Scritti imprudenti. Idee e riflessioni intorno alla disabilità

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Claudio Imprudente

Scritti imprudenti

Idee e riflessioni intorno

alla disabilità

Claudio Imprudente

Scritti imprudenti

Idee e riflessioni intorno alla disabilità

PRESENTAZIONE

di Federico Taddia

Non fidatevi di lui, fidatevi di me.

Lo conosco da anni – da troppi anni – ed è l’unica, ineluttabile, indiscutibile verità: non fidatevi di lui.

Sì, non fidatevi di Claudio, che già dal cognome rivela tutta la sua reale natura: imprudente. E, detto tra noi, anche un po’ impudente.

Appare all’improvviso, dove e quando meno te lo aspetti. Con la sua carrozzina sempre un po’ scassata e la sua maglietta sempre un po’ macchiata. Fermo, spesso in un angolo. Magari in prima fila, un po’ defilato. E si fa notare, senza mettersi in mostra: basta la sua presenza per calamitare l’attenzione. Sa attirare gli sguardi; e molti di quegli sguardi si girano poi dall’altra parte perché non sanno bene dove – anzi, come – guardare. E Claudio gode! Lì, fermo su quattro ruote, con il corpo che fa un po’ quello che gli pare, la bocca aperta, gli occhi che svolazzano e una faccia da schiaffi capace di dirti tutto senza dirti nulla.

Non fidatevi di Claudio, perché fa così.

Entra sottovoce nelle vostre vite, vi affianca, vi scruta. A volte espone anche la sua faccia migliore – quelle da “poverino sono un disabile e devi avere compassione di me” –per farti cascare nella sua rete. Per acchiapparti. Per fissarti. Per connettersi con te. Quasi per sfidarti. Sicuramente per spiazzarti e per ribaltarti.

Non fidatevi di Claudio, perché quando con i suoi occhi cerca le parole giuste sulla sua lavagna rossonera, le parole le sa già. Sa già dove e come vuole arrivare. Dove e come vuole prenderti. Dove e come vuole rimescolare le tue convinzioni. Dove e come vuole stupirti. E meravigliarti.

Sì, non fidatevi di Claudio, perché lui è l’uomo delle meraviglie. L’uomo che sa meravigliare e sa meravigliarsi. E lo sa fare con lucidità. Con l’arte del ragionamento. Dell’esperienza. E del confronto. Perché non dà sentenze con il dito alzato – anche perché quel dito, anche volendo non lo può alzare – ma lancia il sasso nello stagno delle convinzioni, dei pregiudizi, degli assiomi. E genera onde che diventano tsunami, capaci di stravolgere certezze assodate o – più semplicemente – consuetudini rassegnate.

Non fidatevi di Claudio, perché se vi avvicinate a lui come gesto di bontà, vi sputa in un occhio; non fidatevi di Claudio, perché se lo commiserate vi ride in faccia; non fidatevi di Claudio perché se segna il Milan potrebbe anche improvvisamente alzarsi in piedi.

Ma soprattutto, non fidatevi di Claudio, perché ha trovato l’elisir di giusta vita: l’ironia.

Il lievito, l’ossigeno, il nutrimento: per Claudio l’ironia è, è stato, e per sempre sarà, tutto questo. L’ironia come stile, l’ironia come grammatica, l’ironia come lettura della società, della quotidianità, della fede, della disabilità e dell’inclusione. L’ironia come arma e come scudo, come microscopio per guardare le cose da vicino e telescopio per essere lungimirante, l’ironia come arte e come testimonianza. L’ironia come scheggia in grado di far saltare qualsiasi prevedibile e scontato algoritmo.

E se, nonostante il mio “allert”, avete comunque scelto di fidarvi di Claudio, in questo libro troverete – riga dopo riga, pagina dopo pagina – tutto il suo pensiero declinato tra le tante facce della contemporaneità.

Un libro che è una raccolta di pennellate, di affreschi, di Polaroid sul vivere oggi. Da credenti o da non credenti. Ma sicuramente da chi ha scelto di crederci: in un mondo capace di trasformarsi, progredire, includere. Partendo proprio dalle imperfezioni – di cui Claudio è il testimonial perfetto – perché senza imperfezione non ci sarebbe evoluzione. Quindi, siate imprudenti. E fidatevi di lui.

PREFAZIONE

di Marco Espa

Presidente nazionale

ABC

Associazione Bambini Cerebrolesi

Claudio è imprudente, skàndalon, passione, azione. Un generatore di energia per l’anima nella fragilità che ci avvolge. Per chi si accinge a leggere questa stupenda raccolta di articoli scritti da Claudio Imprudente per il “Messaggero di Sant’Antonio” (apro una parentesi: Il Messaggero era la rivista alla quale mia mamma era abbonata e la leggo in casa fin da bambino dagli anni Sessanta) spero rimarrà incantato come me, non solo dall’attualità degli argomenti rispetto alla cultura contemporanea che viviamo – cito solo ad esempio l’articolo su Barbie, con Margot Robbie, scritto da Claudio nel 2009, così ritornata prepotentemente alla ribalta dopo l’uscita del film in tutto il mondo – ma anche della visione quasi futuristica e predittoria di ciò che sarebbe accaduto negli anni successivi. Lungi da me fare di Claudio un profeta – come può essere un geranio profeta? – ma sicuramente mi ha fatto sorgere qualche domanda rispetto al perché di questo, da dove traeva la visione che permette a questi agili scritti, mai noiosi, sempre sorprendenti, leggeri nella loro immensa profondità, di sembrare essere scritti tutti oggi. Certo Claudio è un uomo intero, libero, un Maestro vorrei dire, e la sua Laurea Honoris causa dell’Università di Bologna non è arrivata certo per caso. Conosco Claudio dall’inizio di questo millennio, e questo tratto visionario accompagnato da una profonda cultura e una immensa capacità di relazione, di formare e formarsi nel contaminare e lasciarsi contaminare dall’altro da sé, lo ha sempre messo in luce come uno dei migliori intellettua-

li italiani in grado di cogliere le trasformazioni, le crisi, le domande di tutta la società nel suo complesso e di poterne parlare pubblicamente senza mai scendere in luoghi comuni o piuttosto in retorica (e Claudio potrebbe permettersela, la retorica). La mia ennesima sorpresa di oggi è vedere questi scritti sempre attualissimi.

Mi è venuto in aiuto un tratto del suo libro, quando descrive lo skàndalon greco, e ne tratta gli effetti individuali e collettivi.

Scrive Claudio:

[…] la diversità, se vissuta e accettata così com’è, ha in sé un potere sovversivo e rivoluzionario, è l’essenza stessa dello skàndalon, dell’inciampo che si frappone nella distanza tra il diritto e il dovere della partecipazione, un processo faticoso che porta con sé sudore e lacrime ma che quando giunge alla fine apre definitivamente alla libertà […]

e prosegue con una citazione di Pino Daniele – non vi dico dove, vi lascio la sorpresa di trovarlo nella lettura. La pietra scartata che crea inciampo, molestia, interrompe l’ordinario muoversi delle cose che con Claudio diventa testata d’angolo. Lo scandalo – come ci spiega – che lui anche solo con la sua presenza ha creato involontariamente in mille situazioni. L’orgoglio di suscitare cambiamento, ribaltamento, sovversione e rivoluzione permanente e insieme leggerezza, costruzione, energia, cambiamenti culturali costanti nelle nostre relazioni e nella società che ci circonda. Non dire di no a sudore e lacrime perché arriva la libertà. Sono convinto che questa sua routine sempre diversa, momento per momento, la libertà che prepotentemente traspare da tutto quello che ci comunica lo fa diventare quello che è: uno che vede oggi e che vede lontano. Un dono? Forse anche questo ma legato alla sua passione e azione, sempre e comunque, alla relazione e alla reciprocità, alla bellezza di tutto quello che è e che fa.

Fatevi anche voi una passeggiata in questi scritti, avrete la possibilità di entrare (davvero) in relazione con Claudio, anche se non lo conoscete di persona. Claudio Imprudente dà a noi lettori questa possibilità. E ne usciremo tutti più leggeri, un po’ visionari, appassionati e... scandalosi come lui!

Chi l’avrebbe mai detto che un “geranio” come me, continuamente innaffiato da molte persone per tutto questo tempo, fosse ad oggi così rigoglioso e con tanta voglia di raccontarsi per diffondere una cultura dell’inclusione?

Come ho già raccontato in varie occasioni, mi piace essere paragonato a una pianta di geranio perché il 19 marzo del 1960, appena messo fuori il naso nel mondo, i vari dottori hanno scosso la testa come per dire: “Lui gna fa (lui non ce la farà mai!). Sarà per la sua breve vita sempre e solo un vegetale!”.

Subito dopo il verdetto dei dottori, i miei genitori mi hanno portato a casa ma la loro testa era piena di punti interrogativi: “E adesso cosa facciamo? Riuscirà a comprendere? E se sarà in grado di comprendere, come facciamo a capirlo? Come vivrà… sempre se riuscirà a vivere? Ma perché proprio a noi, e perché proprio a lui?”.

Queste sono le domande che tutti i genitori di bambini e bambine con disabilità si pongono non appena i medici comunicano loro la propria diagnosi, e spesso questi dubbi accompagneranno i famigliari per tutta la vita.

Così, in quelle parole dei dottori, i pregiudizi hanno avuto per un attimo la meglio, ma in realtà io non ho mai vissuto come un vegetale anche ora che ho già più di sessant’anni, e ne ho fatte di cose durante tutto questo tempo… “Strada facendo”, per citare il mitico Claudio Baglioni.

Mi verrebbero in mente una miriade di esempi, ma ne cito alcuni, quelli più significativi!

La mia storia umana e professionale

Insieme a un gruppo di colleghi ho contribuito negli anni Ottanta alla fondazione del Centro Documentazione Handicap di Bologna, e in seguito alla realizzazione del gruppo educativo Progetto Calamaio, il cui obiettivo sin dalle origini è sempre stato quello di cambiare l’immagine della disabilità, proponendo percorsi educativi e di animazione sociale nelle scuole: con i colleghi e le colleghe del gruppo Calamaio abbiamo realizzato più di diecimila incontri nelle scuole di tutta Italia e nel mondo.

Parallelamente, attraverso il mio percorso spirituale improntato sulla fede cristiana, e soprattutto grazie al supporto di mia madre Rosanna, è nata la comunità di famiglie “Maranà-tha” che ha da sempre incentrato il proprio operato sull’accoglienza di immigrati/e, minori in affido e in generale di persone che vivono in condizioni di marginalità sociale.

Nel 2011 mi è stata conferita dall’Alma Mater Studiorum di Bologna la laurea ad honorem in Formazione e Cooperazione su proposta e forte volontà di Andrea Canevaro, indimenticabile docente di pedagogia speciale all’Università di Bologna che ha anche contribuito alla creazione e all’evoluzione del Centro Documentazione Handicap.

E così il CDH nel 1996 da piccola biblioteca è diventata una vera e propria associazione che gestisce un centro di documentazione e ricerca sui temi della disabilità, del disagio sociale, del volontariato e del Terzo settore.

Oltre a essere formatore nelle scuole e nelle università, ho scritto diversi libri che affrontano e approfondiscono tematiche e questioni legate all’autodeterminazione delle persone con disabilità e all’inclusione sociale.

Non posso tralasciare un pezzo fondamentale della mia vita professionale che mi ha portato a divulgare in maniera molto personale i miei contenuti, principi e valori: parlo del mio lavoro di giornalista per le rubriche dei portali d’informazione on line “SuperAbile INAIL”, “Superando.it” e del

mensile “Messaggero di Sant’Antonio” per cui ho scritto centinaia di articoli, alcuni davvero curiosi e coloriti, altri più dal carattere riflessivo e critico. Il libro che leggerete, come spiegherò meglio più avanti, è una selezione articoli che ho poi diviso per argomenti.

La rivoluzione coinvolge me, ma anche l’altro

Tutto il mio operato è stato possibile in quanto io per primo ho fortemente voluto essere protagonista della mia vita, portatore di un cambiamento culturale, ma nel mio percorso non posso tralasciare la bellezza e l’importanza del supporto di tante persone che mi hanno accompagnato, offrendomi l’opportunità di attraversare vari contesti di fiducia: famiglia, scuola, lavoro, persone che più o meno consapevolmente sono state promotrici di inclusività.

Il loro ruolo è stato quello di credere in me, nelle mie capacità e potenzialità: questa fiducia non ha fatto altro che innescare un processo di autodeterminazione, generando a sua volta altra fiducia, oltre che in me stesso, soprattutto negli altri.

Un approccio del genere, in un periodo storico (gli anni Settanta e Ottanta) in cui la disabilità era ancora invisibile, non era per niente scontato.

Basti pensare che molte e molti non avevano alcuna esperienza con la disabilità, queste persone vivevano recluse in casa, dovevano rimanere nascoste. Di conseguenza, vedere una persona con i miei deficit in grado di comunicare attraverso lo sguardo e una tavoletta in plexiglass, generava un impatto notevole, sentimenti di imbarazzo, disagio, paura, ma anche di stupore e meraviglia.

Progressivamente si è verificata poi un’evoluzione che ha portato un cambiamento di paradigma nei confronti delle persone con disabilità: si è passati da un approccio medico-sanitario, dove la persona con disabilità veniva con-

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siderata soggetto passivo, destinataria di cure e assistenza, a un approccio totalmente differente, che la vede, cioè la rende visibile, al centro della propria esistenza (non a caso il piccolo e il grande schermo, i social media sono pieni zeppi di personaggi pubblici con delle disabilità) protagonista di cambiamenti culturali, capaci di scardinare i pregiudizi e gli stereotipi.

È un processo in divenire, una continua rivoluzione che non si arresta mai.

C’è troppo ancora da lavorare su tanti temi e questioni, legate alla vita indipendente, all’affettività e alla sessualità, per fare alcuni esempi. Ed è per questo che ho sentito il bisogno di scrivere un nuovo libro, o meglio riprendere e sviscerare alcuni contenuti che nel corso della mia vita hanno subito un continuo rinnovamento, arricchendosi di nuove prospettive e sfaccettature.

Il perché di questo libro

Ogni uomo ha un desiderio e credo che molti abbiano proprio quello di lasciare traccia del proprio passaggio, come fece il famoso filosofo Seneca, citato dall’autore Vito Mancuso nel suo libro dal titolo Non ti manchi mai la gioia. Breve itinerario di liberazione (Garzanti, 2024):

Voi imparerete tutto questo tramite la cultura. Non c’è nulla di più importante della cultura, il cui nome deriva da coltura, ovvero coltivazione, e quello che imparerete a coltivare sarà la vostra interiorità […] La gioia è la prima cosa da ricercare, da volere ante omnia, prima di tutto il resto, e quindi si può dire che chi vive nella gioia ha compiuto lo scopo del suo essere qui.

Coltivando la nostra interiorità con piccoli e grandi gesti nella vita quotidiana, possiamo imparare a godere della gioia e questo Seneca ce lo ricorda sempre, come quando esorta –

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nelle Epistulae morales ad Lucilium il poeta e scrittore Lucilio – “Prima di tutto fa così, Lucilio mio: impara a gioire!”.

Parlando di desideri, gioia, ho voluto in questo libro dare traccia di tutte quelle cose che ho ricercato e coltivato in questi anni, affrontando vari argomenti tratti dagli articoli che ho scritto dal 2007 ad oggi sul mensile più letto d’Italia: il “Messaggero di Sant’Antonio”.

Questa lunga collaborazione è stata fondamentale per la mia formazione di scrittore. Gli articoli scritti per 18 anni sul “Messaggero di Sant’Antonio” sono molti e ho dovuto fare una selezione ragionata; ho scelto di prendere in considerazione quelle tematiche il cui valore, nonostante il passare del tempo e il mutare della situazione storica e culturale, non è diminuito ma, anzi, rimane intatto.

Corpo, diversità, famiglia, fede, immagine, inclusione, pregiudizio, scuola: sono questi i temi attorno ai quali ho raccolto una selezione più significativa di quanto ho scritto, temi che penso siano necessari a ribaltare pregiudizi e stereotipi ancora oggi molto radicati nell’immaginario collettivo sulla disabilità.

Uno spazio articolare l’ho dedicato ai personaggi, alcuni incontrati direttamente, altri di cui ho letto dai mass media; sono persone che mi hanno incuriosito, hanno stimolato la mia riflessione, sono persone che hanno lasciato un segno sul tema generale della disabilità per quello che hanno detto o fatto. Gli articoli selezionati per questa sezione sono stati tratti anche dalla rivista “SuperAbile”.

E adesso vorrei ringraziare sentitamente tutte le persone che mi hanno voluto bene e che me ne vogliono ancora oggi, nonostante i miei difetti, le mie ansie e le mie paure. Non è scontato che tutte queste continuino a starmi vicino, e a mettere le loro mani a disposizione per un mondo più inclusivo e di pace.

Non mi resta che augurarvi una nuova buona lettura!

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SOSTENERE IL CAMBIAMENTO

Le parole contro i pregiudizi

L’uso delle parole, la creazione di nuovi sillogismi può produrre un cambiamento culturale che allontana la disabilità da una immagine negativa o pietistica, legata solo ed esclusivamente a una condizione di fragilità.

Le persone con disabilità hanno un ruolo fondamentale in questo cambiamento.

“Contanimazione: maneggiare con cura” “Messaggero di Sant’Antonio”, ottobre 2008

Giocare con le parole è stata da sempre una mia passione. Ricordo che quando ero piccolo mi divertivo a invertire le lettere all’interno di alcuni sostantivi per vedere se potevano trasformarsi in una parola diversa e già sensata o se diventavano una successione di suoni alla quale io stesso potevo dare il significato che preferivo.

Potevo creare così un mondo di parole inventate che rappresentassero cose reali o anche parole inventate con le quali nominare cose inesistenti. Ma, se si gioca a coniare termini che non siano di uso comune, si corre il rischio di non poter comunicare questa creazione. Per riuscire a farlo c’è bisogno di un linguaggio (qualsiasi) che sia condiviso.

Col tempo, pur non rinunciando privatamente a inventare parole-concetti “irreali”, ho imparato a sfruttare questa mia inclinazione in modo più comprensibile e, quindi, condivisibile, comunicabile.

La parola e il suo uso creativo sono un potente mezzo di espressione di sé e di azione nel mondo. Ma, per agire in

esso, almeno in parte dobbiamo conoscerne il linguaggio e non parlarne o intenderne uno a lui del tutto estraneo.

Se si gioca con questa consapevolezza con le parole, queste davvero ci danno la possibilità di interpretare e intervenire nella e sulla realtà e di fornirne visioni nuove, meno asfittiche, di sovvertire pregiudizi.

Ma, senza poter stare nel mondo, senza poterlo calcare, è difficile, se non impossibile, imparare coscientemente il suo linguaggio. E questo è tutt’altro che scontato per una persona con disabilità.

Se ho potuto imparare le parole, tanto da poter fare del loro utilizzo “creativo” (in ogni senso) uno degli aspetti fondanti del mio lavoro e di quello del Centro di Documentazione che presiedo, è proprio perché ho cercato e avuto la possibilità di stare effettivamente nel mondo, di esserci in modo non-virtuale, mediato. Di apprendere dal mondo, di subirlo, a volte, di gioirne, rattristarmene, ecc. Conoscere il mondo e la sua lingua (le sue lingue) è il primo passo per poter contribuire all’“animazione” del mondo stesso.

A proposito di “animazione” e di tutto il discorso fin qui fatto… è di qualche giorno fa un’ulteriore piccola invenzione, la parola “contaminazione”: questa nasce dall’accostamento di due termini reali che produce come uno slittamento, un surplus di senso, richiama più concetti, senza esaurirne alcuno. Richiama, in primis, l’idea di contaminazione, la quale presuppone una compresenza, un’esperienza comune, un esserci insieme. Non prevede, cioè, l’esclusione, ma al contrario la partecipazione, la possibilità di accesso a una condizione di “assorbimento”, di acquisizione. La presenza nel mondo di cui parlavamo prima. Inoltre, il neologismo richiama l’immagine dell’animazione, il secondo momento fondamentale: quello in cui, già contaminate, a loro volta le persone disabili contaminano, contribuiscono cioè all’animazione del mondo, alla determinazione dei contesti e delle situazioni. Si fanno, cioè, animatori.

Poter stare nel mondo e farsi contaminare, acquisire conoscenza (in ogni senso); poter animare, produrre cultura (in ogni senso): alla realizzazione di queste due condizioni è legata un’attiva presenza delle persone disabili nella realtà sociale.

DEMOCRAZIA E INCLUSIONE SOCIALE

La rete della disabilità

Prima di parlare di inclusione, mi vorrei soffermare su una parola che le sta vicina, ossia quella di democrazia. Una parola ricca di tante sfumature delle quali è difficile dare un’unica definizione, ma che può essere forse così sintetizzata: democrazia non è trattare tutti allo stesso modo, ma ognuno secondo le sue possibilità e abilità.

Un’altra parola che ha un’importante connessione con l’inclusione è quella di rete: “La disabilità vive di relazioni, di scambi, di esperienze, di cultura, di politica, di divertimento, oltre che di aspetti pratici. Tutto questo amplia e varia in continuazione le sue sembianze e ce la presenta come una borsa più o meno attraente a seconda di quello che di volta in volta vi vedremo esposto in maniera più o meno lampante. La rete della disabilità, tuttavia, non è solo una questione di immagine. La disabilità non solo riempie la rete ma la crea, mettendo insieme frutti diversi che prima crescevano su alberi separati e piantandone di nuovi”.

Liberté, egalité, fraternité, diversité, opportunité “Messaggero di Sant’Antonio”, febbraio 2010

Anni fa fece discutere la proposta (poi attuata, credo) di un ministro, il quale proponeva di sostituire o affiancare in ogni aula di giustizia la scritta “La legge è uguale per tutti” con una che recitava “La giustizia è amministrata in nome del popolo”. La questione non era solamente nominale, inserendosi l’iniziativa tra altre che intendevano modificare alcuni elementi del nostro sistema giuridico.

Ma restiamo alla scritta cui siamo stati da sempre abituati, quella meno recente, perché, se c’è una cosa che mi ha sempre turbato, e mi turba ancora, è proprio quella: “La legge è uguale per tutti”. A colpirmi non era la frase in sé, la quale, all’interno di un tribunale, è, o dovrebbe essere, garanzia di pari trattamento per poveri e ricchi, potenti e indifesi, colpevoli e vittime, rei ed innocenti. Come disse Lech Walesa, inoltre, “la legalità è il potere di chi è senza potere”, quindi strumento democratico per eccellenza, se esercitata a dovere. Ma leggere così frequentemente quella frase, mi spronava ad addentrarmi in un ragionamento che passasse dall’“essenza” della giustizia all’“essenza” di ciò che è giusto.

So che le due cose non possono essere separate del tutto, ma vorrei spiegarvi come i miei pensieri ricadessero più sul campo attivo, propositivo della vita di ognuno di noi, quello che riguarda la possibilità di realizzare qualcosa, di fare quello che più ci piace o ci riesce meglio. E, necessariamente, sulle condizioni “minime” perché questo possa accadere. Sentivo, quindi, il bisogno di ragionare su questioni quali l’uguaglianza, le opportunità e le diversità. Come si possono coniugare, tenere insieme uguaglianza e libertà? E uguaglianza e diversità? E diversità e opportunità?

L’errore più banale che si può fare è quello di considerare questi termini come oppositivi, ritenere, cioè, che sia necessario operare una scelta tra di essi, invece che approfondire i modi in cui queste diverse istanze possono essere integrate tra loro, e quindi cooperare per un obiettivo comune, condiviso. Non credo di sbagliarmi se dico che questi termini contengono già in sé il medesimo risultato e, in mano nostra, sono gli strumenti per costruire e garantire le condizioni necessarie alla piena realizzazione di ognuno di noi. Meglio ancora, sono esse stesse le uniche condizioni in cui le persone possono vivere e che devono essere conservate, alimentate, non potendole mai considerare come date una volta per tutte.

Credo, quindi, che quando uno dei tre termini soccombe in nome degli altri, quelli stessi cambiano di segno, si allontanano dal loro significato più vero e ne va, allora, della possibilità stessa della democrazia come dovrebbe essere intesa, o, quanto meno, della nostra capacità di progredire nella realizzazione di un sistema effettivamente democratico. Ho il timore che negli ultimi anni si sia diffusa un’idea piuttosto minimale di democrazia, che non prevede l’esercizio, la pratica della stessa se non come partecipazione elettorale e che si risolve nella delega, anche questa sempre più svuotata di senso (le liste elettorali, ad esempio, sono bloccate, decise altrove). Essa invece è letteralmente il risultato delle nostre azioni e relazioni e del modo in cui le intendiamo; è nelle nostre mani, non funziona per meccanismi che si autoriproducono e si mantengono sempre uguali. Siamo noi che determiniamo il suo funzionamento e le forme di questo funzionamento, l’equilibrio fra le varie istanze di cui parlavamo prima. Il termine “democrazia” è ricco di tante sfumature delle quali è difficile dare un’unica definizione, ma, a mio avviso, può essere così sintetizzato: democrazia non è trattare tutti allo stesso modo, ma ognuno secondo le sue possibilità e abilità. Come vedete, i tre termini di partenza, ovvero diversità, opportunità e uguaglianza (nelle differenze) si ritrovano tutti in quest’unica “formula”.

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Politicamente corretto?

Pregiudizio: “Opinione preconcetta, capace di fare assumere atteggiamenti ingiusti, specialmente nell’ambito del giudizio odei rapporti sociali”. Gran parte del percorso storico legato all’evoluzione dell’immagine sociale della disabilità è segnata da pregiudizi che la associano al male, a espressione di forze malefiche. È una maledizione. Come si combattono questi pregiudizi? Con il gioco, l’ironia! Nel gioco si diventa complici e la complicità è alla base dell’inclusione. È trattare l’altro come uguale e diverso da sé, senza mezze misure. È ciò che ci insegnano spesso i bambini anche agendo in modo “politicamente scorretto”, modo che in questi casi diventa un mezzo per restituire agli altri la loro vera immagine, non sfuggire alla realtà.

Farsi il segno della croce quando passa il disabile

“Messaggero di Sant’Antonio”, 2009

Stavo facendo il pieno di benzina quando ha squillato il telefono, in un giorno non lavorativo. Non so perché, ma mi sorprendo sempre quando suona il telefono, faccio un balzo sulla carrozzina, è più forte di me e, a volte, la sorpresa è giustificata, come in questo caso, ma l’ho saputo solo qualche giorno dopo. La conversazione è stata piuttosto rapida: l’interlocutrice si è soltanto presentata e ha chiesto se potesse incontrarmi di persona, per parlarmi di un progetto che aveva avviato in Africa, in Tanzania. Ci siamo dati appuntamento per la settimana successiva.

Bruna Fergnani è una signora elegante, dal tono di voce molto pacato, ma al tempo stesso dalla personalità forte e

dalle idee chiare. Di certo, aperta ai mille casi in cui, spesso involontariamente, possiamo trovarci, e che sta a noi rendere delle opportunità.

Il giorno in cui ci siamo incontrati, Bruna mi ha descritto meglio il suo progetto. Lascio a lei la parola:

Cercherò di farvi intuire cosa significa essere disabili qua a Iringa (Tanzania). Grava sulla madre, ritenuta responsabile della nascita di un figlio diverso, la condanna all’isolamento sociale; grava sul figlio l’essere spesso considerato figlio del demonio. I padri quasi sempre scappano abbandonando madre e figlio indegni e spesso scappano anche le madri, abbandonando la prova della loro indegnità nelle mani di nonne che non possono fuggire. In un mondo perennemente in cammino chi non può camminare è condannato all’isolamento, in un mondo che lotta per la sopravvivenza chi non può badare a se stesso è condannato all’oblio. Accade anche che il disabile impari a tendere una mano, a trascinarsi sulla strada e a sorridere diventando fonte di guadagno per l’intera famiglia, o che sia preda di fanatici, convinti che basti un pezzo del suo corpo per guarire dall’Aids. […] Viki, sedici anni, cammina come una paperetta e si comporta come una bambina di quattro mesi; molti sono convinti che Viki sia figlia del demonio e ne hanno paura. Ageni, tredici anni, era la più brava della scuola, molti pensano che il malocchio gettato su di lei dagli invidiosi l’abbia resa incontinente e paralizzata negli arti inferiori; Ageni spera che un esorcismo le restituisca l’uso delle gambe. […] La mamma di Stevin, quindici mesi, è stata cacciata da casa dalla famiglia del marito perché colpevole di aver messo al mondo un bambino che non sta seduto e non parla; il marchio di colpevolezza le ha indurito il viso. Viki, Ageni, Stevin e altri come loro vivono ad Iringa (Tanzania); malattia, superstizione, ignoranza e miseria hanno quasi annientato la loro umanità, ma in quel “quasi” c’è posto per muoversi insieme verso una ritrovata dignità.

Bruna e il marito, dopo una vacanza in Tanzania, pur senza esperienza, hanno deciso di fondare un’associazione (Nyumba Ali, www.nyumba-ali.org) e aprire un Centro

Diurno, una casa-famiglia, a Iringa, per cercare di allargare gli spazi di quel “quasi” di cui ci parla Bruna nella lettera. Non facile, se di mezzo c’è il demonio! Ecco un elemento interessante, l’associazione tra disabilità e diabolico. Proprio come in Occidente almeno fino a trecento anni fa (poi non l’abbiamo più associata al diavolo, eppure per fare passi avanti di tempo ce n’è voluto). Quando i termini della questione sono questi, lo spazio di manovra è davvero ristretto, perché ci si relaziona con un piano trascendentale e assiologico: giusto/sbagliato, puro/impuro, bene/male, buono/cattivo. Ovvio che per affrontare la disabilità occorre posizionarsi altrove, interrompere la catena del giudizio, scendere dal cielo, salire dagli inferi e restare sulla terra. Abbandonare la magia, il sortilegio, le categorie e affrontare le persone. Sia ben chiaro, non intendo dire che noi dobbiamo imporre una visione e una cultura a qualcun altro: questo non risolve i problemi, potrei fare innumerevoli esempi. Ma nulla ci vieta di provare a inserirci in quegli spiragli di “quasi” che permettono, forse, un cambiamento che non sia vissuto come un’imposizione. È quello che Nyumba-Ali sta cercando di fare, lavorare sulla cultura, attraverso la pratica, fuggendo qualsiasi giudizio sulla realtà in cui opera. Ancora oggi in Italia, quando passo, c’è qualcuno che si fa il segno della croce: vedete quanto è difficile cambiare una mentalità? Ma, forzando e imponendo i cambiamenti, dubito che questi possano affermarsi in modo solido. Occorre tenacia, pazienza, non avere paura del tempo che passa.

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L’uso delle parole, la creazione di nuovi sillogismi può produrre un cambiamento culturale che allontana la disabilità da un’immagine negativa o pietistica, legata solo ed esclusivamente a una condizione di fragilità. Le persone con disabilità hanno un ruolo fondamentale in questo cambiamento.

ISBN 979-12-5626-032-4

Euro 18,00 (I.i.)

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