La guerra è finita. Psicopatologia della guerra e sviluppo delle competenze mentali della pace

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a cura di Diego Miscioscia

La guerra è finita

Psicopatologia della guerra e sviluppo delle competenze mentali della pace

a cura di

Diego Miscioscia

La guerra è finita

Psicopatologia della guerra e sviluppo delle competenze mentali della pace

Prefazione di Maria Teresa Schirillo

di Maria Teresa Schirillo

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di Diego Miscioscia

PARTE I – Gli studi sulle cause della guerra

Gli studi psicoanalitici sulle cause della guerra ......................

di Diego Miscioscia

Dai movimenti americani contro

al Gruppo Anti-H ...................................................

di Riccardo Zuffo

Gli animali fanno la guerra? Conflitti e pratiche di convivenza ...........................................

di Martina Miscioscia

Le radici affettive della guerra ................................................

di Diego Miscioscia Che cosa resta? .......................................................................

di Nicole Janigro

La guerra nel Novecento: azzardi, irrazionalità, imbarbarimento .....................................................................

di Edoardo Fontana

PARTE II – Crisi della guerra e sviluppo delle competenze psicologiche della pace

Le motivazioni della crisi della guerra nel Novecento e lo sviluppo delle competenze mentali della pace ................

di Diego Miscioscia

L’equilibrio del terrore e la società edonista: due soluzioni inadeguate per la pace ................................... 109 di Diego Miscioscia

Le trasformazioni sociali che hanno favorito lo sviluppo delle competenze mentali della pace .................. 113 di Diego Miscioscia

PARTE III – Verso una vera cultura di pace

Le vere competenze psicologiche della pace ........................

di Diego Miscioscia

Le

Prefazione

Ecco gli elmi dei vinti e quando un colpo ce li ha sbalzati dalla testa non fu allora la disfatta fu quando obbedimmo e li mettemmo in testa.

Questo libro si sostiene su una grande speranza, una speranza che ci sembra a portata di mano. Mai come nel passato appare oggi possibile che ciascuno di noi acquisisca la consapevolezza dell’insensatezza della guerra. La psicoanalisi e le sue evoluzioni ci consentono di guardare con sempre maggiore chiarezza i meccanismi che generano nell’interiorità di ciascuno la disumanizzazione del nemico che molte volte ci ha indotto a seguire con cieco entusiasmo il richiamo al suo annientamento, indifferenti alle catastrofi che non avrebbero mancato di coinvolgere anche la nostra parte.

Tuttavia, anche a livello individuale il ripudio della guerra non è immediato. Richiede un percorso di riflessione e di autoanalisi per rendersi consapevoli della difficoltà di riconoscere e di reggere con sguardo fermo l’ineluttabile, il vasto spettro degli eventi che esulano totalmente dal nostro controllo e di cui ci darebbe sollievo attribuire la responsabilità ad altri da noi.

Nel caso dell’autore e dei contributori a questo testo, il lavoro della consapevolezza individuale è stato molto aiutato dal contesto di gruppo in cui, già pochi mesi dopo l’inizio della guerra in Ucraina, ci siamo ritrovati avviando con regolarità uno scambio e

un confronto fecondi. Questo ci ha permesso di osservare, senza abbassare lo sguardo, gli avvenimenti nella loro cruda brutalità e anche di esporci alle diverse voci di denuncia, alla cacofonia delle interpretazioni unilaterali discordanti sulle cause della guerra, senza smarrire il senso della nostra determinazione a ripudiarla.

Per quanto mi riguarda personalmente, gli eventi del febbraio 2022, quelli del 7 ottobre 2023 e quanto ne è seguito, mi hanno profondamente turbata e continuano ad essere al centro dei miei interessi e del mio personale coinvolgimento.

Per non restarne sopraffatta, è stato ed è per me importante partecipare al gruppo Polis & Guerra di Ariele e Minotauro dove è possibile: scambiare idee e informazioni, condividere letture e approfondimenti, proporre momenti di condivisione anche con l’esterno.

È stato anche significativo avvicinare altri gruppi impegnati nel cercare percorsi di pace. Tra questi, il MEAN, il Movimento Europeo di Azione non Violenta, con cui nell’ottobre di 2 anni fa – a otto mesi dall’inizio della guerra – ho partecipato a Leopoli (nell’Ucraina occidentale) ad incontri con alcune amministrazioni locali che ospitano migranti interni. Con il MEAN continuo a tenermi in contatto nella prospettiva della costituzione dei Corpi Civili di Pace Europei, già auspicati da Alex Langer, per attivare gli abitanti delle zone in pericolo di escalation dei conflitti nella rigenerazione sociale, economica e civile del loro territorio e nella gestione creativa delle divergenze.

Ma, soprattutto, in questi due anni ho dedicato molto tempo a leggere e informarmi e a cercare testi significativi.

Che cosa ho capito fino ad ora?

A fronte dello stato iniziale di inconsapevolezza e di stupore, sono stata sorpresa dalla grande quantità di riflessioni e di pensiero che nei secoli si è andata accumulando sul tema. E, questo, pur tralasciando le sterminate biblioteche di storia delle guerre, di storia delle strategie e dei sistemi d’arma.

Ho capito che la bibliografia sulla guerra, sulle sue cause profonde e su come venire a patti con esse, è sterminata e ricca di spunti importanti. Tanta la letteratura, la poesia, la riflessione filosofica e quella psicoanalitica e socioanalitica. Tanto il pensiero, tanti i racconti.

E, da parte nostra, tanta superficiale trascuratezza, tanta propensione e facilità a rimuovere e a dimenticare.

Ho capito che la memoria della guerra nei suoi aspetti di distruttività, di ferocia, di sofferenza tende presto ad essere ricoperta da un velo di oblio, sia perché ricorriamo alla rimozione per continuare a vivere sia perché il passato – anche il più prossimo – ci appare facilmente molto remoto ed estraneo quando non coincide con la nostra esperienza di vita.

Ho riscontrato come possa accadere che l’esperienza del male provata su di sé non ci venga sempre in aiuto per la comprensione della sofferenza dell’altro in circostanze analoghe.

Ho potuto verificare, in modo ricorrente, sia gli aspetti più mostruosi delle violenze e degli stupri, messi in atto durante le battaglie, sia il falso scandalo che li circonda quando è noto che, in situazioni di alterazione psichica dove è in gioco la propria vita, è l’efferatezza anche individuale a venire in primo piano.

Ho anche capito che la guerra non è teatro solo della forza, della potenza e della prepotenza ma anche di menzogne, di capovolgimento dei significati, di distorsione, di inganno e autoinganno, consapevole e inconsapevole.

Grazie alla lettura di Una trilogia palestinese, tre testi scritti in tempi diversi da Mahmud Darvish, considerato uno dei più grandi scrittori e poeti arabi del Novecento, sono entrata in empatia con la tragedia quotidiana dei palestinesi di vivere in un territorio sotto occupazione, esposti di continuo a violenze arbitrarie, a vessazioni, a restrizioni delle possibilità di vita, a pressioni di allontanamento. Dove la rassegnazione non basta mai a spegnere la rivendicazione.

Mi sono trovata ripetutamente ad osservare l’estetica grandiosa della rappresentazione della guerra, l’estetica dei duelli, degli scontri cavallereschi, delle armi ornate come oggetti d’amore, dei campi di battaglia seminati di caduti, delle sofisticate armi a guida tecnologica: manifestazioni eccelse dell’intelligenza e dell’ingegnosità umane.

Ho osservato lo stridente contrasto tra la vita agiata e spensierata in diverse contrade del nostro mondo e la distruttività e le lacerazioni senza tregua che si verificano in altri luoghi peraltro prossimi.

Ho preso atto dei rischi dell’assuefazione che si generano quando allontaniamo dalla vista ciò che ci fa orrore, riducendo i fatti e le persone a mere sagome indistinte, fantasmi.

Ho riconosciuto le suggestioni della retorica patriottica che continuano a risuonare in tanti discorsi e in tanti immutati inni nazionali e a generare facili emozioni.

Ho constatato che la distruttività globale prospettata dall’arma atomica non è bastata a cancellare le guerre ma solo a definire un fragile confine tra guerra convenzionale e guerra atomica; un confine che non ha designato un tabù ma che si minaccia continuamente di attraversare mentre la dignità di interlocutore globale è di fatto riservata solo ai Paesi che detengono l’arma atomica.

Sulla guerra, sulle stragi e le carneficine si sono depositate nei secoli e nei millenni incrostazioni di tutte le dimensioni delle arti e delle scienze prodotte dall’ingegno umano.

E che anche il Dio – cristiano, islamico o di altri culti – che raccomanda la misericordia è diventato il pretesto di persecuzioni e genocidi.

Come è potuto accadere?

Come è possibile liberarci della strabordante sovrastruttura che nasconde la tragica realtà dello strazio individuale, delle vite recise, del sangue versato, delle distruzioni e delle devastazioni?

Quanto a me, in questi mesi, mi sono confermata nella scelta di contribuire alla ricerca di cammini di speranza verso l’effettivo “ripudio della guerra” – così come recita la nostra Costituzione – continuando nello sforzo di conoscere, di guardare i diversi risvolti della guerra – anche i più ripugnanti – con occhi ben aperti, fino in fondo, fin là dove riesco ad arrivare.

E, allo stesso tempo, mi sono confermata nell’impegno a tenere costantemente accesa l’attenzione sull’evoluzione del mio mondo interno: sulle emozioni, i cambiamenti di prospettiva, i risvegli di aggressività, gli scoramenti, le riprese di energia evocate dal flusso delle conoscenze e delle notizie.

E la speranza?

La mia speranza è ancorata al valore trasformativo della consapevolezza che nasce dalla conoscenza, scevra da pregiudizi.

Certo, questo è più possibile quando si evita di misurarsi in un contraddittorio fine a se stesso che rischia di spostare il confronto tra posizioni tanto più radicali e inconciliabili quanto più sorde all’ascolto dell’Altro.

Possiamo, mi chiedo – dopo aver condiviso conoscenze e il rifiuto dell’orrore e degli orrori – immaginare un viaggio comune di attraversamento degli abissi della guerra per far partire l’organizzazione della speranza?

Come fare in modo di perseguire con tenacia, con costanza il lavoro della pace? Come non lasciarci distrarre? Come aiutarci vicendevolmente in questo cammino?

Il nostro lavoro di gruppo e l’impegno di molti di noi – l’autore in primis – sono tesi a testimoniare la possibilità di ciascuno di affrancarsi dalla coazione a ripetere della guerra. Non un passaggio immediato, ma un percorso a ostacoli che richiede tenacia e perseveranza.

a cura di Diego Miscioscia

Perseguire il ripudio della guerra nell’interiorità di ciascuno prospetta un percorso lungo ma promettente e, soprattutto, nelle nostre mani.

Lavorare in autenticità sul nostro mondo interno, elaborando la distinzione radicale tra guerra, che ci fa tutti nemici e vittime, e conflitto, che ci richiede fatica, ascolto, impegno e capacità generativa di soluzioni, può aiutare tutti – cittadini, terapeuti, pazienti, rappresentanti politici e istituzionali – ad evitare di essere condizionati da chi pensa di poter decidere per noi sulla pace e sulla guerra.

La nostra libertà di pensiero autonomo sottrae potere ai potenti e ai prepotenti e accresce la solidarietà e la fiducia intersoggettive. Questo lavoro, senz’altro preliminare ad ogni altro sforzo, dovrebbe accompagnarsi con la consapevolezza delle dinamiche che prevalgono nel macrocosmo del potere economico, dei grandi interessi, dell’industria delle armi, di quella della suggestione e della manipolazione.

Accanto all’autonomia e alla libertà interiore bisognerà, allora, non dimenticare la necessità di attrezzarci per ostacolare le forze dell’avidità, dell’invidia, della prepotenza che, se non tenute a bada con attenzione preventiva, possono finire con il prevalere e demolire quanto costruito con il nostro lavoro di cura e di scavo in profondità.

Se ciò sarà possibile, ci attende un grande investimento collettivo nella creatività delle soluzioni, delle mediazioni, dei compromessi.

PARTE I GLI STUDI SULLE CAUSE DELLA GUERRA

Gli studi

psicoanalitici

sulle cause della guerra1

di Diego Miscioscia

Alla pace è capitato in sorte di essere associata a termini impropri e poco descrittivi della sua vera natura. Sul vocabolario2, infatti, si trovano riferimenti molto parziali al concetto di pace che rimandano a due diverse matrici semantiche: la prima rappresenta la pace soltanto come l’opposto della guerra, “assenza di guerra, mancanza di conflitti” e quindi dice molto poco delle complesse qualità della pace; la seconda associa la pace a una condizione psicologica abbastanza passiva e regressiva, tipo “felicità, tranquillità e beatitudine” e quindi a significati affettivi dell’area materna e infantile che tutt’al più si rivelano adeguati soltanto per descrivere una condizione di pace utile per bambini molto piccoli o per persone estremamente fragili.

Nella realtà adulta di ogni individuo, invece, l’idea di pace più opportunamente dovrebbe essere associata all’accoglienza dell’irrequietezza, alla gestione pacifica dei conflitti, alla sinergia e alla collaborazione tra i popoli, al confronto fertile tra persone che hanno idee diverse, alla contaminazione e all’ibridazione tra culture differenti3 e quindi a competenze proprie della cosiddetta “intelligenza emotiva” che garantiscono un’elevata capacità di saper gestire pacificamente anche i conflitti più difficili.

Per diversi millenni le caratteristiche irrazionali delle guerre sono state poco evidenti e, solo negli ultimi decenni, con il rischio di distruzione totale reciproca causata da una guerra atomica, questa pratica folle e violenta è stata finalmente messa in crisi.

L’ideale della pace è sicuramente universale. L’opzione di un periodo di pace, infatti, rientra negli auspici personali anche del peggior militarista o di un serial killer, se non altro, perché una

breve rinuncia temporale alla violenza permette anche a costoro di concedersi un po’ di riposo e di prepararsi prima di una nuova scelta violenta o prima di una nuova guerra. La declinazione concreta di questo ideale, tuttavia, dipende dalla storia personale di ognuno di noi e da come la nostra cultura di appartenenza ha rafforzato dentro di noi le competenze della pace o al contrario ha sollecitato in noi la parte paranoica sempre pronta a diffidare dei nostri vicini.

L’ideale della pace è sempre stato presente nella mente dell’uomo, ma in una forma debole, e spesso è stato soverchiato dalle forti passioni che sostenevano la causa della guerra. Tali passioni, nel corso dei secoli e dei millenni, contrassegnati dal continuo succedersi di guerre sanguinose, si sono tradotte in una vera e propria e articolata cultura della guerra: delle armi, di tattiche e strategie, di modelli organizzativi, d’innumerevoli poemi, opere letterarie e film dedicati a esaltare condottieri, eroi, battaglie, fino a farne la radice delle diverse identità nazionali.

La guerra nel corso della storia è stata interpretata come un momento di verità, come levatrice della storia, come un’esperienza rivelatrice del valore di un popolo o, come aveva affermato Marinetti, come: “L’unica igiene del mondo”.

Gli esseri umani si sono così abituati a vivere in uno stato di continue tensioni interne ed esterne e al dover subire nel corso della propria vita, sia individualmente e sia socialmente, il ripetersi di conflitti violenti. La guerra alla maggioranza delle persone è sempre parsa una pesante incombenza, in genere quasi mai voluta, ma sentita anche come necessaria e inevitabile in alcuni momenti della propria vita sociale. Così la pensava Von Clausewitz, quando affermava: “La guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi”4.

Naturalmente, in tutti i tempi da parte di re, politici o condottieri non sono mai mancate enfatiche dichiarazioni a favore della pace, ma, come dimostra la storia, tali invocazioni sono sempre state più che altro una sorta di cortina fumogena per nascondere le reali motivazioni a favore della guerra, peraltro condivise almeno in parte a livello inconscio da tutta la popolazione.

La cultura della pace, come abbiamo visto, è stata pensata facendo psicologicamente riferimento soltanto a una matrice sim-

bolica affettiva materna e infantile; questo ha dato la possibilità, a chi nella vita si è identificato con altri codici affettivi, di giustificare la guerra vista come uno strumento più attivo di trasformazione delle cose.

In questo senso, sono gravi le conseguenze psicologiche derivanti dal non aver mai definito chiaramente quali sono le vere condizioni di una cultura di pace, cioè i valori e le competenze psicologiche necessarie per stare davvero in pace con se stessi e con gli altri su questo pianeta.

L’umanità, ignorando a lungo nel corso della storia le cause e quindi le caratteristiche di alcuni fenomeni, spesso ha vissuto condizioni di grave disagio fisico e psicologico: è stato così, ad esempio per l’ignoranza delle corrette condizioni igieniche che in passato si favoriva il diffondersi delle epidemie o per l’ignoranza degli operatori dei brefotrofi dei gravi danni psicologici derivanti ai bambini dalla separazione troppo precoce da un caregiver capace di offrire loro una relazione accudente e accogliente.

Nel terzo millennio, tuttavia, l’ignoranza da parte degli esseri umani delle competenze psicologiche che sono necessarie per costruire una cultura di pace appare oggettivamente come la più grave in assoluto. Mai come ora, infatti, la nostra specie ha rischiato l’estinzione. Abbiamo armi atomiche capaci di uccidere più volte tutta la popolazione esistente sul pianeta; dal 2000 al 2024, inoltre, nel mondo sono raddoppiate le spese per le armi. In questo periodo, molti fattori ci collocano in una condizione pericolosa simile alle tensioni internazionali prima dei due conflitti mondiali del secolo scorso: le sconcertanti dichiarazioni di Putin e di Medvev su un possibile uso di ordigni nucleari, il contagio della guerra in Medio Oriente dopo gli attacchi di Hamas a Israele, la superficialità dei politici europei e americani che sembrano credere solo nella ragione delle armi e nel mito sconsiderato della vittoria e infine l’influenza della holding delle armi che, come succede negli Stati Uniti, antepone la priorità dei propri affari rispetto all’estinzione stessa della vita umana sul pianeta.

L’incapacità di credere alla follia dell’uomo e i meccanismi psicologici di diniego e di sottovalutazione difensiva di questi pericoli appartengono a tutti gli esseri umani, anche agli psicologi, e ci impediscono di vedere con la giusta preoccupazione i pericoli

a cura di Diego Miscioscia

rappresentati dalle tensioni internazionali e dai danni al clima e all’ambiente. Come sosteneva Gino Pagliarani, uno degli autori cui facciamo più riferimento in questo libro, l’umanità ha sempre vissuto in “una condizione psicologica sveglia, ma anche contemporaneamente addormentata”5.

Scriveva Freud nel 1915:

La guerra cui non volevamo credere è scoppiata e ci ha portato la delusione. Ella infrange tutte le barriere riconosciute in tempo di pace e costituenti quello che chiamiamo il diritto delle genti. Spezza tutti i legami di solidarietà che possono ancora sussistere tra i popoli in lotta e minaccia di lasciare dietro di sé un rancore tale da rendere impossibile per molti anni una loro ricostituzione6

Credo sia compito della psicologia chiarire quali siano i meccanismi psicologici per rafforzare nello spirito dell’uomo le difese della pace, come recita l’Atto Costitutivo dell’UNESCO: “Poiché le guerre hanno origine nella mente dell’uomo, è nello spirito dell’uomo che si debbono innalzare le difese della pace”.

Nella prima metà del secolo scorso, una certa filosofia idealista aveva fatto pensare che semplici condizioni psicologiche basate sulla non violenza e sull’accettazione incondizionata della natura spontanea del bambino avrebbero portato alla crescita di un “Uomo nuovo” equilibrato e pacifico. A questa idea, ad esempio, si rifaceva Alexander Neill con la sua idea di pedagogia libertaria che lo portò nel 1921 a fondare la scuola Summerhill7. È nota la sua affermazione “Ogni bambino ha dentro un Dio e se cercate di educarlo si trasformerà in un demonio!”. In questi anni, spesso si è sentita ripetere l’affermazione “Stay human!” come se il semplice “restare umani” ci preservasse dalla violenza. La naturalità dell’uomo è una condizione che è stata troppo spesso idealizzata. La nostra condizione naturale, infatti, oltre ad essere aperta a numerose malattie come la peste bubbonica e il Covid-19, ci predispone “naturalmente” a risposte violente, alimenta in noi l’illusione fallico-narcisistica di poter sconfiggere la morte mettendola sul nemico. La nostra natura, inoltre, a seguito di traumi o anche di semplici carenze affettive molto comuni nel corso della crescita, sviluppa facilmente disturbi nevrotici o problemati-

che ancora più gravi che ci predispongono facilmente a risposte violente. Essa, inoltre, è influenzata negativamente dai cosiddetti “meccanismi del disimpegno morale” studiati da Bandura8 che ci distaccano dalla responsabilità del dover corrispondere alle nostre naturali istanze etiche e cade facilmente preda sia delle cosiddette “sindromi psicosociali” descritte abilmente da Giuseppe Di Chiara9, sia di numerose altre condizioni di fragilità psichica che sono responsabili delle nostre scelte violente.

La psicoanalisi ha sviluppato fin dall’inizio varie ipotesi sulle cause della guerra. In due saggi su questo tema “Considerazioni sulla guerra e sulla morte” del 1915 e “Perché la guerra” del 1932, Freud per primo ipotizza un coinvolgimento psicologico collettivo di tutta la popolazione nel fenomeno della guerra. La sua idea è che gli impulsi violenti siano sempre esistiti nell’inconscio degli uomini. Secondo lui, quindi, non è la guerra a condurre gli esseri umani a riscoprire la barbarie. Gli uomini tendono semplicemente a rimuovere nell’inconscio i loro impulsi più riprovevoli ed è poi lo Stato, che possiede il monopolio della violenza, a esercitarla a nome loro. La civiltà, dunque, secondo Freud, è in buona parte illusoria perché è contraddetta dalle fantasie e dalle pulsioni distruttive dell’inconscio. La sua visione del sociale è indubbiamente molto pessimista ed è condizionata in gran parte dalla cultura sessuofobica, autoritaria e moralistica prevalente nella sua epoca.

Per questo, alla domanda postagli da Einstein sulla possibilità di fermare la guerra, Freud diede una risposta negativa: egli, infatti, riteneva che l’aggressività fosse una componente essenziale della natura umana, pur credendo nella possibilità di qualche miglioramento legato al lento progresso del processo di civilizzazione.

Dopo di lui, Edward Glover, un suo allievo, si dedicherà a studiare il ruolo che nei conflitti hanno gli impulsi sadici e masochistici10. Negli anni Trenta, Roger Money-Kyrle, un altro importante psicoanalista, analizza le caratteristiche psicopatologiche di alcuni leader come Hitler o Mussolini individuando in loro tratti psicopatici e maniacali. Egli, dunque, ipotizza una sorta di generale passività nelle masse che tendono ingenuamente a farsi trascinare in guerra da personalità psicopatologiche molto capaci di manipolare gli altri. Al contrario, secondo lui, “l’uomo nor-

male-non nevrotico possiede delle qualità personali che gli impediscono di aderire alla follia della guerra, le cui cause vanno attribuite soltanto a un gruppo limitato di personalità nevrotiche o psicopatiche”11.

Negli anni Sessanta altri psicoanalisti, nell’analizzare le cause della guerra, mettono invece sotto accusa le tendenze maschili aggressive e una certa cultura autoritaria e fallocentrica allora prevalente nei Paesi occidentali. Alexander Mitscherlich, ad esempio, pone l’accento soltanto sulla cultura sociale patriarcale dell’epoca. Egli crede che una “società senza padre”, basata solo sui principi della fraternità, possa portare rapidamente verso la pace tutte le nazioni12. Allo stesso modo la pensava anche Virginia Woolf che nel 1938 nel romanzo Le tre ghinee scriveva:

Se insisti sul fatto che andrai a combattere per proteggere me o il nostro Paese, chiariamo, in modo composto e razionale tra noi, che stai combattendo per gratificare un istinto sessuale che non posso condividere; per procurare benefici che non ho condiviso e che probabilmente non condividerò mai; certo non lo fai per gratificare i miei istinti o per proteggere me o il mio Paese. Perché, dirò da outsider alla cittadinanza quale sono, come donna non ho un Paese. Come donna non voglio un Paese. Come donna il mio Paese è il mondo intero13

In realtà, come vedremo, non è l’aspetto forte, deciso e aggressivo del codice virile maschile che va messo sotto accusa. In modo più appropriato, poche settimane dopo l’invasione russa dell’Ucraina, l’ex ministro francese Segolen Royal, parlando del clima psicologico negativo nei Paesi Occidentali ha affermato: “C’è in giro troppo testosterone!”. Da un punto di vista psicologico, l’aspetto negativo è proprio questo: il “troppo”! Ciò che favorisce la violenza, infatti, non è la presenza di un codice affettivo, ma la sua radicalizzazione che cancella tutti gli altri riferimenti interiori. Tutte le logiche affettive servono alla sopravvivenza dell’uomo. È la loro integrazione a livello intrapsichico e interpersonale che permette alle persone di capirsi e di elaborare pacificamente i conflitti. In termini neurologici, nei processi di radicalizzazione, è come se il cervello, invece di potersi servire di diverse aree del-

la mente per significare la realtà, fosse costretto ad utilizzare un unico canale di significazione e di simbolizzazione affettiva per capire cosa sta succedendo e per prendere poi decisioni.

Fino agli anni Sessanta, la ricerca sulle cause della guerra tende a evidenziare soprattutto i comportamenti individuali estremi. Un certo successo, in campo psicologico, hanno le ipotesi del sociologo francese Gaston Bouthoul, che nel libro Le guerre. Elementi di polemologia analizza le motivazioni di diverse tipologie di combattenti (il volontario, il fanatico, il mercenario e il coscritto). Egli vede la guerra come una scelta compiuta con la consapevole intenzione di sacrificare un certo numero di uomini. Riferendosi al conflitto edipico e all’implicita ostilità tra padri e figli, Bouthoul azzarda l’ipotesi che la guerra rappresenti una sorta di “infanticidio differito” che metterebbe in scena un conflitto tra le generazioni.

Gradualmente, dunque, si è passati dal ricercare le cause e le responsabilità delle guerre soltanto in poche persone che guidano le masse, a una ricerca più attenta delle caratteristiche psicologiche negative comuni a ogni essere umano: sono tali caratteristiche mentali che vanno trasformate per arrivare a una cultura di pace.

Per capire meglio le cause della guerra e poter poi descrivere che cos’è una cultura di pace, è necessario partire dagli studi di Franco Fornari e di Luigi Pagliarani, due psicoanalisti che nella loro vita a questi temi hanno dedicato buona parte delle loro riflessioni e del loro impegno. Il loro, infatti, non è stato solo un impegno come studiosi: basterebbe ricordare la loro comune partecipazione nel 1965 al “Gruppo Anti-H” e la loro fondazione nel 1967 dell’“Istituto di Polemologia e di Ricerca sui Conflitti”; sempre negli anni Sessanta, Fornari e Pagliarani fondarono anche il C.I.n.A., un “Centro di Istruzione non Autoritaria”.

Nel suo testo più importante su questi temi, Psicoanalisi della guerra14, Franco Fornari aveva sostenuto la tesi che la guerra fosse condivisa come un bisogno comune a tutti gli esseri umani poiché tutti sentono il bisogno di evacuare all’esterno il loro disagio di vivere, in particolare, il lutto. Egli afferma:

La guerra come elaborazione paranoica del lutto, parte da una delle condizioni più difficili di vuoto, il lutto appunto, una mancan-

a cura di Diego Miscioscia

za, uno stato di vuoto difficile da elaborare. La crisi della guerra ci costringe a non esportare il lutto, cioè a tenere il morto in casa, inducendoci a tollerare la depressione. Il compito effettivamente non è facile. Chi si assume il compito di elaborare il lutto derivante dalla crisi della guerra bisogna che sia avvertito: non avrà il compito facile. La difesa più diffusa oggi ha un modo più insidioso, è il modo maniacale, antitetico alla depressione, che si fonda sulla negazione, il trionfo e perde il contatto con la realtà.

Nel maggio del 1995 Gino Pagliarani, nell’ambito del convegno “Le radici affettive dei conflitti” che si teneva a Piacenza in memoria di Franco Fornari morto dieci anni prima, parlando delle conseguenze seguite al crollo del muro di Berlino, aveva fatto un’affermazione che oggi suona come preveggente rispetto a ciò che sta succedendo in Ucraina e in Israele. Egli aveva detto:

Si è creato un vuoto: il vuoto è uno spazio di libertà per gli individui creativi, la caduta di certi assetti statali permette l’emergere di coscienze, d’intelligenze, di opere. Però il vuoto, se agli occhi dell’individuo creativo è una situazione di stimolo e di gravidanza partoriente, nel vissuto pavido delle masse è uno stato di minaccia da cui si cerca di uscire il più presto possibile, a prezzo della stessa libertà. Non a caso si è teorizzato un horror vacui, un orrore del vuoto molto pericoloso, perché richiederebbe un atteggiamento e un comportamento di responsabilità rispetto ai tanti problemi che lo stato di pace comporta. La pace è tutt’altro che pacifica, la pace è conflittuale, la pace è lo spazio e il tempo della conflittualità, della competizione15

Entrambi questi ricercatori, dunque, parlando delle cause della guerra, avevano posto l’accento su vissuti psicologici collettivi. Nell’analisi delle cause della guerra da parte di Pagliarani e di Fornari si avverte un ampio respiro rivolto a favorire la crescita dell’innata capacità umana di esprimere tutte le emozioni e gli affetti, dentro e fuori di noi, nel tentativo di creare le premesse per una cultura di pace. Nei loro scritti è evidente che l’incapacità di gestire pacificamente i conflitti riguarda tutti gli uomini.

Le riflessioni di Fornari e di Pagliarani, in sostanza, evidenzia-

no una debolezza comune a tutti gli esseri umani, un’incapacità di tollerare il vuoto e un legame immaturo col proprio gruppo di appartenenza, legame che è capace di scatenare vissuti paranoici verso gli altri gruppi.

Il contributo più importante di Fornari per analizzare le cause della guerra e per definire che cos’è una cultura di pace, a mio avviso, è legato alla sua analisi delle ideologie e alla teoria dei codici affettivi16.

I codici affettivi s’identificano/coincidono con i personaggi della famiglia: codice materno, paterno, fraterno, del bambino, codice maschile e femminile. Questi codici, geneticamente determinati, sono presenti in tutti noi ed esprimono logiche affettive diverse e quindi ideali differenti che garantiscono la sopravvivenza della specie e ci aiutano a dare senso e valore alla nostra vita. Essi ci fanno da guida alla percezione affettiva del mondo e alle scelte da fare. Ci permettono di significare la realtà, cioè di attribuire un carattere simbolico e affettivo a ogni situazione ed evento della vita. Questi codici, inoltre, hanno anche il compito di prescrivere degli schemi di relazione, degli obiettivi da perseguire e dei comportamenti da evitare per raggiungere il benessere. Pur essendo una risorsa filogenetica, i codici affettivi richiedono una sorta di saturazione positiva, alimentata dalla cura amorevole del bambino da parte dei genitori. Questa ricerca di Fornari oggi è stata ripresa dagli studi delle neuroscienze sui sistemi motivazionali e anche da diversi psicoanalisti e cognitivisti17.

Centrale nella teoria dei codici affettivi è il modello della “democrazia affettiva”. Tale modello rappresenta una sorta di codice etico naturale che definisce la normalità in conformità a caratteristiche non ideologiche ma razionali. Tale codice etico, in sostanza, prevede la presenza simultanea, armoniosa e integrata di tutti i codici affettivi, contrapposta alla tendenza alla radicalizzazione di un codice affettivo a scapito degli altri, condizione che è tipica delle ideologie e delle situazioni patologiche. Quest’ultimo meccanismo sottrae a un codice affettivo la sua carica ideale e lo trasforma da Ideale dell’Io in un Super-Io rigido e tendenzialmente patologico.

Ragionare in termini di democrazia affettiva o d’integrazione delle diverse logiche affettive inconsce, non significa sottrarre a

ogni codice le sue potenzialità di sviluppo e di specializzazione; al contrario, la democrazia affettiva implica sempre la necessità di un potenziamento dei diversi codici. Tale potenziamento, tuttavia, quando nell’individuo è presente un forte orientamento verso la democrazia affettiva, avviene all’interno di un campo etico di collaborazione e di valorizzazione reciproca con gli altri codici affettivi.

Il modello della democrazia affettiva, dunque, rappresenta per gli esseri umani una meta, un punto d’arrivo a livello intrapsichico e interpersonale. Il raggiungimento di tale meta, in sostanza, è l’unica possibilità di cui disponiamo per riuscire a vivere in una vera cultura di pace. Tale obiettivo, tuttavia, non rappresenta soltanto l’unica strada per evitare le guerre e per riuscire a gestire pacificamente i conflitti. Esso esprime altresì un livello evolutivo superiore verso cui l’umanità si muove da almeno un paio di secoli con grande fatica. All’inizio del terzo millennio, infatti, l’uomo è forse diventato più razionale e tecnologico, ma perlopiù è ancora dominato da passioni irrazionali che rischiano di condurlo all’autodistruzione. Le motivazioni che stanno dietro questi comportamenti distruttivi e autodistruttivi, come abbiamo visto, sono collegate a un bisogno di esprimere un codice virile/paterno “malato” (= onnipotente e radicalizzato), a meccanismi del disimpegno morale o a sindromi psicosociali e quindi all’utilizzo di difese patologiche primitive di scissione-proiezione, cioè al tentativo di elaborare il lutto con difese maniacali e paranoiche. In ogni caso, questi comportamenti negativi rappresentano sempre una pericolosa deviazione inconscia da un equilibrio intrapsichico sano che, oltre a garantire un buon equilibrio mentale, permetterebbe a tutti gli esseri umani di vivere serenamente sul nostro pianeta. Queste ultime riflessioni sulle qualità di una cultura di pace descrivono anche la sua complessità. Ciò che ci spinge verso una cultura di pace, tuttavia, forse oggi non è solo la paura di una guerra atomica. I progressi civili ottenuti dalla maggioranza delle nazioni negli ultimi decenni, sia al loro interno e sia nel rapporto con gli altri Stati, testimoniano che si stanno creando nuove condizioni sociali positive a livello mondiale che favoriscono uno sviluppo più rapido di una cultura di pace. La forte diminuzione del razzismo e lo sviluppo di società multiculturali, la diminu-

zione della pena di morte in tutto il mondo, la fine nei Paesi più civili di fenomeni di discriminazione religiosa e sessuale, la lotta contro l’analfabetismo e infine l’importanza delle Nazioni Unite, sorte proprio per favorire la pace tra i popoli, rappresentano tutte conquiste che vanno in questa direzione. In sostanza, come aveva previsto Freud nel 193118, nel mondo si sta creando un processo d’incivilimento che favorisce lo sviluppo di una cultura di pace. Tra chi osserva come si siano evoluti i rapporti tra gli Stati dell’Unione Europea dopo la Seconda guerra mondiale, ad esempio, l’impressione che prevale è quella di uno sviluppo sempre più forte di relazioni pacifiche. Nella nostra Comunità, dunque, ci si sta davvero muovendo verso una cultura di pace, verso un processo di democrazia affettiva? Anche qui, come vedremo, i dati a disposizione sono contraddittori. Analizzando da quali culture affettive è guidata l’azione politica dei Paesi della Comunità Europea, infatti, non si può negare come, negli ultimi settant’anni, vi sia stata effettivamente una forte crescita del codice fraterno in ogni nazione che fa parte di questa Comunità. Questo processo si è sviluppato grazie allo sviluppo d’istituzioni condivise, ma tale processo è avvenuto anche a scapito degli altri codici affettivi, ad eccezione di quello del bambino. Quest’ultimo codice, infatti, è cresciuto in una forma fin troppo radicalizzata. Su sollecitazione della cultura neoliberista che invita tutti al consumismo, infatti, è cresciuto il benessere, ma con esso si è sviluppato anche il narcisismo e l’edonismo.

Vediamo meglio come si concretizza la sinergia tra queste due culture affettive, cioè in che modo il codice fraterno e il codice del bambino convivono e si scambiano il potere a livello di sistemi motivazionali nelle nazioni europee. Questo ci aiuterà a capire su quali strade psicologiche e motivazionali si muove oggi l’azione dei leader e dei popoli europei.

La nascita dell’Unione Europea ha favorito rapidamente la crescita di un processo di fraternizzazione tra gli abitanti di questa Comunità grazie all’interazione tra diversi fattori economici, culturali e psicologici: la condivisione economica e culturale, la nascita di istituzioni politiche comuni, la progressiva unificazione degli stili di vita, gli scambi di persone per motivi di lavoro e di studio (progetti Erasmus e Intercultura), le facilitazioni turistiche e infine

l’abolizione dei confini con il trattato di Schengen. Tutto questo ha mandato al potere in Europa una cultura affettiva fraterna basata sul dialogo, su un confronto paritetico e sulla sempre maggiore collaborazione e integrazione economica, politica e sociale. Questo sistema, basato su istituzioni multilaterali liberali e sui diritti umani per risolvere i conflitti, ha favorito una condivisione fraterna positiva e, in un certo senso, ha pacificato gli stessi individui di questi Stati. I valori di libertà di parola, di pensiero, d’impresa, di stampa, di scelte culturali e religiose, di organizzazione politica, sindacale e infine anche la scelta dei propri comportamenti sessuali in Europa sono ormai considerati dalla maggioranza della popolazione europea come diritti comuni e inalienabili. Per questo, oggi da noi la guerra è vista come una scelta anacronistica. E anche per questo in Europa non esiste più la pena di morte. Per la prima volta nella storia, in questa parte del mondo, quando si sono sviluppate istanze sociali di autonomia o di maggiore indipendenza, come è successo in Catalogna, nell’Italia del Nord con la Lega e all’interno della Gran Bretagna con la Brexit, non si è assistito a guerre o a rivolte violente represse nel sangue. La stessa possibilità di dover prendere parte a un combattimento tra i popoli della Comunità europea è diventata inconcepibile.

Questi sono i benefici del codice fraterno. Anche Bion, parlando degli assunti di base19, aveva osservato la maggiore libertà dalle ossessioni ideologiche e la maggiore efficacia operativa del gruppo di lavoro che, come osservava Fornari, è ispirato dalla cultura affettiva del codice fraterno.

Ma cosa è successo alla cultura europea quando si è confrontata/sposata con lo sviluppo del narcisismo, con la seduzione regressiva di un potere materno, rappresentato dalla crescita del consumismo e dell’edonismo e dal prevalere di modelli familiari più affettivi che etici? La svalutazione degli altri codici ha indebolito nei popoli europei la posizione adulta, ha rafforzato l’egoismo individuale ed ha sdoganato l’illusione onnipotente. La crescita dei bisogni narcisistici ha ostacolato il processo di soggettivazione e indebolito nella popolazione europea il sentimento etico. Lo svilimento della funzione paterna ha rafforzato i sentimenti maniacali e paranoidi che hanno in comune la negazione e la falsificazione della realtà.

Per questo, la posizione politica europea sui diversi scenari internazionali oggi appare così debole. Essa è fragilissima con riferimento a due posizioni etiche fondamentali: sul piano dell’identificazione col codice paterno (manchiamo di autorevolezza a livello internazionale e della capacità di far valere i nostri valori di mediazione e di dialogo, su questo ci ha superato perfino la Turchia) e sul piano dell’identificazione col codice materno (siamo poco inclusivi, siamo stati incapaci di accompagnare verso una vera democrazia gli Stati usciti dal crollo dell’Unione Sovietica).

In Europa oggi, quindi, non è il codice fraterno maturo a prendere la parola sul piano politico, se non in modo piuttosto debole. Privato dei suoi legami simbolici col codice paterno e materno e in cerca di una posizione etica a seguito della guerra in Ucraina, i “fratelli europei” nelle loro scelte politiche dopo l’invasione dell’Ucraina sono stati costretti ad affidarsi alla vecchia cultura americana che spesso esprime ancora vecchi valori aggressivi e fallici radicalizzati. Paradossalmente e abbastanza drammaticamente, dunque, l’ideale della pace nella nostra Comunità è stato affidato a Narciso, notoriamente ben poco attento agli altri. A chiedere a gran voce di fermare le guerre, infatti, da noi è soprattutto il nostro egoismo, la nostra comoda vita edonista che non sopporta assolutamente l’idea di dover rinunciare a tanto benessere materiale. Come dimostra anche il conflitto sull’accoglienza dei migranti tra Italia e il resto dell’Europa, i codici parentali, presenti troppo debolmente nella nostra cultura comune europea, lasciano libero spazio a una cultura affettiva inadeguata, a liti tra fratellini immaturi ed egoisti che hanno poco potere sociale e che sono ancora in buona parte dominati da pulsioni distruttive verso l’ambiente. Da questa cultura affettiva, dunque, non ci si possono aspettare delle scelte mature sul piano della politica internazionale.

Cosa può fare la cultura psicologica per promuovere la pace? Non certo limitarsi ad analizzare tutti gli individui, come proponeva di fare Money-Kyrle, perché ormai, visto il punto in cui siamo arrivati, nel frattempo il mondo avrebbe tutto il tempo per andare a rotoli.

Come Luigi Pagliarani e Franco Fornari, anche noi dobbiamo ritrovare quella tensione etica al fare che in ogni ambito della cultura e dell’educazione può favorire una rinascita dei valori.

È necessario che gli psicologi, gli psicoanalisti in particolare, escano da quella pseudo illusione di neutralità che hanno avuto fino al secolo scorso. Dopo aver chiarito quali sono i riferimenti etici della sanità mentale, dopo aver definito le competenze della pace, dobbiamo formare docenti, genitori e ragazzi ad una cultura di pace. Gli strumenti ci sono e anche le risorse.

Provo a darvi due spunti interessanti: il primo riguarda la formazione etica delle nuove generazioni. Alcuni anni fa, in un suo contributo sull’etica, Bauman sosteneva che ormai la maggior parte della popolazione in Occidente era passata da una scelta di valori eteronoma, cioè trasmessa dall’alto, dalla Chiesa e dallo Stato, a una scelta di valori autonoma, cioè scelta liberamente dalle persone20. Raramente, tuttavia, la psicologia si è chiesta quale contributo essa può dare alla formazione etica delle nuove generazioni, pur sapendo che i valori umani hanno le loro radici negli affetti e nelle emozioni. Attualmente, abbiamo riferimenti legislativi e risorse concrete per muoverci in quest’area. C’è innanzitutto l’articolo 11 della nostra Costituzione, quello che afferma che “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Da due anni, inoltre, l’Educazione Civica è stata resa obbligatoria in tutte le scuole. Non siamo ancora arrivati, come in alcuni Paesi del Nord Europa, alle ore curricolari di intelligenza emotiva, ma gli psicologi sono ormai presenti in ogni scuola superiore e possono rappresentare un punto di riferimento importante per orientare gli insegnanti e i ragazzi a gestire pacificamente i conflitti e sviluppare una cultura di pace.

Un’altra idea interessante viene dalla Rete Pace e Disarmo e dal Mean, il Movimento Europeo di Azione Nonviolenta. Da anni questi movimenti hanno depositato in parlamento una proposta di legge per l’istituzione di un “Dipartimento della Difesa civile non armata e non violenta”. Tale proposta di legge contiene anche l’opzione fiscale, ossia la possibilità per i contribuenti di poter destinare al previsto Dipartimento il sei per mille della propria Irpef. A questa proposta la psicologia potrebbe associare la propria disponibilità nel formare a una cultura di pace le nuove generazioni.

Durante la recente epidemia di Covid-19, la semplice consapevolezza a livello mondiale di norme igieniche (isolamento e

uso delle mascherine) ha permesso di salvare milioni di vite in tutto il mondo. Allo stesso modo, la consapevolezza di che cosa rappresenta dentro e fuori di noi orientarsi verso la democrazia affettiva può rappresentare una bussola preziosa per ritrovare la direzione verso cui andare nella costruzione di una cultura di pace, per salvare noi stessi e il nostro pianeta dal rischio di una distruzione totale.

Molti scienziati, spesso dopo aver contribuito con i propri studi a sviluppare tecnologie pericolose (basta pensare ad Alfred Nobel), si sono battuti a favore della pace, consapevoli dei rischi che corre la nostra specie e hanno assunto un atteggiamento più responsabile verso il Pianeta. La loro maggioranza, ora, non solo è contro la guerra, ma è anche impegnata attivamente in azioni per favorire la pace. Il 9 luglio del 1955 Albert Einstein e Bertrand Russel scrissero un appello per il disarmo controfirmato da undici scienziati di primo piano. Da allora i più importanti scienziati nel mondo si sono impegnati per favorire la pace, sia individualmente, sia collettivamente. Un documento del 28 febbraio del 2022 di 115 scienziati russi contro la guerra definiva le motivazioni di Putin per l’intervento contro l’Ucraina come “Dubbie fantasie di filosofia della storia”. Anche in Italia è noto, ad esempio, il grande impegno di scienziati come Umberto Veronesi a favore della pace.

Riguardo alle nostre possibilità di sopravvivenza come specie, oggi diversi studiosi esprimono un certo pessimismo preoccupati per i danni dell’uomo all’ambiente e al clima, per le folli spese militari e per i rischi di una guerra atomica. Edgar Morin descrive l’essere umano, l’Homo sapiens, più come un Homo demens. Egli scrive: “La natura composita dell’essere umano ne fa animale isterico posseduto dai suoi sogni e tuttavia capace di oggettività”21.

Nicholas P. Money, professore di biologia e direttore alla Western Program presso la Miami University in Ohio, ne parla come di Homo narcisus. Il titolo del suo ultimo libro suona come una sorta di condanna definitiva: La scimmia egoista. Perché l’uomo deve estinguersi22. Uno strumento creato nel 1947 dagli scienziati del Bulletin of the Atomic Scientists dell’Università di Chicago, il Doomsday Clock, l’Orologio dell’apocalisse, misura anno per anno il pericolo di un’ipotetica fine del mondo cui l’umanità è sottopo-

sta23. Tale misurazione viene effettuata spostando le lancette in avanti di fronte ai rischi effettivi di fine del mondo. Secondo gli scienziati che valutano la situazione del Pianeta manca poco più di un minuto a mezzanotte, cioè, alla catastrofe.

Note

1 Si ringrazia la rivista “Educazione sentimentale” per aver autorizzato la pubblicazione di questo articolo, uscito nel gennaio 2023 in una forma che qui appare leggermente modificata.

2 Treccani, 1994.

3 Vedi Pagnin, 1992.

4 Von Clausewitz, 1997.

5 Pagliarani, 1993.

6 Freud, 1915.

7 Summerhill, 1993.

8 Bandura, 2017.

9 Di Chiara, 1999.

10 Glover, 1946.

11 Money-Kyrle, 1934, 1937.

12 Mitscherlich, 1970.

13 Woolf, 1979.

14 Fornari, 1966.

15 Vedi Miscioscia e Novara, 1995.

16 Fornari, 1977.

17 Vedi Lichtenberg, Lachmann, Fossage, 2011; Migone, Liotti, 1998.

18 Freud, 1933.

19 Bion, 1961.

20 Bauman, 2010.

21 Morin, 2002, p. 125.

22 Money, 2020.

23 thebulletin.org, 2022.

Le pagine di questo libro prendono in esame da un punto di vista psicoanalitico le radici affettive della guerra e le sue motivazioni profonde, ma anche l’importante cammino che il processo di civilizzazione è riuscito a fare nel corso degli ultimi secoli per eliminare questa folle pratica dalla mente dell’uomo. Le motivazioni e la cultura della guerra sono ancora forti e ben radicati nella mente dell’uomo. Da più di un secolo però stanno crescendo e si stanno rafforzando, soprattutto nell’area dei valori etici e nelle nuove generazioni, le competenze psicologiche della pace. Il cervello dell’uomo è di fatto interessato da un processo di trasformazione che lo adatta a una nuova “economia affettiva” che non prevede più la guerra come sistema di difesa e di piacere. Si tratta di un cambiamento storico e genetico inevitabile, i cui segnali esterni sono visibili nelle profonde mutazioni della nostra cultura. La violenza e la guerra, tuttavia, hanno radici profonde. Anche in questo secolo, dunque, dobbiamo rassegnarci alle sue terribili immagini di distruzione e sofferenza. Le reazioni indignate della maggioranza della popolazione mondiale allo scoppio delle guerre tra Russia e Ucraina e tra Israele e Hamas, tuttavia, mostrano come, rispetto al passato, la violenza folle dei conflitti armati abbia sempre meno spazio tra gli ideali condivisi dagli esseri umani.

Com’è evidenziato nelle pagine di questo libro, il processo psicologico che si è messo in movimento inconsapevolmente soprattutto in Occidente va nella direzione di una maggiore integrazione a livello inconscio tra le diverse parti del Sé. Per realizzare pienamente il modello interno pacifista che lo psicoanalista Franco Fornari negli anni Ottanta aveva definito come “Democrazia affettiva”, tuttavia, è necessario avere una rotta precisa verso cui indirizzare la nostra cultura. L’obiettivo di questo libro, dunque, è quello di definire più chiaramente questa bussola interiore non ideologica che può guidare chi ama la pace.

ISBN 979-12-5626-019-5

Euro 20,00 (I.i.)

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