Prof, te la imparo io!

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“È stando di fronte ai ragazzi che è possibile imparare a tornare sui propri sbagli. Chi di noi avrebbe potuto sapere che ne sarebbe stato di sé a quattordici anni?”

Prof,

te la

imParo io! Prof, te la imParo io!

Prof,

te la imParo io!

Prefazione di Stefano Costantini

edizioni la meridiana

Prefazione

Incontrai Giancarlo Visitilli per la prima volta molti anni fa, direi metà dei Duemila. Ci trovammo a un dibattito, un curioso dibattito sul successo clamoroso di Harry Potter e sul fatto che potesse considerarsi letteratura o meno. Al di là della bizzarra discussione – tutti eravamo convinti che fosse letteratura, ovviamente – colsi nei suoi occhi una scintilla particolare, nelle sue parole una determinazione rara: modi gentili, osservazioni competenti. Era un cultore di cinema, un critico, e mi disse anche che faceva il professore di italiano in una scuola superiore di periferia. I suoi alunni – mi disse – doveva conquistarli, convincerli a stare in classe prima e a studiare poi. Molti di quelle ragazze e ragazzi avevano alle spalle storie difficili e la scuola doveva farsene carico per avere successo, per non perderli. E lui ci credeva e mi raccontava di storie e di progetti, di come li tenesse legati a sé. La passione per il cinema usata come collante.

All’epoca ero caporedattore della cronaca pugliese de “la Repubblica”. Amavo i libri di Domenico Starnone e avevo amato la sua rubrica “Ex Cattedra” su “Manifesto”. Lo avevo anche conosciuto, Starnone e mi sembrò naturale offrire a quell’originale e giovane prof una rubrica con un nome simile, un po’ rubato confesso, all’illustre collega: “Ex Cattedra” diventò “In Cattedra”. Non fu un grande sforzo di fantasia, ammetto, ma un omaggio a un grande della nostra letteratura, un titolo che si rivelò di buon auspicio, visto il successo

1 Ex caporedattore de “la Repubblica”, attualmente capo ufficio stampa del Comune di Roma.

che ebbe e il clamore che suscitò anche fuori dai confini della Puglia. In tutti quegli anni, una quindicina quasi – ancora prima del boom dei social, attenzione – diventò un riferimento soprattutto nella comunità degli insegnanti, che da tutta Italia contattavano il giovane insegnante di frontiera.

La nostra collaborazione iniziò così: “Giancarlo – chiesi – ti va di raccontare in una rubrica settimanale quello che dicono i tuoi studenti, restituirmi la vita in classe senza filtri, dobbiamo far parlare i ragazzi, far conoscere i loro pensieri, i loro sogni e con le loro parole. Non devi mediare, devi essere un semplice strumento. Vogliamo sentire la voce di chi non scrive sui giornali, di chi non va in tv”. Quello strano prof, con il quale nel frattempo era nata una amicizia, fu naturalmente entusiasta dell’idea. Riuscì a mettere su carta storie straordinarie con un linguaggio diretto, spesso contaminato dal dialetto e dagli errori. Ma autentico.

Mi conquistò definitivamente alla prima puntata, o una delle prime, quando mi raccontò la storia di un ragazzo di umili origini, che di pomeriggio puliva le scale nei portoni dei palazzi di lusso di Bari dove abitava la buona borghesia. Per quelle scale un giorno il ragazzo incontrò una sua professoressa, che lo apostrofò: “Che ci vai a fare a scuola, questa è la tua strada. L’università vuoi fare, addirittura?”. Quel ragazzo, seppi poi, era lui stesso e mi raccontò che quel giorno, su quelle scale che stava pulendo, giurò a se stesso che sarebbe diventato professore, che si sarebbe laureato (in realtà credo che Giancarlo di lauree ne abbia prese tre). Decise che nessuno aveva il diritto di spegnere i suoi sogni di ragazzo, quel ragazzo che veniva preso in giro dalla classe perché povero, ma anche perché amava il cinema, i libri e i fiori, che a mazzi era solito portare in classe. Ricordo che leggendo la storia mi commossi e quando seppi che era quella di Giancarlo piansi.

Ero doppiamente felice: di certo per avere una rubrica fantastica sulle pagine del mio giornale; ma soprattutto per aver contribuito al riscatto di un giovane di così raro talento e sensibilità. La scuola, lo studio, avevano consentito a Giancarlo

di raggiungere i suoi obiettivi. Insomma, l’istruzione pubblica, per una volta, aveva svolto la propria missione.

Da quella molte altre storie si sono succedute, e la rubrica nata per caso diventava sempre più un successo, un palcoscenico che Giancarlo gestiva e coltivava. Fra le tante ricordo un’altra vicenda che conquistò i giornali di tutta Italia. Era la storia di un uomo di Santeramo, paese in provincia di Bari, che aveva lasciato il lavoro per passare le mattine ad aspettare la figlia, malata e in sedia a rotelle, fuori da scuola seduto in macchina. “Perché non c’è nessun altro posto al mondo in cui dovrei stare”. Il racconto di quel padre che aspettava la figlia malata diventò virale, prima che imparassimo cosa vuol dire. Dal successo della rubrica vennero libri, consulenze, dibattiti. Visitilli era chiamato ovunque e grazie alla fama conquistata con i suoi scritti decise di fare di più, di dedicarsi al volontariato per aiutare gli ultimi. Ragazze e ragazzi con situazioni difficili, vittime di indigenza e violenza. Un approccio laico che lo ha portato a fare molte cose buone, anche con il sostegno delle istituzioni che avevano imparato a conoscere il suo impegno e il suo valore proprio sulle colonne di Repubblica: l’ex governatore Nichi Vendola, mi confessò un giorno, era un suo fan.

Capirete come per me sia una grande gioia tornare a collaborare con Giancarlo attraverso queste poche righe. Una gioia e un onore essere ancora una volta accanto a quello che per me – fuori da ogni retorica – è un eroe, un piccolo grande eroe dei nostri giorni. E se me lo permettete, lo ringrazio a nome di tutti. Questo libro, infine, ci ricorda quanto sia ancora necessario scrivere. A volte basta una riga ben scritta e una storia per far nascere un’emozione che può contagiare la nostra vita e migliorarla. Scusate se è poco.

Diversi Da chi?

Quando Einstein, alla domanda del passaporto, risponde “razzaumana”, non ignora le differenze, le omette in un orizzonte più ampio, che le include e le supera. È questo il paesaggio che si deve aprire: sia a chi fa della differenza una discriminazione, sia a chi, per evitare una discriminazione, nega la differenza

comPagni di viaggio

Il viaggio, stiamo studiando in questi giorni a scuola. Di Stan e Dean in On the road, quello di Leopold Bloom nell’Ulisse; quello di “Emmanuel negro” nel parco di Parma2; di Manoj e l’amico d’infanzia Stanley in Machan; ma anche quello di Sabrescu, mio alunno indiano, in classe con i suoi compagni. Dall’Odissea di Omero ad Affinati, il viaggio ha sempre una sua circolarità: dalla partenza, percorso, all’arrivo e il recupero, la ricongiunzione, la riconquista definitiva della stabilità, della felicità e dell’approdo. Ma non sempre, nella vita, avviene come nelle pagine scritte.

Dovendo affrontare un programma di letteratura italiana vastissimo, per quest’anno, ho pensato di inserire gli autori all’interno di grandi temi fra cui, il primo, il viaggio. E su questo i ragazzi non si risparmiano.

“Uno dei viaggi più belli – sostiene Massimo – è stato quello che ho vissuto con alcuni miei amici della parrocchia quando, con i ragazzi di Scampia, siamo scesi in piazza per dire ‘no’ alla camorra e all’illegalità. È stata la prima volta in vita mia che mi sono sentito come alcuni personaggi dei romanzi che stiamo leggendo: non solo.”

C’è anche chi avrebbe voluto non partire mai. “Quando sono andato in tribunale per scegliere se stare con mia madre

2 L’autore fa riferimento alla vicenda di cronaca del settembre 2008 avvenuta a Parma, dove il giovane Bonsu Emmanuel Foster fu arrestato e pestato da alcuni agenti della polizia locale, immotivatamente. La gravità della questione in termini di razzismo è stata veicolata dalla foto del ragazzo tumefatto, dopo la denuncia per resistenza a pubblico ufficiale, con i suoi effetti personali rilasciati in un plico con l’intestazione ufficiale del Comune di Parma e con su scritto: “Emanuel negro” [N.d.R.] – Tutte le note esplicative a piè di pagina sono a cura di chi redige.

o mio padre, a causa della loro separazione. Un incubo il tragitto da casa al tribunale.”

Per non utilizzare le mie parole, ho preferito scrivere a Luca, sul suo diario, quelle del cantautore: “Potranno scegliere imbarchi diversi, saranno sempre due marinai”3. Avrei voluto che considerasse anche la scuola una sorta di “marineria di porto” in cui è sempre possibile trovare qualche buon marinaio. O almeno un’àncora. Ma che mai l’avessi detto, perché è intervenuto Sabrescu, originario di Kampur, rimproverandomi per quello che ho suggerito a Luca: “Io ho conosciuto solo naufraghi, di marinai pochi”. Sabrescu è arrivato dall’India in Italia quattro anni fa.

“Ho cambiato sempre i modi per viaggiare, ma ero sempre insieme al mio grande ‘marinaio’: papà.” Solo che per il signor papà di Sabrescu, l’arrivo sulla terra, ch’è rimasta per sempre promessa, ha segnato perennemente la sua condizione di “naufrago”. Morto per gli stenti, anche a causa di un male incurabile, il “grande marinaio” papà di Sabrescu: “È come se per me fosse restato per sempre nel mare, a remare”. Sabrescu ha amato molto La città dei ragazzi di Eraldo Affinati e La leggenda del pianista sull’oceano. Non è difficile capirne la motivazione.

“Professore – grida Stefania, quasi per distrarci tutti in classe, dall’emozione per il racconto di Sabrescu – uno dei viaggi bellissimi è stato quello che feci tanti anni fa con i miei amici di scuola media: la visita al campo di sterminio di Mauthausen.” Stefania racconta il suo viaggio come “il viaggio nei luoghi del dolore. Difficile che anche la letteratura, di qualsiasi autore fosse, possa suscitarmi tanto orrore e voglia di uscire di lì. Volevo tornarmene in fretta”. I ragazzi, messi a contatto con il viaggio verso o nel dolore, son capaci di indossare qualsiasi muta o salvagente, pur di non avvertirne la freddezza e rimanerne con la testa fuori.

Con Carmela, che ha una passione per Dante, ci siamo sof-

3 Francesco De Gregori, “Compagni di viaggio”, in Prendere e lasciare, 1996.

fermati sull’elaborazione del mito di Ulisse, che Dante propone in un canto dell’Inferno. Ulisse e il suo peccato di superbia nei confronti dei decreti divini. “Le minacce che attendono gli sconosciuti, i diversi, gli ‘sporchi negri o musi gialli’, mi fanno pensare molto ad Ulisse che oggi potrebbe varcare il cancello del parco di Parma senza sapere quale ‘dio’ potrebbe castigarlo.” Rimango attonito dinanzi all’inquietudine con cui Carmela sostiene il suo pensiero. Ed è il contrario di quell’inquietudine dell’ospite nietzschiano, riattualizzato da Galimberti4. È piuttosto quello che Petrarca, mai in tal caso così attuale, scriveva nel Canzoniere, a proposito della vita che fugge e non s’arresta e che proprio perché rende più vicina quell’ultima terra, ch’è la morte, provoca nell’animo – anche in quello di Stefania di quinto superiore – la “guerra”. La sensazione di vedere “al mio navigar turbati i venti”. I ragazzi, in questi giorni, dinanzi ai tanti viaggi turbati di loro coetanei o poco più grandi, ma stranieri, sono inquieti, o meglio ancora incazzati. “Ci sembra che il ragazzo di colore a Parma e poi quelli uccisi a Castel Volturno5, e poi ancora la donna della stazione di Roma siano come quelli costretti a subire le mille peripezie nei romanzi di Melville, Mann, Roth, Canetti, Celine, Hemingway, ecc. Solo che qui non si tratta di personaggi inventati: qui sono tutti viaggiatori costretti a diventare naufraghi perché i ‘marinai’ italiani li affondano.” Dinanzi a tali parole, non ho che da esprimere i voti, obbedendo alla Ministra6. Dieci (10).

Gino, impegnato nella Comunità di Sant’Egidio, invece, mi ricorda anche la condizione di quei viaggiatori cui fece riferimento Foscolo e m’interroga: “Professore, a lei cosa fa

4 Cfr. Galimberti U., L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano 2007.

5 Si tratta della cosiddetta “strage di Castel Volturno” o “strage di san Gennaro” avvenuta la sera del 18 settembre 2008 per mano del clan dei Casalesi nei confronti della comunità africana, in cui vennero uccise, all’interno di un laboratorio sartoriale, sei persone innocenti, estranee alle dinamiche camorristiche. Secondo le ricostruzioni giudiziarie il motivo principale dell’efferato delitto è l’odio razziale verso una comunità di immigrati poco incline al lavoro illecito.

6 Il riferimento è a Mariastella Gelmini, Ministro dell’Istruzione, università e ricerca dal 2008 al 2011.

pensare il finale di quella poesia che ha scritto quel poeta dei cimiteri?”.

Non trovo la riposta giusta. Non ci avevo pensato a quello che un mio alunno mi ha insegnato, a proposito degli ultimi versi di “A Zacinto” di Foscolo (Tu non altro che il canto avrai del figlio, / o materna mia terra; a noi prescrisse / il fato illacrimata sepoltura).

“Mi vergogno di questo Paese – mi dice, anche lui inquieto –che uccide extracomunitari innocenti, da una settimana chiusi in bare che non possono raggiungere la loro terra. C’entra il fato o il nostro imbarbarimento?”

È una domanda a cui è difficile dare delle risposte, piuttosto, ammetto la mia difficoltà a rasserenare gli animi di questi viaggiatori con cui navigo ogni giorno e consiglio loro una delle poesie più belle che ho letto ultimamente:

Uomini d’oltre oceano attendono aereo per venire in Italia

molto tipico razzismo troveranno errore criminali crederli

dio loro sicuramente ama

vita difficoltosa hanno

rotte pericolose fanno epici viaggi fanno epoca forte migrazioni

abbiamo bisogno di convivere ora più che mai.

L’autore è Iulio Rosati. Non ho detto ai ragazzi di fare ricerche biografiche su questo poeta, piuttosto ho augurato loro che sui libri di letteratura dei loro figli ci possano essere poesie come queste. Che raccontino il viaggio di chi è diretto verso la terra del continente razzismo.

Un senso

La scuola è un posto fatto così, la cosa più importante che ci può insegnare è questa verità profonda: che le cose veramente importanti non si imparano a scuola

casa dolce scuola

La “classe” è al terzo piano di un palazzo circondato da alberi dal fiore bianco. C’è profumo di buono. Anche perché mi ci accompagnano tre piccoli alunni di una scuola elementare, Carlo, Rosa e Gianluca, di dieci anni, che nonostante il fiatone non nascondono il loro entusiasmo per la cosa. “Devi venire –mi ha detto qualche giorno prima il papà di Domenico – Devi scrivere, non di mio figlio, ma dei suoi amici e dei suoi insegnanti: persone speciali!”

In casa ci accoglie il papà di Domenico e la sua mamma. I tre amici si dirigono direttamente “nell’aula”, ch’è tutta colorata di azzurro cielo, con tanto di nuvole e un sole bellissimo.

“Le piace? – mi chiede mamma Teresa – Lo hanno fatto gli amici di Domenico, facendosi indicare da lui dove sistemare le nuvole.” Di grigiori la vita di Domenico è piena. “Il sole l’ho dipinto io, col dito – mi ha detto, poi, Carlo – Guarda: Domenico c’ha messo pure lui le mani. Combinò un casino, ma ci divertimmo assai quel giorno.”

La casa di Domenico, dal tre settembre a tutt’oggi, non ha nulla di una casa comune: è tutta cartelloni, dipinti, tabelline, disegni, lavagnette e tantissimi dinosauri. Perché di draghi Domenico ne ha visti tanti nella sua ancora breve vita di soli dieci anni. “Ha subito sette operazioni per un brutto male – mi dice papà Giacinto. Tutto d’un fiato – Domenico, dalla prima alla quinta elementare non è mai stato abbandonato dai suoi amici di scuola, sia in ospedale, mentre era ricoverato, sia ora ch’è in casa e non parla più. Ma sappiamo che senza i suoi amici…”

Sorseggiamo entrambi un caffè, nella cucina, anch’essa invasa dai disegni dei compagni di Domenico. “Non fanno festa

a scuola questi suoi amici – mi spiega Giacinto – ma da due anni, a gruppi di tre, ogni mattina, anche la domenica, alcuni genitori li accompagnano qui.”

Nonostante Domenico non parli, i suoi amici gli fanno lezione: “Sì, lei non ci crede? – mi spiega la mamma, annuendo ai miei stupidi occhi lucidi – Ma questi bambini hanno il permesso dei loro genitori e sanno che i loro figli sono qui, non per giocare semplicemente con Domenico, ma perché anche mio figlio possa continuare a fare scuola. La cosa più bella è che sia la dirigente scolastica, sia le insegnanti di mio figlio, non hanno mai voluto far sapere. Noi no, invece, vogliamo far sapere che fra tanto male, siamo circondati da persone che, giorno per giorno, da due anni, si rivelano sempre più come fossero degli angeli”.

Quindi, vado a seguire “la lezione” nell’aula di Domenico: a Rosa, stamattina, tocca raccontare la prima guerra mondiale, mentre Carlo e Gianluca intervengono in continuazione per interromperla, pur di farle capire che loro sono stati più attenti all’insegnante il giorno prima, in classe. Rosa non chiede mai, come capita a me: “Hai capito? Sta’ attento! Rispiegami cosa ho detto”. Lei ha in mano una Barbie e un orsacchiotto e spiega che “questa è l’Inghilterra e questo è la Germania”. Così parla della guerra. A Domenico, che sa meglio di noi che non si tratta di un gioco. “Qualche volta vengono anche le sue maestre – mi spiega il papà di Domenico – ma non spiegano. Semplicemente, gli stanno accanto: basta una carezza, un sorriso, un bacio. A Domenico queste cose fanno assai…”

Nel frattempo Carlo sta impastando le tempere. Rosa ha finito di spiegare. Non suona la campanella, nonostante sia l’ora in cui anche Domenico deve mangiare. Ne approfittano anche i tre per fare colazione, con la crostata che mamma Teresa “ogni giorno prepara con le marmellate diverse – mi informa Gianluca – Peccato che Domenico non le può mangiare”. Perché Domenico mangia, cioè beve soltanto, attraverso dei tubi. “Ti piace, allora? – mi chiede Gianluca, mostrandomi un disegno dipinto a metà – Diglielo a lui!” e mi indica Domenico,

di cui Gianluca regge una mano in alto, impugnando insieme un pennello con cui stanno rendendo verde le colline grigie a matita. C’è sempre il sole nei loro disegni. Anche in quelli che sono in cucina. “Questi disegni sono le parole dei nostri figli – mi spiega papà Giacinto – perché noi non abbiamo solo Domenico. I nostri figli sono anche i ventisei amici di classe di Domenico e i nostri fratelli veri i loro genitori. Senza di loro, la nostra e la vita di Domenico non avrebbero senso.”

Tutto questo in un contesto che si chiama scuola. Con la “S” maiuscola. Perché questi compagni di Domenico non sono di una Scuola Speciale, ma di una Scuola Statale, e di Stato, questi piccoli cittadini grandiosi, hanno tutto ciò che una scuola dovrebbe spiegare e insegnare loro. Compresa quella felicità che io, ancora mentre scrivo, non riesco a trovare, pur non togliendomi dalla mente il sorriso di un padre e di una madre che, grazie alla scuola, hanno ritrovato parte della loro felicità mancata. Grazie a questo modello di scuola, anche Domenico è felice. Anche se solo il suo silenzio me l’ha suggerito.

com’è Profondo il mare

Il mare, quello dell’Iliade e dell’Odissea, di Ernest Hemingway, fino a quello descritto da Pasco, giovane libico, di cui abbiamo letto l’intervista in classe, passando da quello storico e mai così attuale di Amistad di Spielberg.

“È allucinante che a pochi giorni dal primo bagno, lei ci fa ’sti discorsi! L’incubo del mare…” È questo il paesaggio su cui si spalancano le nostre giornate, appunto il mare, l’oggetto di discussione, da settimane. Un mare descritto da tanta letteratura, dipinto dagli impressionisti, ripreso a diverse distanze da molto cinema. Compagno di vita e di morte di molti uomini, donne e bambini, di cui “non possiamo fare a meno di interessarci”, dice Annarosa, alunna impegnata con un gruppo di volontari presso un centro di accoglienza di Bari. “È impressionante pensarci: l’altro pomeriggio, mentre facevo il compito – racconta Francesco – ho pensato a quante centinaia di corpi conserva il mare. Uno scrigno prezioso, ma ricco di morte.”

“Io non mangerò più il pesce, mi impressiona pensare a ciò di cui si sta nutrendo.”

I ragazzi italiani, di questa parte di Paese, a stretto contatto con l’immigrazione – “è piena la nostra città”, “li trovi ovunque. Ma com’è che stanno sempre col sorriso sulla bocca? Eppure hanno passato un casino di giorni in balia delle onde…?” – non restano affatto indifferenti al cambiamento epocale, che di fronte al nostro mare si sta vivendo. Molto probabilmente a riguardo si esprimeranno, si spera, nell’ambito della traccia d’attualità, in occasione degli esami di Stato. “Ma perché, secondo lei allo Stato gliene frega qualcosa di ’sta storia? Figuriamoci se a noi studenti lo Stato dà la possibilità di esprimerci su un fatto così grave.”

“Chi te l’ha detto? – risponde Annalisa – Io credo che non si può fare a meno di pensare a una traccia sui diritti umani. Quindi, conviene prepararci.”

“Speriamo che esce una traccia su queste cose. Professò ma può uscire una traccia in cui si parla di quello che sta succedendo fra le femmine e il presidente7?”

“No, secondo me, c’è da aspettarsi sicuramente una traccia sulla democrazia, la libertà, il cambiamento, mica la scuola può restare cieca di fronte a quello che stiamo vivendo!” dice Andrea. E allora, del mare, del mare nostrum, mai così realmente inteso come mare di tutti, vogliono parlare gli alunni: “Sì, che ce ne frega di quello che accade in Libia, in Tunisia… Mica possiamo fare finta che non esistano queste persone! E tutte quelle che muoiono?”.

“Professore, ma c’è qualcuno che paga per queste morti?”

“Volevo vedere se erano italiani che casino doveva succedere!”

“Bello quel pensiero – sostiene Alessandra – che il mare non si può fermare, allo stesso modo di come nessuno, se ci pensiamo bene, può veramente impedire che la gente si metta su quattro assi di legno e cominci a remare.” Per andare dove, alla ricerca di cosa?

“Senz’altro non della morte” ha risposto Mariella.

“Professore, ma lei come giudicherebbe l’accoglienza strepitosa dei lampedusani? Mi sono commossa a vedere in tv gente che lasciava il cibo sui tavoli, nei giardini, senza sapere chi passasse. Tanti erano, uomini e donne, affamati. Che cosa meravigliosa!”

“Qui da noi – racconta Angela, di Santeramo – ci sono molti albanesi. Ci hanno raccontato i nostri genitori anche della buona accoglienza che hanno avuto, negli anni Novanta, quando sbarcarono a Bari. Loro hanno avuto molta difficoltà a integrarsi, perché anche noi li consideravamo inferiori, come quelli che non vogliono lavorare. Ci dicevano di stare atten-

7 Il riferimento è al caso politico e giudiziario, noto come “Rubigate”, che coinvolse tra il 2010 e il 2011 l’allora Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi.

ti nel paese, perché violentano. È un’emerita cazzata! Io nel gruppo della sera ho due amici albanesi. La famiglia di uno di questi, in questi giorni, di nascosto, nella loro casa, sta ospitando due tunisini, una donna e un uomo. Sono fidanzati.”

Siamo rimasti tutti, per circa mezz’ora, ad ascoltare il racconto di Angela: “Loro sono partiti a distanza l’uno un giorno dall’altro, su barche diverse. Si sono sentiti solo per i primi due giorni, perché poi il cellulare di lei non ha funzionato più. Lui poi è partito e ha detto che quando è arrivato in Sicilia, e poi in Puglia, nessuno gli dava notizia della sua fidanzata. È stato molto male, perché aveva perso le speranze. Per caso, chiamando il padre di un mio amico che abita qui, ma che lavora in Tunisia da oltre dieci anni, ha scoperto che la sua donna era a Santeramo. Ora vivono insieme, ma di nascosto perché non hanno il permesso”.

“Allucinante! – ha risposto Vincenzo, aggiungendo – Professò, ma io non sono veramente d’accordo che uno deve chiedere il permesso di andare dove vuole. Almeno fino a quando non fa danni alle cose e alle persone, perché una persona non deve essere libera di andare dove vuole?”

“Tanto il mare, avoglia che loro fanno e dicono, nessuno lo può fermare. Allora perché a noi piace ancora, dopo tanti secoli la storia di Ulisse. Ci piace proprio a noi uomini essere naufraghi liberi.”

eDUcare stanca

Si sa che la gente dà buoni consigli sentendosi come Gesù nel tempio. Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare cattivo esempio

studio “un tubo”

Durante i colloqui con i genitori, circa l’andamento dei loro figli, spesso mi imbatto in mamme (perché di papà nemmeno l’ombra) che dinanzi al mio classico “suo figlio deve studiare di più”, “sua figlia deve impostare un metodo di studio”, mi rispondono “professore, eppure vedo che mio figlio si chiude nella stanza e sta lì ore e ore”. Ma, in genere, nelle stanze dei figli guai a mancare: stereo-tvschermopiatto-iPod-cellularepc-scaldamuscoli-scaldasogni… Semmai, mancherà la cartella, ma soprattutto il suo contenuto. Magari lasciata all’ingresso di casa o in cantina, appena arrivati da scuola: “Perché la cartella è pesante e fa venire la scoliosi”, altro ritornello dei genitori.

Comunque, pensando di buttare giù qualche riga sulla cosa, ho voluto parlare con i ragazzi del tempo che dedicano allo studio, in occasione della chiusura del primo quadrimestre.

“Fra qualche mese avete gli esami.”

“Professò, io dopo un’ora di studio me ne vado in tilt.”

Quando controbatto a Stefano che “un’ora è pochissimo come tempo”, la sua risposta è stata che io “ho la guerra in testa”. Un modo per farmi capire, nello stile tipico dei baresi, che la mia pretesa è assurda quanto la guerra. A tal proposito, ho conservato vari articoli di quotidiani apparsi qualche giorno fa su un fenomeno abbastanza interessante, che sta coinvolgendo e sconvolgendo l’Italia, da Nord a Sud e che ha a che fare molto con il tempo anche dei miei studenti. I video che spopolano sui siti, in particolar modo su YouTube. Dapprima, avevo pensato che non parlarne sarebbe stato un bene. Ma, intanto, i ragazzi ci passano ore e intere giornate collegati a un sito che di guai ne ha fatti. E non pochi. Se non ho capito male: questo sito sta diventando sempre più “l’oggetto di studio”

degli studenti. Tanto che proprio l’altro giorno, all’ingresso in classe, uno degli alunni mi chiede: “Professore, ha sentito di quella specie di lista di Schindler’s list con il nome dei professori ebrei?”. Quindi, evidentemente, ebbene che si affronti in modo serio il problema dei ragazzi che “navigano” in Internet, e mai sui libri.

Volendomi fermare sul fenomeno circoscritto alla nostra città, con i ragazzi di quinta superiore, abbiamo riletto insieme in classe e commentato un lungo articolo che Gabriella De Matteis, tempo fa ha scritto su “la Repubblica”. Molti dei miei alunni si sono anche divertiti a leggere e commentare, perché “si parla di noi”, mi ha detto esplicitamente Marco.

Su 26 dei miei alunni, solo 6 non hanno visto la “Sparatoria a sangue a Bari Libertà”: il video di un vero e proprio agguato, ripreso tramite cellulare e solo 5 non conoscono nemmeno quello su “la malavita del quartiere san Paolo”. Anzi, Margherita, mi ha raccontato che fino a qualche settimana fa, sullo stesso sito, ha visto, con alcune sue amiche, un video in cui cinque ragazzi stupravano una ragazza, accorgendosi che la casa in cui era girato il video era quella di sua zia.

Addirittura Giovanni ed Enzo mi hanno raccontato che buona parte di questi video, specie quelli più gettonati durante la settimana “sono trasmessi sul maxi schermo in una discoteca”, magari pensando di offrire ai ragazzi, compreso nella spesa del biglietto d’ingresso al locale, proposte concrete di cosa fare all’uscita.

Se la maggior parte dei soli alunni di una classe ha visto gli stessi video, è evidente che buona parte di quelle “ore e ore”, di cui mi parla la mamma dell’alunno, saranno utilizzate per navigare, chattare o fare altro. Tranne che studiare. Qui non si tratta di fare moralismo o “le solite prediche” o “paranoie”, come piace chiamarle ad Angela.

Studiare sta diventando sempre più un optional. Con questo non voglio assolutamente dire che “ai miei tempi…”. Anzi. Ma i dati relativi alla situazione dell’ignoranza dei nostri studenti è sotto gli occhi di tutti. Non c’è bisogno di

“Pupe&Secchioni”, il “Quizzone” o “Le Iene”, per capire che abbiamo anche “studenti plurilaureati” – tra cui qualche ministro – che situano la scoperta dell’America nel Seicento, o come quell’altro che ha ammesso dinanzi alla videocamera che la Seconda guerra mondiale finisce nel ’48. Evidentemente, anche nel caso loro, ci saranno mamme che ammetteranno: “Ma loro stanno ore e ore chiusi in Parlamento”, tra l’altro “ai loro tempi” non c’era Internet. Ma nel caso dei miei studenti c’è da inquietarsi. Dapprima con i loro genitori, i quali si negano un loro dovere: controllare che i figli studino. Aiutarli a capire che Internet non va usato ventiquattrore su ventiquattro; che su questo non si fanno ricerche: ormai Internet serve, alla maggior parte, per tagliare-copiare-incollare temi, versioni in prosa, traduzioni e quant’altro. Se prima avevamo almeno l’opzione di copiare, adesso gli alunni si risparmiano anche quella.

Basterebbe che solo per un’ora si visitasse, per esempio YouTube, andando alla ricerca di quello che i nostri studenti e figli vedono quando stanno “chiusi in camera ore e ore”: esaltazione della violenza e della crudeltà, istigazione all’odio, pubblicità di tabacco e alcool, insieme a tante altre cose positive e arricchenti.

Gli esperti continuamente ci stanno allarmando che fenomeni come la depressione, la rabbia e la scarsa autostima nei giovani, possono essere assolutamente un fenomeno dipendente dall’eccessivo uso di Internet. Con ciò non si vuol proibire l’uso di uno strumento importante e di una parte considerevole della vita sociale della maggior parte dei ragazzi, ma stabilire e far rispettare delle regole può risultare un buon esercizio dapprima per noi educatori, per aiutare i nostri figli a farli incontrare “qualche ora di più al giorno” con il mondo reale, in cui ci sono anche i manuali di italiano-storia-matematica-lingua-uno-due e la possibilità di essere anche bocciati “perché i figli non studiano”.

Giancarlo Visitilli ci riapre i cancelli della scuola, in un viaggio intimo e dinamico nella relazione tra studenti, insegnanti e genitori. In una narrazione a più voci, affidata alle parole scelte degli studenti, il prof presenta un ribaltamento di prospettiva, attraverso uno svolgimento di fotogrammi che accompagna il lettore nella quotidianità di una generazione nata all’ombra del Millenium Bug e cresciuta nell’incertezza delle politiche scolastiche degli ultimi governi italiani, che nel compimento di un ciclo di studi fino agli esami di maturità, si scopre pian piano alle porte della vita “adulta”.

Fra pregiudizi, crisi sociale ed economica, politiche scolastiche instabili, razzismo, legalità e violenza. Tanta violenza: soprattutto verbale ed educativa.

Ma cosa insegna la scuola? Chi è a insegnare, oggi, tra i banchi di scuola? E soprattutto la scuola è ancora in grado di segnare le vite di studenti e docenti?

ISBN 979-12-5626-040-9

Euro 18,00 (I.i.)

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