Ridisegnare la bussola educativa

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Ridisegnare la bussola educativa

Gli effetti del trauma pandemico nei bambini e nei ragazzi

Prefazione di Elvira Zaccagnino

QUADERNI di a cura di Paola Scalari - Marcella De Pra

Paola Scalari - Marcella De Pra

A cura di Ridisegnare la bussola educativa

Gli effetti del trauma pandemico nei bambini e nei ragazzi

Prefazione di Elvira Zaccagnino

Indice

Prefazione

Un inedito percorso di Elvira Zaccagnino

Parte I

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Il gruppo come luogo di Ricerca e di Intervento di Paola Scalari

Passaggi ............................................................................................ 15

Ricomporre frammenti ................................................................. 35

Parte II

Dall’ascolto nascono i pensieri di Marcella De Pra, Giuliana Tonoli, Daniela Cerrati

Tra terremoti e tsunami alla ricerca di nuovi sensi di Marcella De Pra ........................................................................... 59

Il gruppo dei gruppi - di Daniela Cerrati

.................................... 65

Le trame dei bambini e delle bambine - di Marcella De Pra ... 75

Le parole dei legami - di Giuliana Tonoli .................................... 87

Parte III

Insieme si può. Reciprocità, relazione, ricostruzione di Paola Scalari, Raffaella Bonetti, Rosangela Paparella

Menti al lavoro - di Paola Scalari

.................................................. 99

Entrare nell’esperienza

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Emozioni condivise - di Rosangela Paparella ............................. 113

Profughi di baci e di abbracci - di Giuliana Tonoli .............. 114

Scoprire nel gruppo - di David Cerantola............................. 117

La bellezza collaterale dell’imprevisto di Rosangela Paparella ............................................................. 121

Con-sentire l’incontro ................................................................. 125

Emozioni condivise - di Raffaella Bonetti ................................... 125

Crescere è un gioco dentro le matriosche di Marcella De Pra.................................................................... 126

Ascoltare l’altro - di Chiara Panni .......................................... 129

Ci incontriamo, e poi, dove andremo? Quali buchi dovremo attraversare? - di Elena Malaspina... 132

Come quando piove e io mi scordo l’ombrello di Raffaella Bonetti ................................................................... 137

Le età della vita ............................................................................. 141

Emozioni condivise - di Raffaella Bonetti ................................... 141

Una lenta gestazione - di Erika Gallo .................................... 141

Viandanti alla ricerca di umanità - di Elena Nobile ............. 145

Siamo usciti: “C’è qualcuno?” “Sì, io” “Anch’io” allora incontriamoci, ascoltiamoci, raccontiamoci insieme - di Maria Teresa Lerda ................... 148

Apprendere in relazione ............................................................. 153

Emozioni condivise - di Rosangela Paparella ............................. 153

La fragranza della determinazione - di Gloria Lanciotti ..... 154

Coltivatori di pensieri - di Gabriella Zubelli ......................... 157

Allacciate le cinture: viaggiando si impara! di Daniela Cerrati ..................................................................... 160

Abbiamo capito che di Paola Scalari e Marcella De Pra ............................................... 165

Bibliografia .................................................................................... 171

Autori ............................................................................................. 175

Un inedito percorso

Un atto generativo ha come caratteristica l’assoluta inediti cità.

È il risultato di un processo creativo che parte da un’analisi, valuta fattori, mette in campo risorse e competenze andando oltre. Non è la replica o un derivato.

Nasce da un processo e avvia processi che hanno oltre alla caratteristica dell’essere inediti anche la preziosa bellezza di non restare intrappolati da chi e dai contesti che hanno dato statuto di esistenza.

Se manca questo non c’è generatività.

Inedito è un concetto con il quale abbiamo fatto i conti quando nel 2019 l’OMS ha definito pandemica l’epidemia da Covid-19. Una situazione pandemica inedita nelle vite di noi tutti che l’abbiamo subita e attraversata, inedita perché la prima di un mondo globa lizzato nel quale abbiamo sperimentato nelle nostre vite il senso di finito e di limite, a tratti di impotenza, avendo però la responsabi lità come professionisti della cultura, della cura e dell’educazione di stare anche noi per la prima volta in un’emergenza che spuntava e azzerava tutti i metodi e le modalità attraverso le quali il nostro esserci professionalmente doveva fermarsi e ripensarsi.

La consapevolezza che il contesto mai conosciuto richiedeva nuovi apprendimenti ha da subito attraversato i rapporti profes sionali e anche amicali di chi ritroverete nelle pagine di questo testo. Una sensazione si è fatta man mano consapevolezza: la si tuazione nella quale eravamo tutti ci stava chiedendo un cambio di paradigma, un salto. Così come aveva fatto il virus che c’era perché aveva modificato un codice, anche a noi era chiesto di

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fare un salto di paradigma modificando il senso e i modi di fare cultura, cura ed educazione.

Fino a qui non eravamo i soli. In diversi, con ruoli di respon sabilità e decisionali, hanno in quei mesi introdotto il tema del “cambio di paradigma” a cui la pandemia obbligava. Di fatto la prima ripresa dopo l’estate del 2020 ci restituiva con chiarezza che l’intento si canalizzava per lo più non in un cambio, piutto sto una ripresa che impegnava risorse ed energia nel riaggiustare l’orologio rotto a marzo con il primo lockdown.

La percezione che abbiamo avuto è che il tema non era solo lo spaesamento, la paura o la fatica provate e la consapevolezza dell’enorme energia da mettere in campo, ma anche il fatto che si stava approcciando il cambiamento, il salto di paradigma, usando gli stessi strumenti, gli stessi occhiali, le stesse modalità di sempre.

Scoprirsi non inadeguati – perché noi ci siamo sentiti profes sionisti in ogni passaggio della pandemia e l’abbiamo attraversata come tali – ma con strumenti non adeguati è una consapevolezza che può bloccare o può essere il punto zero dal quale attivare un processo mai pensato, avviato, curato, accompagnato. Compiere un atto generativo.

Ci siamo ritrovati nel punto zero e non ci siamo bloccati. Lo scrivo con piena consapevolezza aggiungendo che la strada scelta è stata quella di fare l’unica cosa che sappiamo fare: condividere un pensiero, avviare una ricerca, attingere ai nostri saperi e fare in modo che si impastassero con i saperi di altri disponibili alla ricerca, darsi una traccia e lasciare andare il processo.

Le pagine che leggerete raccontano un processo inedito nato dalla consapevolezza che la pandemia aveva e stava modificando tutti con un impatto sconosciuto sui bambini e le bambine che disarmava noi adulti.

“L’intento della nostra Ricerca-Intervento – scrive bene Paola Scalari – è saperne di più su cosa stia accadendo ai bambini che crescono in relazione ad adulti spaventati essi stessi dalla morte causata da un virus sconosciuto.”

Il metodo in una ricerca non è un fattore irrilevante. E il tema del metodo da darsi ci ha portato a sentire l’urgenza di pensare e metterne in campo uno mai sperimentato. Uscire dalle gabbie delle ricerche, anche tante, fatte a partire dalla domanda “come

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stanno i bambini” facendo un’operazione non fatta mai da altri: “Stare sul noi piuttosto che sul loro”. Stare cioè su quello che il disagio dei bambini e delle bambine provoca generando in noi un senso di inadeguatezza mai provato.

Scoprirete in queste pagine il metodo sperimentato fatto di connessioni a livelli diversi ma concentrici. Leggerete del lavo ro di tessitura nell’ingaggio sulla ricerca di professionisti dispo sti per primi a mettersi in gioco sperimentandosi. Conoscerete il setting dato alla ricerca, che ha avuto come pelle momenti di gruppo formativi inesplorato nella formazione proposta. Non si tacciono, in queste pagine, le difficoltà e nemmeno gli arresti o l’imbattersi nella “buca della paura”. E “la prima veramente af frontata ha avuto a che fare anche con il rischio di non farcela” perché “il compito” era faticoso, con il senno di poi oserei dire “spesso doloroso”.

Leggerete che “si può passare attraverso i buchi solo se c’è un luogo e uno spazio mentale in cui si possono depositare parti ferite”. Una intuizione che è una traccia scritta da darsi per fare il salto del paradigma nelle professioni che facciamo, investendo sul gruppo e non sul proprio io professionale. Perché leggerete “quando vai a vedere un film horror al cinema, una cosa che può spaventare, non vai solo, ma ci vai con gli amici”.

Leggerete, scoprirete, imparerete come noi che “stare” si gnifica anche “so-stare” per sperimentare come stare quando i bambini ci chiedono un sogno diverso perché loro stanno in una situazione diversa da quelle che abbiamo conosciuto, studiato, già accompagnato.

Il libro e tutta la ricchezza polifonica del suo contenuto è un altro passo del processo avviato per arrivare a un atto generativo che ci faccia cambiare paradigma. Che è quello che questi anni ci stanno chiedendo.

Sentiamo di aver tracciato una strada ponendola come car tello stradale su un percorso che ha attinto allo sguardo di un maestro, Francesco Berto, che amava perdersi nelle parole dei bambini.

Una sola accortezza ai lettori: non approcciatevi a queste pa gine per sapere come si può fare. Approcciatevi lasciandovi cat turare dal flusso del processo e provate a so-stare nelle domande,

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A cura di Paola Scalari Marcella De Pra nelle condivisioni di ognuna delle voci che leggerete, lasciandovi rapire dal bisogno di fare rete e lavorare in gruppo.

Elvira Zaccagnino direttrice edizioni la meridiana

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Parte I

IL GRUPPO COME LUOGO DI RICERCA E DI INTERVENTO

Passaggi

Il ripetersi di situazioni traumatiche nel corso dell’infanzia fa sì che alla scissione della personalità subentri la frammentazione, una condizione in cui i frammenti si comportano come personalità distinte senza che ciascuna sappia nulla dell’altra, fino ad arrivare all’atomizzazione

Luis J. Martin, Cabrè Autenticità e reciprocità. Un dialogo con Ferenczi

Il trauma

Lunedì 8 marzo 2020. Viene decretata la pandemia.

Il virus killer devasta famiglie, uccide anziani, strema uomini e donne. Corre veloce in giro per il mondo. Le porte delle scuole vengono chiuse. I bambini passano dalla gioia di un prolunga mento inaspettato delle vacanze di Carnevale al patire il peren torio divieto di recarsi fisicamente in classe.

Il mondo si ferma, o quasi. La vita cambia, per tutti.

Le famiglie rimangono confinate in appartamenti più o meno confortevoli, i ragazzi devono rinunciare ad una scuola in pre senza che li aiuti a socializzare, tutti i giovani sono privati delle attività ludiche e sportive che li fanno sentire appartenenti ad uno specifico collettivo.

Il contagio gira, inesorabile.

L’isolamento diventa la misura di protezione del corpo la sciando ad ognuno la responsabilità della gestione della sua mente.

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Covid-19 colpisce anziani, ammalati, persone adulte ed anche bambini non solo con la malattia, ma anche inferendo subdole ferite psichiche.

I bollettini sui soggetti contagiati, ricoverati e deceduti sono un martellante dato statistico che incute paura, ansia, angoscia, terrore, disorientamento, smarrimento, incertezza, dissociazio ni, scissioni, negazioni, frammentazioni.

Si teme di morire e di veder morire.

Si convive con la paura di una fine solitaria della vita.

Si nega la malattia per il terrore che essa incute.

Si ideano fantasiosi complotti per l’impensabilità del reale.

Si convive con l’angoscia dell’incertezza di fronte all’inevita bile unica certezza: la morte.

Emerge una psicopatologia più o meno evidente.

Distanziarsi fisicamente chiudendosi a casa e/o psichicamen te rintanandosi in una cripta inespugnabile diventa una comune modalità difensiva che fa ammalare la dimensione mentale.

Crolla lo spazio dello stare insieme.

L’isolamento crea aggressività.

La rabbia porta a rinchiudersi dentro le proprie puerili con vinzioni.

L’evitarsi diviene non solo preservarsi dal contagio, ma anche rifiuto del contatto umano.

Vengono meno i sorrisi, gli abbracci, le carezze e i baci deter minando un sottile stato depressivo.

La pelle senza il corpo a corpo diventa confine di un silente involucro.

I bambini, che stanno sviluppando la loro identità, riman gono inesorabilmente deprivati di una esperienza relazionale fondante. Il corpo e la mente si dissociano e mentre il primo si sovraespone all’attenzione sanitaria, la sofferenza della seconda viene sottovalutata.

I bambini intanto fioriscono alla vita con il terrore della morte. È proprio il tanto parlare di contagio letale, di malattia inguari bile, di decessi senza sepoltura, di solitaria fine dell’esistenza la vera novità di questi mesi.

Aleggia un vento di morte che trascina anche i soggetti più resilienti dentro oscuri pensieri ossessivi.

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Circola un senso di precarietà dell’esistenza umana minaccia ta da un minuscolo virus.

Gira un’aria di disfatta della specie che si scopre fragile, vul nerabile, impotente.

Dal marzo 2020 quindi i piccoli crescono deprivati della naturale socialità e immersi in un clima di allarme. Gli adulti esposti al flusso ininterrotto dei media e all’insicurezza di una quotidianità interrotta ne sono portatori e, inevitabilmente, con tagiano mentalmente i piccoli.

Tale esposizione via via nei mesi successivi provoca strane fobie, potenti scissioni, continue negazioni della realtà. Sono se gnali di un patire della vita psichica alcune volte inizialmente asintomatici altre volte, invece, già trasformati in sofferenze che si iscrivono nel corpo e nella mente.

Un giorno diremo: “Questo soggetto è cresciuto negli anni Venti del terzo millennio tra pandemia e guerra. È reduce di un tempo dove la paura dell’altro ‘appestato’ ha precluso un’esperien za fisica della vita. È vittima di un evento che ha distrutto ogni cer tezza. Appartiene alla generazione che ha pagato con l’isolamento la fragilità del sistema sanitario, l’ignoranza del sistema educativo, la confusione politica degli ordini e contro-ordini”.

Se facciamo parte della categoria dei professionisti che riten gono la malattia mentale, nelle pur diverse forme in cui si espri me, non appartenente solo al singolo portatore del disagio, bensì proveniente dagli ambiti familiari, sociali, comunitari, culturali con cui il soggetto si rapporta, dovremo tener ben presente questi anni di pandemia. Questa attenzione ci permetterà delle diagno si che, non fermandosi alla biologia classificatoria, tengano conto del contesto umano dove la sofferenza psichica ha cominciato a svilupparsi.

Non bisogna dunque dimenticare, passare oltre, negare il trauma nell’età evolutiva. È necessario aver consapevolezza – per sempre – di ciò che in quel tempo è successo alla mente umana per orientare la clinica, l’educazione e il prendersi cura.

Per questo motivo è necessario mentalizzare, memorizzare, analizzare, sviscerare, raccogliere e studiare gli stati emotivi del la nuova generazione nata e cresciuta dal 2020. Molti si amma leranno palesemente altri soffriranno per delle inquietudini sot

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totraccia. Tutti dovranno aprire la “porta mentale” che blocca in un altrove tenuto segregato l’angoscia di morte accumulata negli anni dell’emergenza sanitaria.

L’ansia per la vita che finisce viene allontanata, negata, oscu rata portando via una fetta di Sé che però ritorna in scena mo strando identità fragili perché incomplete.

Quel pezzo scisso c’è anche se non è più presente alla coscien za. Thanatos, che sta dietro a quella chiusura ermetica, da lì filtra e impedisce un armonico sviluppo di Eros. Rischiamo quindi la perdita dell’amorevolezza, della benevolenza, della solidarietà, della tolleranza, del legame affettivo.

È urgente quindi – oggi anche in previsione del domani – po ter tenere presente nella lettura del disagio individuale, familia re, comunitario di quanto è accaduto nel tempo dell’emergenza sanitaria. Pensiamo infatti che mai vi sia un individuo malato, sofferente, a disagio, deviante, marginale bensì che si strutturino dei sistemi collettivi, comunitari, sociali e familiari che determi nano la necessità che un soggetto si faccia carico di esprimere e portare alla luce il malessere che circola in questi ambiti. In que sto reticolato di vincoli che si intrecciano, intersecano, struttura no, sciolgono, riannodano il minore è il soggetto che, per la sua dipendenza dall’ambiente umano, è maggiormente predisposto a farsi portavoce del disagio collettivo. Potremo dire che è il pa ziente designato, il capro espiatorio prescelto, il singolo incarica to di assumersi l’onere del disordine collettivo.

È dunque il bambino in relazione l’oggetto del nostro scendere in campo con una Ricerca-Intervento di cui ora proponiamo un resoconto che sia un racconto di ciò che abbiamo incontrato. Il minore è il soggetto che corre maggiori rischi di ammalarsi psichicamente in quanto la pandemia ha reso vulnerabili, im pauriti, confusi e smarriti i suoi adulti di riferimento.

Quando la ricerca diventa aiuto

L’intento della nostra Ricerca-Intervento è sapere di più cosa sta succedendo ai bambini che crescono in relazione ad adulti

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Ridisegna R e l a bussola educativa spaventati dalla morte portata da uno sconosciuto virus. Nessun bambino esiste al di fuori delle sue relazioni quindi il reticolato umano determina lo stato mentale del minore. Guardare quindi da vicino i rapporti tra piccoli e grandi lo si può fare osservando i vissuti dei genitori e dei professionisti che si rapportano con i bambini e i ragazzi. Diciamo che se l’adulto riesce a raccontare i suoi sentimenti possiamo comprendere cosa viva il minore che sta crescendo con lui. Tutti inoltre siamo stati dentro al trauma quindi ci poniamo, fin dall’inizio, come soggetti che nell’incon tro con l’altro potranno soffrire e però, così facendo, riusciranno anche a curare le proprie ferite. Il nostro compito specifico, in quanto differenziato da quello dei partecipanti all’esperienza di Ricerca, è quello di osservare, mentalizzare, narrare proprio quel sentire che nasce dall’incontro.

Pensiamo di poter prevenire la sofferenza relazionale interve nendo direttamente e tempestivamente sul malessere dei legami familiari, sociali, collettivi.

Riteniamo che, se il reticolato con il prossimo fa ammalare, il gruppo operativo possa far star bene chi in questa rete si è im pigliato.

La funzione sociale dello psicologo clinico non deve essere essenzialmente quella di praticare la terapia, bensì di occuparsi della salute pubblica” […] “L’azione deve essere preceduta da una ricerca, ma la stessa ricerca è già una forma di intervento sull’oggetto sul quale si indaga” “La tattica del gruppo operativo deve mirare alla revisione dello schema di riferimento, e quest’ultimo deve essere oggetto di costante indagine.

José Bleger, Psicoigiene e psicologia istituzionale

Abbiamo allora chiamato a questo lavoro con noi tutti i cittadini italiani ingaggiati nell’educare, curare e assistere lo sviluppo mentale nell’età evolutiva. Ed è da questo invito che parte la nostra Ricerca.

In questi anni si è aperta una forbice che ha diviso drasti camente i bambini. Da una parte finiscono i minori che hanno famiglie che possono e riescono a supportarli mentre dall’altra

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parte si collocano tutti quelli che hanno genitori in difficoltà non solo perché per loro è complesso far fronte alla nuova situazione, ma anche perché in casa girano troppe paure, rabbie, violenze, smarrimenti e confusioni.

Anche l’istituzione scolastica mostra due facce. Nella prima incontriamo docenti solleciti e generosi pronti a “inventarsi” stra tegie per stare insieme agli alunni con l’obiettivo di confortarli e aiutarli a non smarrirsi, nella seconda faccia individuiamo docenti impauriti, rigidi, latitanti che danno compiti da eseguire, schede da compilare, pagine da studiare. Questa tipologia di “educatori mancati” né interagisce emotivamente con gli allievi né li fa rela zionare tra di loro lasciando gli studenti al loro destino.

Alcuni operatori dei servizi, infine, si prodigano per i più de boli cercandoli per tenere sotto osservazione sia la “temperatura” emotiva dei soggetti di cui si prendono cura sia quella familiare, che spesso più è a disagio maggiormente si surriscalda nelle gior nate di confinamento, mentre altri si barricano e non cercano i loro pazienti o utenti lasciandoli al loro destino.

Un sistema – pur imperfetto – di contenimento dei più piccoli esposti al virus killer mostra la sua inefficienza lasciando vuoti, voragini, abissi dove i minori “scompaiono”.

Quasi uno studente su cinque è in una condizione di disper sione scolastica sia implicita che esplicita. Il 23% della popola zione che dovrebbe stare seduta tra i banchi di scuola non sta davanti ai monitor per studiare e non torna in aula. L’abbandono del processo d’istruzione è la punta di un iceberg che segnala l’acuirsi di una rottura profonda nel sistema educativo. È questa una crisi che ha portato alla luce durante la pandemia tutte le dif ficoltà del sistema scolastico italiano e tante delle diseguaglianze educative da esso determinate.

Abbiamo accolto allora la domanda che circola, a tratti espli cita e a tratti latente, nel mondo culturale, scolastico, sanitario, sociale e familiare: “Cosa ha significato per i bambini e per i ra gazzi l’evento traumatico che divide la loro esistenza tra un pri ma Covid-19 e un dopo?”.

Questo interrogativo, come in tutte le Ricerche, ci ha condot to successivamente a porci altre domande e ad individuare inedi te verità da indagare ulteriormente.

A cura di Paola Scalari Marcella De Pra
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Il percorso infatti è, sia nella Ricerca sia nella proposta di lettura dei suoi esiti, un itinerario circolare. Comincia con un team di progetto, diventa processo nei diversi gruppi operativi aperti in Italia, viene rielaborato in incontri corali di intervisio ne, appare come pubblicazione attraverso un lavoro di scrittura pensato collettivamente e si apre infine all’incontro dialettico con chi vorrà riflettere su quanto emerso. Ognuno mettendo a disposizione dell’altro e della Ricerca nel suo insieme il proprio sentire. Partiremo dai vissuti poetici dei bambini per impara re a nominare i nostri stessi vissuti. La partecipazione emotiva non inficia la Ricerca, bensì ne diventa il motore che promuove la conoscenza dell’animo umano. Con lo psicoanalista Sandor Ferenczi pensiamo che la comprensione e la conoscenza passino per l’analisi del controtransfert, con i coniugi Baranger inoltre riteniamo che il campo analitico possa essere il terreno comune dell’incontro dei vissuti inconsci, con Wilfred Bion infine spe riamo che il gruppo sia il contesto migliore per dare voce all’im pensato. Ma è con José Bleger che facciamo nostra la concezione operativa e cominciamo a sognare collettivamente un percorso dove azione e conoscenza si connettono intrinsecamente.

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Parte

NASCONO I PENSIERI

II DALL’ASCOLTO

Il gruppo dei gruppi

La sostanza specifica della persona è la sua sostanza relazionale, gruppale e inscindibilmente comunitaria […] Non l’individuo fa il gruppo ma il gruppo fa gli individui che si individuano nel loro trascorrere di gruppo in gruppo

Buongiorno a tutti, immaginiamo di trovarci ancora una volta in gruppo, tutti insieme, dal Nord al Sud dell’Italia, alla fine di questa esperienza. Per me è stato un privilegio poterla vivere e poi riattraversa re, raccogliendo le parole di voi, adulti educatori presenti nei 13 gruppi.

La consegna esplicita era di confrontarsi su come stanno i bambini e gli adolescenti di cui ognuno di noi si occupa. Il sot totitolo di questa esperienza, però, potrebbero essere le parole della poetessa veneziana Patrizia Cavalli, da poco scomparsa: “Ma per favore con leggerezza raccontami ogni cosa anche la tua tristezza”.

Ciò che in prima battuta osservo è un’estrema varietà di vis suti, emozioni e pensieri. Penso che questa sia stata una caratte ristica fondante, molto utile e generativa, di ciascun gruppo e dei gruppi nel loro insieme.

In questa esperienza ogni singola voce ha avuto il valore di un apporto grande, rinunciando alla risposta “unica ed esatta”, in

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una dinamica che ha potuto riconoscere e valorizzare una com plessità di stati d’animo e pensieri molteplici. Siamo partiti dalle parole del libro Parola di bambino, provando ad assumere lo stile di Francesco Berto di

credere fermamente che mai nulla di quello che le persone esprimono va scartato, sottovalutato, respinto […] per trovare strade alternative che avvicinino alla trasformazione del non noto in noto.

In questo modo il gruppo ha potuto tollerare quegli elementi che singolarmente potevano sembrare indicibili ed insostenibili perché riportavano con violenza a contatto con il limite estremo, la morte.

Come dice Stefano Bolognini:

quando le scosse di terremoto sono troppo forti, saltano gli aghi dei sismografi, e il grafico si fa incomprensibile...! Le difese difendono finché reggono, si sa, e l’esame di realtà richiede dispositivi psichici complessi sufficientemente integri, che si alterano facilmente in circostanze traumatiche come questa. L’Io Centrale è un dispositivo tanto raffinato quanto delicato, risente enormemente degli urti e degli impatti della realtà esterna e di quella interna, e si disorganizza quando le condizioni del Sé sono a loro volta alterate.

Mi piacerebbe ora raccogliere i pensieri di tutti, come se fossimo in un’immaginaria seduta del “gruppo dei gruppi”, per vedere insieme cosa ha rilevato il sismografo, all’interno di questo grande gruppo, riguardo ai principali temi ed emozioni che abbiamo attraversato.

Quando ci siamo incontrati la prima volta, il gruppo ha ini ziato a mettere le basi comuni per lo stare insieme, a prendere le misure tra noi e gli altri. Tra alcuni c’era già una conoscenza e quindi dei legami, per motivi di lavoro o personali, altri si sono conosciuti per la prima volta in gruppo. Fin da subito abbiamo iniziato a ripensare insieme al periodo pandemico e a dare parole anche al trauma degli adulti.

A cura di Paola Scalari Marcella De Pra
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Soprattutto all’inizio, nel lockdown duro, ci siamo trovati tutti improvvisamente dentro alle regole, dettate dall’emergenza sanitaria.

Come sono state vissute?

Mi sono sentita vittima delle regole e dentro continuamente a un vortice tra faccio bene o faccio male. Tra paura e rabbia.

E noi, maestre della scuola dell’infanzia, ci siamo sentite sole, ognuna a casa, la scuola vuota. È stato terribile. Anche alla ripresa, il fatto di essere nelle “bolle” e di non poter fare i laboratori insieme, di non poterci aiutare, scambiare gli sguardi sui bambini, è stato molto brutto.

Mi sembra che emerga un certo disagio. Sembra anche che le regole siano state vissute in modo molto diversificato dagli adulti, durante il periodo pandemico.

Abbiamo avuto delle regole dure – che abbiamo recepito e a cui abbiamo obbedito – ma pian piano non c’è stato più un accompagnamento alla regola che cambiava e si modificava.

Il comportamento antisociale di questi tempi, il fatto che vi era anche solo la semplice necessità di trasgredire la regola del distanziamento, eccetera, è un’opposizione ma è forse anche una risposta vitale, fa parte di un bisogno evolutivo.

Io stessa ho dovuto organizzare passaggi e macchine, capire quali strade percorrere per trasgredire le regole e trovarmi a pranzi e cene con i miei amici; ci sembrava di essere tipo i partigiani che organizzavano le strade per resistere. L’obbedienza cieca rischia di soffocare.

Obbedienza cieca o disobbedienza cieca?

Noi siamo esistiti perché avevamo delle regole (riferito all’esperienza del gruppo). Abitare le regole vuol dire creare uno spazio condiviso, nel qui e ora.

Quello che dite mi sembra strettamente connesso con il tema del cambiamento.

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L’impressione è che gli adulti, durante la Pandemia, si siano trovati costretti a cambiare, senza avere scelta, senza sapere do ver andare, senza una bussola ed una direzione precisa. Siamo stati improvvisamente sbalzati fuori dalla nostra comfort zone, senza il tempo di elaborare quanto stava accadendo. Ognuno ha potuto contare solo sulle risorse già costruite, con la sensazione però che non fossero né idonee né sufficienti. Ci si è anche ri trovati a desiderare che questa situazione potesse essere messa il prima possibile tra parentesi, per poter ripartire, perché tutto potesse ritornare come prima.

Sì, io aspettavo un punto, invece continua ad evolversi la situazione. Il cambiamento va accompagnato e osservato. Il cambiamento imposto ha una scadenza. E soprattutto al cambiamento non può seguire adattamento se io non ho una direzione. Spesso però anche noi adulti abbiamo mancato il senso, quindi forse è per questo che è faticoso spiegare il cambiamento se non lo sai neanche tu. Il cambiamento è stimolante e bello, ma anche il cambiamento fa paura. L’ignoto mi ferma e mi spiazza, non so dove orientarmi.

Sentiamo il bisogno di tornare come prima anche se comunque eravamo attaccati in modo precario. Ora siamo sempre in relazione, ma sempre e comunque piegati su di noi.

Non parliamo abbastanza di Covid. È come quando batti fortissimo la testa: non ti accorgi subito del dolore. A noi qua piace cambiare. Quando ci penso adesso non ho più paura di cambiare, mi godo il cambiamento.

È difficile attraversare il trauma e poterne parlare, finché ancora lo si sta vivendo, custodire la domanda, senza la pretesa di una risposta. Emerge una paura profonda degli adulti, che si connette con la solitudine e con la morte, ma anche con le paure di non essere adeguati, di non fare abbastanza, di non capire, di non vedere, di non risolvere. Il ruolo educativo ha fondamentalmente a che vedere con l’accompagnare con fiducia

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il venire al mondo del mistero dell’altro. In una tale situazione di incertezza, è però estremamente difficile, per gli adulti, aiutare i piccoli ad attraversare il trauma della vita, essendo essi stessi immersi in questo clima traumatico. Eravamo in un mondo che ci voleva sani, belli, giovani e ci siamo ritrovati incurabili ed insicuri. Questo processo che sottolinea l’incertezza e la nostra limitatezza fa così tanta paura che in alcuni casi viene negato, come difesa. Tutto ciò destabilizza le menti e crea grandi apprensioni. Nei gruppi è stato possibile esporre la propria precarietà agli altri e condividere fragilità e paure?

Possiamo dire che il trauma collettivo del Covid è stato un vaso di Pandora che ha aperto le paure di tutti: la paura di non sapere se quello che ho imparato a fare, quello che sono, la mia consapevolezza, possono difendermi dalla malattia, dalla morte, dalla fatica, dalla solitudine.

All’inizio avevo paura solo io. Eravamo a casa e al sicuro. Solo mio marito usciva per lavoro. Ma avevamo paura di stare vicini. Non c’erano baci e abbracci in casa tra nessuno.

In questo momento storico l’adulto non ha potuto essere sufficientemente contenitivo, era lui stesso immerso nella paura, senza risposte, ora c’è la terza dose, questa mi aiuta, ma all’inizio non avevamo nemmeno il vaccino. Con la pandemia i pensieri sulla morte sono aumentati e anch’io ho avuto paura di morire l’anno scorso.

Il Covid ha amplificato la paura, in tutti. E, in più, se andiamo a guardare bene, alla radice della paura c’è la solitudine. L’angoscia mi impediva di fare dei pensieri.

Io ho capito che la mia rabbia per la mia amica che non voleva vaccinarsi, era una fortissima preoccupazione, una fortissima paura. Credo sia dura vivere col pensiero costante della morte, col pensiero che uscendo di casa qualcuno possa morire sempre.

La paura però aiuta a salvarsi… a volte c’è la paura di aver paura.

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Quando abbiamo iniziato questa esperienza dei Gruppi Parola di Bambino pensavamo che potesse essere uno spazio per raccogliere le difficoltà di un periodo passato difficilissimo, quale è stato il lockdown. Ci siamo invece trovati ad essere contenitore di angosce presenti e non solo passate, a causa della ripresa dei contagi prima e della guerra poi. Covid e guerra in Ucraina sono due “macro temi” che sono entrati nel nostro mondo interiore e sono circolati nei vari gruppi. Il pensiero onnipotente, culturalmente diffuso, che potessimo essere capaci di far funzionare e risolvere tecnologicamente ogni evento, si è improvvisamente dissolto e ci siamo ritrovati con un senso di impotenza e smarrimento collettivo, difficile da attraversare e mentalizzare.

Ci viene ancora in aiuto Bolognini quando afferma:

Si è detto da più parti che il lungo periodo di pace e prosperità seguito alla Seconda Guerra Mondiale – forse il più lungo nella storia dell’umanità moderna, nonostante le turbative intercorrenti – ha disassuefatto le ultime generazioni al senso della dolorosa precarietà e tragicità della condizione umana, creando così illusioni che eventi traumatici epocali come quello in corso possono poi smentire in modo tremendamente impattante.

Nei gruppi sono emerse queste difficoltà, che bloccano il pensiero, il desiderio, la ricerca di senso, il cammino?

In questo periodo di Covid la difficoltà più grande è stata quella di affrontare la solitudine. Ho avuto difficoltà a fare progetti: avevo un blocco anche nel desiderio di avere un secondo figlio. Faccio fatica ad andare avanti, ho una tensione verso il passato che mi caratterizza proprio e fatico a far convivere queste due cose.

Quello che stiamo vivendo lo vogliamo rimuovere. Stiamo vivendo tutti i ruoli come genitori. Scleriamo e siamo in affanno…

Io ho cercato di staccare un po’, ma per farlo, mi sono isolata dentro una ambivalenza, da un lato una grande spinta a far girare l’ingranaggio, quasi come se fosse tutto a posto, ma in realtà non ho

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mai visto così tanti positivi attorno a me, e io sono preoccupata! Ma allora stai male o non stai male? Non è possibile prevedere nulla, sto riducendo la mia pretesa di prevedere tutto.

Aggiungo questa considerazione: come fare a mandare via la paura? Ora ci sono due mostri: “virus” e “guerra”. Se lasciassi spazio a questo dolore io temo che non riuscirei ad arginarlo… io vorrei essere vero ma ho paura di non farcela… io non so che cavolo dire a chi mi dice non ce la faccio più!

Abbiamo parlato di paura e ora di solitudine.

L’impressione è che gli adulti educatori si siano trovati im mersi in un estremo senso di solitudine e smarrimento, che si è manifestato a più livelli: personale, familiare, del gruppo di la voro, sociale. Di fronte al virus l’Istituzione non aveva sufficienti risorse e programmazione per contrastare l’evento pandemico; c’è stato un grande sconvolgimento di tutte le istituzioni con cui è organizzata la nostra società, che hanno dovuto fare i conti con lo sgretolarsi del senso di onnipotenza e invincibilità.

“Sperimentiamo ogni volta l’evidenza della precarietà e fragi lità di quel pur mirabile fenomeno che è la mente umana, anche nelle sue espressioni collettive”, dice ancora Stefano Bolognini. Ci siamo scoperti intrinsecamente vulnerabili e soli. Questo è stato, a mio parere, il cuore, il tema più caldo e intimo, che abbia mo affrontato e condiviso.

La solitudine è la cosa più spaventosa che c’è da vivere. Questo periodo esaspera le solitudini. Ognuno è chiuso nella sua bolla a scuola, sempre con gli stessi bambini, con le stesse dinamiche. A volte la solitudine è un rifugio per non affrontare. Per proteggere il mio asilo dal Covid, mi sono chiusa in una bolla e mi accorgo proprio quando le persone iniziano ad uscire, che io sono sempre più chiusa e che mi sto deprivando di fare la mia vita.

Io mi sento confuso, con il rischio di non riuscire a dare un messaggio chiaro fuori. Ci siamo arroccati dentro di noi, e questa cosa la sento anche al di fuori del gruppo. Come se fossimo arroccati su un faro per controllare che la mareggiata non butti giù tutto.

Ridisegna R e la bussola educativa
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Personalmente faccio fatica ad accettare l’isolamento sociale di adesso. Questa solitudine mi pesa tanto. In questa pandemia siamo tutti uguali, tutti un po’ appiattiti, tutti ugualmente deprivati di qualcosa.

L’unico modo per sopravvivere è lasciare andare gli schemi. Con la pandemia ho sbattuto contro. Forse ci sarei arrivata con l’età.

Come educatore faccio i salti mortali per ricomporre le risorse familiari e personali, abbiamo bisogno di sostegno. Mi sento come Rambo, col coltello tra i denti.

Quanta fatica!

Viene spontanea una domanda: chi si prende cura dei curan ti? L’impressione è che questi incontri siano stati utilizzati da tutti voi per prendersi cura reciprocamente l’uno dell’altro, per costruire il contenitore, come gli uccelli che paglia dopo paglia costruiscono il nido, in modo che possa contenere e custodire quanto di più prezioso venga da loro generato. Paola Scalari ha scritto: “Il dramma pandemico fece emergere la struttura trau matica, magari riparata da un lavoro su se stessi, ma pur spes so presente in molti soggetti che si occupano dell’altro”. Per un adulto educatore è necessario che queste parti ferite trovino un luogo e un tempo in cui poter essere depositate, per poter “accet tare il repentino cambiamento e la conseguente sfida a continua re ad occuparsi di chi ne aveva bisogno”. Ripensando alla nostra esperienza, è come se trovarsi per costruire insieme il contenito re gruppale avesse in certo modo svolto una funzione riparativa. Cosa ne pensate?

Gli altri siamo noi. La situazione di tutti è difficile ed è una situazione da paragonare alla guerra. La capacità di esprimerla forse è meglio dell’esplosione. Siamo al penultimo incontro a cosa serve entrare così in profondità? A trasformarlo!

Abbiamo un senso di impotenza rispetto a quanto succede in famiglia, ancora di più adesso che gli scambi sono ridotti. È stato importante questo percorso, in cui poter condividere questi aspetti.

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Ridisegna R e la bussola educativa

Come sarà recuperare la spontaneità? – Non ci si dà la mano – Ci si disinfetta in continuazione – In chiesa il segno della pace lo si fa con gli occhi – La comunione la si fa con la pinzetta. Solo al funerale ci si può abbracciare. Le mamme (dell’oncoematologia pediatrica) sono isolate, nemmeno un abbraccio per loro. A volte si gettano tra le mie braccia, malgrado le regole anti-Covid lo vietino, e io ricambio l’abbraccio. Questo mi restituisce l’essenza del mio lavoro.

È stato difficile questo periodo nel gruppo di lavoro. Lo sport di squadra non è detto che sia un gioco di gruppo. Molte volte un giocatore gioca da solo perché vuole emergere, farsi vedere, o perché ha le palle girate. Restituiamo il suo significato alla parola positività. E la positività è non stare da soli anche nella comunità di lavoro.

Siamo alla conclusione. Possiamo dire che “educare è sperare e sperare è educare” (Johnny Dotti). Ma è possibile sperare e quindi educare in questo clima traumatico? Sembra questa la domanda principale, che appare, guardando in controluce que sto nostro incontro. C’è un proverbio che dice: “La speranza è un verbo che si tira su le maniche”. Condividere le ferite è stato, a mio parere, premessa necessaria per poter riattivare il processo creativo, che porta con sé la speranza.

Ma ora come si fa a salutarsi? Cosa ci portiamo via? Cosa la sciamo? Sono un po’ dispiaciuta perché mi sono accorta che questi sono stati mesi duri per far fronte alla pandemia e sapere di avere questo appuntamento è stata una sponda importante. Provo dispiacere a pensare di non averla più. Qualche volta si può fare solo quello che si può, ma c’è un po’ di differenza nel trovarsi da soli in un bosco senza nulla e trovarsi da soli nel bosco con uno zaino pieno di cose e avendo fatto scout. È stato un viaggio non solo cognitivo, ma anche emotivo. Ho sentito lo sguardo attento alle cose che ci accadevano vicino, ma al tempo stesso sempre più largo. Vivo questa conclusione come un inizio,

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A cura di Paola Scalari Marcella De Pra

una nuova nascita, un venire alla luce. E vorrei una seconda edizione del gruppo.

Sarebbe da continuare la possibilità di avere dei momenti in cui fermarsi e ascoltarsi a vicenda. In questo modo siamo passati da “parola di bambino” a “parola di insegnante”. Portandosi via un po’ del gruppo, tolleriamo l’abbandono senza distacco perché ci portiamo via qualcosa, anche solo il modo di pensare.

Grazie per questa ricca condivisione. La parola che mi sembra più rilevante, in conclusione, è fiducia.

In soli otto incontri è stato possibile arrivare a condividere pensieri ed emozioni profonde personali e professionali. Si è cre ata, nei vari gruppi, sempre maggiore intimità, che ha permesso una comunicazione via via più libera ed autentica, per “riattiva re il pensiero tramite il confronto” (Nicoletta Livelli)1. Abbiamo sperimentato che dare parole al trauma della pandemia, accet tare di attraversare insieme le paure, le difficoltà, i dubbi, le con traddizioni, la rabbia e le frustrazioni, senza pretesa di trovare un rimedio o una soluzione, crea terreno fertile per generare nuovi pensieri, desideri, riflessioni, per provare a mettere le basi per avere una mente sempre più capace di accogliere e rispondere ai bisogni del bambino e dell’adolescente. Emerge chiaramente, in conclusione, il desiderio di momenti comunitari per “fermarsi e ascoltarsi a vicenda”, per poter sperimentare un modo di pensa re insieme che sia incompleto, aperto. Abbiamo scoperto che è possibile recuperare un senso di interdipendenza in cui passare dall’Io ad un Noi collettivo e comunitario. Mettere al centro la relazione tra le persone è fonte di un valore generativo inestima bile, perché, come ognuno di voi adulti educatori sa bene, ancora prima del risultato è importante il lavoro condiviso. Ora dobbiamo proprio salutarci e con un po’ di nostalgia, vi ringrazio e vi auguro buon cammino nel bosco!

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1 Livelli N., Un maestro con lo sguardo bambino. Ge nerare l’inedito, in Chi cura chi cura?, “Educazione sentimentale”, 34, FrancoAngeli editore, Milano 2020.

“Le pagine che leggerete raccontano un processo inedito nato dalla consapevolezza che la pandemia aveva e stava modificando tutti, con un impatto sui bambini e le bambine però sconosciuto che disarmava noi adulti.

‘L’intento della nostra Ricerca-Intervento – scrive bene Pao la Scalari – è saperne di più su cosa stia accadendo ai bam bini che crescono in relazione ad adulti spaventati essi stessi dalla morte causata da un virus sconosciuto’.

Il metodo in una ricerca non è un fattore irrilevante. E il tema del metodo da darsi ci ha portato a sentire l’urgenza di pensare e metterne in campo uno mai sperimentato. Uscire dalle gabbie delle ricerche, anche tante, fatte a partire dal la domanda ‘come stanno i bambini’ facendo un’operazione non fatta mai da altri: ‘Stare sul noi piuttosto che sul loro’. Stare cioè su quello che il disagio dei bambini e delle bam bine provoca in noi generando un senso di inadeguatezza mai provato.

Il libro e tutta la ricchezza polifonica del suo contenuto è un altro passo del processo avviato per arrivare a un atto gene rativo che ci faccia cambiare paradigma. Che è quello che questi anni ci stanno chiedendo.

Sentiamo di aver tracciato una strada ponendola come car tello stradale su un percorso che ha attinto allo sguardo di un maestro, Francesco Berto, che amava perdersi nelle pa role dei bambini.

Una sola accortezza ai lettori: non approcciatevi a queste pa gine per sapere come si può fare. Approcciatevi lasciandovi catturare dal flusso del processo e provate a so-stare nelle domande, nelle condivisioni di ognuna delle voci che leg gerete, lasciandovi rapire dal bisogno di fare rete e lavorare in gruppo.”

(Dalla Prefazione di Elvira Zaccagnino)

ISBN 978-88-6153-950-1

Euro 20,00 (I.i.)

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