Maurizio Parodi
LA SCUOLA È SFINITA
Maurizio Parodi già Dirigente scolastico, poi Cultore della Materia presso il DISFOR di Genova, svolge attività di ricerca e formazione in campo socio-pedagogico non ancora rassegnato all’impermeabilità degli apparati educativi, occupandosi soprattutto di letto-scrittura, “compiti” della scuola, pedagogie implicite. Ha pubblicato diversi articoli su importanti riviste italiane di pedagogia e didattica, e alcuni saggi, tra i quali: Basta compiti! Non è così che si impara (2012), Non ho parole. Analfabetismo funzionale e analfabetismo pedagogico (2018), Così impari. Per una scuola senza compiti (2018).
La scuola esiste in quanto servizio regolato dalle norme ispirate al dettato Costituzionale che sancisce il diritto all’istruzione per tutti e l’impegno dello Stato a garantire la rimozione di qualsiasi impedimento al pieno sviluppo del percorso formativo. C’è però il rischio che l’istituzione possa essere, nel tempo, inquinata da logiche d’apparato: un blocco di regole, abitudini, routine che tende a sclerotizzare le pratiche didattiche e organizzative al punto da renderla impermeabile alla ricerca scientifica, all’innovazione pedagogica, alle stesse “Indicazioni” programmatiche nazionali. Fenomeni gravissimi – come lo sono quelli della dispersione, dell’analfabetismo funzionale o del malessere di studenti, docenti e dirigenti – che non possono essere ignorati o trascurati pena il fallimento del sistema. L’alternativa, imprescindibile e indifferibile, necessita di un rovesciamento del paradigma fondamentale che riporti all’ispirazione originaria: è la scuola al servizio dello studente e non lo studente al servizio della scuola. Porre lo studente al centro significa liberarlo da ogni paura, motivare significativamente le attività, farne occasione di gioia condivisa da una comunità di soggetti che non sono in competizione, che non appaiano tra loro antagonisti; significa dare spazio alla sua esperienza, valore ai suoi sentimenti, sostegno alla sua ricerca. Il libro di Maurizio Parodi ha il coraggio di sviluppare una riflessione “spregiudicata” sui modi di essere della scuola, sulle sue procedure, sul senso della sua organizzazione, affaticata se non sfinita, e ha il merito di proporre “ricostituenti pedagogici” concretamente operativi.
MAURIZIO PARODI
LA SCUOLA È SFINITA
Ricostituenti pedagogici
ISBN 978-88-6153-921-1
Prefazione di Gabriella Falcicchio Euro 15,00 (I.i.)
Maurizio Parodi
La scuola è sfinita Ricostituenti pedagogici Prefazione di Gabriella Falcicchio
Un vero viaggio di scoperta non è cercare nuove terre ma avere nuovi occhi Marcel Proust
INDICE Prefazione di Gabriella Falcicchio
9
Stare al proprio posto
13
Colpa degli studenti
35
Son tutti uguali
61
Vietato sbagliare
83
Fuori il digitale
107
Cambiare sistema
129
Meglio di così
151
Appendice
175
Bibliografia
179
Prefazione
di Gabriella Falcicchio
Dopo la “scoperta del bambino” nell’Ottocento, le narrazioni sulla scuola si sono moltiplicate in modo esponenziale. L’area di studio, che occupa il dibattito tanto socio-politico quanto specialistico, sconfina nella letteratura per l’infanzia: Pinocchio è il principe dei racconti sulla scuola, come, in modi opposti, Cuore e Pippi Calzelunghe, che del sottrarsi alla scuola fa l’emblema dell’autodeterminazione – più che mai negata oggi – dei piccoli. La scuola è onnipresente: da Domenico Starnone a Paola Mastrocola, da L’attimo fuggente a Notte prima degli esami, essa si attesta come presenza costante e pervasiva delle esistenze. E lo è davvero. Pur dentro un’effervescenza di contributi anche contraddittori, come è giusto in una democrazia, e in una pluralità di scritture che vanno dalla difesa ad oltranza di un modello in cui ben pochi si riconoscono (nozionistico, astratto, sostanzialmente autoritario) sino alla critica radicale dello svuotamento di significati in cui le nuove generazioni non si riconoscono, la scuola è e c’è. Il Novecento ha visto esplodere pratiche, esperienze e sperimentazioni, visioni e ispirazioni che offrono un enorme patrimonio cui attingere per rigenerare questo monumento sociale che presenta segni – tanto profondi quanto misteriosamente poco percepiti – di malattia degenerativa. Dopo Maria Montessori e John Dewey che scavallano il secolo, Celestin Freinet, don Lorenzo Milani, Danilo Dolci, Paulo Freire, Ivan Illich, Mario Lodi e tanti altri fino ad arrivare alla freschezza di Malala Yousafzai e Greta Thunberg, hanno saputo lucidamente additare i mali e l’intensa bellezza di questo gigante e percorrere vie creative. Il pano9
rama è ricchissimo, soprattutto se vi si aggiunge la ricerca accademica. In tutto questo zampillare di riflessioni e proposte, emerge dunque che la scuola è e resta importante nella costruzione biografica di ogni cittadina e cittadino del nostro tempo, così importante da lasciare cicatrici indelebili o regalare relazioni umane inestimabili. Al cospetto di questa centralità, nel bene e nel male, altrettanto cruciale diventa, sulla scorta del patrimonio succitato, affinare lo sguardo per osservare le dinamiche reali e complesse che vi si dipanano. Il suo tratto più marcato, ovvero essere un’istituzione pubblica regolata dalle norme dello Stato, fa della scuola un’entità tanto presente quanto paradossalmente “invisibile”. Sta lì, quasi fosse un dato naturale e per questo è percepita come fondamentalmente immodificabile, imponente e fissa, un monoblocco di regole, abitudini, routine, spazi e tempi definiti da decenni (quando non da secoli), strutturazioni relazionali, modalità di interazione, scopi e mezzi definiti una volta per tutte e in effetti talmente radicati da restare impermeabili tanto alle scoperte scientifiche, che all’azione individuale ed eroica di qualche “pecora nera”. In altre parole, la scuola si dà come “sistema” in cui le perturbazioni critiche e innovative, che si tratti di riforme leggere o di proposte rivoluzionarie, vengono riassorbite entropicamente e ricondotte all’esistente. Non si tratterebbe di un problema gravissimo (quello del mancato cambiamento) se la scuola così com’è non fosse direttamente coinvolta in processi molto allarmanti, che per una attitudine diffusa alle scorciatoie cognitive si tende a sminuire, a non vedere e a respingere difensivamente. Pur tuttavia non si può continuare a ignorare i dati pluridecennali su abbandono e dispersione, i più recenti ma ormai ben noti dati sui NEET, oltre che l’ampia letteratura che dimostra senza particolari dubbi quanto la scuola sia un fattore determinante nell’emergere e/o nell’aggravarsi di sofferenza psichica, in forma di disagio, depressione, ansia, autolesio10
nismo fino a sfociare in vera e propria malattia e in condotte suicidarie. Non si tratta di aspetti decorativi dell’esistenza di chi li vive – e i numeri sono spaventosamente alti, a urlare che non si tratta di casi singoli di fragilità – ma di un nucleo intorno a cui si definiscono le sorti a lungo termine di un essere umano. Peraltro i livelli di burnout delle e degli insegnanti, su cui purtroppo non ci sono dati sufficienti e che rappresenta un problema serissimo e molto sottostimato, sono elementi altrettanto allarmanti, di cui prendere coscienza e da mettere in relazione con il malessere di bambini e ragazzi (aggiungerei anche dei genitori). La scuola non è un’isola felice abitata da esseri entusiasti di imparare e grati per le grandi occasioni che ricevono. Se qualcuno è felice dentro la scuola è per incontri accidentali e non in virtù del virtuoso funzionamento del sistema e quindi non fa testo, oppure per la capacità tutta infantile di raccogliere e far crescere il bene, nonostante e non grazie alla scuola. Per addivenire a questa amara consapevolezza bisogna dismettere l’habitus alla cecità difensiva, mettere tra parentesi gli automatismi delle routine che occludono lo sguardo e impediscono l’ascolto profondo del malessere. Uscire dalla logica mortifera del senso di colpa e attraversare il dolore della scoperta. Bisogna nutrire la capacità adulta di lasciar cadere l’illusione senza tuttavia perdere l’incanto, finirla con le idealizzazioni e toccare con mano la callosità dell’esperienza. Il libro di Maurizio Parodi ha il coraggio di mettere a soqquadro calme certezze e abitudini consolatorie. Da acuto analista che ha abitato la scuola lungamente, strappa i vestiti sgualciti e sporchi di questo gigante malato, con energia da chirurgo entra nella ferita purulenta, ne osserva lucidamente l’infezione e la ripulisce con precisione, sapendo che, solo attraversando questo dolore acuto, la necrosi potrà guarire e il gigante cominciare una nuova stagione di vita. 11
STARE AL PROPRIO POSTO Ho da sempre avuto il sospetto che “addestrare a star seduti” sia la funzione sostanziale di ogni esperienza scolastica Silvano Agosti
Della scuola si parla e si scrive continuamente, per i motivi più disparati, ma è raro che ci si interroghi sulla sua ragion d’essere, sulla filosofia che sottende, sulla visione del mondo che di per se stessa infonde nelle menti degli individui e nelle mentalità dei popoli. Una disattenzione tanto più sorprendente, considerato che l’umanità si va sempre più scolarizzando: la scuola cresce, si propaga raggiungendo gli angoli più remoti del pianeta, superando confini geografici, politici, religiosi, etnici, e imponendo uno stile di vita, personale e collettivo, sostanzialmente uniforme a comunità per altri, importanti aspetti (organizzazione sociale, tradizioni culturali, credo politico e religioso) irriducibilmente diverse, talvolta incompatibili, quando non addirittura avverse. La scolarizzazione sta diventando un fenomeno mondiale, nel senso che tende al coinvolgimento dell’intera umanità: chi non ne è interessato oggi, “non lo è ancora” e lo sarà domani. Aumenta progressivamente il numero degli individui scolarizzati e, contestualmente, aumenta il tempo che gli individui trascorrono a scuola: si protrae la scolarità obbligatoria; la giornata scolastica si fa sempre più lunga; cresce il numero di coloro che proseguono gli studi oltre l’obbligo. Le scuole non dipendono più dall’ideologia professata da un governo o da una particolare organizzazione di mer13
cato. Altre istituzioni-base possono essere diverse da un paese all’altro, come la famiglia, il partito, la chiesa o la stampa; ma il sistema scolastico ha dappertutto la stessa struttura e dappertutto il suo programma occulto produce gli stessi effetti. (Illich 1970, p. 112)
Non interessa qui approfondire il “programma occulto” di cui parla Ivan Illich, quanto sostenere la necessità di una riflessione “spregiudicata” sui modi di essere della scuola, sulle logiche che ne informano le procedure, sul senso delle formule organizzative adottate. La stessa realtà della scuola potrebbe allora apparirci ben diversa dall’immagine che ne abbiamo, o meglio, potremmo avere della scuola immagini ben diverse da quella più diffusa, se la osservassimo con “sguardo antropologico”. Siamo abituati a pensare la scuola come una necessità storica, una fatalità istituzionale o, addirittura, un fenomeno “naturale”, alla stregua dei processi biologici di crescita degli organismi: al tempo stabilito, la famiglia consegna i piccoli alla scuola, che provvede alla loro iniziazione mediante rituali indiscussi, dove rimarranno diverse ore al giorno, per almeno dieci anni. Molta parte della loro vita. È nell’ordine delle cose, un evento ineluttabile, un fatto normale: l’istruzione e la formazione sono la scuola. Invece così non è (per sovrumana determinazione) e ben altro potrebbe essere; già oggi l’informatica, la telematica e, più in generale, le tecnologie multimediali prefigurano alternative anche radicali all’istruzione scolastica. La scuola è un prodotto storico, non si può assolutizzarne la struttura e il funzionamento; è invece sensato, anzi, necessario, cercare di capirne la filosofia, l’ammaestramento profondo. Le pratiche d’insegnamento e apprendimento, spiega Sergio Manghi (2004), non sono fatte di innocue tecniche strumentali, con neutre funzioni ancillari rispetto ai fatidici “contenuti” scientifici, letterari, storici o morali. Sono fatte di idee, tutt’altro che neutre e innocue. Configurano moda14
lità storiche di strutturazione dei contesti di apprendimento. Attraverso tali pratiche – e relative tecniche – si esprimono e si riproducono consolidate abitudini di pensiero, forme del pensare largamente inconsapevoli. Si esprimono e riproducono sofisticate epistemologie. Ovvero insiemi di idee precise intorno alla natura del mondo in cui viviamo e intorno al modo in cui viviamo in esso. Intorno, anche, alla natura dei contesti educativi. Idee che per essere affidate a forme largamente inconsapevoli del pensare – abiti percettivi, credenze condivise, rappresentazioni sociali di natura simbolica, metaforica, estetica – possiedono un’efficacia formativa prodigiosa. A ben vedere, la scuola appare sempre più un apparato-guscio o il guscio, svuotato, di un apparato nel quale dell’originaria funzione resta solo la finzione, sempre più insostenibile e screditata, che si risolve nella custodia e nel culto dei miti, dei feticci e dei riti più profondamente radicati o incistati: quando la sostanza del proprio mandato venga meno o sia palesemente tradita, a un’istituzione incapace di rinnovamento non rimane che concentrarsi sull’apparenza, enfatizzando la forma (talvolta grottesca) delle sembianze primitive: il mito dell’insegnamento cattedratico e verboso, il feticcio del libro di testo, il rito del compito a casa. Accade alla scuola ciò che per Adorno è accaduto all’arte: “Nulla riguardo (ad essa) è più ovvio; ovvio non è nemmeno il suo diritto all’esistenza” (Adorno 1973, p. 7). Paradossalmente, alla perdita degli scopi costitutivi si cerca di ovviare estendendo lo “spazio sociale” occupato dalla scuola: prolungamento dell’orario scolastico e del periodo di scolarità obbligatoria, cui si aggiunge la colonizzazione del tempo libero. Un’istituzione totale – spiega Goffman – può essere definita come il luogo di residenza e di lavoro di gruppi di persone che – tagliate fuori dalla società per un conside15
revole periodo di tempo – si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato. Prenderemo come esempio esplicativo le prigioni nella misura in cui il loro carattere più tipico è riscontrabile anche in istituzioni i cui membri non hanno violato alcuna legge. (Goffman 2010, p. 29)
La scuola non è un’istituzione totale (non lo è totalmente) ma presenta indubbie analogie. Ogni istituzione si impadronisce di parte del tempo e degli interessi di coloro che da essa dipendono, offrendo in cambio un particolare tipo di mondo: il che significa che tende a circuire i suoi componenti in una sorta di azione inglobante. Nella nostra società occidentale ci sono tipi diversi di istituzioni, alcune delle quali agiscono con un potere inglobante – seppur discontinuo – più penetrante di altre. Questo carattere inglobante o totale è simbolizzato nell’impedimento allo scambio sociale e all’uscita verso il mondo esterno, spesso concretamente fondato nelle stesse strutture fisiche dell’istituzione. (Ivi, pp. 3334)
Palese, il “carattere inglobante” della scuola. Si “impadronisce” degli studenti, del loro tempo, delle loro energie, della loro vita, alla stregua di un sequestro iniziatico, legalizzato, con la reclusione, prolungata, nelle ore e negli anni, in uno spazio altro, nel quale potranno contare solo sulle proprie forze, per ri-uscire. Quando iniziano a frequentare la scuola, i bambini sono sottratti all’universo palpitante degli interessi, delle curiosità, dei problemi autentici (ma anche dai bisogni indotti dalla precoce esposizione al plagio mediatico e dalle convenienze-convenzioni-convinzioni propri dell’ambiente di provenienza) e segregati in un ambiente sterilizzato o che vorrebbe essere tale; uno spazio emotivamente controllato, quando non asfittico, e cognitivamente angusto, protetto da schermi invisibili, eretti da annose consuetudini pseudodi16
dattiche e incardinati in un sistema di regole ferree quanto inconsistenti; un corpo separato dal territorio, dal quotidiano, che non ha ponti verso l’esterno e nemmeno al suo interno (tra studente e studente, tra classe e classe...); una sorta di satellite artificiale della società nel quale sono relegati gli individui per un addestramento all’esistenza invero estraniante che rifugge la “realtà”: si vive una simulazione distorta, una virtualità asettica, dove tutto, o quasi tutto, è artificioso, fasullo, al più verosimile. Valori e relazioni tipiche del mondo esterno alla scuola non vi devono penetrare: dalla relazione d’amore, al gioco, al denaro, ad esempio, non devono costituire oggetti di valore e di scambio nella scuola che deve costituire una “fortezza” di fronte alle aggressioni esterne. I “riti scolastici”, l’organizzazione del tempo e dello spazio, la disciplina, le regole, la fiducia positiva nell’autorità, gli atteggiamenti corporei e i movimenti previsti scandiscono e accompagnano l’ingresso e la permanenza per una fase della vita di ognuno in un mondo diverso, a parte. L’attenzione deve essere deviata dai mille accidenti quotidiani, esser posta sui momenti rituali e sulle consegne. (Cavinato 1991, p. 118)
Secondo Foucault (1976) la scuola è il “dispositivo” che gestisce i corpi e le menti degli educandi attraverso ordinamenti organizzativi, spaziali, temporali, regolamenti specifici, rapporti interpersonali formalizzati. Così come avviene per il soldato nell’esercito e per l’operaio nella fabbrica, anche per lo scolaro esiste una fase di iniziazione, un insieme di procedure da seguire; vi sono risultati da ottenere, esami da superare. La scuola si configura come una struttura disciplinare e di addestramento fondata sulla regolamentazione spazio-temporale delle attività stabilite: il posto assegnato (così che si impari a “stare al proprio posto”), la cattedra contrapposta al banco, il rapporto di dominio tra insegnante e studente, l’economia dei tempi di apprendimento e di ricreazione, la categorizzazione e l’unificazione 17
di allievi con lo stesso livello di competenze, la ripartizione di valori e meriti, l’esame e la valutazione con i rispettivi premi e castighi. Il “sistema” scolastico si caratterizza per la durezza e l’impersonalità degli spazi, dei tempi e dei metodi, come nelle caserme, dalle quali è mutuato il principio (“pedagogico”) dell’uniformità, dell’indistinzione (tutti devono imparare la stessa cosa, contemporaneamente e nello stesso modo), e persino il lessico (militare). (Parodi 2018, p. 160)
Nel Settecento le scuole erano progettate come luoghi chiusi, specifici, separati, organizzati in modo da controllare adulti e bambini, specializzati per migliorare la “produttività” del lavoro, concepiti in funzione di un preciso ordine gerarchico riconosciuto e riconoscibile, di una precisa disciplina, di una scansione serrata di attività: a questi criteri si è conformata, per lungo tempo, l’architettura, la suddivisione e l’organizzazione dello spazio degli edifici che contenevano istituzioni educative; ma, ancora oggi, quello scolastico è uno spazio rigidamente strutturato, organizzato in aule (in)comunicanti e corridoi costruiti, come le caserme, per dividere, dall’esterno e all’interno, secondo una logica di tipo concentrazionario che evidenzia la mancanza di riguardo per l’attività autonoma dello studente, o, peggio, la volontà “generale” di costringerlo alla perenne dipendenza dall’adulto. Scuola come luogo del dovere e della socializzazione forzata, che privilegia l’attività di insegnamento rispetto a quelle creative ed espressive; dove i prodotti (disegni, scritti, parole) sono usati anche “contro di me” o per innalzare gerarchie; dove non c’è spazio per l’amicizia; dove anche il movimento e il gioco vengono imbrigliati in attività preordinate. È questa la scuola in cui lavoriamo? Davvero ci stiamo bene noi adulti per primi? Non sentiamo il peso della sottile, continua imposizione sui bambini tra i quali i perdenti soffrono maggiormente per non riuscire a stare al passo con gli altri (immagine tipicamente militaresca)? 18
Se proviamo disagi del genere, suggerisce Grazia Honneger Fresco (1990, p. 30), allora è tempo di cambiare, cercando di creare un ambiente nel quale l’impegno individuale si coniughi con la crescita collettiva; se, invece, una tale condizione non desta alcun imbarazzo possiamo decidere di continuare serenamente a far del male agli studenti che ci sono affidati oppure compiere un atto di carità nei loro confronti e cambiare mestiere. La scuola è violenta quando biasima, addirittura irride i disturbi cosiddetti psicosomatici che spesso accusano bambini e ragazzi in relazione alla frequenza scolastica: le nausee, i mal di pancia o di testa che accompagnano particolari obblighi, eventi o che, peggio ancora, si manifestano in presenza di “particolari” docenti. Fenomeni (sintomi, in senso molto esteso… e profondo) che dovrebbero suscitare sconcerto e preoccupazione sono invece guardati, dall’adulto, con sufficienza o riprovazione (più o meno indulgente), quasi si trattasse di piccoli, veniali inganni per sottrarsi a un dovere del quale si condivide la sgradevolezza. Eppure si tratta di bambini o ragazzi che inventano una malattia pur di sfuggire la penosa incombenza (scolastica) o che si ammalano davvero: il corpo si punisce per evitare punizioni peggiori, l’organismo infligge a se stesso un male che lo preserva da un male peggiore (… a proposito dello star bene a scuola). Irridere, ancorché bonariamente, la sofferenza di un bambino che “rigetta” fisicamente l’impegno scolastico (“cosa non farebbe pur di non andare a scuola”) è indecente, ma accade spesso – non c’è nulla di comico nella condizione di uno studente che vomita il proprio disgusto per la vita (scolastica). Dice un proverbio africano che per crescere un bambino ci vuole un villaggio intero. “Villaggio” è un luogo fisico familiare in cui i piccoli umani possono muoversi autonomamente, in assenza di “controllori” e incontrare altre persone, coetanei e adulti; ma è anche una rete sufficientemente sicura di relazioni significative tra persone solidali. 19
Sarebbe illusorio o ipocrita (ancorché consolatorio) credere che a questo compito possano attendere le sole “strutture” a esso istituzionalmente deputate: la famiglia, la scuola, la parrocchia, la palestra… Quando si esce da questi spazi, cintati o chiusi, protettivi sino all’asfissia esistenziale, che cosa si trova? Per molti bambini e ragazzi, la città: magmatica, pulsante, frenetica, vitale; percepita, spesso, solo come una sequenza di immagini, quelle che scorrono sui finestrini di un veicolo in movimento, di luoghi in realtà sconosciuti, giacché la rapida “carrellata” quotidiana ne offre una visione asettica e parziale (televisiva, appunto); magari sgradevoli, perché rumorosi, affollati, squallidi; forse anche pericolosi, causa il traffico e le insidie evocate da presenze minacciose e inquietanti. È, d’altra parte, assurdo pensare che la famiglia e la scuola preparino alla vita (urbana) segregando gli individui, nel periodo più intensamente formativo della loro esistenza, in spazi di contenimento dai quali si esce, per passare dall’uno all’altro, solo se scortati. Eppure è ciò che accade, non ovunque, ma alla maggior parte dei bambini. Dove il paesaggio urbano si è assimilato a modelli di città chiusa, spersonalizzata, dove più forte è stata l’utilizzazione intensiva del territorio, a discapito degli spazi liberi, magari anche abbandonati, si sono dilatate le paure degli adulti, è venuto meno il senso di solidarietà sociale, si è ridotta l’autonomia dei bambini. Lo spazio “esterno” è vissuto come qualcosa di puramente strumentale, un tragitto da coprire per andare da un luogo all’altro (un non luogo). La città è degli adulti, non di tutti, naturalmente, di quelli che lavorano, producono e consumano, quelli che si muovono con l’auto, che sono autosufficienti, che sanno orientarsi; mentre diviene un luogo ostile per le cosiddette fasce deboli, gli anziani, i malati, i poveri, i marginali, i bambini; cittadini essi stessi, ancor più bisognosi di luoghi accessibili, sicuri, accoglienti, eppure sprovvisti di “cittadinanza” e costretti a vivere da stranieri in casa propria. 20
COLPA DEGLI STUDENTI Ognuno è un genio, ma se si giudica un pesce dalla capacità di arrampicarsi sugli alberi passerà tutta la vita a credersi uno stupido Albert Einstein
Far finta di essere sani è il titolo di uno spettacolo, e dell’album corrispondente, messo in scena da Giorgio Gaber parecchi anni or sono, nel quale si svela e denuncia la finzione della normalità, l’inconsistenza delle nostre (false) sicurezze, l’assurdità delle convinzioni e delle convenzioni più diffuse e radicate, l’aberrazione del senso comune: era l’epoca della “maggioranza deviante” e dei “crimini di pace” denunciati da Franco Basaglia. I tempi sono molto cambiati, non sempre in meglio, ma il “sistema” continua a riprodurre le dinamiche che ne perpetuano l’assetto, anche le meno evolutive, persino le più deteriori, aggravandone, semmai, l’intensità e così gli effetti nefasti. La scuola non si sottrae ai medesimi processi (degenerativi), si potrebbe anzi dire che ne rappresenti il parossismo: fa finta di essere sana, si crede sana (malati sono semmai gli studenti che non riescono) ma, al contrario, versa in condizioni gravissime. È sfinita, nonostante si cerchi in ogni modo di protrarne l’esistenza con interventi che ne estendono, pervasivamente, le propaggini sociali, sino a colonizzare l’intera vita degli studenti e delle loro famiglie. I sintomi sono evidenti e inquietanti, anche se non si può e non si vuole vederli (eppure il mal di scuola è sempre più diffuso, profondo, manifesto). 35
Alcuni riscontri. Nel nostro mondo, che rivendica con orgoglio, addirittura sprezzante, il primato della civiltà, si va intensificando la domanda d’intervento specialistico per bambini che, pur non avendo alcun tipo di patologia, né fisica né psichica, soffrono di un evidente disagio; “quelli che” hanno problemi di comportamento e difficoltà di relazione con i compagni e i docenti. I segni sono ormai tipici: irrequietezza, aumento dei disturbi psicosomatici, allergie, problemi dermatologici, grandi fragilità fisiche. Il disagio si esprime attraverso il corpo, poi interessa il sonno e l’alimentazione. Se è vero che le cause profonde del malessere sono da ricercare nelle prime fondamentali esperienze di vita, nelle relazioni che si instaurano originariamente all’interno della famiglia, rispetto alle quali le possibilità di intervento appaiono davvero molto limitate, allora la scuola può rappresentare una valida opportunità (per molti bambini la sola) di “recupero” dalla deriva esistenziale, di sperimentazione di nuove dimensioni del proprio essere, di ricostruzione di relazioni rassicuranti ed espansive. La scuola è, infatti, il luogo dove il disagio può essere riconosciuto, elaborato, perché il bambino è distante dalle sofferenze che hanno generato il problema, pertanto nella condizione di potersi affrancare dai vincoli relazionali cui è funzionalmente connesso il “sintomo”, e i docenti sono totalmente estranei alle dinamiche patogene di cui egli è vittima (dinamiche che, per altro, il bambino può essere portato a riprodurre coattivamente), dunque nella posizione migliore per poterlo affrontare, proponendo alternative praticabili ai malsani “equilibri” affettivi e sociali sin lì esperiti. Potrebbe essere così, se la scuola non fosse essa stessa fonte di disagio. I “programmi” scolastici enfatizzano, a ragione, l’impegno ad accogliere bambini e ragazzi con garbo e intelligenza, a riconoscerne bisogni e aspettative, a valorizzare 36
le diversità. Nell’ambito dei progetti sull’“educazione alla salute”, intesa come prevenzione del disagio, si moltiplicano le iniziative tese a promuovere condizioni di benessere, a favorire l’accoglienza e qualificare il clima scolastico. Ciò non di meno quello del “disadattamento scolastico”, una peculiare forma di inadeguatezza che si assomma ad altre vissute precedentemente, procurando ulteriori occasioni di sofferenza e frustrazione, è un problema sempre più grave e allarmante. La scuola, lo si è detto, non può essere esente da responsabilità, deve perciò interrogarsi sulle ragioni di un fenomeno che appare endemico, analizzando con attenzione e rigore il proprio modo di essere e di porsi, tanto nella forma istituzionale e organizzativa quanto nella sostanza relazionale e didattica. Evidentemente la nostra scuola è troppo sbilanciata verso una logica della prestazione che, tra l’altro, tende a confondere il virtuosismo servile con la qualità degli apprendimenti. I pur lodevoli progetti di “accoglienza e inclusione” sono destinati al fallimento proprio per il carattere di “alterità” rispetto agli impegni ordinari, in tal modo confermati nei loro tratti costitutivi: gli uni legittimano, di fatto e di diritto, gli altri. Proprio perché al benessere degli studenti sono finalizzate specifiche iniziative, extracurricolari, non v’è motivo di rimettere in discussione gli insegnamenti tradizionalmente più accreditati, quelli riferiti alle materie curricolari. La dimensione emotiva e affettiva dell’apprendimento (così come la percezione e l’attribuzione di “senso”) è in tal modo consegnata a esperienze “separate” e marginali, tutt’al più relegata nello spazio, spesso angusto, delle “educazioni”, quando invece dovrebbe essere restituita alla normalità dell’insegnamento, permeare le routine quotidiane del setting scolastico, rientrare nelle attribuzioni di tutti i docenti, e non solo dei pochi designati (con delega esclusiva), perché coessenziale alla loro funzione. 37
Il disadattamento è sintomo di un malessere profondo, è la risposta, l’unica possibile per quello studente, date le richieste che la scuola gli rivolge e le risorse (inadeguate) di cui dispone, a una situazione vissuta come estranea, intollerante, opposta ai propri bisogni e desideri. Non è quindi il risultato del fallimento dell’individuo, anche se vi concorre decisivamente, ma la testimonianza, drammatica, del fallimento della scuola: è la scuola che non compie il proprio dovere, che non svolge il compito (a essa affidato dalla comunità), che non fa proprio ciò per cui esiste. Pare che nella scuola, italiana, siano in vertiginoso aumento diagnosi e certificazioni: bisogni educativi speciali, disturbi specifici di apprendimento, disordine dell’attenzione... Un fenomeno inquietante, che dovrebbe allarmare e suggerire riflessioni non più differibili, a cominciare da un interrogativo di elementare buon senso: possibile che con il passare del tempo, storico, i bambini e i ragazzi siano sempre meno “adattabili”, sempre meno “adatti”? Bene, anzi benissimo che si adottino strumenti compensativi e si valorizzino le diverse intelligenze nei modi più appropriati, ma siamo sicuri che la certificazione dei problemi di apprendimento non sia il modo più comodo, per la scuola, di non mettersi in discussione, di perpetuare logiche e pratiche non “adatte” o “adattabili”? Davvero siamo convinti che la medicalizzazione del disagio non denunci una forma di “irresponsabilità” professionale e di autoreferenzialità istituzionale? Il sospetto, terribile, è che l’apparato funzioni secondo principi più o meno inconsapevoli o inconfessabili che potrebbero essere all’origine dei disturbi lamentati. Basti pensare alla pretesa che tutti gli studenti di una classe (25 menti, 25 corpi, 25 cuori diversissimi) imparino la stessa cosa, nello stesso modo, nello stesso tempo. Difficile che non si manifestino diversità più o meno esplicitamente stigmatizzate. 38
Ma si tratta di un problema degli studenti o di un problema, di una responsabilità, gravissima, della scuola? Il serio pericolo è che chi non possa o non riesca ad adattarsi sia considerato “anormale”, etichettato, separato e magari “respinto”. Un autentico paradosso, considerato che la scuola non dovrebbe emarginare chi è diverso, chi non sa, chi non riesce, chi non ha voglia di sapere, riconoscendo, anzi, tutti questi come suoi problemi, come l’oggetto stesso del proprio operare, e non come ostacoli al suo ordinato svolgimento. La scuola soffre drammaticamente l’incapacità storica di porsi come variabile indipendente nel processo di crescita culturale della persona che in tal modo risulta prefigurato (determinato) dalla situazione di partenza, accertata “in ingresso”, magari con l’ausilio di prove oggettive (preformate e uniformi) che hanno l’effetto paradossale di legittimare “scientificamente” gli esiti, fallimenti compresi. Così si continua, nonostante il fervido impegno degli insegnanti migliori (uomini e, soprattutto, donne di forte volontà, profonda sensibilità e alto ingegno, totalmente disconosciuti) a promuovere chi sia già avvantaggiato per reddito, cultura, latitudine, cure parentali, e respingere chi sia già vittima della povertà, dell’ignoranza, del degrado affettivo e sociale: non è capace di attuare interventi compensativi (dare di più a chi ha di meno), ma neppure di garantire pari trattamento (dare a tutti in parti uguali); si realizza, piuttosto, il paradosso di un servizio rivolto soprattutto a chi non ne ha particolare necessità (e più ne approfitta). Una scuola che fa parti uguali tra diversi, insegna Lorenzo Milani (1967), non è una scuola democratica. Ma una scuola che offra maggiori opportunità a chi sia già privilegiato e che tolga (dignità, autostima, possibilità di riscatto) a chi abbia di meno è una scuola profondamente antidemocratica (per giunta, obbligatoria). 39
Maurizio Parodi
LA SCUOLA È SFINITA
Maurizio Parodi già Dirigente scolastico, poi Cultore della Materia presso il DISFOR di Genova, svolge attività di ricerca e formazione in campo socio-pedagogico non ancora rassegnato all’impermeabilità degli apparati educativi, occupandosi soprattutto di letto-scrittura, “compiti” della scuola, pedagogie implicite. Ha pubblicato diversi articoli su importanti riviste italiane di pedagogia e didattica, e alcuni saggi, tra i quali: Basta compiti! Non è così che si impara (2012), Non ho parole. Analfabetismo funzionale e analfabetismo pedagogico (2018), Così impari. Per una scuola senza compiti (2018).
La scuola esiste in quanto servizio regolato dalle norme ispirate al dettato Costituzionale che sancisce il diritto all’istruzione per tutti e l’impegno dello Stato a garantire la rimozione di qualsiasi impedimento al pieno sviluppo del percorso formativo. C’è però il rischio che l’istituzione possa essere, nel tempo, inquinata da logiche d’apparato: un blocco di regole, abitudini, routine che tende a sclerotizzare le pratiche didattiche e organizzative al punto da renderla impermeabile alla ricerca scientifica, all’innovazione pedagogica, alle stesse “Indicazioni” programmatiche nazionali. Fenomeni gravissimi – come lo sono quelli della dispersione, dell’analfabetismo funzionale o del malessere di studenti, docenti e dirigenti – che non possono essere ignorati o trascurati pena il fallimento del sistema. L’alternativa, imprescindibile e indifferibile, necessita di un rovesciamento del paradigma fondamentale che riporti all’ispirazione originaria: è la scuola al servizio dello studente e non lo studente al servizio della scuola. Porre lo studente al centro significa liberarlo da ogni paura, motivare significativamente le attività, farne occasione di gioia condivisa da una comunità di soggetti che non sono in competizione, che non appaiano tra loro antagonisti; significa dare spazio alla sua esperienza, valore ai suoi sentimenti, sostegno alla sua ricerca. Il libro di Maurizio Parodi ha il coraggio di sviluppare una riflessione “spregiudicata” sui modi di essere della scuola, sulle sue procedure, sul senso della sua organizzazione, affaticata se non sfinita, e ha il merito di proporre “ricostituenti pedagogici” concretamente operativi.
MAURIZIO PARODI
LA SCUOLA È SFINITA
Ricostituenti pedagogici
ISBN 978-88-6153-921-1
Prefazione di Gabriella Falcicchio Euro 15,00 (I.i.)