Ha pubblicato per le edizioni la meridiana L’ascolto del Paziente (2018), Conoscere il gruppo (2020) e, con Francesco Berto, A scuola con le emozioni (2012), Divieto di transito (2005), Adesso basta. Ascoltami! (2004), Fuggiaschi (2005), Con-Tatto (2008), Padri che amano troppo (2009), Mal d’Amore (2011), Il codice psicosocioeducativo (2013); Parola di bambino (2013), Fili spezzati (2a ed. 2016), In classe con la testa (2016).
Paola Scalari
“I lunghi mesi che all’inizio del 2020 hanno visto l’esplosione della pandemia da Covid-19 sono già iscritti nella storia dell’umanità come un momento di passaggio catastrofico, portatore di lutti, perdite, capovolgimenti di stili di vita, amplificatore di disuguaglianze e sofferenze, come per tutte le catastrofi. Una riflessione su quello che ci ha permesso di restare umani comincia a essere possibile soltanto a distanza di due anni dalla prima emergenza sanitaria. L’autrice, a partire dalla sua esperienza diretta di professionista e studiosa delle persone e dei legami tra le persone, si rivolge con questo testo a chi come lei, prima nei lunghissimi mesi del lockdown e poi nella fase di limitazioni, ha visto cambiare radicalmente il suo lavoro con le persone. Terapeuti, insegnanti, educatori, assistenti sociali, tutto un mondo di operatori, da lei definiti in modo assai significativo operatori relazionali, che il lockdown ha posto in un territorio di esilio coatto, nell’impossibilità di incontrarsi in presenza sono il campo di ricerca e i destinatari di questo testo. È stato il web a fornire risposta e antidoto all’esilio, anche per i professionisti della relazione, con uno spostamento di massa che l’autrice definisce nella sua sostanza e al tempo stesso nel significato metaforico che contiene come una vera e propria migrazione. Migrare infatti è da sempre una delle strategie di adattamento che la vita utilizza per attraversare i cambiamenti, soprattutto i cambiamenti che hanno segnato le sorti del nostro pianeta con le grandi catastrofi. Leggere queste pagine può aiutarci a rimettere in moto i pensieri. La questione era, e rimane, quella del restare umani. Insieme.”
Migrare nel web Comunicazione relazionale a distanza nella cronaca di un biennio vissuto con il virus
“ La pandemia si concluderà, l’uso di internet per chi lavora sulle relazioni umane però non credo potrà cessare. L’esperienza di migrazione nella Rete rimane infatti come un momento di svolta nell’esercizio dell’attività di operatore relazionale. Il professionista che la porta avanti, la studia, ne fa campo di ricerca, è perciò già nel futuro.”
Migrare nel web
Paola Scalari è psicologa, psicoterapeuta, psicosocioanalista ed esercita a Venezia. Supervisore alla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della COIRAG Istituto di Milano. Nel 2001, nella 1a giornata dello psicologo, è stata insignita dall’Ordine Psicologi del Veneto del primo premio per l’attività professionale svolta e, nel 2014, del riconoscimento di Eccellenza Professionale dalla città di Mestre-Venezia. Da anni è consulente, docente, formatore e supervisore di gruppi ed équipe di associazioni, enti ed istituzioni che operano nei settori sanitario, sociale, educativo e scolastico.
Paola Scalari
(Dall’Introduzione di Rosangela Paparella)
ISBN 978-88-6153-887-0
Euro 20,00 (I.i.)
Introduzione di Rosangela Paparella
QUADERNI di
Paola Scalari
Migrare nel web Comunicazione relazionale a distanza nella cronaca di un biennio vissuto con il virus Introduzione di Rosangela Paparella
Indice
Introduzione di Rosangela Paparella...............................................9
Parte prima – Era il 2020 Scoppia la pandemia........................................................................15 Interdipendenze...............................................................................23 Comunicare...................................................................................... 31 Il trauma della solitudine................................................................43 Storie a rischio..................................................................................51 Avanti tutta.......................................................................................61 Arriva il killer...................................................................................69 Idee bizzarre......................................................................................77 Tra dipendenza e indipendenza.....................................................89 Equipaggiamenti..............................................................................97 Convocati sul monitor...................................................................103
Flashback.................................................................................. 113 Parte seconda – L’esperienza condivisa Prepararsi all’incontro.................................................................. 119 Dentro e fuori dallo schermo.......................................................127 Dall’illusione alla responsabilità .................................................135 Avviare alleanze.............................................................................143 Reti umane in Rete.........................................................................153 Rivoluzioni nella comunicazione.................................................159 Passaggi collettivi...........................................................................169
Una visione collettiva.................................................................... 181 Libertà limitata...............................................................................189 Alla conquista del web...................................................................201 Quel che più ci manca...................................................................213 Nota dell’editore.............................................................................219 Bibliografia......................................................................................221
Introduzione
I lunghi mesi che all’inizio del 2020 hanno visto l’esplosione della pandemia da Covid-19 sono già iscritti nella storia dell’umanità come un momento di passaggio catastrofico, portatore di lutti, perdite, capovolgimenti di stili di vita, amplificatore di disuguaglianze e sofferenze, come per tutte le catastrofi. Un’epidemia globale che ci parla con cruda evidenza degli squilibri che la specie umana ha prodotto nel pianeta con il suo arrogante quanto illusorio presupposto di dominio sugli altri viventi. E non solo sui viventi, visto che proprio i virus, poco più che aggregati biologici privi di struttura cellulare, possono considerarsi ponte tra esseri viventi e oggetti non viventi. Quindi una particella submicroscopica, inimmaginabile per le sue dimensioni ma potente nella sua rapidità e intelligenza di riprodursi a spese delle nostre cellule ci ha dato la misura di tutta la prosopopea che usiamo quando classifichiamo quello che è umano a quello che non lo è, immaginando di avere la supremazia nella gerarchia terrestre. Una riflessione su quello che ci ha permesso di restare umani comincia a essere possibile soltanto a distanza di due anni dalla prima emergenza sanitaria. È la distanza temporale ed emotiva che rende possibile e necessario affiancare alla domanda “come stai?” – mai come adesso spogliata dai suoi toni di circostanza – un’altra questione: cosa ci è successo? Paola Scalari attraversa il “cosa ci è successo” a partire dalla sua esperienza diretta di professionista e studiosa delle persone e dei legami tra le persone e si rivolge con questo testo a chi come 9
Paola Scalari
lei prima nei lunghissimi mesi del lockdown, e poi nella fase di limitazioni con cui probabilmente dovremo convivere ancora a lungo, ha visto cambiare radicalmente il suo lavoro con le persone. Terapeuti, insegnanti, educatori, assistenti sociali, tutto un mondo di operatori, da lei definiti in modo assai significativo “operatori relazionali”, che il lockdown ha posto in un territorio di esilio coatto, nell’impossibilità di incontrarsi in presenza, schiacciati nel loro compito di prendersi cura della mente e delle emozioni dalla priorità reclamata dai corpi in pericolo. Soprattutto privi di un luogo dove poter stare con le persone che più che mai chiedevano di essere aiutate e contemporaneamente a contatto non solo con la fragilità, la vulnerabilità e le paure degli altri, ma anche con le proprie. Abbiamo vissuto una cesura traumatica delle coordinate spazio-tempo che tradizionalmente danno cornice di regolarità ai contesti di aiuto e di educazione: sparite le sedute in presenza, individuali e di gruppo, cancellata la presenza in aula nelle scuole come negli ambienti di formazione, interrotto ogni intervento di sostegno nelle comunità educative e assistenziali ci siamo ritrovati tutti, aiutanti e aiutati, senza alcuna terra che potesse ospitarci e, per la prima volta forse, accomunati dagli stessi sentimenti di fragilità e spaesamento. È stato il web a fornire risposta e antidoto all’esilio, anche per i professionisti della relazione, con uno spostamento di massa che l’autrice definisce nella sua sostanza e al tempo stesso nel significato metaforico che contiene come una vera e propria migrazione. Migrare infatti è da sempre una delle strategie di adattamento che la vita utilizza per attraversare i cambiamenti, soprattutto i cambiamenti che hanno segnato le sorti del nostro pianeta con le grandi catastrofi. Migrare dagli alberi al suolo, da un territorio divenuto ostile a un altro, dal sud al nord, dalle campagne alle città è la cifra della condizione umana. Come scrive lo psichiatra e psicoterapeuta Jean Claude Mètraux nel suo La migrazione come metafora: Siamo tutti dei migranti, figli di una migrazione universale, certamente geografica, poiché da tempi remoti migriamo al di là delle fron10
MIGRARE NEL WEB
tiere. Ma anche migrazione interna, migrazione culturale: non siamo mai gli stessi, né viviamo sempre lo stesso mondo.
Ecco, il mondo nuovo in cui molti di noi si sono spostati non più solo per navigare sporadicamente tra siti e social ma per abitare nuovi contesti di lavoro è stata la rete. Una terra che fino ad allora aveva marcato perlopiù le più macroscopiche differenze tra generazioni, tra nativi digitali e i più adulti, diffidenti, inclini a sottolinearne i rischi piuttosto che i benefici, quasi sempre poco competenti nell’utilizzarlo. Paola condivide con noi passo per passo le fatiche e gli stupori di chi ha colto le inedite opportunità di creare nuove occasioni di aiuto alle persone progettandole e costruendole nelle piattaforme telematiche. Guarda con lucidità alle resistenze, talvolta ai rifiuti, di tanti operatori, e descrive con rigore quello che il passaggio nella tecnosfera ha chiesto loro in termini di adattamento. Come l’adattamento a un setting virtuale – ma altrettanto se non più ancora reale – in cui fa un’inedita irruzione il contesto di vita delle persone (la loro casa, gli arredi, le incursioni nel monitor di figli, genitori, animali domestici) e in cui il repertorio di strumenti relazionali del professionista sembra ridursi drasticamente all’uso della voce e dello sguardo. Tante le scoperte, meglio ancora le conferme di queste esperienze di relazione che da virtuale si è dimostrata virtuosa: per esempio quanto la qualità della parola sia prevalente rispetto allo strumento internet, e quanto il campo relazionale possa essere attivo e vitale anche attraverso uno schermo e dentro i rettangolini di un incontro di gruppo in piattaforma. Questo è stato importante nel rapporto con gli assistiti, ma anche per animare dialogo e confronto continuo con colleghi, vicini malgrado le distanze geografiche. Di sicuro oggi abbiamo una misura diversa del concetto di prossimità. Abbiamo le prove che il legame che ci connette può essere mantenuto, e che siamo in grado di praticare innumerevoli forme creative per farlo, se solo abbandoniamo i nostri pregiudizi e accettiamo che siamo vivi fino a che abbiamo desiderio di apprendere. L’analisi che l’autrice ci offre è tutt’altro che teorica. La teoria la sottende e la nutre corposamente, certo. Ma la struttura del testo presenta un’alternanza di riflessioni, declinate in un tempo 11
Paola Scalari
passato remoto – portandoci così a leggere quanto accaduto nel mondo e nel lavoro degli operatori relazionali come in una realtà dai contorni apocalittici da cui si può emergere cambiati e migliorati – opportunamente cadenzata con esperienze concrete di donne e uomini colpiti nel loro quotidiano professionale e personale dal trauma pandemico. La sua è postura di ricercatrice, coinvolta nella complessità dei cambiamenti imposti dalla pandemia con la consapevolezza che né il modo né gli strumenti in cui entriamo in relazione con gli altri sono neutri, anche quando lo facciamo col web. Questa scelta rende assai viva per chi legge l’urgenza di unirci a lei nel riflettere sulle nostre esperienze e fare nostre le sue domande sulla visione più democratica della cura, sul valore dei gruppi, sulla sua bella definizione di “militanza relazionale” come risposta etica e argine possibile alla deriva paranoide e narcisistica che è una minaccia più minacciosa dello stesso virus. La migrazione di massa sul web anche dei professionisti dell’aiuto è una realtà ineludibile, con tutta probabilità destinata a diventare parte integrante e stabile delle nostre pratiche professionali e relazionali. Possiamo scegliere se viverla come uno sgradevole effetto avverso del Covid-19 o riconoscere, e cogliere, i germi di un potente cambio di paradigma nella relazione tra chi aiuta e chi è aiutato. Per me, e mi auguro per tanti, il lavoro di Paola ha il merito di rafforzare il senso dell’impegno nella costruzione di una comunità del “Noi” anche attraverso la mia vita professionale, con la consapevolezza di quanto abbiamo appreso dal trauma personale e collettivo della pandemia. Soprattutto leggere queste pagine può aiutarci a rimettere in moto i pensieri, meglio ancora abbiamo uno strumento in più per pensare tutti insieme perché se è vero che il territorio rivoluzionario che ci aspetta è quello dell’intelligenza artificiale sia sempre l’intelligenza umana e delle sue relazioni a governarlo. La questione era, e rimane, quella del restare umani. Insieme. Rosangela Paparella, formatrice1
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Parte prima
Era il 2020 In realtà, ho sempre pensato che, dietro a ciò che noi chiamiamo le nostre storie “personali”, si nasconda sempre la stessa sfida, in una forma o in un’altra: rendere la vita (e non la sopravvivenza) possibile in questa situazione concreta. Miguel Benasayag
Scoppia la pandemia
Venimmo estromessi dai nostri studi, scacciati dalle aule e allontanati dalle scrivanie degli uffici. Ci trovammo a curare, studiare e lavorare dentro alle nostre case. Ci obbligarono a stare confinati tra le pareti domestiche, più o meno affollate. Fummo privati della possibilità di stare insieme a chi volevamo. Ai primi di marzo del 2020 un decreto governativo costrinse i professionisti della relazione a stravolgere le loro abitudini. Bisognava provare ad arginare una pandemia. Guardammo alla storia per comprendere le devastazioni dovute ai virus, chiedemmo lumi alle scienze, reagimmo psicologicamente con le nostre risorse emotive. Ci sentivamo smarriti. Il trauma fu davvero violento. Per tutti. Le reazioni tra gli operatori relazionali1 furono però diverse a partire dallo schema traumatico introiettato da ognuno in quel tempo lontano in cui, privi della possibilità di pensare, avevano ricevuto sufficienti o inadeguate cure nell’ambiente materno. Il dramma pandemico fece emergere la struttura traumatica, magari riparata da un lavoro su se stessi, ma pur spesso presente in molti soggetti che si occupano dell’altro. Gli psicoterapeuti che risanano le frammentazioni psichiche, gli educatori e i docenti che si occupano della maturazione cognitiva ed emotiva e gli operatori sociali che cercano di aggiustare le fratture imposte dalle vicende della vita, non smisero tuttavia di lavorare poiché l’emergenza sanitaria era anche emergenza sociale. La pandemia interrompeva, destabilizzava, impediva i ritmi della vita lavorativa conosciuta lasciando senza uno schema di riferimento chi aveva consolidate abitudini di incontro in presenza. Tuttavia molti psicoterapeuti, psicologi, docenti, educatori e assistenti sociali si posizionarono in prima linea accettando il 15
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repentino cambiamento e la conseguente sfida a continuare ad occuparsi di chi ne aveva bisogno. Conoscevano il rapporto in presenza, dovevano imparare a costruire la relazione a distanza. Gli operatori, che già lavoravano sul vincolo relazionale e che su quel legame costruivano l’apprendimento, che poi è sinonimo di cambiamento e perciò di cura della mente, sentirono sia il dovere di rispettare le regole dell’emergenza sanitaria, sia l’obbligo di rimanere fedeli alla deontologia di una professione che si fonda sul prendersi cura dei rapporti umani. Migrarono quindi nel web come estensione dello spazio vitale quotidiano. Migrarono con la speranza e la convinzione di poter arricchire la loro capacità di vivere le relazioni. Migrarono perché capirono subito che non solo era necessario usare uno strumento digitale, ma anche che era contemporaneamente urgente saper creare un ambiente speciale, con un suo stile di pensiero, per contribuire a definire un nuovo modo di stringere i legami. Anche se in difficoltà l’operatore relazionale non abbandonò pazienti, allievi o assistiti. Il professionista che aveva fondato la sua teoria e la sua tecnica sullo sviluppo di una struttura vincolare, pur sentendosi minacciato, sgomento e privato dei suoi strumenti, non si lasciò sopraffare dall’isolamento dovuto al dilagare del virus. Fu un situazione inedita perché mise tutti alla pari sullo sfondo pandemico, ma gli operatori, che hanno come compito la cura dei legami, non poterono disertare il loro lavoro e perciò si attivarono audacemente per mantenere vivo il valore dell’incontro. Dovevano iscrivere i significati e i principi della loro vita professionale nell’ambiente digitale. La novità fu che noi e i nostri interlocutori fummo parimenti colpiti dalla minaccia del virus killer. Non c’era chi era salvo e chi era a rischio. Ognuno soffriva e temeva per la sua stessa vita. Sentimmo però la responsabilità di prenderci cura dei nostri timori per fronteggiare, con intrepida determinazione, il panico che serpeggiava tra la gente trasformandosi in rabbia, paura, aggressività, depressione, violenza e disperazione. Lo facemmo consapevoli che una parte della dissimmetria 16
MIGRARE NEL WEB
era saltata. O perlomeno crollò un’immaginaria differenziazione di status. Eravamo nella stessa barca, quella che naviga in mari sconosciuti con la terribile minaccia di un virus invisibile che portava presagi distruttivi. Ognuno doveva fare la sua parte affrontando il conflitto interiore tra vita e morte per salvaguardare se stesso e gli altri. Per i professionisti della relazione che cura, educa e assiste, pertanto, pazienti, allievi e utenti furono una fetta di popolazione da salvaguardare, ma anche rappresentarono un’ancora di salvezza vitale. Curarono il senso da dare a se stessi. Coprirono ogni possibile depressione da solitudine. Vivificarono giornate senza cadenze. Incrementarono il piacere della ricerca sul campo. E non solo perché gli operatori potevano continuare a lavorare, ma soprattutto perché la presenza delle persone da curare, educare o assistere animava la monotonia di ogni giornata. I professionisti della relazione si sentirono meno soli perché mantennero quel contatto umano che rappresenta la linfa vitale della generatività. Molti lavorarono operando da lontano. A loro dobbiamo l’inizio della rivoluzionaria migrazione nel web. Solo qualcuno invece lo fece intervenendo da vicino pur dovendo così sopportare pesanti tute protettive. A loro dobbiamo le videochiamate con persone isolate e malate. Grazie alla Rete chi doveva occuparsi dell’altro non lo abbandonò in quanto fu capace di non farsi sopraffare dall’atavica angoscia di morte. Viola, dalla folta chioma rosso tiziano che incornicia due brillanti occhi color turchese, è la coordinatrice di una struttura protetta che accoglie persone disabili. Vivace e intelligente, guida con allegria e determinazione il suo gruppo di ragazzi e ragazze, quasi nemmeno vedesse i loro limiti. È un vulcano di iniziative e, se gli ospiti faticano ad andare in giro, lei porta il mondo dentro alla struttura. Settimanalmente arrivano docili e placidi cani per la pet therapy, variopinti pappagalli parlanti per stimolare nuovi linguaggi, virtuosi musicisti per rendere il sonoro un discorso 17
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comprensibile a tutti e poi tanti stravaganti artisti di ogni genere capaci di sollecitare la creatività. Con Viola ci conosciamo da più di venti anni ed è stata una mia attenta allieva. La incontro in una gelida mattina di febbraio per chiederle il piacere di portare dell’acqua minerale gassata a un mio familiare che è alloggiato nella residenza per anziani che è annessa a quella dei disabili. L’entrata dei visitatori è stata proibita con uno sconfortante foglietto appeso al pesante cancello scorrevole. Proprio davanti a questo limite invalicabile avviene lo scambio. Scherziamo su come una “semplice influenza” abbia creato tanto allarme. Lei esce dalla soglia della struttura e ci abbracciamo e baciamo con il solito trasporto. Intanto arriva l’educatrice della Residenza Socio Sanitaria per gli anziani, è molto tesa, forse un po’ infastidita dal nostro “complotto” per l’acqua. Fredda e distaccata, commenta il trambusto che già dilaga in struttura. Si teme che questa specie di influenza sia qualcosa di più grave. C’è stato un primo morto sospetto. Rientrato dall’ospedale civile, dove era stato condotto per una visita di routine, Piero è deceduto. L’aria non riusciva più ad entrare nei suoi polmoni. Il clima però è di fiduciosa speranza che fra qualche giorno tutto sia chiarito e si possa aprire il possente portone d’entrata riattivando le visite ad anziani e disabili. Sono pronte le feste per la fine del Carnevale e gli ospiti non vorrebbero proprio perderle. Ci lasciamo con un arrivederci, senza dubbi. In realtà non ci vedremo mai più. Il virus porta là dentro una gelida folata di morte che, come in un domino, uccide, uno dopo l’altro, gli anziani ospiti. Per me non ci sarà più motivo di ritornare. Con Viola ci vediamo per una cena nella terrazza della mia casa al mare durante l’estate. Assieme a noi siedono a tavola Fabrizia, una simpatica educatrice della residenza per disabili, e Mariangela, una mia cara amica che fa l’assistente sociale. Commentiamo a lungo la paura, il panico, l’angoscia che ha invaso la vita di tutti gli operatori delle due strutture. Viola racconta dei pianti inconsolabili di infermiere ed operatori sanitari della residenza per anziani, di fughe angosciate di psicologi e di sanitari, delle dimissioni di coordinatrici impaurite 18
e della paralisi di dirigenti frastornati. Fabrizia mi fa partecipe di come abbia mantenuto le attività con i suoi ragazzi attraverso internet e come labrador, golden retriver, parrocchetti, cenerini, sassofonisti, pianisti, pittori e scultori abbiano potuto continuare ad entrare in struttura attraverso i collegamenti digitali. “Per non avvilirsi troppo” dice sospirando la giovanissima educatrice. “Per non isolarsi completamente, per continuare a sentirsi parte del mondo” sostiene l’infaticabile Viola.
Il fuori era impraticabile, il dentro diventò – grazie ad internet – spazio dove espandersi, ricercare, sperimentare. La creatività vinse sulla paura. Mantenere la finalità del proprio lavoro fece sì che sia i singoli utenti sia i gruppi di cui il professionista della relazione si occupa diventassero interlocutori importanti e maggiormente consapevoli della necessità di collaborare. Per la prima volta fu chiara la differenza tra chi era sopraffatto da pulsioni distruttive e chi, invece, era capace di una vitale gratitudine verso chi gli si affidava, chiedeva aiuto, aveva bisogno di una presenza significativa. Per mantenere questo contatto dinamico ogni rigidità professionale ebbe però bisogno di una rivisitazione. Più fummo in grado di vivere momenti di trasformazione dell’identità professionale più traemmo piacere dal continuare a stare insieme perché solo rimanendo uniti potevamo affrontare la nuova situazione. Ci stringemmo gli uni agli altri per immaginare un mondo inedito. Eravamo consapevoli che avremmo tracciato le vie di un diverso modo di essere a contatto con l’altro non solo perché stavamo cercando nuove strade per comunicare, ma soprattutto perché la sperimentazione di nuovi modelli relazionali avrebbe visto la trasformazione di alcuni paradigmi professionali che prima parevano intoccabili. Il trauma aveva sottratto ogni presunta sicurezza e quindi era necessario imparare a transitare dentro all’incertezza. Questa fluidità, che in quei lunghi mesi a momenti si solidificò e in altri momenti si liquefece, è tuttora necessaria perché ci troviamo ancora dentro al crollo del mondo che 19
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conoscevamo e perciò non possiamo avere un’idea definitiva su come ricostruirci. O forse mai più potremo sentirci stabili, fermi, compatti, definiti una volta per tutte. Siamo entrati nell’era della incertezza identitaria. Quando l’emergenza sanitaria finirà ci aspetta un lunghissimo travaglio emotivo e operativo poiché dovremo capire come riorganizzarci a partire dalla nuova consapevolezza che la vita è continuamente a rischio. Nulla è certo. Niente è per sempre. La perdita di presunzione, di arroganza, di rigidità, di supponenza potrebbero quindi diffondersi prima di tutto tra le professioni relazionali. È però fin da ora possibile riflettere su ciò che accadde e sta accadendo, magari provando a pensare cosa potremmo cambiare se trarremo un insegnamento da questa terribile esperienza di dolore, malattia e morte. Sappiamo dalla storia che le grandi pandemie hanno rivoluzionato modi di vivere e sfondi culturali. Speriamo di saper elaborare il trauma, il dolore, lo scoramento migliorando la convivenza tra gli uomini con l’obiettivo di creare una nuova civiltà capace di un profondo senso civico. Lo sentiamo come opportunità e responsabilità. Soprattutto perché, in quanto professionisti della relazione, già percepivamo che eravamo ormai al punto di rottura della capacità di salvaguardare ambienti umani, costruiti e naturali, che sapessero rispettarsi. Prima della pandemia, infatti, avevamo osservato e spesso combattuto un mondo ammalato che stava perdendo il senso del limite, il valore dei legami e la capacità di fermarsi a pensare. Tutto stava diventando consumo, spreco, accaparramento. Ogni azione era compiuta dentro ad un vortice caratterizzato da una vita quotidiana senza pause. Quel giorno di fine inverno però apparve la polmonite interstiziale bilaterale a segnalare che dovevamo fermaci perché la vita umana era minacciata di morte. SARS-CoV2 ci ha costretti ad interrogarci sul nostro modo di sfruttare l’ambiente e le risorse, le relazioni e gli affetti. Fu inizialmente uno stop collettivo. Cambiare pagina o aspettare fu l’interrogativo che attraversò ogni operatore relazionale e che vide le persone maggiormente flessibili immettersi, con 20
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determinazione, in un percorso di grandi cambiamenti nei modelli di comunicazione. Se immaginiamo la mente dell’umanità come il frutto di interazioni di un vasto gruppo attraversato dagli assunti di base bioniani2 possiamo osservare i processi di resistenza al cambiamento e proporre una lettura di come si mosse in quei giorni l’inconscio individuale e collettivo. Intercettare i depistaggi psichici, rimuovere gli ostacoli intellettivi ed emotivi, promuovere nuove narrazioni sul senso dell’esistenza sono dunque nostri compiti. Leggemmo rimozioni, resistenze, ossessioni, fobie, isterie, spostamenti e scissioni. La comprensione dell’impatto che il virus stava avendo sulla vita psichica gruppale ed individuale fu ad appannaggio di chi, praticando una professione relazionale, aveva gli strumenti per cercare di interpretare quanto accadeva nella comunità e nei singoli soggetti che la costituiscono. L’inconscio collettivo, deposito delle esperienze dell’umanità, messo sotto pressione dalla pandemia, avrebbe parlato nelle famiglie, nei contesti di lavoro, nella aule, nelle città, negli ospedali, nei presidi sanitari portando a galla lo specifico modo di affrontare in ogni ambito la caducità della vita. Attraversati dalla morte come avrebbero reagito i gruppi umani alla castrazione della loro presunta onnipotenza? L’inconscio individuale, deposito della storia emotiva di ogni persona, avrebbe palesato la struttura psichica con le sue risorse e fragilità? Minacciato dalla morte come ognuno avrebbe potuto far fronte a questa angoscia primitiva? Il professionista della relazione, per non lasciare spazio all’ansia che paralizza i pensieri, doveva darle urgentemente una forma narrativa. Ed essa per svilupparsi aveva bisogno della comunicazione via internet. Velocemente perciò si riformularono le modalità quotidiane di colloquio e di riunione. Si sviluppò intanto, quasi automaticamente, una sorta di discernimento digitale, l’arte cioè di scegliere fra un uso delle tecnologie che potenzia e arricchisce e un utilizzo che distrugge e inabissa verso il lato oscuro della dipendenza. I professionisti della relazione, riunendosi anche tra di loro 21
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grazie a internet, provarono, attraverso un serrato confronto di esperienze, a comprendere come essi stessi e la gente qualsiasi andava difendendosi dall’angoscia sia nei confronti di Covid-19 sia nei confronti dello strumento tecnologico che inizialmente rappresentava materialmente e concretamente il limite imposto dalla malattia. Gli operatori si confrontarono dunque ripetutamente per dare parola all’indicibile cercando di capire come mutasse l’uomo nell’era della migrazione di massa nella Rete.
Note 1 2 22
Berto F., Scalari P., Il codice psicosocioeducativo. Prendersi cura della crescita emotiva, edizioni la meridiana, Molfetta 2013. Bion W.R., Esperienze nei gruppi, Armando editore, Roma 1976.
Parte seconda
L’esperienza condivisa Di fronte all’emergere di qualsiasi materiale che possa scatenare una minaccia di dolore mentale, si mobilitano operazioni difensive. Leon Grinberg, Psicoanalisti. Aspetti teorici e clinici, Loescher, Torino, 1983, p. 155
Prepararsi all’incontro
Lasciare la strada dell’incontro di persona per passare alla frequentazione in Rete mise in moto movimenti emotivi che oscillarono tra lo smarrimento e la determinazione. Potenti vissuti attraversarono esperienze colme di dispiacere, ma anche di rassicurante sicurezza. Fu terribile essere contagiati senza potersi difendere guardando in faccia “l’assassino” e fu anche stranamente rilassante potersi adagiare sulle regole dettate da altri rimanendo a bighellonare in casa. L’angoscia per il crollo del mondo conosciuto fu accompagnata dall’interesse per ciò che si poteva imparare di nuovo. Furono stati d’animo sollecitati dalla paura della perdita e dalla necessità di riparare al lutto. Non tutti tuttavia furono, sono e saranno in grado di fare questo passaggio da soli. Per questo il lavoro psichico che insegnanti, educatori, operatori sociali e psicoterapeuti possono avviare, sostenere e promuovere diviene “militanza relazionale”. Le persone stavano perdendo una parte di Sé e la loro identità vacillava. Quando di fronte a questa sensazione prendevano la china depressiva emergeva una marcata intolleranza alla frustrazione, alle separazioni e alle perdite. Veniva pertanto precluso ogni cambiamento. Qualcuno infatti dichiara che non può imparare a navigare e qualcun altro asserisce che non vuole farlo. Alza la voce sia chi pensa di aspettare la data del ripristino del mondo che conosceva sia chi, invece, si attrezza per poter affrontare in internet una sconosciuta dimensione relazionale. 119
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In realtà sono tutti traumatizzati dall’incertezza che si è venuta a determinare, ma alcuni si mettono in cammino verso l’insondabile impensato e il giammai contemplato, altri invece si arrestano impietriti. Al disorientamento c’è chi infatti reagisce con la sperimentazione, chi invece con il diniego, la scissione e la fissazione. Dati contraddittori non sono sostenibili nella mente delle persone più fragili. La psiche reagisce come può. La strada maggiormente percorribile va nella direzione di eliminare ogni conflitto interiore attraverso la dissociazione della coscienza. Vediamo così in atto il meccanismo psichico del diniego, difesa da ogni traumatismo. A lungo andare questo funzionamento però può portare alla disintegrazione identitaria del senso unitario. Avviene infatti una frattura tra diverse parti di Sé a salvaguardia dall’essere invasi dall’angoscia, ma “non essere più padroni a casa propria” indebolisce la struttura psichica dell’individuo. Si potrebbe dire che l’Io si frammenta e ogni piccola parte dell’identità soggettiva ha una sua dimensione affettiva che non dialoga con le altre. Questi frammenti dunque si slegano e nello slegarsi perdono di coerenza. La realtà non riesce ad essere affrontata e, per difendersene, l’essere umano nasconde a se stesso ciò che pur sa. Se poi questo modo di funzionare dilaga in gran parte della comunità, osserviamo come la massa può divenire un insieme imbizzarrito, ingovernabile, rabbioso. La follia si diffonde nella società e apre la strada alla paranoia collettiva. Un delirio di sospettosità si diffonde tra la gente. Il complotto diviene realtà affermata, documentata e condivisa. E i social permettono a queste idee paranoiche di circolare in fretta. Le fake possono divenire prove incontrovertibili e “scientificamente documentate” dell’esistenza di nemici che tramano azioni occulte. Così, invece di combattere la vera minaccia incarnata dal virus, sono le teorie complottiste ad avere il sopravvento. Si delineano quotidianamente scenari sempre più paranoici nei quali nemici occulti cercano di assoggettare poveri individui ingenui ed ignoranti. Mescolare la giusta dose di dispiacere per ciò che si è perduto con la giusta dose di disponibilità ad andare avanti non è un’impresa emotivamente semplice. Stanchezza, affaticamento, 120
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mal di testa, dolori agli occhi furono alcuni segnali somatici di questa lotta interiore. Ansia, pensieri ossessivi, ritiro sociale, rabbia incontrollabile, insonnia, disordini alimentari, furono tra i sintomi psichici più frequenti. Il cambiamento dello sfondo culturale dentro al quale muoversi crea tensione, stress, farneticazioni. Il dover lasciare delle cose che apparivano come certe, necessarie, imprescindibili obbliga ognuno a trovare nuove forme di adattamento, di accomodamento, di abitudinarietà. Non tutti però ci riescono. Alcuni stazionano nel vuoto che si struttura tra un vertice e l’altro delle due situazioni. C’è chi infatti privo di mobilità vuol far finta di non dover cambiare vita, c’è chi invece emigra e la trasforma creativamente. Nel mezzo si evidenziano equilibri mentali precari che vanno strutturandosi più o meno vicini o lontani dalla fissità. Molti sperano nella temporaneità della situazione. Lasciare la stanza di lavoro per entrare momentaneamente nella stanza virtuale implica la capacità di abbandonare ciò di cui si era certi per imparare ad usare uno strumento che pare offrire esiti incerti. Il diffondersi del virus spinge però verso la Rete, inesorabilmente. È necessario vincere le resistenze, assolutamente. Il veloce propagarsi del contagio richiede che si lavori soprattutto da casa, responsabilmente. Quindi la relazione telematica mette in rapporto due mondi privati. Dobbiamo imparare a gestire una nuova intimità. La vicinanza emotiva, smarrita inesorabilmente da decenni dentro alla frettolosa frequentazione di tanti individui chiusi nel loro piccolo mondo, trova una nuova strada nella Rete. Aurora, un’attempata psicoanalista dall’aria un po’ austera, racconta come un angolo del suo studio fu abbellito da vecchi quadri prima depositati in soffitta. Li appese ad altezza di telecamera e, sopra allo schermo, posizionò una vecchia lampada liberty per dare luce al suo volto. Le persone entravano in casa sua e desiderava perciò che quello spazio dove le faceva accomodare fosse accogliente. Aurora entrava nelle abitazioni 121
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di pazienti, operatori, dirigenti, colleghi, persone qualsiasi e osservava, inevitabilmente, la cura che ognuno dedicava al suo ambiente di vita. Piccoli particolari divenivano fonte di nuovi sguardi. Al di là dello schermo la colpivano dettagli interessanti. Pareti dal colore viola intenso, collezioni di acquasantiere, librerie massicce facevano da sfondo all’immagine della persona comodamente sdraiata sul divano di pelle, in bilico sulla sedia di una cucina immacolata, seduta su un trespolo di un angolo buio di un garage ingombro, accomodata dietro al tavolo di un ambulatorio anonimo. Anche chi si connetteva con lei commentava la sua radio antica posta sulla credenza ereditata da nonna, osservava i dipinti dei suoi artisti preferiti appesi alla parete, scrutava l’ambiente che la circondava e ascoltava qualche rumore che disturbava la comunicazione prima che riuscisse a disattivare il microfono. Entrava quindi in campo una nuova emozione che aveva a che fare con il condividere il familiare. Conoscersi nell’intimità della casa fu una novità. Un piccolo soprammobile sulla scrivania del lavoro, un colore predominante nella stanza, una libreria in perenne disordine a dire quanto veniva usata, erano già durante il lavoro in presenza delle note a margine del gusto della psicoterapeuta, ma adesso era tutto più intensamente personale poiché chi la cercava usciva dallo studio professionale ed entrava negli spazi della sua vita quotidiana. Aurora, soprattutto nei gruppi, non solo osservava tante caselle nella piattaforma aprirsi, ma prendeva atto anche delle tante modalità di accoglierla nelle diverse location. Spiccavano cucine soleggiate, salotti le cui vetrate davano su panorami invitanti, bui garage attrezzati per l’occasione, scrivanie delle figlie liberate, camere da letto in penombra. Insomma l’intreccio dei mondi privati fu il primo sguardo d’insieme che la colpì e le richiese la forza d’animo necessaria a non vergognarsi e a non sviluppare pensieri voyeuristici. Uno spazio di insolita intimità si contrapponeva alla distanza fisica. Qualche telecamera tendeva a chiudersi. Qualcuno non ce la faceva a pensare che lo stava osservando muoversi nella sua vita privata. Il che dimostrava, se ce ne fosse stato bisogno, che quello sguardo dentro casa era importante. Aurora dovette imparare a maneggiarlo e a tenerlo in mente nella relazione. Imparò molto da una sua amica in analisi 122
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che, prima di ogni seduta via Skype, le chiese di connettersi con lei per osservare il suo look sullo schermo. La cura con cui si vestiva, abbelliva l’ambiente con deliziosi bonsai, studiava la posizione della telecamera le fece capire molto sull’apprensione che le persone potevano vivere nel farsi vedere in “televisione”.
Sparisce il setting istituzionale e compare il setting domestico. Il telelavoro invade lo spazio privato non solo dell’utente, ma anche dell’operatore. Entrambi si trovavano lontani, ma mai erano stati così vicini. Le persone si frequentano attraverso l’intimità di sguardi ravvicinati. La telecamera svela. Il monitor mostra visi ingranditi che pongono in evidenza ogni più piccola imperfezione, mette in primo piano mani che si stagliano davanti agli occhi comprendo tutto lo spazio disponibile, fissa mezzi busti dall’aria statica, stoppa corpi sfuocati in ricorrenti fermo immagine o in continui movimenti alla ricerca di manine o microfoni, acqua o tisane, figli o animali. La propria dimora diviene ufficio, aula, studio professionale, sede del servizio. Lo spazio che separa pubblico da privato si annulla. La mente raggiunge con un clic chi sta dall’altra parte che, a sua volta, si connette con un veloce gesto di un dito. Scompare il tempo del percorso che decomprime i problemi di casa all’andata e del lavoro al ritorno. Si dissolvono il tempo di attesa fuori di un portoncino, il suono di un campanello che fa aspettare pazientemente la risposta, il cicaleccio fuori scena che decomprime grandi e piccole preoccupazioni, i convenevoli dell’accomodarsi nello spazio condiviso. Sono questi dei rituali di avvicinamento e allontanamento che servono per pensarsi reciprocamente prima che l’incontro stesso avvenga. Ora l’on line annulla il tempo mentale di preparazione e di decompressione che si colloca tra l’attesa dell’incontro e il momento del commiato che comporta, fuori scena, riflessioni e ricordi. La mancanza del pre-setting rischia di assottigliare il pensiero, l’introspezione, l’ascolto delle proprie voci interiori. Ma internet non deve divenire disabitudine a sostare con se stessi. Gli operatori proprio per questo devono studiare strategie perché il tempo sospeso sia rispettato senza tuttavia divenire imbarazzante ed anche evitando 123
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che questo spazio di latenza venga annullato attraverso perenni ritardi. Il collegamento anticipato, che lascia spazio allo stare silenziosamente in video, ne è una formula. Alle volte l’attesa è accompagnata da una musica che fa da culla sonora, altre volte ancora un’immagine viene proiettata nello schermo mentre si fanno via via accedere le persone, il più delle volte c’è un corale rito di saluti e di affettuosi riconoscimenti. Se l’incontro è gruppale questo sapersi aspettare si rivela come imprescindibile, mentre se l’incontro è individuale diventa utile aiutare l’interlocutore a sperimentarlo. Risulta necessario sollecitare chi si appresta a comunicare con un operatore attraverso una connessione virtuale a chiudere prima le sue conversazioni con altri presenti nel suo spazio personale, a trovare una concentrazione che lo predisponga all’incontro, a riprendere il filo dei pensieri lasciati in sospeso. È dunque necessario ideare nuovi rituali per entrare dentro ed uscire dalla relazione a distanza. Se allora parlarsi per via telematica è divenuta l’unica via di fuga dall’assedio del virus, il lavoro da casa ha chiesto inediti presetting. Spesso uno spazio iniziale dopo l’avvenuta connessione è occupato dalle domande: “È in una situazione comoda? Come sta? Sta bene?” e poi “È guarito? Ha fatto il tampone?” e purtroppo spesso anche con un mesto “Come stanno i suoi cari?” seguito da un sentito “Condoglianze”. Frasi non dettate da formalità e convenevoli, ma da autentica necessità di conoscere lo stato di salute pesantemente minacciato dal virus. Successivamente qualche notizia sulla possibilità di tornare in presenza diviene spazio da sondare insieme. Anche chi rientra con l’esperienza del dialogo da remoto e con la mascherina che copre il volto e il gel che disinfetta le mani non è nella situazione che aveva preceduto la pandemia. Rivedersi di persona non è tornare alla “normalità”, parola questa usata per designare le abitudini che si erano consolidate precedentemente nel lavoro degli operatori allenati ad un’alta esposizione relazionale. Questa “normalità” non solo non è ripristinabile, ma attenderla rischia di divenire un atteggiamento acritico verso i limiti di quelle usuali pratiche che hanno preceduto la pandemia. Esperienze queste che riguardano un tempo che non c’è più che invece vanno rielaborate, indagate, comprese e trasformate. 124
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Alle volte il rivedersi in presenza è altrettanto scioccante di quel che era stato il non vedersi di persona. Il virus rimane dunque presente anche durante la ripresa degli incontri dal vivo. Le domande che accompagnano ogni ritrovarsi in presenza sono: “Come si sente ad essere qui? Avverte un disagio forte nel dovermi parlare con mezza faccia coperta dalla mascherina? Vedo che le cade sempre, è davvero così fastidiosa? È inquieto nel sedersi nella sua postazione, cosa le sta succedendo?”. Spesso le reazioni somatiche, i piccoli tic, lo stropiccio di mani e di gambe che s’ingarbugliano, le voci che escono flebili flebili raccontano di un corpo che reagisce alla vicinanza fisica con un’inquietudine somatica. Se il rossore era un tempo l’emergere di un senso di vergogna, adesso l’ansia di non essere conosciuti “interamente” nei lineamenti del volto rappresenta l’angoscia del non essere visti e del non vedere le espressioni dell’operatore “mascherato”. Se il video separava, ora la pelle si deve riabituare al contatto epidermico, a quel vibrare che passa da corpo a corpo trasmettendo informazioni non verbali. Ma è entrato nella mente della coppia al lavoro l’idea che quel contatto possa essere mortifero. A tratti quindi ci si può incontrare di persona, mancano però la tranquillità, il sorriso, le smorfie e le lacrime divengono un problema poiché inondano lo spazio sotto alla mascherina mentre il colare del naso diventa imbarazzante. Il trauma del rientro in presenza non è equiparabile a quello dell’allontanamento dai luoghi familiari, ma non per questo non va indagato. Il ritorno del migrante nella sua Terra natia lo lascia sempre stordito poiché non solo l’esule non è più quello che era quando partì, ma anche il suo territorio nel frattempo si è modificato.
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Ha pubblicato per le edizioni la meridiana L’ascolto del Paziente (2018), Conoscere il gruppo (2020) e, con Francesco Berto, A scuola con le emozioni (2012), Divieto di transito (2005), Adesso basta. Ascoltami! (2004), Fuggiaschi (2005), Con-Tatto (2008), Padri che amano troppo (2009), Mal d’Amore (2011), Il codice psicosocioeducativo (2013); Parola di bambino (2013), Fili spezzati (2a ed. 2016), In classe con la testa (2016).
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“I lunghi mesi che all’inizio del 2020 hanno visto l’esplosione della pandemia da Covid-19 sono già iscritti nella storia dell’umanità come un momento di passaggio catastrofico, portatore di lutti, perdite, capovolgimenti di stili di vita, amplificatore di disuguaglianze e sofferenze, come per tutte le catastrofi. Una riflessione su quello che ci ha permesso di restare umani comincia a essere possibile soltanto a distanza di due anni dalla prima emergenza sanitaria. L’autrice, a partire dalla sua esperienza diretta di professionista e studiosa delle persone e dei legami tra le persone, si rivolge con questo testo a chi come lei, prima nei lunghissimi mesi del lockdown e poi nella fase di limitazioni, ha visto cambiare radicalmente il suo lavoro con le persone. Terapeuti, insegnanti, educatori, assistenti sociali, tutto un mondo di operatori, da lei definiti in modo assai significativo operatori relazionali, che il lockdown ha posto in un territorio di esilio coatto, nell’impossibilità di incontrarsi in presenza sono il campo di ricerca e i destinatari di questo testo. È stato il web a fornire risposta e antidoto all’esilio, anche per i professionisti della relazione, con uno spostamento di massa che l’autrice definisce nella sua sostanza e al tempo stesso nel significato metaforico che contiene come una vera e propria migrazione. Migrare infatti è da sempre una delle strategie di adattamento che la vita utilizza per attraversare i cambiamenti, soprattutto i cambiamenti che hanno segnato le sorti del nostro pianeta con le grandi catastrofi. Leggere queste pagine può aiutarci a rimettere in moto i pensieri. La questione era, e rimane, quella del restare umani. Insieme.”
Migrare nel web Comunicazione relazionale a distanza nella cronaca di un biennio vissuto con il virus
“ La pandemia si concluderà, l’uso di internet per chi lavora sulle relazioni umane però non credo potrà cessare. L’esperienza di migrazione nella Rete rimane infatti come un momento di svolta nell’esercizio dell’attività di operatore relazionale. Il professionista che la porta avanti, la studia, ne fa campo di ricerca, è perciò già nel futuro.”
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Paola Scalari è psicologa, psicoterapeuta, psicosocioanalista ed esercita a Venezia. Supervisore alla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della COIRAG Istituto di Milano. Nel 2001, nella 1a giornata dello psicologo, è stata insignita dall’Ordine Psicologi del Veneto del primo premio per l’attività professionale svolta e, nel 2014, del riconoscimento di Eccellenza Professionale dalla città di Mestre-Venezia. Da anni è consulente, docente, formatore e supervisore di gruppi ed équipe di associazioni, enti ed istituzioni che operano nei settori sanitario, sociale, educativo e scolastico.
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(Dall’Introduzione di Rosangela Paparella)
ISBN 978-88-6153-887-0
Euro 20,00 (I.i.)
Introduzione di Rosangela Paparella
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