PARLAMI DENTRO
Oltre il carcere: lettere di (r)esistenza
Prefazione di Paolo Di Paolo
Prefazione di Paolo Di Paolo
Oltre il carcere:
lettere di (r)esistenza
Prefazione di Paolo Di Paolo
edizioni la meridiana
C’è qualcosa che siamo poco disponibili a fare. Non ci viene istintivo: immaginare la vita degli altri. Immaginare altre vite. Le vite che non sono la nostra. Può capitare di farlo quando abbiamo qualcosa da ammirare – o meglio, cioè peggio – da invidiare. Ma è molto raro che il “muscolo dell’immaginazione”, spesso così atrofico, reagisca al pensiero di esistenze difficili, in qualche modo indesiderabili. Tanto più è difficile immaginarle quando sono, nei fatti, poco visibili o addirittura invisibili. Per questo ha uno straordinario valore etico e politico questo volume a cura di Marilù Ardillo: perché dimostra che esiste una porzione di società civile davvero e fino in fondo civile – in grado, se sollecitata appena, di immaginare anche ciò che si immagina a fatica, di vedere chi di solito non viene visto, di entrare in dialogo con chi fatica a rendere udibili le proprie parole.
Ho trovato emozionanti anche solo le prime righe di ogni lettera: laddove si evidenziano un nome e un cognome, un’età, e si pongono le premesse di un’interlocuzione. Ovvero, di una condivisione: “Le voglio raccontare – scrive Mauro rivolgendosi a un detenuto – una mia vicenda personale, e spero che da questo mio racconto entrambi, io e lei, potremo trovare una forma di consolazione”. C’è chi racconta un’esperienza dolorosa, chi non nasconde il proprio
senso di solitudine, chi parla del mondo “fuori”, delle sue sorprese, chi prova a trasformare le parole in un abbraccio. Chi offre, con delicatezza, qualche suggerimento.
Tommaso, quindici anni, si descrive e poi dice: “Di te non so nulla, ho solo il desiderio di dirti che non ti giudico”. E poi sceglie il testo di una canzone. Viviane di anni ne ha settantasette e confessa nelle prime righe di sentirsi inadeguata: “Perché chi non è stato mai chiuso nelle quattro mura di una prigione non sa che cosa si prova a vivere in uno spazio ristretto, senza la famiglia, senza le amicizie e con l’angoscia del domani sempre uguale a oggi”.
C’è, in ciascuna di queste lettere, una tale delicatezza, un pudore rispettoso, che è raro trovare e che ancora più raramente si accompagna a una disponibilità (emotiva e intellettuale insieme) a sospendere il giudizio, a favore di un esercizio – non vorrei chiamarlo banalmente di empatia, ma più nobilmente di riconoscimento dell’altro. In un racconto orale che fece ai laureandi di un’università americana, lo scrittore David Foster Wallace mise in scena una tipica giornataccia della vita adulta. Tardissimo pomeriggio, supermercato illuminato da una luce al neon. Oppure, traffico congestionato. Tutte le squallide e fastidiose routine che ci mettono di malumore e ci spingono a dare per scontato che riguardino esclusivamente noi. “La mia fame, la mia stanchezza, il mio desiderio di tornare a casa.” Pensarla così, sostiene Wallace, non richiede una scelta. Più impegnativo sarebbe immaginare, nel caos del traffico, che alla guida di quel Suv possa esserci un essere umano terrorizzato da qualche trauma, o che tutti gli altri in fila alla cassa del supermercato “siano annoiati e frustrati almeno quanto me”, e che qualcuno abbia “una vita nel complesso più difficile, tediosa e sofferta della mia”. Quasi tutti i giorni, con forza di volontà e impegno mentale, si può scegliere di guardare in modo diverso, di non accettare incondizionatamente nessuna “modalità predefinita” di rapporto con la realtà. Solo così – rompendo schemi, scommettendo su una capacità di sguardo che è insieme
attento e pietoso, di una pietà alta che non è compassione – si può forse riuscire a entrare “significativamente in comunicazione con un’altra coscienza”. Mi pare che queste pagine – così spiazzanti nell’intento, e così appassionanti –rendano visibile l’invisibile, su più piani; e restituiscano in una forma scritta un’occasione inconsueta e coraggiosa di comunicazione fra coscienze umane.
Mio caro amico, anche se non ci conosciamo ti immagino con occhi limpidi e ti chiedo: sorridimi
È stata Consuelo a scrivere queste parole, dalla stanza di una residenza a trattamento socio-riabilitativo, sulle colline bolognesi.
È uno dei pensieri che meglio sintetizza la natura di Parlami dentro, un progetto che ho ideato e curato per la Fondazione Vincenzo Casillo in occasione del Natale 2022.
Quello delle parole è un potere immenso. Eppure anche piccolo, semplice. Unite alle intenzioni le parole invertono l’ordine del mondo.
In ogni città che abitiamo esiste una moltitudine di persone che fa delle parole la ragione di ogni giornata, che alle parole si tiene aggrappata per sopravvivere, che ha dovuto rinunciare alla libertà: di uscire, di fare, ma non di sperare. Che ha commesso un errore, ma continua ad impegnare ogni energia per trasformare, per evolvere.
Per quella moltitudine di persone abbiamo lanciato una chiamata alle parole, un invito a condividere un gesto narrativo di resistenza: scrivere una lettera. Il destinatario: una persona detenuta sconosciuta.
L’intento era quello di consegnare un frammento di vita libera che si facesse stimolo, ispirazione, auspicio. Creare
connessioni, mettere in circolo buone parole. Perché le lettere fanno bene: scriverle o riceverle ci riconcilia con una speranza atavica.
Circa un centinaio di persone, dai 10 ai 93 anni, ha accolto il nostro invito: persone che parlano ad altre persone con parole universali, che hanno dovuto lottare per uscire da qualche pena e hanno suggerito la loro chiave di salvezza. Che sono state balsamo per molte ferite, a voler citare l’amata Etty Hillesum, che di lettere ne ha scritte molte dal lager di Westerbork, prestando soccorso agli internati e scegliendo di vivere “l’inferno degli altri”.
Circa un centinaio di storie si sono sentite intercettate e chiamate da un canto sotterraneo irrefrenabile che parla dentro una cella ma anche e soprattutto dentro se stessi.
Alcune tra le lettere più intense sono state lette durante il mese di dicembre 2022 nel programma radiotelevisivo “Liberi dentro” di Eduradio&Tv, partner del progetto, seguito potenzialmente da 750 detenuti della Casa circondariale
Rocco D’Amato di Bologna sui canali televisivi regionali.
Tra le magie del tutto inaspettate compiute da questa iniziativa, una lettera è stata spedita da una cella di un’altra Casa circondariale, oltrepassando muri invalicabili e conferendo alle parole il potere di unire e riconoscere: “Sono già due anni e mezzo che sono recluso, alla prima esperienza carceraria. Vengo da una famiglia molto unita che aspetta la mia uscita”.
In risposta a quello che è andato delineandosi come un dialogo aperto che ha sorvolato le leggi del tempo e dello spazio, Fabrizio ha scelto di fare dono a Parlami dentro di una lettera scritta nel 2009 indirizzata al suo datore di lavoro, che lo ha aspettato e ha mantenuto il suo posto dopo vent’anni di reclusione. “È bello che qualcuno si ricordi di me che vivo un particolare momento della vita.”
Francesco, ex detenuto che oggi ha sessant’anni, aggiunge che il bene esiste, che lo si sceglie ogni giorno con pazienza e umiltà, “perché tu hai un valore in origine”.
Parlami dentro ha il merito di essere un’occasione: per esprimere, per ascoltare, per riflettere, imparare. Per riconoscere il diritto ad esistere, ciascuno nella propria verità.
Ha anche il merito della bellezza, intesa come affermazione di vita, come emblema della generosità. Ogni lettera ci ha incoraggiati tutti ad abbracciare questa causa, l’uno nell’altro.
Parlami dentro ha sottoscritto un tacito patto di fiducia straordinario. Molte persone da tavoli e scrivanie di ogni parte d’Italia hanno affidato il racconto più intimo della loro esistenza con la certezza di sentirsi accolti e compresi. E questa certezza è stata associata, in un immaginario collettivo del tutto inatteso, alle persone detenute, dimostrando dunque che prima di ogni altra cosa sono persone capaci di intelligenza emotiva, di empatia, di calore.
Lo conferma persino Monica, che di un detenuto è figlia e che ha indirizzato la sua lettera a se stessa e anche a suo padre e che suggerisce: “Prefiggetevi degli obiettivi positivi che possano nutrire la vostra anima”.
Parlami dentro è un libro necessario. Un libro scritto da tutti per tutti.
Un libro da leggere senza alcun ordine precostituito, uno spazio libero e vasto in cui correre, uno scrigno da cui attingere in ogni momento e ogni luogo possibile. Per non sentirsi abbandonati.
Un libro da tenere nella borsa e sul comodino, da regalare, da leggere ad alta voce e a voce bassa, perché capace di garantire sempre a chiunque l’ascolto e l’appoggio di persone care, che pure senza conoscersi uniscono e sono unite. Un libro che fa sentire contenti di esistere e di essere parte di un’umanità che palpita e che resiste.
Anna Luisa si è seduta al tavolo della sua cucina e ha scritto su una pagina di una vecchia agenda, con la grafia incerta dei suoi 92 anni, una breve lettera che ha chiesto a suo figlio di inviare: “Da una nonna che ti vuole bene”. Martina ha scritto da Amsterdam, dal tavolino di un furgone campe-
rizzato che è diventato la sua casa. Ha inviato l’immagine di uno scorcio di azzurro dal finestrino al risveglio e ha immaginato il carcere come un piccolo villaggio, dove ogni cella ha il suo orto e dove ogni detenuto può preparare un piatto buono da condividere.
Francesca ha scritto dalla scrivania di un cinema parrocchiale e ha raccontato come imparare a farsi andare bene le cose, cercando qualcosa di positivo in ogni situazione. A cominciare da una stufa calda in una sera di pioggia e uno scialle francese appartenuto a sua nonna vent’anni prima di una lunga malattia.
Rosa, una suora missionaria che oggi ha 93 anni e vive su una sedia a rotelle in una casa di riposo, nella sua lettera ha ricordato la prima missione a Roraima, in Brasile, negli anni Sessanta. Di quando si svegliava alle 4:00 del mattino per fare il pane e la pasta e setacciare la farina dai vermi, perché arrivava dall’America dopo mesi di viaggio. Il suo lavoro di insegnante di matematica, biologia, fisica e religione formava giovani madri.
Rosalba ha domandato: “C’è una scena nella tua testa che potrebbe essere il disegno perfetto del tuo concetto di amore?”.
Mirella ha raccontato con parole e immagini i colori di una passeggiata solitaria alle prime ore del mattino.
Molti docenti di numerose classi di scuole superiori si sono fatti spontaneamente portavoce dei pensieri di molti ragazzi che, seppure molto giovani, sono stati capaci di esprimere considerazioni e sentimenti profondi, di valore. E che per questo ci fanno sperare in un futuro possibile: “ Non sapere chi tu sia mi conforta, come se per un giorno fossi tu il mio diario. Forse un giorno mi passerai accanto per strada e non lo sapremo e magari ci guarderemo negli occhi”.
Anche alcuni scrittori hanno accolto l’invito a parlare dentro. E illustratori, cantautori. Uno di loro ha fotografato una piccola stella dorata trovata per caso sull’asfalto
bagnato dalla pioggia e ha imbastito dei versi intorno a quel “meraviglioso mistero che ci fa sentire piccoli per diventare immensi”.
Un altro ha narrato di quella specie di ferita che brucia in noi spingendoci a sbagliare e creare altre ferite, in noi stessi e negli altri. Perché “c’è davvero un mistero del male che ci sfiora e ci tenta, che però non riesce a intaccare il nucleo più profondo e più vero, il fondo luminoso del nostro essere. Malgrado i nostri limiti e le nostre miserie, c’è una parte irriducibile di grazia, di grandezza dentro ciascuno di noi”.
E allora forse il compito che questa meravigliosa esperienza ci chiede è imparare a riscoprire quella parte di leggerezza e di innocenza annidata, che può aiutarci a capire che il senso della nostra esistenza non si esaurisce negli errori che commettiamo.
Antonella Cortese, 57 anni, caporedattrice di Liberi dentro Eduradio&Tv
Cara amica, hai il volto dei tanti che ho incontrato, i tanti nomi che mi sono scivolati davanti agli occhi sugli elenchi che sono diventati corpi quando ci siamo incontrati, mani che si sono strette, sguardi che si sono incrociati per un attimo e che hanno depositato una domanda, una storia, una richiesta di attenzione.
Tutte le persone ristrette che ho incrociato erano portatrici di un segno, una effige che reclama: io esisto. Lo rivendicano tutte, nonostante la colpa e la pena, nonostante le sbarre, i rumori inframurari, il chiacchiericcio costante delle camere di pernottamento (così si chiamano oggi le celle), M. che parla tutto il tempo con la sua amica immaginaria che odia e ama e che ormai sta diventando amica di tutte.
Nello spazio distopico di un luogo così innaturale ci sei tu, che combatti con i tuoi demoni, il pensiero dei tuoi figli che stanno crescendo tuo malgrado, che non sai cosa facciano la sera quando escono, che frequentano una scuola della quale non conosci gli insegnanti, ai quali vorresti dire “loro faranno meglio di me”.
Quanto poco dura una vita e quanto velocemente la si può rovinare con un gesto, un’azione, l’attimo fatale che trasforma la quotidianità scontata, quella della sveglia al mattino, del caffè nel bar sotto casa, del lavoro o dello studio, della passeggiata o della spesa. Oppure dei paesi lontani lasciati alle spalle con le tante promesse e le aspettative sottaciute: troverò un futuro migliore, ti manderò denaro affinché tu mi raggiunga, cercherò un lavoro onesto e non mi accadrà nulla perché so quanto possa essere difficile la vita quando sei stato costretto a lasciare il tuo mondo, le persone che ami.
Quanti vorrebbero riavvolgere la pellicola e davanti alla scelta, quando c’è, aprire l’altra porta... Il cuore resta in una casa abitata dal ricordo, sul divano dove per anni si sono arrampicati i bambini poi diventati uomini, dove hanno
pianto, riso, parlato, dormito e sognato e anche immaginato il futuro perché davanti c’era il tempo. Ora, dietro alle sbarre che vengono percosse dagli agenti per controllare che siano integre o che risuonano quando le persone detenute salutano chi è in dimissione, resta un senso di vuoto, di colpa, di solitudine e di inutilità. La branda con la coperta spiegazzata, la TV accesa che fa compagnia a tutte le ore e la paura della notte che non finisce mai. “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”, lo cita la nostra Costituzione nell’art. 27.
Studio, lavoro, attività “trattamentali” (così si chiamano le attività che si svolgono in carcere). Provare a riempire la giornata per arrivare la sera esausti e crollare in un sonno senza sogni e il giorno dopo mettere il pilota automatico per ricominciare.
Mentre il fuori si trasforma, la città cambia la viabilità, il tessuto urbano si modifica seguendo la tendenza del momento, le coppie si separano, si uniscono, qualcuno muore, qualcuno nasce. “La vita è uno stato mentale” diceva Chance il giardiniere nel film Oltre il giardino, ma il tempo lo è altrettanto per chi attende dentro e per chi aspetta fuori. Parlami dentro, cara amica, forse vuole provare a ridisegnarti i contorni, a riconoscere la tua esistenza, a parlare a te e con te. È poca cosa? Sono solo parole di persone sconosciute che raccontano delle proprie vite ad altrettanti sconosciuti? Forse è vero, ma c’è un mondo fuori fatto di tante cose incomprensibili, di gente che ti ha rivolto un pensiero, ha condiviso con te un pezzetto della sua giornata, ti ha messo a parte della sua vita. Non è poi così diversa la domanda che mi poni tanto spesso e alla quale non ho mai la stessa risposta: fuori è una bella giornata, cosa ci fai tu qui con me?
Viviana, 35 anni
Hai una sfida più grande davanti a te: far volare i tuoi sogni e le tue idee oltre quelle sbarre.
Ciao tu.
Mi piace il tu, accorcia le distanze e ci fa sentire meno soli. In un mondo in cui soli, in fondo, lo siamo sempre di più, tutti.
Quindi ciao tu.
Se ti è arrivata questa lettera ed è arrivata proprio a te, ai tuoi occhi o alle tue orecchie, ci deve essere un motivo: le coincidenze non esistono.
Lo so a cosa stai pensando: parole, cosa me ne faccio delle parole quando avrei bisogno di un abbraccio?
Io ho sempre creduto che le parole salvano.
Lo so che lì dentro non è divertente e che in questo mondo in pochi lo capiscono perché, troppo spesso, questo mondo dimentica che in ognuno di noi si nasconde bianco e nero, lupo e agnello.
Io cerco di ricordare a me stessa ogni giorno che tutti possiamo diventare lupi se isolati, feriti e sanguinanti: siamo sfumature e siamo belli per questo.
Ma quello che voglio ricordare a te, oggi, è che tutti possiamo tornare ad essere agnelli, se meno soli, meno feriti, meno sanguinanti.
L’agnello è un animale meraviglioso, spacciato per debole solo perché mosso da amore. Ma l’amore ci rende forti e vince, sempre.
A questo servono le parole: a lenire le ferite e riportare l’amore in circolo.
Fidati: funziona.
Perciò voglio dirti solo alcune cose: consideralo un manifesto della libertà da rileggere quando il fardello da portare ti sembrerà un po’ più pesante.
Non darti per vinto.
Aggrappati al soffio della vita.
Leggi, sogna, immagina, crea: sei venuto su questa terra per un compito ben preciso. Ad un certo punto ti sei solo smarrito: ora la tua sfida è ritrovare la strada e quel compito che ti era stato assegnato.
Siamo venuti qui per lasciare una traccia e un mondo migliore a chi verrà: non dimenticarlo.
Datti da fare: sono certa che riuscirai ad essere una persona libera anche lì dentro. Qui fuori è pieno di persone chiuse in gabbie dorate che fingono di essere libere.
Tu hai una sfida più grande davanti a te: far volare i tuoi sogni e le tue idee oltre quelle sbarre.
Scrivi un libro se puoi, oppure una poesia.
Il mondo ne ha estremamente bisogno.
Probabilmente di consigli ne avrai già ricevuti tanti.
Ma accetta il mio, per questa volta. * * *
Mirella Caldarone, 62 anni
La solitudine è un bel modo per nobilitare le nostre risorse più profonde.
Ciao, sono Mirella.
Sono qui per farmi guardare da te e quando lo farai mi sentirò gli occhi addosso: occhi attenti a superare la mancanza, a varcare il limite del possibile. Ci incontreremo per osmosi emotiva. Le parole fanno incontrare anime che sono su sentieri diversi, anche lontani. Quelle scritte, ancor più, lasciano tracce. Come orme nelle pietre, esse ci orientano nell’oceano della vita.
Amo la fotografia e la scrittura: due modi per lasciare una traccia del proprio passaggio nel mondo.
Nella lettera ti racconto i colori del mio sentire durante una passeggiata in solitaria nelle prime ore del mattino. Ritengo la solitudine un bel modo per nobilitare le nostre risorse più profonde. Se stiamo bene da soli saremo tanto più in grado di offrire accoglienza e amore. Le fotografie raccontano visivamente quello che andrò raccontandoti.
È un abbraccio il mio. Un abbraccio che si potrà ripetere ogni volta che avrai voglia di rileggermi.
4 novembre 2022
In principio, il buio. La città dorme ancora. Dapprima è l’aurora ad illuminare il nero con i viraggi bluastri dello spettro luminoso.
Poi, eccola la stella madre del sistema solare, con i suoi raggi già inclementi alle prime ore del mattino.
Ed è alba. L’alba di un nuovo giorno, una nuova promessa, una perenne scommessa per l’immediato futuro.
La sveglia è naturale, senza suoneria. Sento un peso felino sul mio petto mentre l’agglomerato vivo di peli biondostriato mi passeggia addosso ad annunciare il nuovo giorno.
La decisione è di un attimo. Assecondo il mio ritmo circadiano ed assumo la posizione verticale, pronta, dopo il rito della colazione, ad uscire di casa con i piedi ben piazzati sui nuovi plantari inseriti nelle mie Brooks azzurre.
Una brezza fresca mi accoglie sull’uscio, al cospetto di Palazzo Ducale, testimone di antichi fasti ed attuali dismissioni. Piazza Duomo la si può percepire nella sua dimensione reale. Il silenzio delle navate interne della Cattedrale trasuda all’esterno e si diffonde, senza il disturbo del chiasso.
La città dorme ancora. Son desti coloro che preparano viveri e servizi per chi solo più tardi farà mostra di sé per le strade non più deserte.
C’è del sacro in questo vagare. Passi veloci e fluidi conducono il corpo in percorsi non prefigurati. Seguendo i suggerimenti del cuore sfioro la mia prima dimora disabitata da un millennio. A guidarmi in questo reticolo è la volontà di evitare i suoni molesti e gli sgradevoli effluvi delle prime automobili che già sbadigliano gas di scarico.
Dal centro alla periferia vago sulle bisettrici della mia storia.
Ad accompagnarmi è la mia stessa ombra che punta a ovest. Il sole è basso ed essa è lunga, attraversa la strada prima di me o resta al mio fianco arrampicandosi su di un muro. La sua origine mi ricorda dov’è l’Oriente. Continuo a girare a cercare l’ombra, oltre le strade ancora all’ombra.
Vedo una città cresciuta spontaneamente, non pensata. Nelle sue maglie lievitano i miei pensieri mentre la fronte comincia ad imperlarsi di leggero sudore.
Ora la mia ombra per le strade della città è più breve ed il suono dei pensieri compete già con quello della vita quotidiana.
Ottomila passi sono la misura del tempo trascorso tra la sveglia ed il luogo di lavoro.
Un’altra alba mi attende. Ed è subito sera.
Da piccolo ascoltavo una bella canzone: “Sole spento”. Ho percepito cosa si può provare ad essere costretti al pentimento.
Ciao, sono un ragazzo di quasi 15 anni che frequenta l’Istituto Giulio Natta a Bergamo, la mia città.
Sono alto circa 180 cm, ho i capelli castani quasi sempre spettinati perché mi piacciono lunghi ma non sempre li pettino, ho gli occhi azzurri che ho preso dalla mamma e per la mia altezza sono un po’ magro.
La scuola che frequento mi piace molto perché da sempre mi appassionano le materie scientifiche. Ho praticato il calcio fin da piccolo e ho sempre giocato in difesa con discreti risultati.
Sono appassionato di Formula 1, sicuramente è lo sport che preferisco, da bambino sognavo di diventare pilota; quando posso mi alleno al simulatore e ogni tanto vado sui kart dove mi diverto in pista sentendomi un vero pilota e cercando, non sempre ci riesco, di fare il giro veloce.
Di te non so nulla, ho solo il desiderio di dirti che non ti giudico.
Non posso nemmeno capire come ti senti, lo posso immaginare, lontano dagli affetti e dai tuoi amici.
Da piccolo, in auto, ascoltavo una canzone molto bella che mi piaceva molto.
Mi spiegarono poi che l’autore si era ispirato ad una lettera ricevuta da un carcerato, si intitola “Sole spento” e leggendo il testo ho percepito cosa si può provare ad essere (cito il testo) “costretti al pentimento”.
Sono convinto che le persone non abbiano le stesse opportunità, io mi ritengo fortunato, e probabilmente se non
le avessi avute sarei al tuo posto, e forse tu al mio. Sono cresciuto senza pregiudizi e se una persona sbaglia bisognerebbe capire perché ha sbagliato.
Adesso ti saluto, sono sicuro che ci incontreremo un giorno, magari ad assistere ad una gara di Formula 1, tiferemo insieme per la stessa auto senza sapere nulla l’uno dell’altro, con l’augurio e la speranza che la vita ti abbia dato una nuova opportunità.
Quello delle parole è un potere immenso. Eppure anche piccolo, semplice. Unite alle intenzioni le parole invertono l’ordine del mondo.
In ogni città che abitiamo esiste una moltitudine di persone che fa delle parole la ragione di ogni giornata, che ha dovuto rinunciare alla libertà di uscire, di fare, ma non di sperare. Che ha commesso un errore, ma continua ad impegnare ogni energia per evolvere.
Per quella moltitudine di persone la Fondazione Vincenzo Casillo e Liberi dentro Eduradio & TV
hanno lanciato una chiamata alle parole, un invito a condividere un gesto narrativo di resistenza: scrivere una lettera ad una persona detenuta sconosciuta.
Per consegnare un frammento di vita libera che si facesse stimolo, ispirazione, auspicio. Da tavoli, scrivanie e banchi di scuola di ogni parte d’Italia, circa un centinaio di persone dai 10 ai 93 anni ha risposto alla chiamata. Persone che parlano ad altre persone con parole universali, che hanno dovuto lottare per uscire da qualche pena e hanno suggerito la loro chiave di salvezza.
Parlami dentro è un libro che fa sentire contenti di esistere e di essere parte di una umanità che palpita e che resiste, che può aiutarci a capire che il senso della nostra esistenza non si esaurisce negli errori che commettiamo.
ISBN 978-88-6153-981-5