Il calice e la spada. Come riconoscere e gestire l’aggressività nella prima infanzia

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Claudio Riva, nato nel 1960, si è laureato in psicologia presso l’Università di Padova e specializzato in psicosomatica presso l’Istituto Riza. Esercita la professione di psicologo psicoterapeuta a Vicenza. È consulente e supervisore in diversi servizi educativi (asili nido, scuole d’infanzia, centri di aggregazione per bambini e adolescenti) e comunità. Ha collaborato con la meridiana per la rivista “Marcondiro”. È redattore e autore di “Conflitti”, Rivista di ricerca e formazione psicopedagogica edita dal CPP. È membro del consiglio direttivo dell’Associazione di psicologia analitica Oikos.

In copertina disegno di Fabio Magnasciutti

Euro 13,50 (I.i.)

ISBN 978-88-6153-880-1

IL CALICE E LA SPADA Come riconoscere e gestire l’aggressività nella prima infanzia

IL CALICE E LA SPADA

Un bambino che tira i capelli ad un altro, perché quest’ultimo gli sta strappando dalle mani un giocattolo, è una situazione comune nelle famiglie e nei servizi educativi e non denota necessariamente che qualcosa in quel dato contesto non funzioni. Il confine tra aggressività “sana” e sfogo irruento e incontrollato delle emozioni è sottile. Se da un lato l’aggressività è quasi universalmente accettata dalle scienze psicopedagogiche come qualcosa di naturale, dall’altro rimangono ancora pensieri estremamente diversi sul come accostarsi ad essa. L’approccio di questo libro è maieutico e parte dalla consapevolezza, ormai acquisita, che intorno ai sei anni la struttura della personalità di ciascuno è sostanzialmente formata e che gli imprinting ricevuti influenzeranno il resto della vita. I primi anni di vita in famiglia, al nido, alla scuola dell’infanzia e nei contesti più vari, sono essenziali per imparare ad esprimere, riconoscere e gestire le emozioni e, con esse, l’aggressività. Questo vale per il bambino, ma anche per chi gli sta vicino con compiti educativi. Sono anni in cui si apprende come regolare l’aggressività, intesa come istinto, e in cui si lavora sulla dimensione adattiva dell’incontro con gli altri individui: i genitori e i familiari più prossimi, i bambini e le bambine, gli educatori e gli insegnanti, ma anche gli animali, l’ambiente e il sistema in generale. La differenza e la complementarietà dei codici del calice e della spada, che rimandano rispettivamente al materno e al paterno, accompagnano lo sviluppo del bambino; il modo in cui gli adulti mettono in relazione questi due codici, influenzerà i piccoli nella loro capacità di gestione e regolazione delle emozioni e degli istinti, non solo durante l’infanzia, ma anche negli anni a venire.

Claudio Riva

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IL CALICE E LA SPADA Come riconoscere e gestire l’aggressività nella prima infanzia


Indice

Premessa............................................................. 7 Introduzione....................................................... 9 L’aggressività..................................................... 13 Le fasi dello sviluppo....................................... 17 Gravidanza: conflitto o violenza?.................... 21 Il lattante........................................................... 29 Il cucciolo: il gattonare e il rapporto tra pari.... 37 Il bambino e la bambina.................................. 43 L’aggressività della madre................................ 49 L’aggressività del padre.................................... 57 Quando si confonde l’autonomia con il lasciar fare tutto...................................... 63 Codice materno e codice paterno: coppa e spada................................................... 67 Ordine e disciplina........................................... 73 Diventare genitori senza rinunciare a essere individui.............................................. 75 Bibliografia....................................................... 77



Premessa

La gestione dell’aggressività nella prima infanzia è l’argomento di questo libro. Mi soffermerò sulla prima infanzia per alcuni motivi: il primo riguarda la mia esperienza formativa e professionale. Ho studiato psicologia all’università di Padova e mi sono specializzato in psicosomatica presso l’Istituto Riza più di trent’anni fa lavorando contemporaneamente come educatore in un asilo nido di Vicenza. Questa esperienza è stata per me un vero e proprio imprinting, che mi accompagna ancora oggi nel mio lavoro di psicologo consulente di vari servizi educativi e nella consulenza e formazione dei genitori, ma anche nei colloqui di psicoterapia, attività quest’ultima che a mio modo di vedere ed in estrema sintesi consiste proprio nel recuperare quella parte di sé che si è persa per strada durante il percorso di crescita per i più svariati motivi, come ricorda Hillman nel suo saggio Il codice dell’anima (1996). L’altro motivo, meno personale, ma comunque molto legato a quanto già scritto, è l’importanza che gli studi psicologici danno ai primi anni di vita nella formazione della personalità. Al di là delle diversità che contraddistinguono le teorie dello sviluppo, tutte sono concordi nel sottolineare l’importanza dei primi anni di vita, al punto di poter affermare che intorno ai sei anni la struttura della personalità è sostanzialmente formata. Il che non significa che essa non sia poi modificabile o migliorabile, altrimenti sarebbe esaurito il

processo di crescita che, oggi, invece sappiamo durare fino all’ultimo respiro, almeno per quanto riguarda l’evoluzione della coscienza; ciò significa piuttosto sottolineare che alcuni imprinting, come dimostrano le teorie etologiche1 o i proto modelli relazionali2, influenzeranno comunque il resto della vita. Per questo motivo, come diventerà via via evidente nel corso del libro, i primi anni di vita sono essenziali nella gestione dell’aggressività, sia del bambino che dell’adulto, come avrò modo di esplicitare. Sia l’esperienza che gli studi, mi portano quindi a ritenere che una buona impostazione relazionale nella prima infanzia per quanto riguarda l’aggressività sia un investimento che contribuirà in modo significativo in tutte le altre fasi della vita, sia nel tanto discusso periodo adolescenziale che nella gestione della propria aggressività da adulti. Infatti, anche per quanto riguarda quest’ultima, un’attenta riflessione ci porta spesso a comprendere che anche i comportamenti adulti inadeguati sono spesso frutto di gravi forme di immaturità, di persone cioè che si comportano come se fossero bambini molto piccoli. Quando per esempio un uomo arriva a picchiare o addirittura uccidere una donna perché lo vuole lasciare è molto probabile che, oltre ad una concezione molto maschilista della relazione, abbia anche una struttura di personalità così disturbata da comportarsi come un bambino di pochi mesi, capace di manifestare tutta l’aggressività di cui è capace solo perché la madre non arriva a soddisfare i suoi bisogni secondo una modalità del “tutto e subito” che vedremo più avanti. Questo tipo di comportamento a volte può essere anche occasionale in persone con strutture fragili. Mi è capitato di seguire una situazione in cui un uomo aveva picchiato la moglie che non voleva sottostare alle sue richieste sessuali e non 1. Konrad Lorenz, 1989. 2. Montefoschi, 1977.

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si ricordava di averlo fatto. Nella ricostruzione dei fatti è emerso che stava prendendo un farmaco che, come effetto collaterale, disinibiva completamente qualsiasi istinto e i freni inibitori già fragili nella sua struttura di personalità, in quella situazione non funzionarono per nulla. Questo comportamento violento era così poco abituale per lui che il meccanismo di difesa che mise in atto fu quello di dimenticarsene completamente e solo dopo molti anni di psicoterapia, grazie ad un sogno in cui si ripeté la scena, fu in grado di tollerare l’emersione del ricordo e di chiedere scusa alla moglie. Tutto questo per dire che nessuno di noi è probabilmente immune da situazioni che potrebbero scatenare una reazione aggressiva incontrollata. Questo va tenuto presente non tanto per vivere nel terrore che improvvisamente il nostro compagno, amico o quant’altro possa improvvisa mente assalirci, ma semplicemente per essere consapevoli che l’aggressività, come la sessualità, rimane un istinto e, come tale, mai completamente del tutto addomesticabile. Uno studioso di antropologia religiosa mi ha fatto notare che la Madonna che tiene sotto il piede il serpente, non lo uccide, perché ucciderebbe altrimenti una fonte di energia. Il fatto che non lo uccida fa sì che il serpente le insidi il calcagno, come allora previsto nella Genesi3. Rimane lì, vivo, e va gestito. A qualsiasi genitore, anche al più buono e mite, potrà capitare di avere attacchi di rabbia, con fantasie anche distruttive, nei confronti del figlio e questo non è un problema, anzi, può essere preferibile rispetto ad una relazione gestita in modo freddo e razionale senza emozione alcuna. I bambini hanno bisogno di essere covati, hanno bisogno di calore, anche se a volte si rischia di rimanere scottati. L’importante è prendere coscienza, per poter gestire questa energia, che come tutte le energie, 3. AA.VV., 2014.

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acqua o fuoco che siano, possono portare vita o morte a seconda di come vengono incanalate.


Introduzione

Supporre di sapere cos’è l’aggressività potrebbe sembrare un’idea presuntuosa. Lo stesso vale per la sessualità che con l’aggressività ha molte cose in comune, in particolare l’appartenenza al regno animale (e dell’anima). Basti pensare che entrambe hanno una forte componente istintiva e fanno quindi i conti con gli ormoni regolati dal sistema limbico, detto anche cervello arcaico, e nello stesso tempo sono fortemente influenzate dalla dimensione culturale, sociale e religiosa, che rimanda a funzioni collegate alle aree corticali del cervello. Queste ultime sono considerate più evolute in quanto appartenenti filogeneticamente a specie più vicine a quella umana4. Gli antichi greci erano arrivati a pensare homo homini lupus (Plauto, Asinaria) che significa letteralmente che ogni uomo è un lupo nei confronti di ogni altro uomo. Come a dire che l’aggressività è insita nella natura umana quanto lo è in quella del lupo. Abbiamo poi imparato che l’uomo è capace di essere ancora più aggressivo del lupo: quest’ultimo infatti si ferma nella lotta quando l’avversario si arrende e gli porge la giugulare, evitando così il morso letale. Magari sapessero farlo gli odierni tagliatori di teste del terrore. Ma ovviamente non esiste solo questa filosofia. Ne sono esistite tante, fino ad arrivare a quelle dei “figli dei fiori” che consideravano l’uomo come l’esatto 4. Cfr. Pusceddu, 2013; Frigoli, 2000.

contrario dell’uomo-lupo, e cioè geneticamente buono, orientato al bene e quindi per natura rispettoso dell’altro. Purtroppo molti figli dei fiori hanno dovuto difendersi da figli violenti non solo nei confronti della società ingiusta, ma anche nei confronti dei genitori stessi che tanto si erano prodigati nel trasmettere loro i principi della pace e della nonviolenza. Insomma ancora oggi, dopo secoli di filosofia, da quella antica alle più recenti disquisizioni sociologiche sul “fate l’amore e non la guerra”, ci troviamo di fronte a questo grande enigma che rimane appunto l’aggressività: da una parte, infatti, è quasi universalmente accettata dalle scienze psicopedagogiche come un qualcosa di assai naturale, dall’altra rimangono ancora pensieri estremamente diversi sul come accostarsi ad essa. È come se ci fosse un comune accordo sulla diagnosi, nel senso che l’aggressività non è da considerarsi come una malattia, ma come un fenomeno abbastanza naturale; le considerazioni sul modo di trattarla e di educarla, restano però molto distanti. Io appartengo ad un approccio e ad un sistema di pensiero che si definisce maieutico. In estrema sintesi ritengo che occorra gestire la natura umana senza soffocarla, ma aiutandola a sviluppare l’appartenenza a un sistema collettivo, smussando eventuali esagerazioni senza rinunciare alla propria indole né, soprattutto, alla propria vocazione. Il termine vocazione è utilizzato tendenzialmente in ambito religioso, ma è stato ampiamente recuperato da recenti orientamenti psicologici come quello proposto da James Hillman con il suo riferimento alla teoria della ghianda e del daimon5. Il bambino e la bambina6 portano dentro di sé un progetto non totalmente assoggettabile al sistema costituito e, quindi, presentano una quota 5. Hillman, 1997. 6. Il dibattito sulle questioni relative alla costruzione dei due generi femminile e maschile è vivissimo anche nel nostro Paese e investe giustamente da decenni, anche l’uso della lingua e la linguistica. Scelgo di utilizzare d’ora in poi il termine maschile inclusivo “bambino” per riferirmi a entrambi i sessi biologici esclusivamente per scorrevolezza nella leggibilità del testo.

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di aggressività necessaria ad affermare tale progetto. Se, infatti, un nuovo individuo che nasce fosse completamente assoggettabile al sistema, non avrebbe alcun nuovo contributo da offrire all’evoluzione del sistema stesso. Consideriamo, quindi, inevitabile una certa dose di aggressività da parte del singolo bambino nei confronti della collettività in cui si trova che è costituita dagli adulti, dai coetanei e da tutto ciò che sta loro attorno. Risulta così assolutamente normale che ci sia una certa conflittualità tra l’indole che caratterizza l’individuo nella sua soggettività e l’habitat in cui vive. Questa conflittualità sarà poi interiorizzata con la nascita della coscienza morale che in psicoanalisi fa riferimento alla nascita del Super-Io. Succederà così che una parte dell’aggressività che, all’inizio, viene rivolta verso l’esterno potrà essere rivolta anche verso se stessi, nei confronti di quell’abito che viene indossato non per libera scelta, ma per imposizione o convenzione sociale. Senza nessuna forma di aggressività e di opposizione, dovremmo sospettare un adattamento mortifero, che annulla l’individuo, indipendentemente dalla sua età. Già la filosofia antica vedeva nella dialettica la possibilità per il soggetto di evolversi e così risultava importante la funzione del mentore. La stessa cosa accade nella medicina cinese che da millenni fonda la sua epistemologia sulla dinamica tra lo Yin e lo Yang. La psicologia analitica di Carl G. Jung propone la congiunzione degli opposti. La fisica moderna relativizza l’oggetto in base al metodo di osservazione. Tutto ci porta a considerare che la vita evolve dal conflitto e nel conflitto e che quindi una percentuale di aggressività è inevitabile. Se un bambino o una bambina sono nuovi individui che entrano in un mondo già costituito è inevitabile, sano e necessario che debbano usare una certa aggressività per farsi strada, per poter esprimere la propria individualità ed acquisire quindi lo statuto di soggetti7. 7. Spano, 1982.

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Durante una conferenza che ho tenuto anni fa in una scuola materna ho osservato i disegni appesi al muro. Un insegnante aveva consegnato alla classe il disegno di una mela con un gambo e una foglia e aveva chiesto ai bambini di incollare dei pezzettini di carta rossa dentro i contorni della mela e dei pezzettini di carta verde dentro i contorni del gambo e della foglia. Un bambino aveva liberamente composto con i pezzettini di carta verde una seconda foglia, inserendola comunque in modo molto armonioso nel disegno, che risultava diverso tra gli altri tutti simili fra loro. Quel bambino aveva trasgredito le regole del compito assegnato e aveva quindi aggredito il sistema, la Gestalt costituita e la consegna impartita. Quel bambino aveva in qualche modo trasformato la cultura di quella scuola e aveva contribuito, aggredendo le regole del compito assegnato, a cambiare il sistema in modo evolutivo: il risultato finale della mela con due foglie era molto più carino della mela con una foglia sola. Questo peraltro è quanto succede in ogni invenzione. Avviene un salto di qualità nell’utilizzo di un oggetto o di una sostanza e si apre una nuova dimensione. Ma perché si apra la nuova dimensione occorre che si chiuda la precedente. Anche nel linguaggio comune usiamo dire che bisogna rompere lo schema, che è appunto un gesto aggressivo. Per rompere qualcosa ci vuole una certa dose di aggressività. Perché nasca qualcosa di nuovo deve morire il vecchio. E la morte è un gesto aggressivo, non casualmente rappresentato da una figura con in mano una falce. Cercherò in questo libro di mettere a fuoco innanzitutto le caratteristiche dell’aggressività come istinto, facendomi aiutare dalle ricerche di derivazione etologica. Esplorerò poi la dimensione adattiva che risulta dall’incontro, a volte scontro, dell’individuo con gli altri individui, genitori, bambini, animali, ambiente e sistema in generale. Sperando di non rovinare il romanticismo che anima il quadro familiare del buon


presepio cercherò di evidenziare come a volte l’incontro affettivo non escluda percentuali di aggressività anche molto forti e potenzialmente distruttive. Da qui trarrò delle considerazioni psicopedagogiche che mi porteranno a veri e propri “consigli” per gestire l’aggressività secondo uno stile pedagogicamente sano. Non offrirò soluzioni, ma indicazioni per cercare le soluzioni. Farò un po’ come il fruttivendolo che offre la verdura perché ognuno si componga poi la pietanza come più gli garba. D’altra parte l’approccio maieutico non intende fornire soluzioni a priori. Questo non significa che in alcuni momenti non occorrano interventi ben precisi, come accade nell’arte delle levatrici. Talvolta la manovra giusta salva la vita del bambino. Questo vale anche dal punto di vista pedagogico e per questo cercherò di considerare e valorizzare il codice paterno, il codice della spada, oggi in disuso o mal utilizzato. Avrò modo di precisare, in un apposito capitolo, la differenza e la complementarietà del codice del calice e del codice della spada, che rimandano al materno e al paterno. Dal punto di vista scientifico, farò riferimento all’ecobiopsicologia di Diego Frigoli, che ho avuto la fortuna di avere come insegnante e supervisore durante la mia specializzazione. L’ecobiopsicologia è una disciplina che si articola come sviluppo della psicoanalisi e della psicologia analitica junghiana, in accordo con le più recenti acquisizioni delle scienze della complessità, delle neuroscienze, delle teorie del trauma e dell’attaccamento. Mirando allo studio delle interrelazioni nel rapporto fra Uomo e Natura, l’impostazione ecobiopsicologica lega fra loro – in un quadro unitario – l’ambiente (il contesto ecologico), il corpo dell’uomo e le sue manifestazioni psicologiche (dinamiche inconsce sia individuali che collettive, contesto sociale e culturale). Poiché questa disciplina è nata all’interno dell’ambito clinico, la “utilizzerò” in un modo che si adatta particolarmente bene allo scopo di questo libro, al punto che oserei definire il mio approccio

“ecobiopsicopedagogico”. Lo faccio in modo inappropriato, non essendo io pedagogista, ma intendo così sottolineare la natura educativa e non clinica del libro, anche se, in alcuni passaggi, farò riferimento all’eventuale presenza di malattie e alla loro possibile classificazione.

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L’aggressività

È sicuramente capitato a tutti di trovarsi di fronte ad un litigio tra bambini. L’argomento che affronteremo ha, quindi, per il lettore un riferimento concreto e rimanda molto probabilmente a situazioni osservate o vissute in prima persona. Il tema dell’aggressività e di come, quindi, affrontarla nei casi concreti, è presente in molti degli incontri che da vari anni conduco con educatori e genitori di bambini in età prescolare. Credo sia difficile, di fronte a tante situazioni molto comuni, affermare che la componente aggressiva non riguardi il genere umano, ma caratterizzi esclusivamente gli animali che abitano nella giungla. Un bambino che tira i capelli ad un altro che tenta di strappargli il giocattolo dalle mani urlandogli qualche parolaccia è cosa comune, e non si tratta certo di una situazione estrema che indichi necessariamente che qualcosa in quella famiglia, in quell’asilo o in quella scuola non funziona. Credo che questo vada detto con chiarezza, un po’ anche per mettere subito fuori gioco i facili giudizi dei genitori ipercritici che al rientro a casa del figlio con un piccolo graffio decretano immediatamente l’incapacità e la scarsa professionalità dell’insegnante. È altrettanto importante disinnescare subito i facili verdetti sulla cattiva educazione impartita dai genitori al bambino al quale è scattata la mano verso il viso del compagno. Io credo piuttosto che siano strane le classi, ammesso che esistano, dalle quali per un intero anno scolastico

tutti i bambini escono assolutamente sani e salvi senza nessun graffio, o le famiglie new age in cui il clima è sempre e assolutamente soft. Lungi da me, con queste affermazioni iniziali, farmi fautore dell’aggressività, non penso proprio ce ne sia bisogno. Tuttavia credo sia necessario, per parlare di aggressività nei e tra i bambini, partire dall’osservazione fenomenica che essa non vada immediatamente connotata come un evento negativo. Era forse questa la consapevolezza anche di chi nella storia ha inventato il termine, che nella sua etimologia, ad-gredior, andare verso, indica la necessità di un incontro prima ancora che il bisogno di annientare l’altro. Tant’è vero che nella maggior parte delle specie animali nella lotta tra simili esistono codici per cui ad un certo punto l’animale perdente assume una posizione in cui espone all’avversario la parte più debole del corpo, nella quale l’avversario potrebbe affondare i denti in modo mortale; di fronte a tale segno di resa, invece, il rivale si ferma. Si può sperimentare questo anche nell’allevamento di un cagnolino. Infilando la propria mano nella bocca del cucciolo stesso si simulerà quanto succede in natura nel mordicchiamento tra cuccioli o tra il cucciolo e la madre. Facendo questo gioco nel modo giusto, togliendo la mano quando il cane stringe troppo i suoi dentini e casomai stringendola un po’ sulla sua bocca quando esagera, si noterà come piano piano il cucciolo imparerà ad autoregolarsi nel morso e diventerà in grado di afferrare la mano dell’altro senza stringere e fare del male. Questo codice di autoregolazione non vale più per gli animali addestrati alla lotta nelle scommesse clandestine in cui il nuovo riferimento è il denaro, e nemmeno in guerra, come accade al Piero cantato da Fabrizio De André che soccombe a terra perché si è fermato un attimo a pensare se sparare o no8. È un codice che non vale neppure, come abbiamo spesso occasione di vedere nei telegiornali, nelle azioni estremamente violente 8. De Andrè, 1995.

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compiute dai delinquenti ma, a volte, anche da coloro che dovrebbero contrastare la violenza, come i componenti delle forze dell’ordine. Forse l’eccessivo interventismo che porta genitori ed insegnanti a separare i bambini al primo accenno di litigio, impedisce a questi ultimi di misurarsi con il codice aggressivo. Proprio il confronto con l’aggressività significherebbe, invece, imparare a prendere le misure, trovare forme adattive nei rapporti con l’altro, comprendendo, un po’ alla volta, che l’altro ha diritti e confini che vanno rispettati e che non sempre quello che viene spontaneo fare è ciò che funziona meglio9. La psicoanalisi ha sicuramente dato un contributo importante alla comprensione dell’evoluzione della psiche nei primi anni di vita, ma credo che tale visione assunta in modo acritico nel sistema educativo abbia prodotto i suoi danni. Sostenere che non bisogna colpevolizzare il bambino se nel primo anno di vita morde, perché, trovandosi nel pieno della fase orale confonde ancora il morso col bacio, è un’osservazione sicuramente interessante. Ciò non significa, come qualcuno pensa, che bisogna rispondere con un sorriso se il bambino morde, perché così non riceverà mai un segnale che lo aiuti a distinguere un comportamento appropriato da uno che non lo è. Le speculazioni psicologiche raffinate, anche se vere, hanno poi bisogno di essere tradotte in pratiche educative da parte di chi ha la responsabilità dei bambini. Gli studiosi della risoluzione positiva dei conflitti sostengono che non bisogna mai umiliare il nemico o l’avversario, ma che occorre lasciargli sempre la possibilità di uscire a testa alta dalla situazione conflittuale, anche quando aveva torto10. Questa può essere una sana attenzione anche nei confronti del bambino. Mai cercare di umiliarlo, perché questo sicuramente non gli farebbe bene; non per questo però bisogna 9. Novara, 2015. 10. Cfr. Patfoort, 2013.

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evitare di restituirgli in qualche modo alcune informazioni importanti, adattandole alla sua età e alla sua capacità di comprensione. Piano piano il bambino dovrà capire che il bacio è diverso dal morso, che il pugno è diverso dalla carezza. Mi è capitato spesso di incontrare situazioni in cui i bambini venivano definiti aggressivi, ma osservando attentamente ci si accorgeva che i contesti educativi erano privi di confini, motivo per cui anche il bambino era senza confini. Più che di aggressività in questi casi si può parlare di assoluto libero sfogo delle emozioni, di mancanza dell’esperienza di una qualsiasi minima forma di frustrazione, della totale assenza di un contenimento emotivo. Tali situazioni sono solo apparentemente meno gravi di quelle aggressive, in quanto andando avanti con l’età possono mettere il bambino o il ragazzo in seria difficoltà quando si dovrà confrontare con la prima vera e inevitabile frustrazione che si presenti sulla sua strada. Tutti abbiamo una tendenza, alla quale è spesso difficile sottrarsi, quella cioè di classificare le persone in base ad una caratteristica peculiare dando delle etichette. E così si rischia di innescare l’effetto Pigmalione in base al quale un bambino diventa ciò che ci aspettiamo che lui sia. Spesso si tratta dell’esaltazione di una parte di ciò che lui manifesta rispetto a ciò che è nell’insieme: si tratta di quel fenomeno che in clinica viene anche definito la concentrazione sul sintomo. È la perdita di vista della persona nella sua interezza, al punto che essa diventa il suo sintomo rischiando così di cronicizzare e aumentare il sintomo stesso. Quando un bambino in un asilo diventa per le educatrici “un bambino aggressivo” siamo già entrati in un sistema di etichettamento che non fa bene né al bambino né alla gestione del bambino e che può appunto innescare l’effetto Pigmalione. L’effetto di questo “etichettamento” dell’altro rimane forte non solo per i bambini, ma anche per le persone cresciute e può verificarsi anche in tempi molto brevi. All’interno di incontri di


formazione ho sperimentato quanto sia potente questa influenza dell’altro sull’individuo. Durante una simulazione proponevo a un gruppo di persone di decidere assieme l’organizzazione di una vacanza. Applicavo quindi sulla loro fronte un foglietto con scritto un appellativo del tipo: affidabile, inaffidabile, simpatico, noioso, attaccabrighe, taciturno. Ogni componente del gruppo doveva trattare l’altro in base all’appellativo che aveva scritto in fronte, senza però dirlo esplicitamente. Dopo i venti minuti di simulazione, ognuno comunicava i propri vissuti. Ricordo ancora quanto detto dalla persona trattata da inaffidabile. Nei primi cinque minuti di discussione, durante i quali si era offerta di collaborare ma nessuno lasciava a lei il minimo incarico, si rese conto che gli altri non avevano stima di lei. Aveva provato per qualche altro minuto a ribellarsi e a riproporsi, ma senza successo. Alla fine si era arresa a questo isolamento del gruppo nei suoi confronti fino a provare dei veri e propri stati d’animo di tipo depressivo. Probabilmente la persona aveva già delle sue problematiche e il suo atteggiamento non dipendeva unicamente dal gioco da me proposto, ma sono rimasto così colpito da scegliere di non ripetere più l’esperienza in altre circostanze formative. Attenzione, quindi, nell’etichettare un bambino come aggressivo. Potremmo rischiare di incentivare la sua aggressività. La prima cosa che occorre fare, se si vuole uscire dalla difficoltà, è spesso quella di allargare lo zoom sulla situazione, cercando di contestualizzare i comportamenti aggressivi. Anche solo questo atteggiamento porta a scoperte interessanti, in particolare a rendersi conto che nella maggior parte dei casi il bambino non è poi così aggressivo, oppure lo è solo in determinate situazioni che possono magari essere modificate11. Per esempio, ci sono dei bambini particolarmente riservati e introversi che non sopportano l’eccessiva confusione e il rumore

dell’ambiente e in contesti di questo tipo diventano nervosi e irritabili, mentre sono tranquilli e pacifici in contesti meno agitati12. Oppure si scopre che il problema non è l’aggressività, ma la totale assenza di contenimento a cui si associa l’incapacità di rispettare una qualunque regola, per cui alzarsi da tavola o spingere il compagno sono assolutamente la stessa cosa, nel senso che l’unica regola che esiste è quella di fare ciò che si vuole. Considerare i bambini più grandi di quello che sono è forse uno degli errori più gravi commessi dalla cultura educativa del ’68 e dalle sue derivazioni, per cui ai bambini bisognava spiegare ogni cosa, motivare tutto con categorie per loro spesso incomprensibili. A parte l’ansia che questo approccio ha indotto nei bambini “buoni”, esso ha contribuito a produrre personalità assolutamente fragili nella gestione delle quote pulsionali, aggressività compresa. Non risulta strano che persone assolutamente pacifiche nei contesti protetti si scatenino poi in risse furibonde appena si scalda l’aria nei contesti da stadio. L’istinto va riconosciuto ed educato, ciò non significa che vada represso. Forse la peggior repressione dell’istinto è quella di non prenderlo affatto in considerazione, come accade nei sistemi cosiddetti permissivi. La negazione è sempre più grave della rimozione. Con il termine contenimento educativo non si intende una repressione violenta. Il contenimento educativo è sempre un comportamento molto affettivo, e alla fine il bambino si sente amato. Chi addestra cuccioli di cane, quando vuole fare un rimprovero energico, prende il cane per la collottola che è la stessa parte del corpo che la madre del cucciolo addenta quando vuole richiamarlo, ma è anche quella stessa parte del corpo che la mamma prende tra i denti per sollevarlo e portarlo a spasso. Un rimprovero positivo è sempre un contenimento affettivo, un “abbraccio”, an-

11. Berti, Comunello, 1993.

12. Anepeta, 2016.

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che se visto da fuori può apparire come un gesto aggressivo. Come nella tecnica dell’holding, utilizzata con i bambini autistici, il contenimento fisico è energico, ma, in fin dei conti, non si tratta altro che di un forte abbraccio13. A proposito di contenimento fisico ricordo un episodio accaduto in una scuola dell’infanzia, in cui un bambino, in risposta ad una frustrazione ha reagito lanciando oggetti addosso ai compagni nonostante l’insegnante gli dicesse di smettere. Pertanto quest’ultima è intervenuta con un contenimento di tipo fisico. Il bambino, inizialmente, ha cercato di rispondere a questa azione scalciando e dimenandosi con le braccia, ma successivamente così quasi dal nulla, sentendo la solidità del contenimento, la sua tensione muscolare ed emotiva è scomparsa. Affinché tale strategia funzioni il bambino deve percepire la forza dell’adulto (che deve essere adeguata alla struttura fisica del bambino), non la sua rabbia. Nella mia esperienza di consulente dei servizi per la prima infanzia ho visto che un approccio fermo e limpido con il bambino manesco, al quale venga detto a chiare lettere che non si vuole che picchi gli altri bambini, nove volte su dieci funziona. Bisogna però essere convinti, con una fede che sposta le montagne, di quello che gli si dice, bisogna pretendere che il bambino ci ascolti, non lasciare che sfugga con lo sguardo, bisogna cioè attuare un’holding entro la quale viene inserita una regola chiara. Quasi sempre l’intervento riesce, a riprova del fatto che più che di aggressività spesso si tratta di mancanza di contenimento. Talvolta, però, non funziona e ciò accade perché l’insegnante o l’educatore sono poco autorevoli o hanno poca fiducia in se stessi e in ciò che stanno facendo. A volte non funziona, affatto, perché il bambino è effettivamente incontenibile. In questi casi credo sia inevitabile un chiaro confronto con 13. Riva, 2006.

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la famiglia e spesso è utile una consulenza psico-pedagogica, o anche neuropsichiatrica.


Le fasi dello sviluppo

All’interno della psicologia dello sviluppo troviamo diversi approcci teorici. Ne faccio una breve rassegna solo per offrire al lettore un’idea molto generale e, quindi, necessariamente superficiale. Le teorie cognitivo-comportamentali e la psicologia genetica si soffermano quasi esclusivamente su comportamenti osservabili e in qualche modo misurabili. Le teorie psicoanalitiche considerano che esiste una dimensione inconscia sia intrapsichica – che agisce dinamicamente dentro la psiche del bambino – sia relazionale – che influisce nelle relazioni interpersonali e sociali. Le teorie sistemiche studiano il bambino in relazione al sistema di appartenenza, sia esso familiare, scolastico, parentale, amicale, mediante uno sguardo che oscilla tra il particolare e il generale. Infine le teorie di derivazione etologica traggono molte conoscenze e spunti dall’osservazione del comportamento animale. Ci sono poi altri approcci probabilmente meno diffusi in ambito pedagogico, come quelli derivanti dall’antropologia e dall’antropologia del sacro. La maggior parte delle teorie psicologiche sopracitate nascono in ambito clinico e cioè, sostanzialmente, per curare o prevenire patologie. Le teorie pedagogiche si sono sviluppate maggiormente attorno al bambino cosiddetto scolarizzato e quindi a partire dalla scuola dell’infanzia (dopo i tre anni). Le considerazioni antropologiche sono spesso riservate a riflessioni da convegno elitario.

Io credo che un approccio psicopedagogico possa avvalersi, a seconda dei singoli casi concreti, dei contributi di tutti questi riferimenti teorici, e che quanto più si riesce ad essere eclettici tanto più sarà possibile vedere il bambino nel suo insieme. È quello che cercherò di fare in questo capitolo descrivendo le fasi evolutive. Mi faccio aiutare in questa operazione dall’approccio dell’ecobiopsicologia. Anche questo orientamento scientifico è nato in ambito clinico, in particolare dagli studi di psicosomatica di Diego Frigoli, sistematizzati poi dall’ANEB, Associazione Nazionale di ecobiopsicologia14. Diego Frigoli afferma in Psicosomatica e simbolo: L’ecobiopsicologia propone un approccio integrato, olistico e complesso alla psicosomatica che si distanzia dalla tendenza a tracciare una separazione netta fra i campi del sapere e i diversi linguaggi che li caratterizzano, tendenza che porta a ritenere incompatibili, ad esempio, il metodo conoscitivo applicato nelle scienze umane (che è soggettivo e qualitativo) da quello adottato nelle scienze naturali, di tipo oggettivo e quantitativo. La prospettiva perseguita è quella di muoversi, sia nel lavoro clinico che nell’attività di ricerca, in un’ottica che parte da un assunto di base: l’uomo, nella salute come nella malattia è un soggetto unitario, dotato di un corpo e di una mente che non sono tra loro separati, e nemmeno sono separati dall’ambiente (naturale e sociale) in cui si trovano: non esiste una mente che “pensa”, o sente, e un corpo che “fa”, all’interno di un ambiente che svolge il ruolo di semplice contenitore neutro15.

Lo sguardo psicosomatico, ben illustrato qui da Frigoli e inteso appunto non soltanto come approccio al sintomo ma come impostazione epistemologica di fondo, accompagnerà le riflessioni che propongo di seguito. Il tema dell’aggressività – ma le stesse osservazioni potrebbero essere trasferite anche alla sessualità – si presta in modo 14. Cfr. www.aneb.it. 15. Frigoli, 2010.

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particolare a questo tipo di sguardo in quanto, specialmente per la parte istintuale, l’uomo e la donna dimostrano di appartenere alla specie animale e purtroppo dimostrano anche di non essere la specie che più di altre ha saputo regolare gli istinti. Proprio riguardo all’aggressività possiamo notare come la specie umana arrivi a compiere atrocità di cui altre non si macchiano. Anche l’epoca moderna dimostra come gli esseri umani siano ancora ben lontani dal mettere in atto l’inibizione di cui sono capaci invece i lupi quando si astengono dallo sferrare il colpo mortale se l’avversario si è arreso. Non solo la violenza inaudita di individui integralisti, ma anche le leggi di molti stati democratici mostrano come l’essere umano sia orientato a sopprimere definitivamente l’avversario, uccidendolo. C’è allora da chiedersi, utilizzando un reale e sincero sguardo olistico, ecobiopsicologico, se siano gli uomini che devono insegnare agli animali o gli animali agli uomini. E ancora, se sono gli adulti a dover insegnare ai bambini o i bambini agli adulti. È una delle sfide che affronteremo in questo libro. Da una parte resta la convinzione che la responsabilità educativa spetta all’adulto, ai genitori, agli educatori, agli insegnanti, ai politici. Dall’altra si fa strada la consapevolezza che occorra veramente recuperare un rapporto con la natura e con l’animalità perché da esse possiamo trarre insegnamenti davvero preziosi dal punto di vista psicopedagogico. Ritornare ad essere bambini può non soltanto suonare come uno slogan di devozione religiosa, ma diventare anche un principio che assume dignità dal punto di vista scientifico in quanto lascia intravvedere in sé la soluzione di molte problematiche non risolvibili con la razionale, normalizzata, nevrotica psiche dell’adultità. Si potrà forse realizzare così quanto sosteneva Franco Fornari, e cioè che alla fine la pace avrà il sopravvento sulla guerra16. 16. Fornari, 1988.

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Claudio Riva

Muovendomi su questa linea di ricerca e mettendo insieme le mie osservazioni sul campo e i miei studi di tipo più accademico sul tema dell’aggressività, ho individuato alcune fasi di sviluppo. C’è una discussione in ambito scientifico riguardo al fatto se l’evoluzione avvenga per stadi o sulla base di un continuum senza intervalli tra uno stadio e l’altro. Ci si domanda cioè se l’evoluzione assomigli di più ad una scala a gradini oppure ad un piano inclinato. Personalmente ritengo che siano validi entrambi gli approcci. In alcuni orientamenti di tipo psicodinamico si utilizza la metafora di una linea elicoidale che, ritornando ciclicamente su alcune tematiche ricorrenti nella vita, fa ascendere l’individuo ad un livello diverso, più evoluto. Credo che ogni tanto ci siano delle acquisizioni sia fisiche che psichiche (per esempio il camminare e il pensiero simbolico) che hanno tutte le caratteristiche di veri e propri riti di passaggio e quindi, metaforicamente, di veri e propri gradini o soglie, ai quali si giunge grazie ad un lento lavoro preparatorio meglio rappresentato da una linea che sale. Comunque, al di là del dibattito scientifico, se non altro per comodità di esposizione, ho individuato alcune fasi o tappe evolutive per evidenziare come, all’interno di esse, prevalgano certe modalità rispetto ad altre. Descriverò le tappe in modo tale che assomiglino a gradini, precisando tuttavia che a me piace di più il termine “soglia”, in quanto esso rimanda ai riti di passaggio che, come spiega l’antropologia, segnano un cambiamento significativo nella vita dell’individuo riconosciuto dall’intera comunità. La prima fase è la gravidanza. L’osservazione di quanto succede al momento del concepimento e durante la gestazione, anche grazie alla moderna strumentazione, ha consentito di comprendere alcuni aspetti che possono risultare utili alle nostre riflessioni sull’aggressività. In particolare è interessante osservare come quest’ultima si connoti secondo modalità a volte di scontro, altre di incontro.


La seconda fase (solitamente considerata come la prima) riguarda i mesi immediatamente successivi al parto quando la madre viene sequestrata dall’attività di allattamento. Qualcuno l’ha chiamata una seconda gravidanza. Io, come altri, la definisco la fase del lattante, considerando il lattante tale fino alla conclusione dello svezzamento (mese più mese meno, ai nostri fini non riveste grande importanza). Occorre però fare una precisazione al riguardo. La durata dell’allattamento è oggi un argomento piuttosto discusso e ci sono scuole di pensiero che propongono di prolungarlo fino al secondo o addirittura al terzo anno di vita. Anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità sembra collocarsi in tale posizione. Io vorrei evitare la discussione di questo pur importante argomento perché essa richiederebbe un approfondimento non possibile nel nostro contesto. Colloco la conclusione di questa prima tappa nell’età tra i sei e gli otto mesi di vita perché il bambino vive un vero e proprio rito di passaggio quando inizia a muoversi in modo autonomo, strisciando o gattonando. Riprenderò l’argomento nell’apposito capitolo. Qui sottolineo soltanto che l’allattamento porta la madre e il bambino in un rapporto fisico di intimità che va in direzione contraria al gattonare che allontana appunto il bambino dalla madre. Molte volte ho osservato situazioni nelle quali il prolungamento dell’allattamento diventa una specie di negazione della separazione, una tendenza cioè a mantenere il bambino nella fase del lattante. Non diventa, quindi, soltanto una questione alimentare, ma una modalità relazionale che non riconosce la crescita del bambino e la relativa fase di separazione dalla madre. Ho denominato il terzo stadio di sviluppo la “fase del cucciolo”. Viene quasi spontaneo chiamare così il bambino per il suo muoversi a carponi che rimanda al cucciolo di animale. Questa fase inizia di solito tra i sei e gli otto mesi e dura fino al compimento dell’anno di vita (anche in questo caso più o meno).

La quarta fase riguarda la nascita vera e propria del bambino. Presa alla lettera tale affermazione è passibile di denuncia penale perché sembra attribuire poca importanza alle fasi precedenti, ma la mia affermazione è metaforica: fa riferimento al fatto che tra l’anno e l’anno e mezzo, quando cioè tendenzialmente il bambino inizia a camminare, si struttura il pensiero simbolico che è tipico della specie umana. Grazie ad esso si sviluppa l’identità e si manifestano alcune competenze di cui parleremo in un apposito capitolo. Della quinta fase non ci occuperemo in questo libro perché essa va oltre i tre anni di età ed io intendo, invece, concentrarmi sulla prima infanzia. Un breve accenno su quanto accade dopo i tre anni è comunque doveroso, quantomeno per sottolineare che ci sono altre tappe evolutive importanti. Esse riguardano ciò che avviene attorno ai cinque-sei anni, quando cioè nasce il senso dell’etica, intesa come quella parte della psiche che riveste un’importanza centrale per quanto concerne l’aggressività. Grazie ad essa infatti il bambino, sempre metaforicamente parlando, incomincia ad imparare a diventare grande, ad avere quei processi di interiorizzazione ed identificazione con le figure adulte che verranno poi rimodellate nel corso di quella vera e propria rinascita che sarà l’adolescenza. Cito le altre fasi soltanto per evidenziare che, quanto avviene nei primi tre anni di vita, è fondamentale per la strutturazione della personalità, per costruire i pilastri, l’ossatura del soggetto. Il percorso di crescita come dice il verbo “adolescere” (“incomincio a crescere”), dal cui participio presente deriva la parola “adolescente”, è un processo molto lungo nella specie umana. Ne passerà di tempo prima che il termine “adolescente”, che come participio presente intende un processo in corso, diventi un participio passato, ad indicare un percorso ormai concluso, con il termine “adulto” che significa appunto “cresciuto”.

IL CALICE E LA SPADA

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Claudio Riva, nato nel 1960, si è laureato in psicologia presso l’Università di Padova e specializzato in psicosomatica presso l’Istituto Riza. Esercita la professione di psicologo psicoterapeuta a Vicenza. È consulente e supervisore in diversi servizi educativi (asili nido, scuole d’infanzia, centri di aggregazione per bambini e adolescenti) e comunità. Ha collaborato con la meridiana per la rivista “Marcondiro”. È redattore e autore di “Conflitti”, Rivista di ricerca e formazione psicopedagogica edita dal CPP. È membro del consiglio direttivo dell’Associazione di psicologia analitica Oikos.

In copertina disegno di Fabio Magnasciutti

Euro 13,50 (I.i.)

ISBN 978-88-6153-880-1

IL CALICE E LA SPADA Come riconoscere e gestire l’aggressività nella prima infanzia

IL CALICE E LA SPADA

Un bambino che tira i capelli ad un altro, perché quest’ultimo gli sta strappando dalle mani un giocattolo, è una situazione comune nelle famiglie e nei servizi educativi e non denota necessariamente che qualcosa in quel dato contesto non funzioni. Il confine tra aggressività “sana” e sfogo irruento e incontrollato delle emozioni è sottile. Se da un lato l’aggressività è quasi universalmente accettata dalle scienze psicopedagogiche come qualcosa di naturale, dall’altro rimangono ancora pensieri estremamente diversi sul come accostarsi ad essa. L’approccio di questo libro è maieutico e parte dalla consapevolezza, ormai acquisita, che intorno ai sei anni la struttura della personalità di ciascuno è sostanzialmente formata e che gli imprinting ricevuti influenzeranno il resto della vita. I primi anni di vita in famiglia, al nido, alla scuola dell’infanzia e nei contesti più vari, sono essenziali per imparare ad esprimere, riconoscere e gestire le emozioni e, con esse, l’aggressività. Questo vale per il bambino, ma anche per chi gli sta vicino con compiti educativi. Sono anni in cui si apprende come regolare l’aggressività, intesa come istinto, e in cui si lavora sulla dimensione adattiva dell’incontro con gli altri individui: i genitori e i familiari più prossimi, i bambini e le bambine, gli educatori e gli insegnanti, ma anche gli animali, l’ambiente e il sistema in generale. La differenza e la complementarietà dei codici del calice e della spada, che rimandano rispettivamente al materno e al paterno, accompagnano lo sviluppo del bambino; il modo in cui gli adulti mettono in relazione questi due codici, influenzerà i piccoli nella loro capacità di gestione e regolazione delle emozioni e degli istinti, non solo durante l’infanzia, ma anche negli anni a venire.

Claudio Riva

Claudio Riva


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