La voce a te dovuta
DONNE CON DISABILITÀ E VIOLENZA DI GENERE
Valeria Alpi
La voce a te dovuta
Donne con disabilità e violenza di genere
QUEL RAMO DEL LAGO DI… GARDA
Era il 25 aprile del 2006. Mi ricordo con esattezza che fosse il 2006 perché quell’anno, a maggio, volevo prendere un aereo per Berlino. Un mio carissimo amico si stava trasferendo in quella città, voleva farmela conoscere perché lui la amava tantissimo ed era sicuro, conoscendo i miei gusti, che anch’io l’avrei amata tantissimo. Sarebbe stata la prima volta, per me, di un viaggio aereo completamente da sola e la prima volta da turista in solitudine in una città sconosciuta. Lui, infatti, a Berlino, in quel momento, stava lavorando per cui durante il giorno avrei dovuto esplorare da sola la città e incontrarlo solo di sera.
Fino al 2001 avevo viaggiato esclusivamente in compagnia di mia madre. Per chi non mi conosce, sono nata con una disabilità motoria molto rara (nel 2002 eravamo in quattro diagnosticati in tutta Europa), per cui sono stata tenuta molto a lungo sotto “una campana di vetro”. Mia madre non si fidava a lasciarmi compiere esperienze con i miei amici, con il mio partner quando c’è stato o da sola. Quando morì, nel 2002, fu molto difficile per me, che avevo già 28 anni ma anche “solo” 28 anni, capire che potevo mettermi in gioco, con il mio corpo, i miei limiti e le mie risorse, in tutti i contesti di vita, viaggi compresi.
Dal 2003 al 2006 avevo fatto solo qualche viaggio in compagnia delle amiche e sempre in auto, con la mia auto, che per me è confortevole perché è un’auto studiata appositamente su di me, con gli adattamenti al volante per persone con disabilità motorie, con l’altezza del sedile giusta, con il baule giusto per la mia poca forza fisica, eccetera. Chi mi conosce o ha letto il mio libro A Capo Nord bisogna andare due volte, sa quanto mi piaccia guidare.
Il 2006 era dunque l’anno per sperimentarmi nel mio primo viaggio da sola di parecchi giorni: certo a Berlino avrei trovato comunque una faccia amica, ma avrei dovuto muovermi per aeroporti da sola e capire da sola come spostarmi in una città che non avevo mai visto. Sarebbe stato per me molto più rassicurante avere la mia auto a Berlino, spostarmi in città con la macchina, ma Bologna-Berlino in auto era un viaggio che all’epoca pensavo di non poter affrontare da sola (ad oggi ho fatto ben di peggio!).
Nell’aprile del 2006 stavo quindi cercando un aereo per Berlino. Ma il 25 aprile, giorno di festa per l’Italia, giorno della Liberazione dal nazi-fascismo, mi alzai con una voglia improvvisa di fare una piccola gita. Le piccole gite in giornata riuscivo a farle anche da sola. Non intendo “riuscivo a farle” in senso fisico, intendo più in senso emotivo. Insomma, non è facile per una persona con disabilità motoria chiudersi alle spalle la porta di casa e andare a esplorare il mondo, anche se si tratta di spostarsi solo di qualche chilometro. Quel 25 aprile c’era un bellissimo sole e mi venne voglia di raggiungere il lago di Garda. Desenzano del Garda, a sud del lago, guardando le mappe, distava solo poco più di un’ora da casa mia.
Arrivai a Desenzano intorno all’ora di pranzo. Trovai un enorme parcheggio vicino a un bel parco e, percorrendo un vialetto ad esso adiacente, si raggiungeva il lago. Il parco era pieno di famiglie con bambini che stavano facendo un picnic con le classiche coperte, le borse frigo, i bambini che correvano di qua e di là. Decine e decine di famiglie. Parcheggiai e iniziai col mio passo lento un po’ barcollante e il mio bastone (all’epoca mi spostavo camminando, seppure male, oggi utilizzo una carrozzina) a raggiungere la riva del lago. Quando arrivai al lago c’era la classica immagine da cartolina: un po’ di brezza, il lago con qualche piccola onda increspata, lo sbrilluccichio dell’acqua sotto il sole, il vociare dei bambini in lontananza e, appena sotto di un paio di gradini, una piccola spiaggetta con due cabine, come quelle
del mare, che servono per cambiarsi il costume o per depositare il salvagente. Le cabine erano a righe ed erano aperte: le porte, spalancate, avevano all’interno il classico chiavistello per poterle chiudere.
Mi stavo godendo il momento, felice anche di essere arrivata lì, da sola (non sapevo ancora quanti viaggi avrei poi compiuto in seguito), quando mi si avvicinò un ragazzo. Mi chiese se sapessi dirgli che ore fossero, guardai il cellulare e, sorridendogli, gli risposi, così come in genere faccio per abitudine. Inoltre in quel momento ero particolarmente felice e rilassata. Niente mi faceva pensare a quello che sarebbe successo.
Improvvisamente il ragazzo mi aggredì. Mi si avvicinò velocissimo, mi afferrò con la forza e mi immobilizzò le braccia. La sua faccia si appiccicò alla mia provò a baciarmi. Con la lingua. Io tenevo le labbra serratissime anche se lui cercava di entrare. Ero spaventata, non potevo aprire la bocca, non potevo urlare. In pochi secondi mi ricordai delle cabine sotto di noi di appena un paio di gradini, iniziai a pensare che non avrei dovuto farlo arrabbiare, che avrebbe potuto avere un coltello oppure che avrebbe potuto trascinarmi verso le cabine. Ovviamente nello scendere i gradini con lui che mi strattonava sarei caduta per via della disabilità, ma avrebbe potuto comunque trascinarmi anche da sdraiata in terra, chiudere una cabina col chiavistello e fare di tutto.
A un certo punto lui si staccò. Mi disse che gli piacevo molto. Gli dissi che non ero affatto interessata, che ero già fidanzata. Disse che non mi credeva, e non saprò mai se perché fossi lì da sola o perché disabile, quindi – agli occhi dei più – strano che fossi fidanzata. Avrei potuto urlare a quel punto, cercare di richiamare l’attenzione delle famiglie che erano al parco, ma non so se mi avrebbero sentito: c’era comunque una distanza notevole per sentire una persona chiedere aiuto insieme alle urla dei bambini che giocavano. E non volevo farlo arrabbiare.
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Lui mi aggredì di nuovo, ma quando si accorse che non ce la faceva a baciarmi come voleva, si staccò di nuovo e si allontanò di qualche passo. A quel punto, con tutta la “velocità” che avevo nelle gambe, e che comunque era una velocità ridicola per scappare da un’aggressione, mi misi a ripercorrere il vialetto in direzione della mia auto. Lui stette fermo per un po’ dietro di me, poi si mise a seguirmi, ma a distanza. Poteva raggiungermi in due secondi se avesse voluto, ma per fortuna non lo fece. Alla fine del vialetto il parcheggio aveva due diramazioni, verso sinistra e verso destra. Arrivata alla diramazione mi nascosi dietro alcuni alberi, lui si era un po’ distratto, vidi che mi cercava ma andò verso destra. La mia auto era a sinistra, a pochissimi metri da me. Salii in auto e misi in moto come nei film, girando la chiave con la paura che improvvisamente la batteria si scaricasse o che ci fosse un guasto al motore. Invece l’auto partì, io me ne andai e vidi il ragazzo dallo specchietto che si era accorto che mi stavo allontanando per sempre da lui.
Solo dopo una ventina di chilometri mi fermai e chiamai il mio amico che era a Berlino e che in quel momento stava lavorando perché quel giorno, in Germania, non era festivo. Lui si spaventò, mi chiese se fossi in un posto sicuro. Dissi di sì, che volevo solo tornare a casa e che non me la sarei più sentita di prendere un aereo da sola per Berlino e girare la città senza di lui. Se ero stata aggredita in pieno giorno, col sole, con decine di famiglie con bambini, in Italia, su un lago, in una situazione non pericolosa, figuriamoci in una metropoli come Berlino.
Nessuno dei due, in quel momento, pensò a fare una denuncia. Il mio pensiero fu solo quello di mettermi in salvo e allontanarmi il più possibile. Avrei potuto raggiungere un comando di polizia locale, fare denuncia, dire che sul lago si aggirava una persona sospetta, che avrebbe potuto aggredire altre donne… ma non lo feci.
Perché non ho denunciato? Me lo sono chiesto spesso in questi anni e, ogni volta, mi pento di non averlo fatto. Da
quando, nel 2014, ho iniziato a occuparmi di violenza alle donne con disabilità, mi sono resa conto che prima di tutto io non avevo riconosciuto questo episodio come violenza. Eppure era un atto estremamente violento contro la mia vita, al punto che mi aveva fatto rinunciare a intraprendere il viaggio verso Berlino, cui tenevo moltissimo.
Nei mesi seguenti, nella mia testa l’episodio fu liquidato con: “Evidentemente ho incontrato una persona con disturbi psichiatrici”. Anche se in quei momenti non mi aveva dato l’idea di essere una persona con un disagio.
Non riuscivo a pensare che, forse, la mia disabilità c’entrava qualcosa con tutta la questione. Aveva aggredito solo me? Se sì, mi aveva “scelta” perché disabile e quindi più facile preda? O pensava che essendo disabile sicuramente sarebbe stato difficile per me trovare un uomo e quindi mi sarei accontentata anche di lui? Mi sentivo in colpa? Sì, tanto. Una parte di me pensava, anche se non in maniera esplicita, che fosse stata colpa mia, che me la fossi andata un po’ a cercare. Insomma, sono donna, sono disabile e quindi più vulnerabile e vado in giro da sola? È ovvio, allora, che posso incontrare sia chi pensa sia più facile rubare a me una borsa o una collana, sia chi pensa sia più facile con me fare anche altro. Avevo paura di essere giudicata dalle forze dell’ordine? Sì, tanta. E per due motivi. Il primo collegato appunto all’essere da sola. Sei disabile, avresti dovuto avere con te un accompagnatore. Il secondo sull’aspetto puramente estetico. Sei disabile, davvero qualcuno voleva aggredirti sessualmente?
Quest’ultimo aspetto, poi, da quando mi occupo di violenza alle donne con disabilità, risuona dentro di me come il più potente. Perché il primo sbaglio che facciamo tutti, me compresa, è quello di ritenere la donna con disabilità non sufficientemente attraente da scatenare, appunto, la violenza maschile. L’attrazione fisica, però, sappiamo benissimo che non c’entra nulla con la violenza: la violenza riguarda dinamiche di dominio, di prevaricazione, di annullamento
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dell’altra persona, di rapporti di potere asimmetrici. Eppure, continuiamo a pensare che mentre una donna senza disabilità attira la violenza maschile con una scollatura troppo profonda o una gonna troppo corta, viceversa, la donna con disabilità non potrebbe mai attirare una violenza puramente sessuale.
Tutto ciò mi è stato anche, in qualche modo, esplicitamente detto in questi ultimi anni. Quando nel 2020 uscì il mio libro di viaggi, una giornalista mi intervistò e mi chiese proprio se non avessi paura di viaggiare da sola. Le raccontai l’episodio del lago di Garda e le dissi che non avevo più paura a viaggiare da sola, perché tanto siamo tutti più o meno “in pericolo” anche quando meno ce lo aspettiamo, come in quel giorno. Avevo ormai superato le paure, mi ero sperimentata in tante avventure e prestavo le comuni attenzioni come tutti durante i viaggi per cui, ad esempio, a Los Angeles non ero mai andata in giro di sera da sola, avevo preferito girarla solo di giorno frequentando luoghi molto affollati di turisti. Fu una piacevole chiacchierata con lei, ma quando uscì l’articolo vidi che aveva travisato le mie parole, inserendo evidentemente un suo giudizio. Nell’articolo scriveva che mi ero stupita molto dell’aggressione al lago perché, in generale, non mi sentivo mai in pericolo a viaggiare da sola in quanto disabile e quindi donna non immediatamente attraente a uno sguardo esterno. Non avevo mai detto una cosa del genere. Avevo detto esattamente l’opposto: che siamo tutti e tutte “in pericolo” di furti o aggressioni in viaggio, anche nelle nostre città di residenza. Lei però aveva messo in atto il pensiero comune. Un paio di anni dopo, a una presentazione in pubblico del mio libro, una signora mi disse che lei non se la sentiva di viaggiare da sola. Cominciai a dirle che non c’era nulla di male a non sentirsela, che io non ero più coraggiosa di altre persone, semplicemente era nelle mie risorse emotive farlo. Lei rispose: “No, non hai capito. Io non potrei mai viaggiare da sola e il motivo è perché sono bella!”. Mi disse che col suo
seno prosperoso attirava sempre gli sguardi degli uomini e quindi, in un viaggio da sola, sarebbe stata sicuramente aggredita, “mentre – mi disse – tu puoi viaggiare da sola perché stai tranquilla”. Che risuona un po’ come “tu non sei bella, non attiri gli sguardi maschili quindi in viaggio da sola non hai preoccupazioni”. Lei non sapeva del lago di Garda, ma mi aveva completamente esclusa da un possibile episodio del genere.
Non vi sembrano un po’ forme di violenza anche le parole della giornalista e della signora? Provenienti da donne peraltro. Le avrebbero pronunciate o scritte anche se io non avessi avuto una disabilità?
QUANDO L’ORCO ASSOMIGLIA
A BABBO NATALE
Solo qualche anno fa capitò un episodio che mise in crisi e mette tuttora in crisi il mio essere donna con disabilità e il mio lavoro. Sono una giornalista e nel 2005 iniziai a occuparmi, tramite interviste e lavori di ricerca, di maternità delle donne con disabilità motoria e, negli anni seguenti, sensoriale. Iniziai a scrivere di tante tematiche legate alla sessualità delle persone disabili, partecipai anche a una lunga ricerca sociale su disabilità e omosessualità. Sono stata tra i co-autori di un documentario sulla sessualità delle persone disabili e, dal 2014, come detto, ho iniziato a occuparmi anche di violenza alle donne con disabilità1. Per cui, qualche anno fa, avevo già molta esperienza sul tema, e molta esperienza con la disabilità, oltre la mia, e con il mondo degli educatori, degli insegnanti, delle famiglie, eccetera. Eppure…
Dove lavoro, al Centro Documentazione Handicap di Bologna, ci sono tanti colleghi con disabilità, alcune sono disabilità multiple, che uniscono deficit motori a deficit in-
1 Cfr. “Mamme. Nessun aggettivo dopo il punto. Madri disabili: percorsi di adeguamento di sé tra difficoltà e soluzioni”, a cura di Valeria Alpi, numero monografico della rivista “HP-Accaparlante”, Erickson, 2005; “Ti sento, ti tocco, ti vedo, tu lo sai. Percorsi di maternità per le donne non vedenti”, a cura di Valeria Alpi, “HP-Accaparlante”, Erickson, 2010; “Uno più uno non sempre fa due. Handicap, sessualità, omosessualità”, a cura di Valeria Alpi, “HP-Accaparlante”, Erickson, 2007; “Sesso, Amore & Disabilità”, documentario con la regia di Adriano Silanus e la supervisione scientifica di Priscilla Berardi, 2012; “Il corpo degli altri. Sessualità e disabilità: immagini e nuove prospettive”, a cura di Valeria Alpi, “HP-Accaparlante”, Erickson, 2013; “La vie en rose. Donne con disabilità: inventare e gestire percorsi di uscita dalla violenza”, “HP-Accaparlante”, a cura di Martina Gerosa, Giovanna Di Pasquale e Valeria Alpi, edizioni Quintadicopertina, 2015. Tutto il materiale è visionabile alla Biblioteca del Centro Documentazione Handicap di Bologna, le monografie sono anche online all’indirizzo https://archivio.accaparlante.it.
tellettivi. Alcuni dei miei colleghi usufruiscono di un servizio di trasporto al lavoro con furgone attrezzato all’accesso di carrozzine. Uno degli autisti assomigliava a Babbo Natale ed era sempre molto gentile con me, quando accompagnava qualcuno passava davanti alla porta del mio ufficio e mi salutava, io ricambiavo con entusiasmo perché la somiglianza con Babbo Natale mi faceva estrema tenerezza. Per anni è andata avanti in questo modo finché un giorno non lo vidi più. Lì per lì non ci pensai, insomma capita che magari una persona sia in ferie o abbia preso un periodo di malattia. Però il tempo passava e non lo vedevo più, quindi chiesi in giro che fine avesse fatto quel signore così gentile. Speravo che non gli fosse successo nulla di grave, magari era solo andato in pensione o aveva cambiato lavoro.
Mi spiegarono che era agli arresti domiciliari, indagato per molestie sessuali. Riuscite a immaginare Babbo Natale che molesta qualcuno? Io no. Mi spiegarono che una collega con disabilità multipla aveva denunciato alle educatrici che la seguono che il signore, quando la caricava sul furgone e doveva agganciare le cinture di sicurezza, approfittava per mettere mani in luoghi inopportuni.
Ammetto – me ne vergogno moltissimo – che la mia prima reazione fu di esclamare: “Ma siamo sicuri??”. Come a dire: chi ha denunciato è una persona che ha anche un deficit intellettivo, siamo sicuri che abbia riconosciuto bene la forma di violenza? Insomma, prima di denunciare Babbo Natale bisogna esserne davvero sicuri. Mi spiegarono che era già stata fatta una indagine, e che anche altre ragazze e donne con disabilità, che lavoravano in altre associazioni e cooperative diverse dalla nostra e che usufruivano dei trasporti con lui, avevano denunciato le stesse cose.
Rimasi davvero sconcertata. Non perché un signore così gentile e apparentemente buono proprio come il personaggio natalizio avesse potuto compiere atti criminali. Le cronache sono costellate di vicini di casa o colleghi di lavoro che di fronte ad efferati omicidi esclamano “eppure era una
La cosa più sconcertante era stata la mia reazione: in un primo momento io non avevo creduto alla mia collega. Insomma, se ci fossi stata io al posto delle sue educatrici, pur conoscendo lei da tantissimo tempo e pur sapendo le sue capacità di riflessione sulle cose della vita (era capitato in passato che lei mi avesse voluta aiutare coi suoi consigli in giornate in cui ero arrabbiata sul lavoro), io non le avrei creduto.
Perché non le credevo io che sono donna, sono disabile, che da anni andavo in giro per convegni a parlare del fatto che il primo problema di una donna con disabilità che denuncia fosse proprio l’essere creduta e accolta? Quando parliamo di violenza di genere di tutte le donne, non solo di quelle con disabilità, sappiamo che l’atto più difficile è sporgere denuncia. Per vergogna, auto colpevolizzazione, paura delle ripercussioni, dipendenza economica, legale o emotiva, paura del giudizio sociale, mancanza di risorse, mancanza di fiducia. Ogni anno, quando arriva il 25 novembre (in cui ricade la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne), andiamo dicendo alle donne che devono essere forti, devono avere consapevolezza di sé e denunciare, denunciare sempre, al di là di qualsiasi paura e vergogna. E sappiamo che anche alle donne senza disabilità può capitare di non essere credute, o di essere umiliate, o di trovare di fronte persone poco accoglienti che sottovalutano la cosa. E so bene, io che me ne occupo, che quando si aggiunge anche una disabilità tutto questo si amplifica. Perché già se hai “solo” una disabilità motoria o sensoriale il mondo della violenza sembra agli occhi degli altri un mondo che non ti riguarda; se poi ci aggiungi un deficit intellettivo il discorso è chiuso.
Se in questo meccanismo di pregiudizio e stereotipo ci casco anch’io, mi domando quanto lavoro c’è ancora da fare non solo per tutte le donne vittime di violenza o potenziali
17 così brava persona”. Quindi può succedere che l’orco si nasconda ovunque.
vittime di violenza, ma per le donne con disabilità, che spesso subiscono una doppia discriminazione e sono vittime di violenza non apertamente riconosciuta come violenza.
Eppure, se sto scrivendo questo libro, è perché credo fortemente che si possa fare un lavoro educativo e culturale per costruire percorsi di uscita dalla violenza accessibili anche alle donne con disabilità. Bisogna farlo.
Perché ci sono cascata anch’io? Perché non ho denunciato, là, su quel lago? Perché non ho creduto alla mia collega? Perché anch’io fatico a riconoscere la violenza? Come si può costruire una consapevolezza di sé anche nelle donne con disabilità, anche in quelle con deficit intellettivo?
Quante sono le donne con disabilità che non denunciano non solo per paura o vergogna ma soprattutto perché non sono in grado di riconoscere una violenza perpetrata contro loro stesse? Quanto bisogno c’è di educazione al proprio corpo e a riconoscere ciò che al proprio corpo non deve essere fatto?
Vorrei applaudire alla mia collega, perché rispetto a me è stata molto brava a riconoscere la violenza e a denunciarla. Ha avuto più consapevolezza di me, anche se per la società lei, col suo deficit intellettivo, possiede meno risorse di me. Chi ha avuto un deficit stavolta tra me e lei?
Se non costruiamo percorsi di uscita dalla violenza di genere accessibili anche alle donne con disabilità, la mancanza di accessibilità diventa essa stessa una violenza, perché produce discriminazione. La discriminazione è una forma di violenza.
Euro 14,50 (I.i.)
ISBN 979-12-5626-025-6