Una storia nonviolenta. Aldo Capitini e il Seminario internazionale del 1963

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UNA STORIA NONVIOLENTA

e il Seminario internazionale del 1963
EMANUELE FOLLENTI Aldo Capitini

Emanuele Follenti

Una storia nonviolenta

Aldo Capitini e il Seminario internazionale del 1963

Prefazione di Giuseppe Moscati

INDICE Prefazione di Giuseppe Moscati 7 Introduzione 11 I. Comprendere il Seminario: una biografia di Aldo Capitini 21 II. La preparazione del Seminario 59 III. Le voci dei protagonisti 101 IV. L’eredità del Seminario 161 Conclusioni 195 Bibliografia 201

Prefazione

Un Seminario internazionale per il potere della persuasione nonviolenta

Il lavoro che ha condotto Emanuele Follenti – intorno a un focus specifico e così ricco di addentellati con la storia, la filosofia, la cultura politica e la società come il Seminario del 1963 dedicato al metodo e alle tecniche della nonviolenza – è prezioso da diversi punti di vista.

Quello che mi sento di prediligere, anche in virtù della fortuna di aver potuto seguire l’iter che ha portato all’edizione del presente volume, ha a che fare con una mia persuasione di sempre, o meglio da quando mi occupo di Aldo Capitini: la sua “è, in definitiva, una profonda riflessione sul concetto di potere”. A questo, per esempio, è intimamente legato tutto il lavoro capitiniano per il C.O.S., quel Centro di Orientamento Sociale che coincide con il “primo grande esperimento politico” di Capitini, come giustamente viene rilevato.

Il persuaso nonviolento Capitini, il libero religioso Capitini, l’educatore alla lotta politica Capitini, l’indipendente di sinistra Capitini, ma in un certo senso anche il Capitini poeta del Colloquio corale e di tanti altri versi aperti al tu (e massimamente al tu-tutti), ragiona e ci aiuta a ragionare su una versione radicalmente alternativa di potere. Non dominio, non sopruso, non esercizio di sfruttamento dell’altro, bensì potere di tutti e dal basso, potere aperto appunto, potere “di aggiunta” nonviolenta rispetto a quella che egli considerava la “realtà insufficiente” permeata di violenza e imposta dalla logica sottostante alla cosiddetta legge di natura.

Capitini, che nella sua vita non è mai rimasto passivamente spettatore di barbarie e che dice il suo fermo no alla guerra come risoluzione dei conflitti tra Stati e al contempo all’uso

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della violenza nella gestione delle relazioni umane più quotidiane, lavora instancabilmente a questo importante incontro internazionale di Perugia che, di fatto, si rivela “uno dei più grandi centri di riflessione nonviolenta esistenti al mondo”. Lo fa da visionario consapevole che il centro di tutto non può che essere l’idea di “comunità aperta”, come bene chiarisce Follenti; lo fa rileggendo in chiave originale la lezione di Gandhi, di Tolstoj e di altri maestri di nonviolenza; e lo fa sforzandosi costantemente di tenere assieme teoria e prassi, argomenti filosofici e prassi di nonviolenza.

Per tutto questo è bene non dimenticare l’interpretazione bobbiana dell’omnicrazia di Capitini, che in ultima istanza rappresenta la riflessione più matura del filosofo sui generis perugino, come di una sorta di corrispettivo politico del tema religioso della compresenza: di una religione aperta, inclusiva, profondamente ispirata a quella fratellanza tra i popoli che ha offerto sostanza all’idea di pace da lui promossa in mille iniziative e soprattutto con la Marcia della Pace Perugia-Assisi del 19 settembre 1961.

Il Seminario è un vero e proprio terreno di coltura delle attività a venire per la crescita della cultura della nonviolenza, con lo sguardo rivolto all’urgenza di costituire una “Internazionale della Nonviolenza”.

Grazie alle pagine che seguono, allora, possiamo prendere ancor meglio consapevolezza di una delle grandi novità apportate dal Seminario stesso: la nascita, l’anno successivo, della rivista “Azione nonviolenta”, attraverso la quale il Movimento Nonviolento continua tutt’oggi a “mantenere un constante contatto diretto con tutti gli ‘amici della nonviolenza’; specchio fedele e puntuale del pensiero di Aldo Capitini” ed efficace strumento di divulgazione del metodo, delle tecniche e dei mezzi necessariamente nobili della nonviolenza. In tal senso si leggano anche i numerosi passi qui dedicati al rapporto fraterno di Aldo con Pie(t)ro Pinna, alla nascita e allo sviluppo dei Gruppi di azione nonviolenta (Gan), al nuovo corso dell’antimilitarismo italiano e così via.

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Ecco allora che lo studio proposto da questo libro di Emanuele Follenti, tra i più brillanti studiosi capitiniani, si svela una preziosa opportunità per riattraversare la genesi, il fenomeno, la finalità e – perché no? – la commovente bellezza dell’impegno di persuasione nonviolenta del nostro compresente Aldo Capitini.

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introduzione

Oggi, come tanti anni fa, il nome Aldo Capitini è conosciuto quasi solo tra gli “addetti ai lavori” e non trova posto nei libri di scuola, probabilmente perché egli è stato molte cose: filosofo sui generis, poeta, pedagogista, attivista per la pace, leader politico e libero religioso. Soprattutto, è stato uno dei più raffinati teorici della nonviolenza. La diffonde in Italia, patria del machiavellismo politico, dopo aver studiato Gandhi e Tolstoj; crea un movimento popolare in Umbria, la regione di Francesco d’Assisi, nonviolento per eccellenza; connette l’attivismo italiano con i movimenti pacifisti internazionali.

Tra pandemie e guerre molte cose sono cambiate, ma la vita e il pensiero di Capitini continuano a rappresentare una preziosa luce per orientarsi nella complessità del nostro presente.

Questo libro ha una data importante al centro, il 1963: cinque anni prima della sua morte, dopo una militanza trentennale che ha attirato l’attenzione di politici e attivisti di tutto il mondo, Capitini realizza insieme a pochi amici un Seminario Internazionale di dieci giorni per riflettere sul metodo nonviolento e sulle sue tecniche. Il ’63 è un anno di speranza in tutto il mondo, con il tentativo di distensione tra Stati Uniti e Urss, la spinta continua dei movimenti pacifisti e antinuclearisti e la pubblicazione dell’enciclica Pacem in terris da parte di papa Giovanni XXIII. I partecipanti al Seminario interpretano brillantemente lo spirito di rinnovamento che si respira: infatti, le riflessioni che vengono prodotte anticipano alcuni temi caldi del ’68 e sono ancora oggi di grande attualità: educazione nonviolenta nelle scuole, disobbedienza civile, partecipazione democratica alla vita politica, rispetto per il mondo animale e scelta vegetariana, persuasione alla pace.

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Il “Seminario internazionale di discussioni sulle tecniche della nonviolenza” (Perugia 1-10 agosto 1963), promosso dal Movimento Nonviolento per la pace1, rappresenta uno spartiacque importante nella storia della nonviolenza italiana. Due anni addietro, la prima Marcia Perugia-Assisi aveva unito sotto il segno della pace gruppi, associazioni e partiti ideologicamente distanti tra loro, ottenendo una sorprendente partecipazione popolare.

A seguito del successo dell’evento si era costituito proprio il Movimento Nonviolento, anche se quest’ultimo inizialmente restava ai margini delle attività di Capitini: il filosofo ricopriva, infatti, la presidenza della neonata Consulta italiana per la Pace, organismo che riuniva i principali movimenti pacifisti italiani. Ma la Consulta è fragile e si sgretola per le differenze ideologiche dei gruppi aderenti e per la lenta egemonizzazione della componente comunista; perciò Capitini decide di dedicarsi totalmente al suo Movimento. Lo fa con l’amico di una vita, Pietro Pinna, il primo obiettore di coscienza al servizio militare in Italia, che erediterà la guida del MN dopo la morte del filosofo.

È stato possibile analizzare dettagliatamente il Seminario grazie al ritrovamento, qualche anno fa, dei “nastri” dell’evento (23 ore di interventi e dibattiti), digitalizzati e resi disponibili presso l’archivio sonoro del sito Internet di Radio Radicale. In occasione di uno degli incontri pubblici dedicati alla scoperta, il 30 ottobre 2015 a Perugia, Mao Valpiana, presidente del Movimento Nonviolento, ha raccontato che i nastri magnetici si sono mantenuti intatti per circa trent’anni presso la sede del MN a Perugia. In seguito, quando Pinna trasferì il materiale nella nuova sede di Verona, questi rimasero nella soffitta fino al loro ritrovamento, avvenuto casual-

1 D’ora in avanti abbreviato in Movimento Nonviolento o MN. Dopo alcuni anni, infatti, in conformità con l’ampliarsi delle attività proposte dal gruppo, dalla denominazione vengono tolte le parole “per la pace”. Cfr. Nonviolenza in cammino Storia del Movimento Nonviolento dal 1962 al 1992, Edizioni del Movimento Nonviolento, Verona 1998, p. 6.

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mente per mano dell’archivista Andrea Maori, che stava, in quel periodo, sistemando l’archivio del MN2.

L’analisi delle registrazioni è stata integrata in questo libro con un’attenta lettura della documentazione relativa al Seminario, consultabile presso l’archivio del Movimento Nonviolento a Verona e presso il Fondo Capitini, conservato all’Archivio di Stato di Perugia, al fine di ricostruire dettagliatamente il lungo iter preparatorio dell’evento.

Lo studio della dieci giorni perugina appare fondamentale per stabilire un contatto diretto con l’apparato epistemologico e teorico del gruppo capitiniano, nonché con l’ampio repertorio di tecniche nonviolente (manifestazioni, sit-in, boicottaggi, marce, scioperi “alla rovescia”, ecc.) a disposizione degli attivisti. Proprio a partire dal Seminario si ripercorre il cammino di Capitini per l’attuazione di quel pacifismo nonviolento e integrale nel nome del quale il filosofo conduce le sue principali campagne: quella per la sensibilizzazione dell’opinione pubblica sull’obiezione di coscienza al servizio militare; quella per l’antimilitarismo, riassunta dal principio di “non collaborazione” con la guerra e con tutte le sue forme; quella per la libertà religiosa, contro una Chiesa dogmatica e chiusa in se stessa; e ancora, la promozione di centri in cui sperimentare la democrazia diretta e il potere dal basso.

Dal punto di vista storiografico, lo straordinario impegno di Capitini per la promozione di una cultura di pace e nonviolenza va inserito nel più ampio contesto della peace history durante la guerra fredda in Italia. Da un lato, esiste un discreto numero di studi sulla questione della pace durante gli anni del “centrismo” degasperiano, tra i quali spic-

L’audio del dibattito sul ritrovamento dei nastri, organizzato il 30 ottobre 2015 dal Movimento Nonviolento e da Radio Radicale, in collaborazione con la biblioteca comunale San Matteo degli Armeni e con la Fondazione Centro studi Aldo Capitini, è disponibile all’indirizzo: www.radioradicale.

it/scheda/457304/incontro-dal-tema-capitini-nastri-ritrovati.

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cano quelli di Giorgio Vecchio3 e di Anna Scarandino4 che sottolineano la vivacità del pacifismo italiano ma anche la sua frammentarietà, causata dai contrasti politici e ideologici tra i diversi attori coinvolti5. Dall’altro, per quanto concerne la storia dei movimenti orbitanti intorno a Capitini, ci si rifà alla lettura di due volumi del già ricordato Maori6 – al quale si deve un grande ringraziamento anche per quanto riguarda lo studio del Seminario – e alla monografia Fiori nei cannoni di Amoreno Martellini7. Inoltre, si tenta di ricollegarsi all’unica “storia ufficiale” del MN, edita nel 1998 a cura dello stesso Movimento8, che pone simbolicamente l’inizio dei lavori di Capitini e del suo gruppo nonviolento proprio dopo il Seminario9. Fondamentale è anche lo studio della fitta corrispondenza che il filosofo intrattenne con altri intellettuali ed attivisti, nonché delle memorie di alcuni attivisti del gruppo, così da ricostruire gli eventi e delineare la rete di attivisti orbitanti intorno a Capitini. Non si può comprendere il Seminario e la lunga militanza di Capitini senza studiare la teoria nonviolenta e i suoi risvolti in campo filosofico, pedagogico e politico; un’elaborazione teorica interdisciplinare che, per la sua straordina-

3 Vecchio, 1986; 1993.

4 Scarantino, 2006; 2009, pp. 141-178.

5 Sull’argomento, approfondito nel primo capitolo del libro, cfr. Moro, 2012, pp. 145-157.

6 Cfr. Maori, 1988; 2013.

7 Per una disamina del ruolo dei movimenti pacifisti italiani negli anni Cinquanta e Sessanta in relazione al contesto internazionale, cfr. Tolomelli, 2015, pp. 55-95.

8 Cfr. Movimento Nonviolento, 1998.

9 “Apparve indispensabile, per poter essere in grado di influire nella qualificazione delle iniziative della Consulta, che il Movimento vi acquisisse un peso derivante da una forza ed un’esperienza proprie, atte a dare risalto al carattere specifico del suo contribuito. Occorreva pertanto attivare il Movimento in sé, ancora formato di poche persone e privo di iniziative proprie. Nell’estate del 1963 quindi, esso organizzò un Seminario sulle Tecniche della Nonviolenza della durata di dieci giorni, al cui termine fu tenuta una riunione di una decina di amici rimasti per discutere sul possibile avvio di un’attività specifica di Movimento”, Ivi, pp. 6-7.

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ria attualità, continua ad essere studiata con vivace interesse10. Un corpus letterario fatto di saggi, articoli di giornale, discorsi e persino poesie che restituisce perfettamente la complessità e la trasversalità disciplinare di un personaggio troppo spesso marginalizzato ed appiattito dai suoi contemporanei, sospeso tra due “etichette”: quella di guru spirituale lontano dal mondo reale e quella di contestatore della Chiesa cattolica.

Capitini è un intellettuale scomodo che attira anche l’attenzione delle forze dell’ordine: infatti, la questura di Perugia apre un fascicolo su di lui all’inizio degli anni Trenta per via della sua militanza antifascista e non lo chiude mai, continuando a seguirlo attentamente fino alla sua morte11.

Capitini ha soprattutto il merito di aver diffuso il metodo nonviolento in Italia. Un’operazione complessa, viste le difficoltà incontrate dal filosofo per costruire e diffondere una prassi politica che delegittimasse l’uso della violenza e il ricorso alla menzogna nella patria del “machiavellismo” politico. Come ricorda Rocco Altieri, egli “nonostante i limiti di una salute malferma e le difficoltà di essere un ‘isolato’ nel panorama politico italiano, può essere considerato, a tutti gli effetti, tra i fondatori di una scienza politica nonviolenta”12. Non a caso gli si attribuisce la paternità dello stesso lessema (“nonviolenza”) e delle sue forme aggettivali13. Ca-

10 Si legga, in particolare, la tesi di dottorato di Roberto Baldoli, Nonviolence as Impure Praxis – Reconstructing the Concept with Aldo Capitini, University of Exeter 2015. Il ricercatore italiano, insignito lo scorso anno dell’Hutton Prize for Excellence, si è posto l’obiettivo di ricostruire il concetto di nonviolenza attraverso una nuova definizione, che ne superasse la divisione tra teoria e prassi, proprio grazie allo studio delle opere di Capitini.

11 Cfr. Cutini, 1988; Maori-Moscati, 2014.

12 Altieri, 1998, p. 10.

13 Sebbene non sia ancora penetrata adeguatamente nel lessico comune italiano, la maggior parte dei dizionari italiani registra la voce “nonviolenza”, aggiungendo tra parentesi anche la variante “non-violenza” (che è presente, ad esempio, in una delle tracce della prima prova dell’esame di Stato del 2014). Nella versione digitale del Vocabolario Treccani è riportata la forma univerbata, come calco della forma inglese nonviolence,

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pitini, seguendo l’esempio di Gandhi, lo distingue espressamente dalle espressioni “non violenza” o “non-violenza” perché sia chiaro che non si tratta di semplice astensione dalla violenza, ma di impegno attivo per il cambiamento, di un mutamento radicale che investe ogni singolo essere, di una grande speranza e promessa di rinnovamento.

In questo libro si cerca di approfondire un aspetto spesso marginalizzato della vita di Capitini, ovvero la sua figura di leader pacifista ed antimilitarista e di rivalutarne, perciò, l’impegno politico. Infatti, prendendo in prestito le parole dell’intellettuale Norberto Bobbio, grande amico del filosofo perugino:

Capitini non è e non vuole essere un filosofo. […] Legge e discute i filosofi; ma mira a trasformare il mondo, non a interpretarlo14.

L’obiettivo di questo volume è studiare l’impegno politico di un uomo che all’idea di partito contrapponeva quella di “centro” aperto all’iniziativa di tutti; un intellettuale che unisce intorno a sé pacifisti integrali, uomini e donne che non si accontentano di quel pacifismo legalitario e generico che aveva dimostrato la sua inconsistenza e superficialità nel corso degli anni.

adoperata da Gandhi a partire dal 1920, accompagnata da una citazione di Capitini. Inoltre, in ambito internazionale, il termine viene spesso accostato al filosofo perugino. Per esempio: “The origin of the combined term, nonviolence, can probably be attributed to the Italian thinker Aldo Capitini (1992: 438), who, in 1931, began to use it to refer to the ethical-religious concept of ahimsa, in addition to those struggles undertaken by Gandhi and his followers, identifying the term nonviolence with that of saty¯a graha, invented by the Indian leader. Capitini intended to reduce the strong dependence of the concept on the term ‘violence’. Consequently, he wanted to emphasize the importance in identifying nonviolence with a humanist conception, of a being spiritual opening for conflictive human relations”. Cfr. López Martínez, 2015, p. 66. Pertanto, in conformità con la scelta linguistica che Capitini adotta nelle sue opere, all’interno della presente trattazione verrà adottata la forma univerbata. 14 Bobbio, 1984.

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In questo senso, si è pensato di dividere il lavoro in quattro capitoli.

Il primo ha lo scopo di presentare la figura di Capitini attraverso un profilo biografico che si conclude con l’inizio della collaborazione con Pinna e la preparazione del Seminario. La vita di Capitini si svolge “Attraverso due terzi del secolo”, come recita il titolo del suo breve profilo autobiografico scritto nell’agosto 1968, a due mesi dalla morte, ed inviato all’amico Walter Binni; quest’ultimo lo fa leggere ad un altro amico della nonviolenza, Guido Calogero, che lo pubblica all’interno della sua rivista “La Cultura”. La vita del personaggio viene ricostruita attraverso gli avvenimenti che lo portano alla costituzione del Movimento Nonviolento, così da comprendere meglio la sua lotta per la creazione di centri di aggregazione sociale, di gruppi antimilitaristi per la promozione di una democrazia dal basso e di un nuovo modo di intendere la religiosità.

Il secondo capitolo affronta l’iter di preparazione dell’evento e descrive le reazioni della stampa italiana. Attraverso lo studio delle carte preparatorie emergono gli aspetti più pratici dell’organizzazione del Seminario: la mancanza di fondi economici, l’invio di numerose lettere ed inviti in tutto il mondo, la scelta del sito, la definizione degli alloggi per i seminaristi, la preparazione di uno schema riassuntivo sui temi da trattare e così via. Vengono approfonditi i rapporti del MN con le associazioni pacifiste e nonviolente italiane e si osservano gli sforzi fatti da Capitini e Pinna per raccogliere le adesioni e realizzare un evento che avesse respiro internazionale. In questo senso, a colpire maggiormente sono le collaborazioni strette con associazioni internazionali come la neonata Amnesty International, la World Peace Brigade for Non-violent action e il Comitato dei Cento inglese, anche se, nonostante i numerosi scambi epistolari e gli inviti diffusi, le adesioni non furono numerose come auspicava il comitato organizzatore. Molto risalto fu dato alla partecipazione, per tutto l’arco dei lavori, di Peter Ca-

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dogan, vicepresidente del Comitato dei Cento inglese, e di Bertil Svahnström, pacifista svedese, presidente, dal 1961, del Campaign Against Nuclear Weapons (Kma) e curatore della rivista pacifista “Freden”.

Il terzo capitolo è quello in cui si dà spazio alle parole dei protagonisti, che si confrontano attivamente su temi ancora oggi di disarmante attualità. Non a caso, infatti, si è scelto di dedicare ogni paragrafo ad un personaggio e al tema introdotto da quest’ultimo, allo scopo di riprodurre le discussioni che i seminaristi tennero in quei giorni. Si tenta di definire il significato della nonviolenza attraverso le parole di Aldo Capitini e Guido Calogero, il “filosofo del dialogo”, con il quale Capitini aveva collaborato durante la Resistenza alla stesura del manifesto liberalsocialista. Vengono analizzati gli interventi di Edmondo Marcucci, storico collaboratore di Capitini, sul vegetarianesimo, sollecitando i seminaristi a chiedersi se sia o meno da considerare una tecnica nonviolenta.

Emerge, durante tutte le giornate, la posizione più pragmatica e rivoluzionaria di Peter Cadogan, che considera la nonviolenza indispensabile per sovvertire l’ingiusto ordine sociale ed economico del mondo, ma che, al contrario di Capitini e Marcucci, non è interessato al vegetarianesimo, né tantomeno ad un potenziale ruolo del cristianesimo in ottica antimilitaristica. Alla terza giornata di lavori partecipa anche Danilo Dolci, attivista in Sicilia, che dagli anni Cinquanta collaborava con il gruppo capitiniano. Inoltre, lo psicanalista Franco Fornari parla delle conseguenze psicologiche della guerra atomica e dell’importanza di promuovere una campagna di sensibilizzazione contro le armi atomiche sul modello dei movimenti antiatomici inglesi. Gli interventi di altri studiosi, come il sociologo Franco Ferrarotti, si alternano progressivamente con quelli di esponenti storici del gruppo capitiniano, come Ferdinando Pucciarini, Aldo Stella, Luisa Schippa, l’avvocato Luigi Clementi, Daniele Lugli, Giacomo Santucci, la pacifista milanese Eugenia Bersotti, e molti altri.

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Il quarto e ultimo capitolo è dedicato agli avvenimenti successivi al Seminario, alla fine del quale si riunì un piccolo gruppo di “amici della nonviolenza”15 per dare vita al periodico “Azione nonviolenta” e al Gruppo di Azione nonviolenta (Gan), allo scopo di promuovere teoria e pratica nonviolenta in tutta Italia. Oltre ad illustrare le altre decisioni prese dal gruppo dopo il Seminario, vengono qui analizzate le iniziative promosse da Capitini e Pinna dal 1964 al 1968, anno della morte del filosofo perugino e del definitivo passaggio di consegne tra i due.

Con questo libro si tenta di gettare luce sul lascito ideologico ed organizzativo del gruppo di Capitini, approfondendo la sua figura, le sue numerose collaborazioni e il suo instancabile entusiasmo per la causa nonviolenta, nonchè la storia di tanti piccoli movimenti e gruppi formati da grandi persone e tenaci lottatori, che non hanno mai perso la speranza di costruire una società più giusta, attenta alle differenze culturali, alle minoranze e al dialogo.

15 Lo stesso Daniele Lugli, il 30 ottobre 2015 a Perugia, in occasione del dibattito sul ritrovamento dei nastri del Seminario del 1963, ricordava che Capitini si riferiva spesso ai membri del gruppo e a se stesso in quel modo; il filosofo perugino fornisce una simile spiegazione anche in occasione del suo intervento introduttivo alla prima giornata di lavori del Seminario. Cfr. supra, cap. III.

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i. ComPrendere il Seminario: una biografia di aldo CaPitini

Il giovane Aldo e l’antifascismo

Aldo Capitini nasce a Perugia il 23 dicembre 1899 da una famiglia povera: il padre è il campanaro della torre civica del Palazzo dei Priori e per questo motivo l’intera famiglia abita in un appartamento all’ultimo piano del Municipio, nel punto più alto della città. L’educazione del giovane Capitini è improntata su valori semplici e genuini, mentre a scuola subisce l’inevitabile influenza della letteratura futurista, dei suoi manifesti e delle sue innovazioni, permeata da patriottismo e nazionalismo; ma quasi subito arriva la “conversione”: “dalla vita di esperienze all’austerità, dal nazionalismo all’umanitarismo pacifista e socialista, dalle letture contemporanee allo studio delle lingue e letterature latina e greca”16.

Il dramma della prima guerra mondiale, “l’inutile strage”, gli provoca il definitivo distacco dall’educazione adolescenziale; il giovane Aldo lascia l’impiego da ragioniere e per due anni si dedica allo studio concentrandosi in particolare sulle opere di Leopardi e Kant17. Nel 1924 ottiene la maturità classica da privatista e l’anno seguente viene ammesso, con una borsa di studio, ai corsi universitari di letteratura e filosofia della Scuola Normale Superiore di Pisa. Nel 1929 arrivano la laurea con lode e il perfezionamento, discutendo una tesi su Leopardi con l’italianista Attilio Momigliano, di cui diviene assistente volontario alla Facoltà di Lettere e Filosofia, mentre Giovanni Gentile, fresco commissario della Normale e futuro rettore, lo assume come segretario economo18.

16 Capitini, 2016, p. 26.

17 Sin dai primi anni della sua formazione intellettuale, Capitini si definisce “kantiano-leopardiano” e l’influenza dei due autori sarà decisiva nelle sue opere e nelle sue attività. Cfr. Bobbio, 1984, p. 262.

18 Cfr. Cavicchi, 2005, p. 36.

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A Pisa, un maturo e determinato Aldo passa progressivamente dall’interesse verso la letteratura a quello per la filosofia e la politica in uno scenario dominato dal fascismo, che Capitini inizia a contestare (sebbene con ritardo19) a partire dalla Conciliazione tra il Regime e la Chiesa Cattolica, consumatasi nel febbraio del 1929. La Chiesa è scesa a patti con la brutale dittatura fascista e ha inequivocabilmente tradito i valori evangelici: “Fu lì, su questa esperienza, che l’opposizione al fascismo si fece più profonda e divenne in me religiosa”20. È il suo moto di ribellione contro l’istituzione cattolica, che avrebbe avuto la possibilità di opporsi fermamente alla dittatura ma che, al contrario, l’aveva appoggiata. Per Capitini è arrivato il momento di approfondire una spiritualità più pura: uno dei suoi modelli di riferimento è il “Gesù uomo”, brillantemente studiato da Piero Martinetti, uno dei dodici accademici dell’Università di Milano che rifiutano di prestare giuramento di fedeltà al regime, allontanato dall’ateneo pisano nel 1931; l’altro è san Francesco, i cui insegnamenti di umiltà e carità non erano mai stati veramente accolti dalla Chiesa; e ancora, Giuseppe Mazzini e la religiosità libera da dogmi e il vivo umanitarismo di Lev Tolstoj.

Sono gli anni in cui elabora il concetto di religione come “libera aggiunta”, che sarà al centro di tutta la sua riflessione sulla nonviolenza. Coltiva con passione gli studi filosofici,

19 “Avevo un senso così serio, umano e autentico delle strutture, che il fascismo non mi prese minimamente, e se non partecipai attivamente alle iniziative politiche opposte fu soltanto perché ero tutto preso dalla mia costruzione culturale e dai miei malanni. Oggi mi pare quasi impossibile che né la Rivoluzione liberale, né i socialisti, né Gramsci mi abbiano preso, tra il 1921 e il 1924, e io lo attribuisco anche al fatto che la fragilità della salute mi aveva indotto ad andare in campagna per rimettermi (facevo il precettore), e questo mi staccò dalle ripercussioni dirette della politica, che pur seguivo. O forse si potrebbe dire che io dovevo fare solo quando avrei potuto dare aggiunte singolari e diverse, e in quegli anni veramente non ero ancora capace di dare qualche cosa, che doveva invece maturare per successivi momenti,” Capitini, 2016, pp. 26-27.

20 Cfr. Cavicchi, 2005, p. 38.

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Kant in primis, insieme al collega Claudio Baglietto con il quale crea gruppi di studio a Pisa. Anche Baglietto è un ribelle: dopo aver ricevuto da Gentile una borsa di studio per recarsi in Germania, il collega matura, lontano dall’ambiente pisano, la scelta del rifiuto assoluto della guerra e dell’obbligo di prestare servizio militare, diventando di fatto il primo obiettore di coscienza italiano, inamovibile nella sua scelta nonostante i severi richiami sopraggiunti dall’Italia21. Così Gentile chiede a Capitini di dissociarsi dalle azioni dell’amico e di dichiarare fedeltà al fascismo, prendendo la tessera del Pnf. Capitini rifiuta, viene espulso dalla Normale e torna a Perugia dove si procura da vivere dando lezioni private e si avvicina agli studi e al pensiero del goriziano Carlo Michelstaedter, dal quale mutua il concetto di “persuasione”, uno dei princìpi fondamentali della nonviolenza capitiniana22. Dal 1933 alla Liberazione Aldo evita l’isolamento intellettuale, restando in contatto con gli amici della Normale e incontrando, a Palazzo dei Priori, i primi gruppi di studenti che si stanno emancipando moralmente e ideologicamente dal fascismo e dal suo sistema di valori23. In questo contesto, in occasione di un soggiorno nell’autunno del 1936 presso gli amici Walter Binni e Luigi Russo, Capitini conosce Benedetto Croce, grande punto di riferimento intellettuale negli anni pisani, grazie al quale, nel gennaio dell’anno seguente, riesce a pubblicare un libro che presenta, anticipando i tempi, tutti i temi del suo futuro impegno per la pace e la nonviolenza: Elementi di un’esperienza religiosa. Risultato delle riflessioni pisane e degli anni di introspezione, insieme ad altri tre saggi compone la cosiddetta “tetralogia dell’antifascismo”24 e rappresenta l’apertura ad una

21 Cfr. Altieri, 1998, p. 26.

22 Cfr. Polito, 2001, pp. 32-35.

23 Cfr. Cavicchi, 2005, p. 61.

24 Gli altri tre saggi in questione sono: Vita religiosa, scritto nel 1942, Atti della presenza aperta, raccolta di poesie dell’anno seguente, ed infine La realtà di tutti, scritto durante il periodo di clandestinità e stampato solo nel 1948.

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nuova realtà e una concreta speranza di rinnovamento, in un periodo in cui, dopo le tragiche e simboliche morti dei fratelli Rosselli, di Gobetti e di Gramsci, si sarebbe presto consumata la tragedia della seconda guerra mondiale. Il filosofo perugino pone in questi anni le basi del proprio impegno politico, tessendo una fitta rete di contatti con intellettuali e militanti antifascisti a Roma, Firenze, Bologna, Torino e Milano: il principio di “non-collaborazione” con la dittatura fascista e la dottrina della nonviolenza vengono accolti dalle nuove generazioni come manifesto di un antifascismo nuovo, che basa la sua “resistenza” sul rinnovamento etico-religioso dell’individuo. Sta maturando quella che l’amico Norberto Bobbio chiamerà, riferendosi ai lavori di Capitini, “l’antitesi radicale del fascismo”25. Inoltre, dalla collaborazione con un altro protagonista della Liberazione, Guido Calogero, nasce l’idea di “liberalsocialismo” che porta, nel 1940, alla stesura di un vero e proprio manifesto politico. L’anno seguente il movimento si allarga e coinvolge il gruppo della casa editrice “la Nuova Italia”, a Firenze, dove si tengono incontri anche con gli esponenti milanesi di Giustizia e Libertà. Ma presto all’interno delle riunioni si inseriscono agenti dell’O.V.R.A., la polizia segreta fascista e nell’inverno 1942 avvengono i primi arresti politici; anche Capitini viene condotto in carcere a Firenze e poi rilasciato perché non ritenuto pericoloso. A tal proposito bisogna ricordare che nell’aprile del 1933, dopo l’espulsione dalla Normale, la questura di Perugia aveva aperto un fascicolo su Aldo Capitini; il filosofo sarebbe stato attentamente monitorato dalle forze dell’ordine fino alla sua morte. Le carte della questura, delle quali si parlerà più approfonditamente in seguito, rendono bene l’ambiguo giudizio sul personag-

25 Nella prefazione alla ristampa di Elementi di un’esperienza religiosa del 1990, Norberto Bobbio ricorda: “Il libro era stato letto da me e da altri come me che non solo cercavamo un orientamento antifascista ma volevamo anche uscire dall’antifascismo generico e, come si diceva allora, fare qualche cosa, come un vero e proprio manifesto politico”. Cfr. Cavicchi, 2005, pp. 62-63.

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gio: da una parte, le sue idee venivano considerate potenzialmente rivoluzionarie ed eversive; dall’altra, emergeva un rispetto quasi reverenziale nei confronti di uno stimato filosofo e pensatore religioso26.

Nel maggio 1943 Capitini viene nuovamente incarcerato, questa volta a Perugia, mentre nell’agosto dello stesso anno nasce, su spinta di Ugo La Malfa, il Partito d’Azione, sorto dalla convergenza di molte forze politiche, tra le quali anche i liberalsocialisti; Capitini rifiuta l’invito a parteciparvi, proclamandosi “indipendente di sinistra”, sostenendo la sua contrarietà all’ideologia borghese e alla resistenza armata e difendendo fino allo stremo l’idea di un socialismo puro e del metodo nonviolento. Dopo l’8 settembre, il filosofo perugino vive in clandestinità ed entra in contatto con i gruppi partigiani che si formano negli immediati dintorni della città. Non partecipa mai alla resistenza armata né si iscrive ad un partito, ragion per cui, dopo la Liberazione, viene lasciato fuori prima dal Comitato di Liberazione Nazionale, poi dalla Costituente: quest’insofferenza nei confronti delle istituzioni e la sua scelta nonviolenta, impossibile da sconfessare, costituiscono il fil rouge che caratterizza l’attivismo politico di Capitini, al quale, nonostante il decennio di “opposizione religiosa” al fascismo, non viene riconosciuto alcun merito per il lavoro svolto27. Ma il suo antifascismo aveva prodotto qualcosa di più grande di qualche incarico istituzionale, cioè l’idea di poter costruire un’alternativa al dominio della violenza, al potere politico centralizzato che opprime ciclicamente e costantemente le moltitudini:

26 Cfr. Cutini, pp. 14-26.

27 “L’impeto politico derivante dalla Resistenza armata, diverso dalla mia posizione di religioso nonviolento fino al sorgere di equivoci non agevolmente comprensibili, il fatto che io non fossi di nessun partito (forse fui il primo ad usare in Italia l’espressione ‘indipendente di sinistra’), portarono al mio progressivo isolamento, alla nessuna utilizzazione da me fatta del posto avuto in dieci anni di attivissima opposizione antifascista (in personale rapporto con tutti gli antifascisti significativi e clandestini in Italia), al disinteresse generale, o ignoranza, per il mio nome e i miei libri”, Capitini, 2016, p. 28.

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certo, io ero sconfitto. Ma soprattutto perché la mia attività non era stata capace di costituire “gruppi” di nonviolenti. Con persuasione nonviolenta c’erano stati, oltre me, amici fin dal momento pisano del 1931-32 e poi con Alberto Apponi ed altri, e perfino tra i partigiani ci furono alcuni, come Riccardo Tenerini e come Alberto Giuriolo, che non tolse mai la sicura al suo fucile. Ma eravamo sparsi, e nulla sapemmo organizzare che fosse visibilmente coerente, efficiente e conseguente a idee di nonviolenza. La lezione era che bisogna preparare la strategia e i legami nonviolenti da prima, per metterla in atto quando occorre; e nessuno può negare che in Italia nel 1924, al tempo del delitto Matteotti, e in Germania nel 1933, una vasta e complessa azione dal basso di non collaborazione nonviolenta sarebbe stata occasione di inceppamento e di caduta per i governi28.

Capitini vede di fronte a sé un’Italia da ricostruire, sia fisicamente che moralmente, e per fare questo si appella al sistema di valori che aveva elaborato nel corso della sua riflessione teorica. Alla base di tutto c’è l’idea di un uomo persuaso, un modello di derivazione michelstaedteriana, e la necessità di un cambiamento profondo, di una vita “religiosa” libera da dogmi, di ispirazione francescana e nonviolenta, seguendo il lucido esempio di Gandhi. Infatti, Capitini era venuto a conoscenza delle lotte nonviolente del Mahatma grazie all’autobiografia pubblicata in Italia nel 1931, con prefazione di Gentile29.

Dall’unione dei riferimenti filosofici occidentali, della tradizione cristiana e delle pratiche gandhiane nasce il primo manifesto teorico della nonviolenza, gli Elementi. In esso, già nel 1937, Capitini illustra i princìpi delle sue future campagne: in primo luogo, il rifiuto di collaborare con le leggi statali ingiuste, ovvero il principio di “non-collaborazione”; poi, la “non-menzogna” e la “non-uccisione”, per mezzo delle quali si compie la nonviolenza, meta finale,

28 Ivi, p. 29.

29 Gandhi, 1931. Nello stesso anno era avvenuto, in Italia, il discusso incontro tra Gandhi e Mussolini.

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descritta come “atteggiamento di apertura all’esistenza, alla libertà, allo sviluppo di tutti”30.

E Capitini si mette subito “in movimento”: dopo la Liberazione di Perugia, il 17 luglio 1944 vede la luce il suo primo grande esperimento politico, il Centro di Orientamento Sociale (C.O.S.), un circolo “per il libero e periodico esame dei problemi amministrativi, sociali, politici, culturali, educativi”31, un laboratorio di democrazia diretta e dal basso in cui le autorità pubbliche e la cittadinanza dialogano su questioni sociali e culturali e si rimboccano le maniche per reperire beni di prima necessità, in uno scenario di povertà e ricostruzione postbellica. Il Centro è la risposta concreta di Capitini al ventennio di dittatura, rappresenta un momento di entusiasmo per il futuro in una situazione di assoluta emergenza economica e sociale. Il progetto ha successo e viene rapidamente esteso in altre città italiane, come Bologna, Firenze e Ferrara, grazie ad amici e collaboratori di Capitini32. Queste libere assemblee si tengono due giorni alla settimana, in uno vengono trattati problemi politici ed amministrativi e nell’altro le questioni di natura ideologica e culturale.

L’aspetto assolutamente inedito dei C.O.S., come ricorda Giacomo Zanga, grande amico di Capitini, era quello di un “allineamento di problemi tutt’affatto terreni, come il prezzo del latte, l’imposta sulla casa, la ritenuta sullo stipendio, e simili, a fianco di problemi metafisici come l’immortalità dell’anima, la remunerazione dei meriti, l’esistenza di Dio”33. Il Centro di Orientamento Sociale è una proposta di “socialità aperta” perché affronta il problema del potere in maniera realmente comunitaria, educando all’esercizio del potere tra-

30 Capitini, 1964, op. cit., p. 1. Questa formula è ricorrente in altre opere del filosofo perugino, e ripetuta anche in occasione della prima giornata del Seminario del 1963.

31 Cfr. Capitini, 1967, pp. 253-266; Cacioppo, 1977, pp. 314-324.

32 Erano stati aperti C.O.S. anche ad Arezzo, Ancona, in gran parte della provincia di Perugia, in provincia di Teramo, a Prato, a Jesi, e in molti altri piccoli borghi italiani.

33 Cfr. Zanga, in Marcucci, 2004, pp. 285-297.

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mite gli strumenti della nonviolenza e del dialogo: “Ognuno deve imparare che ha in mano una parte di potere, e sta a lui usarlo bene, nel vantaggio di tutti; deve imparare che non c’è bisogno di ammazzare nessuno, ma che, cooperando o non cooperando, egli ha in mano l’arma del consenso e del dissenso”34. È in questo senso che l’impegno civile di Capitini si delinea come educazione ad una democrazia che, dopo il Ventennio, doveva tornare ad essere esercitata dal basso, permeata dal rifiuto della violenza e della menzogna, valori che vanno a costituire la sua “pedagogia” della nonviolenza35. Tuttavia, nonostante la novità e la bontà dell’iniziativa, il modello dei C.O.S. viene progressivamente sostituito dall’attività dei partiti, che monopolizzano la partecipazione popolare già a partire dalla campagna elettorale politica del ’46. Così, il gruppo di Perugia si riduce fino a diventare un piccolo centro di discussioni, privo della partecipazione delle autorità politiche ma comunque intatto nello spirito originario.

34 Capitini, 1967, p. 251.

35 Catarci, 2007, pp. 142-148.

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Aldo Capitini è stato molte cose: filosofo sui generis, poeta, pedagogista, attivista per la pace, leader politico e libero religioso. Soprattutto, è stato uno dei più raffinati teorici della nonviolenza, creando un movimento nonviolento diffuso in tutta Italia. In questo volume Emanuele Follenti parte da una data centrale, il Seminario del 1963, in cui Capitini invita a riflettere sul metodo nonviolento e sulle sue tecniche anticipando alcuni temi del ’68 ancora oggi di grande attualità: educazione nonviolenta nelle scuole, disobbedienza civile, partecipazione democratica alla vita politica, rispetto per il mondo animale, persuasione alla pace. A seguito del successo del Seminario si costituì il Movimento Nonviolento a cui Capitini decise di dedicarsi totalmente, sostenuto dall’amico di una vita Pietro Pinna, il primo obiettore di coscienza al servizio militare in Italia, che erediterà la guida del Movimento dopo la morte del filosofo.

L’autore approfondisce un aspetto spesso marginalizzato della vita di Aldo Capitini, ovvero la sua figura di leader pacifista ed antimilitarista, rivalutando l’impegno politico di un uomo che all’idea di partito contrapponeva quella di “centro” aperto all’iniziativa di tutti, un intellettuale che univa intorno a sé pacifisti integrali che non hanno mai perso la speranza di costruire una società più giusta, attenta alle differenze culturali, alle minoranze e al dialogo.

ISBN 978-88-6153-962-4

Euro 18,00 (I.i.)

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