno di noi.
Questo libro racconta chi siamo e forse anche chi non avremmo voluto essere.
Presidente GEA, cooperativa sociale, Bari
educatori a confronto
Tutto sommato, noi ci occupiamo dei figli degli altri.
Disse una di noi nel corso di una riunione fra i responsabili dei servizi di una cooperativa sociale che gestiva comunità, centri diurni, educativa domiciliare e affidamento famigliare.
– Già, e poi succede che trascuriamo i nostri figli. Se sentite mio marito…
– Non prendiamo questo argomento, i miei figli sono cresciuti e anche loro hanno da ridire sul lavoro della mamma, che sta sempre lì a correre dietro agli altri e poi si dimentica di fare la spesa.
– E non ci possiamo neanche permettere di dire che siamo stanche…
– Vorrei farvi vedere cosa succede quando mi arrivano telefonate di lavoro a casa: ho subìto delle vere e proprie aggressioni… e non solo verbali. Francesco, mio figlio di 5 anni, mi ha preso a calci; ho ancora i lividi.
– Mio marito dice che sono troppo altruista e che un po’ di “sano egoismo”, come dice lui, mi farebbe bene. Ma per lui il “sano egoismo” consiste nel fatto che devo occuparmi di lui, egoista che non è altro.
– Ma perché, non si può essere egoisti ed altruisti? Non dico contemporaneamente, ma alternativamente.
– Ma che cavolo dici! Mica si può essere egoisti o altruisti a fasi alternate, ad orari stabiliti…
– Eh sì, in orario di lavoro facciamo gli altruisti, poi a casa diventiamo egoisti.
– Egoisti a casa? Ma se sto sempre ad occuparmi dei gemellini, di mio marito, di mia madre, ecc.
– Per non parlare di quando arrivano le telefonate di lavoro a casa. Sul più bello della fase egoistica, dobbiamo tornare ad essere altruisti.
– Non avete capito niente. Uno è egoista o altruista “dentro”, mica può cambiare a seconda degli orari o delle giornate o dei turni di lavoro.
– Ah sì? E che significa essere egoisti dentro? E altruisti dentro? Tu come ti definiresti?
– Non lo so. E tu?
– Non fare la furba. Rispondi con una domanda? Vuoi rigirare la frittata?
E così abbiamo passato un paio d’ore a interrogarci sul significato di queste parole. Non avevamo tutti la stessa opinione, abbiamo discusso a lungo. Ci siamo chiesti chi è l’Altro per noi. Dove finisce l’Io ed inizia l’Altro. E forse la nostra confusione derivava proprio dall’incapacità di stabilire questo confine, forse gli altri entrano troppo dentro di noi e poi va a finire che dipendiamo da loro, da quello che riusciamo a fare per gli altri. Ma è pur vero che se questo confine è troppo rigido, netto, invalicabile, allora stiamo tracciando il sentiero dell’intolleranza e del pregiudizio.
Se la percezione dell’altro era difficile da definire, diventava ancora più problematico pensare a quello che poteva significare occuparsi dei figli degli altri. Perché spesso succede che in quei figli ciascuno di noi può ritrovare la sua infanzia e riviverla, qualcun altro può rivedere i suoi figli, oppure i figli che non ha avuto e che avrebbe voluto. Non era facile affrontare questi vissuti così intimi, però decidemmo di continuare a parlarne, liberamente, senza costringere nessuno. Chi aveva voglia di farlo.
Decidemmo di raccontarci. Qualcuno propose di raccontare le storie che lo avevano più coinvolto; in quella storia avremmo potuto trovare spunti di riflessione comune.
Decidemmo di abolire le censure e di metterci in gioco. Ma dovevamo stare attenti ad evitare la tentazione di dimostrare quanto fossimo stati bravi. Era necessario evitare l’esibizionismo e confrontarci sulla nostra intelligenza emotiva.
Mentre parlavamo fra noi, non potemmo fare a meno di sottolineare che non tutti ci occupavamo delle stesse cose, per cui le nostre esperienze non erano confrontabili. In effetti, lavorare in una comunità educativa per adolescenti non è la stessa cosa che lavorare in una comunità che accoglie madri e figli, o in un centro diurno oppure occuparsi di affidamento famigliare. Decidemmo di confrontarci sulle differenze, riconoscendo comunque un fil rouge: tutti noi ci occupavamo dei figli degli altri. Ma le differenze potevano essere utili a capire quale fosse la particolarità del nostro lavoro1.
Noi educatori
Ci sono giorni in cui amo il mio lavoro, giorni in cui lo odio. Ci sono giorni in cui gioisco per la vittoria di una mamma, altri in cui non sopporto il pianto di un bambino. Però, ho scelto di voler lavorare nelle comunità quando avevo solo 16 anni e continuo ogni giorno a non immaginarmi altrove. Ho sempre pensato che le comunità siano posti speciali, dove non esistono pregiudizi, barriere, differenze. Dove esistono solo le persone, indipendentemente da quello che c’è scritto sul loro fascicolo. Molto spesso, però, quel fascicolo ha un peso troppo ingombrante e ci sono cavilli burocratici troppo difficili da superare. Questa cosa mi fa incazzare da morire, perché mi rendo conto che ci vuole tanta forza per raggiungere dei minimi, seppur bellissimi, risultati. Il nostro non è un lavoro. È una scelta. Le sfaccettature di questa scelta sono tante, e nel momento in cui si decide di intraprendere questo percorso non è possibile prevedere che ci saranno milioni di mo-
1 Bateson definisce l’informazione come “percezione di una differenza”. Perché ci sia informazione ci devono essere due (o più) entità diverse fra loro confrontabili e qualcuno che percepisca queste differenze. Quel qualcuno siamo noi e la nostra voglia di essere informati su quello che facciamo (Bateson G., Verso un’ecologia della mente, trad. it., Adelphi, Milano 1972).
menti diversi, che oscillano tra il “chi me l’ha fatto fare” e il “come sono felice, ce l’ho fatta”.
Lavorare con la vita delle persone è una grande responsabilità: serve attenzione, “cazzimma”. Sono necessari i silenzi, le attese. Ci vuole passione. Devi sapere che andrai incontro a molti fallimenti, e che stai lavorando per quelli, pochi, che ti seguiranno, miglioreranno, e tu migliorerai insieme a loro ogni volta che ce la faranno.
Ciò che alleggerisce il mio lavoro è il sorriso dei bambini, l’armonia con i colleghi, il riconoscimento del nostro impegno da parte delle istituzioni.
Ciò che lo appesantisce è il lavorare con persone che non sono sulla tua stessa lunghezza d’onda, non sono sincronizzate. E poi l’impotenza... Quando vorresti fare di più, sapresti come fare, ma il sistema non te lo consente; quando ad uscire le palle sei il solo, ma le esci lo stesso perché non puoi fare altrimenti.
I momenti di condivisione sono importanti, soprattutto se avvengono con le persone giuste, con le quali puoi sentirti libero di essere te stesso anche quando proprio non è giornata.
Lavorare in una comunità alloggio per madri e bambini è stata la mia scelta. Avrei potuto fare altro, avrei potuto scegliere di dedicarmi di più alla mia famiglia, alla mia formazione, ma ho deciso di donare tempo e raccogliere i frutti del tempo che scorre in quel luogo.
Ci sono giorni, tanti – forse troppi –, in cui mi pesa combattere contro la stasi istituzionale che difficilmente riesce a cambiare in meglio le cose nei tempi giusti. Così come mi sfinisce il dover provare ad instillare nei compagni di squadra, costantemente, il senso di abnegazione e resistenza, grazie al quale si può accompagnare una donna adulta nella sua funzione materna.
Mi fa incazzare la lotta continua tra libertà di pensiero e di azione delle nostre ospiti e il continuo prova-
re a far capire che “anche se sei libera di scegliere, quello che scegli non sempre è la scelta giusta per te e il tuo bambino”.
Però, d’altronde, a fine giornata, quando si chiude la porta della comunità, rimane quell’abbraccio, quel sorriso, quel “grazie” detto a mezza voce, quel sentore di speranza che non ti abbandona mai, perché anche se è stata dura, sei stata “l’alternativa”, “la scelta giusta” per qualcuno.
In qualche modo, noi e gli ospiti incrociamo i nostri cammini e per quante iperboli la vita ci faccia fare, di quell’incontro ne porteremo un frammento minuscolo nell’anima.
Per sempre.
La cosa più bella del nostro lavoro è vedere i progetti riusciti, essere in grado di fare veramente la differenza nella vita delle persone, riuscire a costruire delle relazioni significative e diventare dei punti di riferimento positivi per i nostri utenti; i piccoli riconoscimenti da parte delle istituzioni, il lavoro di squadra e la complicità con i colleghi. Il lavoro in rete (quando la rete funziona).
Le cose peggiori sono le rotture di scatole fuori turno lavorativo o durante i giorni liberi (comprese ferie e malattie), quando gli educatori non riescono a prendersi le proprie responsabilità demandando tutto al coordinatore; quel senso di solitudine quando intervieni e senti che la rete di servizi non ti supporta o è assente; quando i tribunali emettono provvedimenti non considerando le tue relazioni; quando gli ausiliari hanno bisogno del tuo consenso anche per cambiare una lampadina e si lamentano in continuazione per le cose che – secondo loro
non rientrano nelle loro mansioni.
Ma soprattutto quel senso di impotenza, quando ti rendi conto di non poter più aiutare un utente perché non tutti possono essere salvati.
Sono educatore da 17 anni. In alcuni momenti mi sembrano pochi, in altri mi sembrano troppi (ad
esempio oggi!). Se mi domando per quale motivo faccio questo lavoro la risposta è che non potrei mai farne un altro.
Amo “stare” con gli altri, amo “sentire” le loro emozioni e vedere quanto essere ascoltati possa alleggerire la sofferenza delle persone. Amo sentirmi utile per qualcuno che non ha avuto molta fortuna nella vita ed essere parte attiva nella costruzione di un futuro migliore. Sono grata alla vita per avermi concesso di fare un lavoro così stimolante e per aver incontrato le persone migliori a guidarmi in questo percorso professionale così importante.
Però ogni tanto sento il peso di questi 17 anni, sento il peso che una mia scelta, un mio pensiero o un mio suggerimento possa avere nella vita di un’altra persona e soprattutto di una mamma, una mamma come lo sono io. Talvolta sento il peso degli altri e della loro difficoltà nell’assumersi le responsabilità e di dare delle risposte, e vorrei togliermi dalla schiena la zavorra dell’eccessivo senso del dovere che mi porto dietro da sempre. Ma ripeto, nonostante tutto, non potrei fare nessun altro lavoro al mondo.
Le comunità
L’accoglienza comunitaria è destinata soprattutto a bambini, dai 12 ai 18 anni. Poi ci sono le comunità mamma-bambino, che ospitano donne in situazione di grave disagio, con figli. Gli operatori non sono residenziali, cioè non abitano in comunità, fanno dei turni, perché ovviamente questi minori non sono mai lasciati da soli. Ogni comunità ha una coordinatrice e si avvale della consulenza di una psicologa e quasi tutti gli operatori sono educatrici specializzate, gli educatori maschi sono pochi.
Il collocamento in comunità è disposto dai servizi sociali nei casi più gravi ed urgenti oppure dal Tribunale per i mi-
norenni (articoli 330 e seguenti del Codice Civile). Spesso questi minorenni sono vittima di violenza, di abbandono, di trascuratezza, per cui il tribunale può anche disporre il divieto di visita ai genitori: i bambini collocati in comunità, a volte, non possono neanche incontrare i genitori, né i genitori sanno dove si trovano i loro figli, proprio per impedire che vadano a trovarli. In altri casi il tribunale può disporre che i genitori incontrino i figli in comunità oppure che i bambini periodicamente tornino a casa, per fare rientro in comunità dopo 1 o 2 giorni.
Non è difficile immaginare cosa provochino queste differenze.
Provate ad immaginare cosa possa provare un bambino che non può incontrare i suoi genitori, quando poi vede che il suo compagno di stanza va la domenica a casa sua, a pranzare con la sua famiglia.
Qualcuno a casa non ci tornerebbe mai, ma altri vorrebbero e questo divieto provoca un senso di vuoto difficile da colmare. Ci sono ragazzini che si sentono in colpa per il fatto che non tornano a casa, anche se continuiamo a dire che lo ha deciso il tribunale. E non è escluso che, per liberarsi da questa colpa, la attribuiscano agli operatori della comunità. Pensano che siamo noi che non vogliamo farli tornare, anche se continuiamo a dire che non siamo noi che abbiamo deciso, ma il giudice.
A volte persino i bambini vittime di violenza famigliare chiedono di tornare a casa; succede che questi bambini non si rifiutino di vedere i loro genitori abusanti, anzi li cerchino, soprattutto se la violenza è avvenuta quando il bambino era particolarmente piccolo. La percezione della violenza è un problema che va affrontato: è ovvio che la reazione di un bambino grandicello che si rende conto di aver subito una violenza sessuale è completamente diversa dalla reazione di un bambino più piccolo, che può aver scambiato quella violenza per “attenzione” o addirittura “tenerezza” del genitore abusante.
La violenza in famiglia, può avere diverse forme: gli effetti di una violenza sessuale sono differenti dagli effetti di una violenza fisica o maltrattamento, che sono ancora diversi dagli effetti di una violenza psicologica, come ad esempio la denigrazione.
Gli operatori di una comunità infantile devono misurarsi con tutte queste differenze e calibrare il loro intervento sulle specifiche esigenze e bisogni di quel minorenne, partendo comunque dal presupposto che se quella ragazzina è in comunità, è stata vittima di violenza e che sta vivendo l’abbandono. In altri termini è angosciata, sta vivendo la cosiddetta “sindrome di Pollicino”. Quali sono le sue speranze? Non vede l’ora di tornare a casa o ha paura di tornare a casa… o ci sono entrambe le speranze, pur essendo contraddittorie? In effetti quello che emerge è una profonda ambivalenza, che va accolta, un segnale importante su cui bisogna lavorare.
Con i ragazzini più grandi è possibile trovare una reazione più definita: ci sono quelli che malgrado tutto vogliono far ritorno a casa e fanno di tutto per sabotare la vita comunitaria per essere dimessi e rientrare in famiglia. Ci sono altri che hanno deciso invece di chiudere con la loro famiglia, non vogliono neanche sentirne parlare. Entrambe le aspettative sono legittime, ma il problema per gli operatori della comunità è che la decisione spetta al giudice o ai servizi sociali, ma gli ospiti non ci credono, si arrabbiano, anche perché per loro il giudice è una figura lontana, quasi inaccessibile e l’assistente sociale è amica del giudice; così spesso va a finire che gli operatori della comunità diventano il capro espiatorio di una situazione critica, la cui soluzione spetta ad altri. Immaginate come possa funzionare l’accoglienza curata da un capro espiatorio in favore di chi sente di subire un’ingiustizia. Spesso ci troviamo ad affrontare e gestire questa rabbia, cercando di far capire che noi stiamo solo lì per aiutarli e che tutto sommato siamo sulla stessa barca.
La gratitudine e la fiducia
Dopo tutto quello che ho fatto per te!
È una frase che si sente spesso, nelle migliori famiglie, con diverse variazioni sul tema:
–Sapessi quanti sacrifici ho fatto per farti studiare, questo è il ringraziamento!
–Non meriti niente, mai un briciolo di gratitudine… –Avessi avuto io la fortuna che hai avuto tu! Ai miei tempi…
E così via.
Negli incontri di supervisione spesso emergeva il “problema della gratitudine”. Tutti gli operatori se l’aspettano, anche se non tutti lo dicono esplicitamente.
Ci siamo detti che è del tutto naturale aspettarsi un po’ di gratitudine, anche perché la nostra professione è basata su una “relazione d’aiuto”, e se io lavoro per aiutare “l’altro”, mi aspetto almeno un ringraziamento. Che cosa c’è di male? Abbiamo detto che succede nelle migliori famiglie! No, è sbagliato. Non abbiamo il diritto di aspettarci una riconoscenza. Magari può capitare di riceverla, ma noi non abbiamo alcun diritto di chiederla o addirittura di pretenderla.
Di cosa dovrebbero essere riconoscenti i nostri ospiti?
Se sono in comunità vuol dire che la loro famiglia non ha funzionato, che sono stati vittime di violenza, che hanno
subito un abbandono. Insomma tutti quelli di cui ci occupiamo hanno alle spalle storie di violenze, abbandoni, trascuratezze.
Sono persone che hanno subito frustrazioni di ogni tipo ed è del tutto inevitabile che siano arrabbiate ed intolleranti. E di solito non hanno chiesto loro di essere collocati in comunità, tanto meno di essere controllati da chi dovrà riferire al giudice o all’assistente sociale.
Spesso i figli degli altri hanno un atteggiamento singolare, di chi si sente in credito con gli affetti. Ne hanno ricevuto poco e lo pretendono, devono colmare un vuoto profondo, non possiamo aspettarci gratitudine. Si sentono in credito con la vita, hanno subito e cercano un riscatto. E noi non dobbiamo correre il rischio di essere vissuti come coloro che stanno impedendo questo percorso di rivalsa.
Anzi, dovremmo incoraggiarlo, tenendo ben presente un altro pericolo; queste persone sono davvero stanche di sentirsi in debito con qualcuno, vogliono sentirsi libere. La gratitudine è un legame, un debito di riconoscenza, che procura un insopportabile senso di sudditanza.
Potremmo paragonarlo a quello che succede nel conflitto generazionale, quando tutti gli adolescenti mandano al diavolo i genitori; ma nel nostro caso la situazione è più complessa. La famiglia è dissolta e le figure genitoriali siamo noi. Pertanto noi siamo i destinatari di quell’aggressività che nasce da tante frustrazioni subite. Altro che gratitudine!
Noi operatori apparteniamo al mondo degli adulti, quegli adulti che hanno prodotto tanta sofferenza. Quegli adulti di cui i nostri ragazzi non si fidano a causa delle esperienze negative vissute.
Infatti, non c’è niente di più difficile che conquistarsi la loro fiducia. A volte succede che se ti avvicini per accarezzarli, loro si difendono e si scostano, temendo di ricevere uno schiaffo. Non sono abituati alle carezze, alle effusioni, alla tenerezza, oppure le rifuggono, considerandole un
segno di debolezza. Loro non devono cedere, non possono permetterselo, perché hanno paura di rimanere delusi, come spesso è accaduto nella loro vita. Non vogliono illudersi, perché sanno che quell’illusione potrebbe trasformarsi in delusione. Non vogliono coltivare questa speranza, per timore di rimanere disperati. E hanno ragione. Perché loro provengono dal mondo degli sfortunati, mentre noi, che ci prendiamo cura di loro, apparteniamo al mondo dei fortunati.
Lo so, qualcuno starà pensando che anche noi abbiamo i nostri guai, i nostri problemi; essere un educatore, uno psicologo, un’assistente sociale, non ci rende immuni dalle frustrazioni. Ma loro, i figli degli altri, non lo pensano. Per loro noi apparteniamo al mondo “normale”, siamo dei privilegiati, non possiamo capirli. La loro resilienza li rende inaccessibili.
“Che ne sai tu? Non puoi capire cosa mi è successo.”
Loro pensano che noi non possiamo capirli perché non siamo abituati alla sofferenza. Troppo facile predicare bene con la pancia piena ed una famiglia che funziona. Noi non siamo abituati alla sofferenza, alle privazioni, alla trascuratezza, alla povertà, all’abbandono. Loro sì. Da queste differenze non può scaturire la gratitudine, ma la rabbia e l’invidia. Da qui la mancanza di fiducia.
Noi cerchiamo di vincere questa loro diffidenza, ma loro non si fidano, hanno bisogno di prove, di verifiche; devono metterci alla prova. E queste prove, spesso, sono esasperanti: fughe, dispetti, condotte autolesionistiche, aggressività, uso di sostanze, e così via. Tutte provocazioni per metterci alla prova. Non esiste un modo migliore per sperimentare la fiducia se non quello di mettere alla prova la nostra pazienza, la nostra capacità di tolleranza.
Ma se ci pensiamo bene, non hanno altri strumenti a disposizione.
È la solita storia fra buoni e cattivi; troppo facile essere buoni con chi fa il buono, con chi si comporta bene. Il
difficile è essere buoni con chi fa il cattivo, ed il cattivo fa il cattivo proprio per verificare la disponibilità nei suoi confronti. Se la nostra tolleranza è limitata, se la nostra soglia alla frustrazione è troppo bassa, mettiamo subito in atto meccanismi – più o meno inconsci – di espulsione, di rifiuto, di disinvestimento.
Il “caso” diventa troppo difficile, ingestibile: “Ha bisogno di un altro tipo di intervento… non posso mettere a rischio gli altri ospiti della comunità… ne va dell’incolumità di tutti, ci sono regole da rispettare e le regole sono valide per tutti”, e così via.
Negli incontri di supervisione queste frasi degli operatori sono ricorrenti e inevitabilmente è necessario avviare una riflessione sul significato di queste provocazioni, sulle nostre aspettative di gratitudine, sulla nostra stanchezza, sulle incomprensioni: fra colleghi, con la responsabile, con i servizi sociali, con il giudice. Andiamo a cercare colpevoli al di fuori del sistema di accoglienza, abbiamo bisogno di un capro espiatorio, che quasi sempre è la famiglia d’origine.
È del tutto scontato che se quella ragazzina o quella mamma con i suoi figli sono in comunità, evidentemente qualcosa non ha funzionato in famiglia. È talmente scontato che spesso lo dimentichiamo. E dimentichiamo quante frustrazioni può produrre quella disgregazione famigliare.
Ma è altrettanto necessario lavorare su di noi per alleviare questa sofferenza. Sottolineare le inadempienze della famiglia d’origine non risolve i problemi. Aiuta a capire le cause del disagio, questo sì. Ma non ha molto senso discutere su cosa avrebbe dovuto fare quella famiglia. Concentriamoci piuttosto su quello che possiamo fare noi.
Tu eri il mio guerriero
Da quando tu non ci sei più, tante cose sono cambiate, papà.
Non sono più quella bambina che hai lasciato nove anni fa, adesso sono cresciuta, sono cambiata, non sono più io!
La vita insieme a te sembrava una passeggiata, perché tu rendevi il mio mondo perfetto.
Tu eri il mio guerriero…
Non ero e non sono sola, qualcosa mi mancava e mi manca ancora. Tra tutte quelle cose che mi mancano il tuo profumo, il tuo abbraccio, il bacino della buonanotte, i nostri momenti insieme.
C’è ancora una cosa di te che mi appartiene, e sempre mi apparterrà: la forza del guerriero che tu eri.
Questa forza per me è troppo grande, papà, non riesco a gestirla, distruggo tutte le persone che mi circondano, anche quelle che in realtà non vorrei sfiorare neanche con un dito.
A causa di questa forza, la tua forza, adesso mi ritrovo lontana dalla nostra vita e dalla nostra casa… la tua forza in me si è trasformata in rabbia, papà, una rabbia strana, che con difficoltà non so gestire. Questa maledetta rabbia non mi fa fare cose belle, papà, non mi porta nulla di buono… ma, forse, dovrei capire che non mi riporterà indietro te. Ci sto lavorando però, papà, giuro, lo sto facendo… ma non grazie a mamma. Lei cercava aiuto in me, ma in realtà ero io l’unica persona che ne aveva bisogno. Non è riuscita a prendere il tuo posto, papà. La sua debolezza mi fa troppo incazzare!
Ora sono in comunità, lo sai? È per la sua debolezza che sono qui… lei non è riuscita ad essere abbastanza forte, la sua maledetta debolezza… faceva scattare in me una rabbia che tuttora non conosce ragione. Capisco che le manchi, ma anche a me manchi!
Chi ci pensa a me, papà? Devo pensarci da sola? Pri-
ma o poi, dovrò pensarci da sola. Qui in comunità, riesco a riflettere, qui qualcuno mi abbraccia, qui qualcuno mi dà il bacino della buonanotte, qui qualcuno mi vuole far diventare grande. Ma non voglio rimanere qui, quando sarò pronta, voglio andar via, voglio una mia vita, voglio la mia strada, quella strada che sino ad ora non mi è stata data, e che dovrò trovare da sola. Non voglio escludere mamma dalla mia vita, neanche nonna, non lo voglio fare… e poi chi mi rimane?
Se riuscirò a superare i miei limiti, papà, forse potrei riuscire IO ad aiutare mamma, ad avere un dialogo con lei più sereno… senza rabbia!
Non la voglio più questa rabbia, papà, non mi fa diventare grande, non mi permette di trovare quella strada.
Io ce la farò, papà, io sono una guerriera… proprio come te. E come tu mi hai insegnato, stringerò i denti fino alla fine, senza rabbia… ora, voglio trasformarla in forza.
Lo voglio fare anche per te. Sarai fiero, un giorno, di me… ce la farò, papà… per forza!!!
Ti voglio bene, la tua bambina.
Ilaria, 15 anni
Ricostruire la storia
Per trovare una risposta a questi interrogativi è necessario ricostruire la “storia del caso”. Spesso ci rendiamo conto che le informazioni a nostra disposizione sono davvero poche. Raccogliere tutta la documentazione non è sempre facile. A volte mancano le relazioni dei servizi sociali, a volte non abbiamo tutti i decreti del tribunale, a volte mancano informazioni anche sul curriculum scolastico. Ma diciamo la verità, a volte siamo noi che non ci impegniamo a racco-
gliere tutte le informazioni disponibili. Dovremmo pretenderle e cercarle. Non si può progettare un intervento senza un’accurata anamnesi. E noi abbiamo il diritto/dovere di raccogliere tutte le informazioni possibili.
Certi eventi, certe frasi, certe parole, possono avere un effetto catastrofico sui nostri ragazzi perché rievocano antichi fantasmi; per evitare di incorrere in questi errori è necessario conoscerli questi fantasmi. Un qualsiasi riferimento alla sessualità per una vittima di violenza sessuale può avere un effetto traumatico. Minacciare l’espulsione dalla comunità a chi ha vissuto ripetuti abbandoni è troppo doloroso e le reazioni potrebbero essere imprevedibili. Ci sono corde particolarmente sensibili che non possiamo permetterci di far vibrare.
È necessario conoscere questa vulnerabilità, non bisogna evitarla. Anzi, quando abbiamo capito quali sono questi punti deboli, diventa necessario stimolare, con molto tatto, una narrazione autobiografica. È sorprendente notare come i nostri ospiti sentano il bisogno di raccontarsi, quando trovano chi sa ascoltarli. Non sono abituati ad essere ascoltati ed è interessante notare che quando iniziano a raccontarsi è più facile che si avvii un percorso basato sulla fiducia. Non ci nascondiamo che spesso questa narrazione abbia per loro lo scopo di creare una sorta di complicità con l’operatore, basata su un clima confidenziale. “Se ti racconto tutto, se mi apro con te, poi non puoi tradirmi, mi aspetto più comprensione.”
Questo il messaggio che arriva, più o meno cifrato, mai completamente esplicito. E qui la situazione si fa molto delicata, per cui il nostro messaggio deve essere chiaro: “Sono pronto a raccogliere le tue confidenze, ma non ne devi approfittare. Fiducia, ma sempre nel rispetto delle regole”.
Chiariamo: a volte abbiamo l’impressione che i nostri ospiti si raccontino perché da quel rapporto di confidenza con l’educatore possono trarre dei vantaggi. Non possiamo
escluderlo. Ma è anche possibile che chi si confida si aspetti un po’ più di fiducia. È una legittima aspettativa, specialmente in chi non è abituato a raccontarsi e a riporre fiducia in nessuno.
Quante volte i figli degli altri ci hanno detto che non si fidano di nessuno? E lo dicono quasi come se fosse un vanto. A volte aggiungono: “Neanche di mia madre”, “neanche dei miei genitori!”. E se qualcuno cede alla tentazione di fidarsi, è considerato uno stupido, un ingenuo, un poveraccio. Loro invece, duri e resilienti, non si fidano di nessuno: “Non sono mica scemo!”.
Se poi succede che si fidano dell’educatore e si aprono nel raccontarsi, devono poi recuperare un po’ di durezza, devono arginare la deriva della “scemenza” di chi si fida troppo. Sono costretti a fare i furbi. “Mi fido, ma non sono mica scemo, adesso ti faccio vedere io.”
Non solo: “Se mi sono fidato di te, devi ripagare questa fiducia, devi darmi delle concessioni, ormai siamo amici, sai tutto di me, non ho più segreti”.
Insomma la gestione della fiducia e delle confidenze non è facile: c’è chi ne approfitta e vuole trarre un vantaggio, c’è chi si vergogna, c’è chi si vendica del fatto che gli hai strappato un segreto.
Questo libro raccoglie le riflessioni emerse negli incontri di supervisione con gli operatori della cooperativa GEA di Bari che lavorano in comunità, ma anche quelle – drammatiche – dei figli degli altri: narrazioni autobiografiche di ragazzine adolescenti oppure mamme con figli, brevi racconti che racchiudono le esperienze di una vita difficile. Raccontarsi ha un significato importante: aiuta a mettere in ordine i ricordi, ad organizzare la memoria, ad uscire da uno stato spesso confusionale. Raccontarsi è un modo per diradare le nebbie del passato e proprio per questo assume anche una valenza terapeutica.
Rievocare traumi, ammettere i propri errori, riconoscere i limiti della propria famiglia, rivivere l’abbandono, sono tutti passi necessari per iniziare un percorso di vero cambiamento, così come prendersi cura dei figli degli altri è un percorso verso se stessi, verso quella parte più intima e fragile che risiede in ognuno di noi. Abbiamo cercato di analizzare i loro problemi, ma anche i nostri, perché, tutto sommato, siamo nella stessa barca.
“Quando si chiude la porta della comunità, rimane quell’abbraccio, quel sorriso, quel ‘grazie’ detto a mezza voce, quel sentore di speranza che non ti abbandona mai, perché anche se è stata dura, sei stata ‘l’alternativa’, ‘la scelta giusta’ per qualcuno.”
ISBN 978-88-6153-986-0