Vedo, ascolto, parlo... Ti aiuto

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Le Autrici hanno lavorato insieme per diversi anni presso l’équipe specialistica per la cura del maltrattamento e dell’abuso dei minori “I Girasoli” dell’Ulss 6 Euganea – Regione Veneto, che svolge la propria attività su incarico dei Servizi socio-sanitari e dell’autorità giudiziaria.

Euro 18,50 (I.i.)

M.E. Antonioli - A. Carolo M.G. Morosini - M. Pezzolo

Maria Elisa Antonioli - Antonella Carolo Maria Giulia Morosini - Monica Pezzolo

Vedo, Ascolto, Parlo... Ti Aiuto

Il maltrattamento all’infanzia è una realtà che ha da sempre accompagnato la storia dell’umanità. La storia dei diritti dei soggetti di minore età e della loro rappresentanza nella società è piuttosto recente e prende corpo a partire da una maggiore considerazione del bambino come persona, come soggetto di diritti. Nonostante siano state rilevate e studiate le varie forme di maltrattamento e le gravi conseguenze sull’evoluzione fisica e psicologica del minore, tuttora la violenza sui bambini e sugli adolescenti è un fenomeno diffuso e trasversale a tutte le classi sociali, ma al contempo sottostimato e sottovalutato, se non negato, dalla società attuale. In tutto il mondo ogni anno milioni di soggetti in età evolutiva continuano ad essere vittime e testimoni di violenza fisica, sessuale, psicologica e di sfruttamento. La risposta alla complessità necessita sempre di un approccio globale, multidisciplinare e interistituzionale, caratterizzato da competenza e da una formazione specifica sul tema. Questo testo, pensato tenendo in considerazione i punti di vista e il diverso coinvolgimento delle varie figure professionali, nasce dal desiderio di riunire pensieri e percorsi elaborati in tanti anni di lavoro sul campo in un’area sempre estremamente articolata e complessa che spesso disorienta. Le autrici, un gruppo di professioniste che ha condiviso anni di lavoro e formazione nell’ambito dell’abuso, si rivolgono in primis a tutti coloro che, incontrando per lavoro bambini, ragazzi e famiglie, possono trovarsi ad affrontare tali contesti e, non avendo una specifica competenza in queste tematiche, sentono l’esigenza di capire e vagliare come muoversi di fronte a situazioni così difficili e complesse. Il testo si rivolge ad operatori dei Servizi sociosanitari, ma anche a educatori, insegnanti, medici e infermieri, avvocati, giudici e forze dell’ordine e a tutti coloro che possono incontrare nel loro quotidiano bambini che mandano segnali di disagio o raccontano episodi di maltrattamento o abuso.

Vedo, Ascolto, Parlo... Ti Aiuto Come accogliere e comprendere le situazioni di maltrattamento e abuso che vedono coinvolti i minori

ISBN 978-88-6153-694-4

9 788861 536944

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Maria Elisa Antonioli Antonella Carolo Maria Giulia Morosini Monica Pezzolo

Vedo, Ascolto, Parlo... Ti Aiuto Come accogliere e comprendere le situazioni di maltrattamento e abuso che vedono coinvolti i minori Prefazione di Gloria Soavi

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Indice Prefazione a cura di Gloria Soavi ................................................... 9 Introduzione .................................................................................. 17 Capitolo 1. L’impatto emotivo con il maltrattamento e l’abuso .... 19 1.1 Definizione di maltrattamento e abuso 1.2 La comunicazione improvvisa e inaspettata 1.3 La rivelazione diretta 1.4 La comunicazione indiretta 1.5 La segnalazione

Scheda operativa – Come ascoltare la rivelazione verbale ......... 33

Capitolo 2. Maltrattamento ......................................................... 35 2.1. Definire il maltrattamento 2.2 Trascuratezza (neglet): incuria, discuria, ipercuria 2.3 Maltrattamento fisico 2.4 Violenza assistita

Scheda operativa – Tipologie di maltrattamento ....................... 57

Capitolo 3. Abuso sessuale intra ed extra familiare ................... 59 3.1 L’aspetto legato alla sua definizione 3.2 La rivelazione come primo accesso alla voce e alla sofferenza della vittima 3.3 Il contesto dell’abuso: le vittime e i legami familiari 3.4 La valutazione psicologica e relazionale della vittima e del suo contesto 3.5 La cura del trauma nella relazione

Scheda operativa – Definire l’abuso sessuale ............................. 87

Capitolo 4. Maltrattamento e abuso in rete ............................... 89 4.1 L’abuso sessuale online 4.2 Il cyberbullismo

Scheda operativa – Definire e riconoscere gli abusi digitali ....... 105

Capitolo 5. Minori autori di reato .............................................. 109

Scheda operativa – Riconoscere un minore autore di reato....... 120

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Capitolo 6. Nuove emergenze: i bambini migranti .................... 121 Capitolo 7. … e ti aiuto ................................................................ 129 7.1 La terapia Neuropsicomotoria 7.2 L’intervento educativo 7.3 Interventi di prevenzione Capitolo 8. Le istituzioni e il progetto di aiuto del percorso di presa in carico ..................................................................... 155 8.1 Il percorso istituzionale 8.2 Il maltrattamento istituzionale

Scheda operativa – Segnalazione e percorso istituzionale .......... 187

Conclusioni .................................................................................... 189

Appendice giuridica

1. Denuncia, segnalazione, referto: la comunicazione   di un reato perseguibile d’ufficio .......................................... 195   Scheda operativa 1.1 – Facsimile segnalazione al dirigente   Scheda operativa 1.2 – Facsimile segnalazione alla Procura   della Repubblica 2. L’ascolto protetto del minore ................................................ 203 Autori ............................................................................................. 211 Bibliografia .................................................................................... 213

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Introduzione

Questo testo nasce dal desiderio di riunire pensieri e percorsi elaborati in tanti anni di lavoro sul campo in un’area sempre estremamente articolata e complessa che spesso disorienta: il maltrattamento e l’abuso di bambini. Siamo un gruppo di professioniste che ha condiviso anni di lavoro e formazione in questo ambito e maturato un pensiero e una condivisione sui percorsi e le modalità per attivare una rete di aiuto ai bambini/ragazzi vittime di abusi e maltrattamenti. Il libro, infatti, si rivolge in primis a tutti coloro che, incontrando per lavoro bambini, ragazzi e famiglie, possono trovarsi ad affrontare tali contesti e, non avendo una specifica competenza in queste tematiche, sentono l’esigenza di capire e vagliare come muoversi di fronte a situazioni così difficili e complesse. Ogni azione in questo ambito, infatti, deve essere attentamente ponderata perché ogni intervento, ma anche ogni non-intervento, avrà delle rilevanti ripercussioni nella vita di queste persone. Ci rivolgiamo quindi agli operatori dei Servizi sociosanitari, ma anche a educatori, insegnanti, medici e infermieri, avvocati, giudici e forze dell’ordine e a tutti coloro che possono incontrare nel loro quotidiano bambini che mandano segnali di disagio o raccontano episodi di maltrattamento o abuso. Il libro è stato pensato tenendo in considerazione i punti di vista e il diverso coinvolgimento delle varie figure professionali, proprio perché siamo fermamente convinte che l’unico possibile approccio fruttuoso in questo ambito sia il lavoro integrato, attraverso lo scambio e la condivisione di pensieri e sguardi professionali differenti. Il testo è stato strutturato per favorire una consultazione rapida, ma allo stesso tempo precisa e accurata, da tenere nella propria “cassetta degli attrezzi”. Il titolo è la metafora ribaltata delle tre scimmiette, per esprimere l’importanza, di fronte a situazioni di maltrattamento e abuso, di

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superare l’atteggiamento, ancora purtroppo diffuso, di disinteresse, silenzio, delega, negazione, fuga che, sebbene comprensibile come iniziale reazione emotiva, non può essere legittimato da parte di adulti coscienti, tanto più se, per lavoro, devono essere garanti dei diritti di bambini e ragazzi. Partendo dal primo “contatto” con queste possibili situazioni traumatiche e dal conseguente impatto emotivo suscitato vengono analizzate le varie tipologie di maltrattamento e abuso. I capitoli sono divisi idealmente in due parti: la prima, teorica, propone diversi contenuti clinici e teorici che contribuiscono a supportare l’operatore nell’osservare, ascoltare e affiancare il bambino che manda dei segnali o che rivela direttamente il suo disagio, permettendo lo sviluppo di un successivo pensiero su strategie operative in risposta alle specifiche necessità del caso. La seconda, attraverso una Scheda operativa, presenta in modo schematico i segnali fisici, psicologici e comportamentali del disagio nelle diverse tipologie di maltrattamento e abuso, per favorire una rapida consultazione all’operatore nel suo lavoro quotidiano. I capitoli conclusivi sono dedicati all’approfondimento della terapia neuropsicomotoria e dell’intervento educativo nei progetti di aiuto nell’area del maltrattamento e dell’abuso; nonché al percorso istituzionale sotteso a ogni presa in carico fin dalla segnalazione, con l’obiettivo di evidenziare l’importanza del coinvolgimento delle diverse realtà (giuridiche, sociali, sanitarie, educative), ognuna con le proprie competenze, sempre in un’ottica di lavoro integrato. In Appendice, infine, sono raccolti due approfondimenti psicogiuridici, teorici e applicativi, di fondamentale importanza: la segnalazione e l’ascolto protetto. Si ritiene possano essere d’aiuto per un corretto intervento da parte di tutti gli operatori della rete. Concludiamo questa breve introduzione con una avvertenza linguistica al lettore: vista la difficoltà di usare la lingua in modo comprensivo di tutti i soggetti, relativamente al genere si è scelto, per comodità di lettura, di declinare i nomi al maschile, includendo anche il genere femminile. Allo stesso modo abbiamo scelto di usare il vocabolo bambino anche quando riferibile a ragazzo, in quanto riteniamo che il termine “minore”, onnicomprensivo in ambito giuridico, sia clinicamente riduttivo e penalizzante. 18

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1.

L’impatto emotivo con il maltrattamento e l’abuso

Ciò che dobbiamo imparare a fare lo impariamo facendo. Aristotele

Definizione di maltrattamento e abuso

1.1

Esistono numerose definizioni, istituzionali e non, riguardo al termine “abuso e maltrattamento all’infanzia” che hanno in comune la gravità in cui un bambino è costretto a vivere, le azioni che subisce ed è costretto a fare e gli esiti che ne conseguono. Abbiamo deciso di riportare quanto sancito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) che fornisce una definizione globale di violenza all’infanzia, dichiarando che Per abuso all’infanzia e maltrattamento debbono intendersi tutte le forme di maltrattamento fisico e/o emozionale, abuso sessuale, trascuratezza o negligenza o sfruttamento commerciale o altro che comportino un pregiudizio reale o potenziale per la salute del bambino, per la sua sopravvivenza, per il suo sviluppo o per la sua dignità nell’ambito di una relazione caratterizzata da responsabilità, fiducia o potere 1.

Secondo questa definizione si configura una condizione di abuso e di maltrattamento allorché i genitori, tutori o persone incaricate della vigilanza e custodia di un bambino approfittano della loro condizione di privilegio e si comportano in contrasto con quanto previsto dalla Convenzione Onu di New York sui diritti del fanciullo del 1989.

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1.2

La comunicazione improvvisa e inaspettata L’operatore può trovarsi in due differenti tipi di situazioni-rivelazione: la prima quando il bambino “sceglie” un adulto per comunicargli in modo “diretto”, inaspettato e improvviso, quanto gli è accaduto. Rompe il silenzio e il segreto, e racconta. Altra, invece, è la situazione “mascherata” in cui un bambino non racconta direttamente ma mostra dei segnali che si impongono all’attenzione dell’adulto ovvero segnali fisici, comportamentali e psicologici. Francesca, 8 anni, è seguita da tempo dai Servizi: il padre morto qualche anno prima, la madre presenta dei limiti cognitivi, passa alcuni pomeriggi con un’educatrice che la segue nei compiti in accordo con il Servizio sociale. A seguito di un percorso di educazione sessuale a scuola, un pomeriggio, riprende un gioco con l’educatrice, diventato per loro una consuetudine, in cui insieme inventavano delle storie che cominciavano sempre per: “Mi credi se ti dico…”. Francesca racconta: “Mi credi se ti dico che ho fatto sesso con Giovanni?” lasciando l’educatrice nella confusione di capire se la bambina stesse inventando o se stesse utilizzando quel loro canale privilegiato per dire una cosa difficile. Matteo, 9 anni, figlio di affermati professionisti, sempre bravissimo a scuola, a un certo punto appare più distratto, il rendimento cala, si isola dai compagni, e nell’esecuzione di un disegno libero rappresenta un uomo con i genitali in evidenza disteso sopra a un bambino. Benedetta, 15 anni, padre italiano e madre straniera, si reca con la madre dal medico dello sport per la visita di idoneità che, nella consultazione, nota alcuni lividi sulla schiena e delle escoriazioni sulle cosce. Alla richiesta di spiegazioni Benedetta abbassa lo sguardo e con la voce tremante dice di essere caduta durante gli allenamenti di pallavolo.

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In questi tre brevi esempi il disagio di un minore viene portato nella relazione con un adulto, che riveste, tra l’altro, un ruolo istituzionale. Il solo parlare di temi così delicati è difficile e ansiogeno e lo è, ancor di più, ascoltare direttamente le parole di un minore o vedere con i nostri occhi i segni fisici di una possibile violenza: sono evidenze che ogni volta arrivano come un pugno nello stomaco! Diversi sono gli operatori che, per la loro attività, diventano i primi spettatori del fenomeno o i primi interlocutori della vittima. Può

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essere un medico durante una visita, un assistente sociale, un insegnante, un educatore, uno psicologo: figure professionali che possono interagire a diverso titolo con il minore e che hanno, ciascuno nel proprio distinto ruolo professionale, compiti di aiuto e tutela. A volte prevale, invece, la tendenza a delegare ad altri ruoli istituzionali il compito di dare ascolto alle parole del minore. L’insegnante potrebbe dire: “Io mi occupo della didattica. Non posso certo caricarmi di certe cose perché non sono un medico o uno psicologo”; il medico da parte sua: “Non è mio compito indagare sulla questione perché non sono un giudice”; lo psicoterapeuta: “L’abuso può esserci stato ma non è certo. Io mi occupo della realtà interna e non di quella esterna”. Certamente non è competenza del pediatra né dell’insegnante, né dello psicologo, né dell’assistente sociale, né dell’educatore accertare se il bambino dice la verità oppure no, ma è certamente compito di qualunque operatore che entri in contatto con una vittima o potenziale vittima di violenza (abuso o maltrattamento) aiutare quel minore. Il primo passo è ascoltare e accogliere il bambino e ciò comporta inevitabilmente il “contatto mentale ed emotivo” con l’area della sofferenza e dell’angoscia. Come dice Foti, è anche abuso ogni ascolto non empatico Il bambino abusato parla davvero solo a chi ha orecchie e cuore per ascoltare [e] la comunicazione del disagio, quindi, inizia dall’orecchio di chi ascolta prima che dalla bocca di chi parla e comincia dall’atteggiamento mentale di chi si candida ad ascoltare2.

Il momento di ascolto è fondamentale per aiutare il minore nel qui ed ora e, successivamente, per fare l’opportuno passaggio alla rete dei Servizi che diventa protezione e risorsa per il bambino e anche per l’operatore. In questa prima fase gli atteggiamenti e i comportamenti adottati dagli adulti coinvolti possono influenzare profondamente tutto il percorso: dalla segnalazione alle indagini, fino alla valutazione e alla cura. Cosa succede all’adulto che ascolta? Gli operatori si trovano immersi in un contesto caratterizzato da

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un’elevata emotività: l’impatto della rivelazione dell’abuso risulta spesso sconvolgente al punto che si può affermare con De Zulueta che i sentimenti e le difese utilizzate dalla vittima colpiscono frequentemente in modo analogo anche chi ascolta3. Le vittime dei traumi fanno sperimentare a chi si occupa di loro la stessa vulnerabilità e lo stesso disorientamento che l’impatto con l’abuso ha prodotto in loro. La solitudine e il senso d’impotenza del bambino diventano anche la solitudine e il senso d’impotenza dell’operatore. Ascoltare storie di violenza, impotenza e tradimento della fiducia porta a mettere in crisi le sicurezze di chi ascolta. Il trauma è contagioso: nel ruolo di testimone di un disastro e di un’atrocità l’operatore può sentirsi emotivamente schiacciato sperimentando lo stesso terrore, la stessa rabbia e lo stesso sconforto della vittima. L’esposizione diretta a tali situazioni, inoltre, potrebbe essere un riattivatore traumatico. Ascoltare infatti una storia di abusi e maltrattamenti può far rivivere in chi ascolta ricordi di esperienze traumatiche vissute in modo più o meno diretto. L’impatto con l’abuso sessuale e il maltrattamento comporta il prendere contatto con la violenza, il sadismo e la perversione come elementi che caratterizzano la realtà psichica e sociale. Ciò contrasta con l’aspettativa rassicurante di noi tutti di trovarsi in un mondo fondamentalmente buono e protettivo, tanto più per i bambini, rompendo quindi il sentimento di fiducia nell’umano. Nell’esposizione a queste situazioni vengono ad aprirsi in chi ascolta delle faglie in cui entrano emozioni come l’angoscia, l’orrore, la paura, la vergogna, la colpa, il vissuto di persecuzione, la rabbia e l’odio. La possibilità e la capacità di poter “digerire” tali sofferenze (cioè il livello di tolleranza) determina il tipo di reazione di chi viene a contatto con le situazioni di abuso e maltrattamento. Inoltre queste emozioni si presentano tutte confuse e amalgamate tra loro così da non poterle più distinguere, suscitando un vissuto di tale malessere da portare a un immediato contro-reagire senza riuscire prima a darsi del tempo per pensare. Questi aspetti possono portare a condizionare e quindi, pericolosamente a inficiare il modo in cui ciascuno di noi accoglie la rivelazione del bambino (come avremo modo di vedere nelle esemplificazioni successive). Quanto più sarà possibile digerire e tollerare queste difficili e durissime emozioni, tanto più esse potranno rivelare delle informazioni preziose sulle dinamiche, sui vissuti, sulle difficoltà che la

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giovane vittima e la sua famiglia stanno attraversando. Tali informazioni potranno guidare nell’intervenire in maniera adeguata, cogliendo i diversi livelli di sofferenza e le diverse priorità. Pertanto, il riconoscimento della violenza sui bambini dipende dalla disponibilità interiore delle persone a prenderne in considerazione l’esistenza e, per garantire questo, non è necessario essere degli specialisti nel campo. Ciascuno di noi può divenire una risorsa per il bambino nel momento dell’ascolto quando il bambino ci sollecita, ci chiede, ci “provoca” di pensare l’impensabile e di sentire l’indicibile. Di fronte ad una comunicazione impensabile ed indicibile non esistono esperti e non esperti, professionisti competenti o non competenti, ma adulti coinvolti in una relazione di aiuto e in grado di dare un senso e restituire un significato alla sofferenza di un bambino. Chi sollecita? Chi provoca? A chi chiede un bambino? La scelta dell’adulto a cui raccontare quanto successo, con cui condividere l’angoscia che tale evento provoca, non è casuale, non viene semplicemente scelto un adulto che si trova lì in quel momento con lui. Nel gruppo delle persone con cui viene a contatto il minore, ne viene scelta una a cui confidare quanto accaduto. “Perché lo ha confidato proprio a me?” è una domanda ricorrente nella mente di un adulto, di un operatore che si vede investito del compito di accogliere “un segreto”. Un sentire comune ha permesso al bambino di riconoscere che solo quell’adulto poteva capire e accogliere le inenarrabili immagini che lo vedevano coinvolto. Quell’adulto, quell’amico, quell’insegnante è stato scelto sia perché lui stesso si è reso disponibile a farsi scegliere sia perché ritenuto dal bambino stesso un adulto protettivo che può fare qualcosa per lui. Quando, come adulti protettivi, ci troviamo di fronte a situazioni di disagio del minore è importante che sviluppiamo una forma di ascolto complessiva e profonda, dove gli elementi presenti sono molteplici. Vi può essere4: • un ascolto più empatico, di “pancia”, come capacità di entrare nel “pathos” emotivo arcaico dell’altro e di individuare con lui uno stesso linguaggio; • un ascolto emotivo, con il “cuore”, dove, per poter ascoltare l’altro, è necessario che l’osservatore presti attenzione alle proprie risposte emotive come segnali e registrazioni della sofferenza altrui;

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• un ascolto attivo, di “testa”, che, includendo i due precedenti, permette di trasformare l’empatia e la consapevolezza delle emozioni dell’altro, attraverso le proprie, in comunicazione e pensiero, grazie alla professionalità dell’operatore. L’ascolto e l’osservazione partecipe non sono solo tecniche per una buona relazione con l’altro, ma si fondano su un atteggiamento interno dell’adulto che presuppone grande disponibilità all’altro, un’attenta ricerca di sospensione del giudizio e astinenza interpretativa, unitamente alla consapevolezza delle proprie emozioni relative al contesto. Il buon ascolto implica una comprensione empatica, un’intelligenza emotiva che ci rende disponibili ad accogliere il racconto del bambino e le sue manifestazioni emotive, mettendo l’altro nelle condizioni relazionali migliori, contrastando la suggestione e le influenze esterne. Sono queste le condizioni che riteniamo siano garantite in modo ottimale nel lavoro di équipe. Gestire le emozioni che sopraggiungono nel momento in cui un bambino si apre a noi diventa uno dei problemi prioritari per l’adulto, che si sente impotente nell’affrontare e nell’elaborare la confusione di sentimenti molteplici e ambivalenti da cui si sente minacciato e invaso. Il primo passo da fare per acquisire una sufficiente capacità di tenuta di fronte a questa problematica è riconoscere i propri limiti nell’affrontarla, unitamente al tollerare anche quel possibile vissuto di fastidio e risentimento verso chi, facendoci entrare nella sua atroce realtà, ci procura un vasto sconvolgimento emotivo e psichico. La consapevolezza di essere vulnerabili e il conseguente sentimento di paura che tale consapevolezza provoca è una condizione da cui tutti cerchiamo di difenderci. Dietro le nostre incertezze, le nostre paure, i nostri “se non fosse vero?” c’è la nostra parte più fragile che, terrorizzata dal guardare negli occhi una vittima e mettendosi nei suoi panni, è come se inconsapevolmente preferisse colludere con la “strategia del silenzio” attuata dall’aggressore.

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La denuncia, invece, è un atto dovuto non soltanto perché la legge la richiede ma anche e soprattutto perché è la piccola vittima a richiedercelo, dopo che faticosamente ha cercato proprio noi per rivelarci la sua terribile e indicibile verità. L’impatto del trauma della rivelazione sull’operatore, se non viene riconosciuto ed elaborato, potrà cronicizzare reazioni negative nei confronti dei bambini e delle famiglie con cui lavora, nei con-

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fronti dei colleghi e degli altri operatori in gioco. L’operatore può diventare a sua volta “maltrattante”, perdere la capacità di entrare in empatia non solo con la famiglia che porta il problema, ma anche con il collega che in quel momento non aiuta o non sostiene a sufficienza nel lavoro. Le emozioni penose, attivate dalle situazioni traumatiche che l’operatore contatta, possono innescare reazioni trauma-difensive, che sono una risposta in qualche modo spontanea da parte del soggetto per proteggersi dalla sofferenza che tale impatto produce. Questi meccanismi di difesa spesso possono essere compresenti anche in modo diversificato nelle varie fasi dell’ascolto:  1. negazione: si nega che quanto è stato rilevato sia vero (“non è possibile, non può essere vero”);  2. rimozione: si perdono pezzi di realtà pur rilevata, come non attribuire peso agli indicatori di disagio osservati (“non erano tanti lividi”). L’operatore vede la sofferenza del bambino ma non riesce a tenerla nella sua mente, a pensarla (“era solo un po’ triste, può succedere a questa età”);  3. distanziamento emotivo: indifferenza di fronte al bisogno del bambino, si crea una distanza che impedisce l’immedesimazione e l’empatia (“può succedere a tanti bambini, non sono io che devo fare qualcosa e poi ho tante cose da pensare oltre a questa”);  4. evitamento fobico: si evita di osservare, si elude il problema, se ne nega la rilevanza. Ad esempio si evita di parlare e di trattare di casi di abuso/maltrattamento;  5. razionalizzazione: si cerca una spiegazione razionale a quanto accaduto allo scopo di dimostrare la scarsa rilevanza degli eventi o l’assenza di cronicizzazione (“nella sua cultura sono pratiche comuni” oppure “era sotto l’effetto dell’alcool”);  6. collusione: l’operatore si dimentica delle necessità del bambino per identificarsi con gli adulti e giustificarli (“poveri genitori, stanno attraversando un momento particolarmente difficile, passerà, diamogli tempo”);  7. scissione e proiezione: l’operatore non riesce ad avere una visione generale e completa, tende a scindere tra aspetti buoni e cattivi sia propri che degli altri operatori e tra genitori e bambino (“è solo colpa dei genitori”); il bambino viene inserito in comunità e non si attua un intervento globale su genitori e bambino;  8. idealizzazione: l’operatore “dimentica” gli elementi negativi

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rilevati per concentrarsi in una illusoria aspettativa di cambiamento della famiglia di cui non si comprendono le difficoltà e i limiti (“il genitore è uno psicologo, sicuramente capirà la sofferenza del figlio”);  9. identificazione con il bambino: avviene quando l’operatore è invaso dai sentimenti del bambino e proietta i suoi vissuti e bisogni personali interpretandoli come appartenenti al bambino stesso (“solo io lo posso capire! Quei genitori non valgono nulla”); 10. identificazione con il giustiziere: l’operatore reagisce in modo reattivo e impulsivo, si mette nella posizione di essere l’unico referente dei bisogni del bambino, deresponsabilizzando gli altri operatori e colpevolizzando i genitori (“ci penso io”); 11. identificazione con il genitore buono: l’operatore si percepisce come l’unico interprete dei bisogni del bambino come se avesse un mandato personale riparatorio dei danni subiti dal bambino (“mi occupo io di te perché tanto a casa nessuno ci pensa”). Lasciarsi sopraffare da tali meccanismi, senza esserne consapevoli, sia come individui sia come parte del sistema dei Servizi e delle istituzioni di protezione dei minori, significa da un lato diventare fattore di aggravamento del trauma e dall’altro colludere con i meccanismi sociali di rimozione della sofferenza che le vittime sono inevitabilmente costrette ad affrontare: in altre parole significa sottrarsi all’ascolto. Pertanto un ascolto autentico dei bambini vittime di violenza richiede un impegnativo lavoro per decodificare ciò che accade sul piano personale, professionale e organizzativo visto l’incontro frequente con le dimensioni della vulnerabilità, della svalutazione, del limite.

1.3

La rivelazione diretta La rivelazione diretta o verbale ha un valore enorme, considerando che nella maggior parte delle situazioni di violenza sui bambini esiste l’incapacità o l’impossibilità della vittima di mettere in parola l’esperienza che sta vivendo, ancor più se rafforzata dalla capacità dell’adulto, autore del reato, di riuscire a impedire questa comunicazione. Rivelare quanto accaduto è il primo passo per uscire dalla confusione che il contesto dell’abuso tende a creare. Con la rivelazione viene spezzato co-

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raggiosamente quel legame che era stato fino a quel momento intoccabile,

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per rendere pubblico ciò che fino ad un attimo prima, e chissà per quanto tempo, era stato indicibile. Il bambino ha in questo modo la possibilità di riscoprirsi bambino e ridare il giusto posto ai ruoli che l’abuso ha negato e confuso e di poter comprendere dolorosamente di essere una vittima e non più un complice5.

Anche nei casi di maltrattamento il poterne parlare permette il primo riconoscimento dell’essere stati ingannati, traditi, violati, spesso e purtroppo, proprio dalle figure di riferimento, che avrebbero dovuto proteggere e guidare. Nell’infanzia, la dimensione di dipendenza e di fragilità porta il bambino a vedere la dimensione adulta come onnipotente, che può fare tantissime cose interessanti e con la quale, desiderando crescere, vuole identificarsi. La violenza quindi rompe questa possibilità rendendo “adulto” chi ancora non lo è, con desideri e bisogni che vengono stravolti senza possibilità di comprendere ciò che sta avvenendo. Ecco alcuni esempi di verbalizzazioni che possiamo ricevere durante il lavoro: Lo sai cosa è questa? La mamma mi ha spento una sigaretta sulla mano. Lo sai che lo zio mi ha fatto una cosa brutta, mi ha toccato la patatina. Posso toccare anche a te il “pippo” come faccio con Mario? Ho tanto male alla schiena perché papà la sera è stanco e nervoso e mi dà dei colpi con la scopa se faccio rumore quando guarda la Tv. Questi graffi e queste botte blu me le ha fatte la mamma perché io non voglio fare i compiti. Lei dice che così divento bravo.

Cosa possiamo fare di fronte a una rivelazione improvvisa e inaspettata, per essere adulti protettivi pur se vulnerabili? Qui di seguito, abbiamo tentato di esemplificare alcuni step che riteniamo fondamentali tenendo a mente la dicotomia operativa di “cosa fare” e di “cosa non fare”. La premessa che ci deve guidare è che non dobbiamo preoccuparci di accertare la veridicità dei fatti, perché questo ruolo non è di nostra competenza ma dell’autorità giudiziaria. Il nostro compito

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è, come detto, di ascoltare e accogliere quanto il bambino ci comunica e di tenerlo bene a mente per poi segnalarlo a chi di dovere. COSA FARE?

COSA NON FARE?

Accogliere dando riconoscimento alla rivelazione e con- - Non enfatizzare: “Ma dai, una cosa così brutta?”. dividere il peso con il bambino. - Non negare: “Ma non ci posso credere, non è possibile, sei proprio sicuro?”. “Mi hai detto una cosa importante adesso pensiamo in- - Non sminuire o banalizzare: “Ma dai, possono sucsieme a cosa fare.” cedere queste cose”. - Non indurre risposte forzate: “Ma non è che forse ti stava solo lavando?”. Rassicurare il bambino che non è solo e che in quel mo- - Non rimandare ad altri momenti: “Ne parliamo in mento siamo lì, per e con lui. Usare un tono di voce acaltri momenti, scusa ma è tardi”. cogliente e rassicurante. - Mostrare imbarazzo, pena, fastidio. - Non chiedere di dirlo a qualcun altro per delegare “Stai tranquillo, sono qui con te non sei da solo.” la responsabilità: “Non sono la persona giusta a cui dirlo, ci sono persone più adatte di me, non ti posso aiutare”. - Riportare al minore ciò che altri hanno detto: “Marco mi ha detto invece che tuo papà è molto buono”. Usare domande aperte. “Cos’è successo?”

- Incalzarlo di domande insistenti e pressanti. - Fare domande inducenti (che mirano a confermare l’idea che l’adulto si sta facendo): “Ma allora mi stai dicendo che tuo zio ti ha abusato?”. - Fare domande suggestive (ripetizioni di domande, domande chiuse e/o dicotomiche): “Ma ti ha picchiato con la cintura sul sedere o sulle gambe?”.

Comunicare al bambino che si dovrà intervenire per la - Non lasciare il bambino con il suo segreto e non sua sicurezza. rafforzarlo ulteriormente: “Forse era meglio se le cose che mi hai raccontato te le fossi tenute per “Devo fare in modo che queste cose che mi hai detto te”. non ti succedano più e per questo chiederò aiuto anche ad altri adulti.” Capire se il bambino è in una situazione di pericolo o di - Non indagare intrusivamente su quanto riferito enprotezione (contesto in cui nasce il suo racconto). trando nei dettagli che saranno successivamente approfonditi dall’autorità giudiziaria: “Ma quante “Adesso che vai a casa con chi stai? Cosa farai? Come volte, ma dai, davvero? Spiegami bene. Raccontati senti all’idea di andare a casa adesso? Cos’è che ti mi tutto.” preoccupa di più in questo momento?” a) Capire se si percepisce una situazione di grave, esplicito e imminente pericolo (situazione rara). Se siamo in questa situazione chiamare l’assistente sociale di riferimento o contattare altri colleghi di fiducia o un centro specialistico. Nei casi d’impossibilità di rintracciare qualcuno chiamare direttamente le forze dell’ordine per allontanamento d’urgenza (art. 403 c.c.) b) Se si percepisce una situazione di protezione si procede al punto successivo. Attivazione della rete: permette di aiutarci a tollerare la - Non attivare la rete e tenere per sé la rivelazione complessità e a condividere un pensiero e costruire un e pensare di fare tutto da solo (immobilismo/interprogetto condiviso. ventismo): “Adesso faccio tutto io. Sistemo io le cose” o “Queste cose non possono essere vere”.

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VEDO, ASCOLTO, PARLO... TI AIUTO

La comunicazione indiretta

1.4

Un bambino maltrattato/abusato non si racconta solo con la rivelazione verbale ma può raccontarsi in tanti modi indiretti: attraverso il comportamento, il corpo, il gioco, la gestione delle sue emozioni. Per esempio il bambino, non riuscendo ad utilizzare la parola, può utilizzare il corpo come modalità naturale per esprimere il suo disagio con diverse manifestazioni: • somatiche: quali, per esempio, cefalea, mal di pancia, disordini alimentari, disturbi del sonno; • comportamentali: impossibilità di stare fermo, distrazione, attenzione labile e incostante, fughe; • emotive: difficoltà di relazione, immagine di se stesso negativa e distorta, emozioni congelate. Un’altra modalità che il bambino utilizza frequentemente è il disegno, oppure il gioco (ad esempio il gioco erotizzato) che possono esprimere ciò che il corpo ha sofferto. Ricordiamoci che nessuno di questi segnali presi singolarmente ci può far ipotizzare che siamo di fronte a una situazione di abuso o maltrattamento perché sono indicatori aspecifici. Ma più segnali di disagio possono generare delle preoccupazioni rispetto al benessere del bambino e porre dei dubbi nella mente dell’operatore. Anche in questi casi il mettersi in una posizione di ascolto e di comprensione di quanto sta avvenendo, nel tentativo di dare un senso ai segnali che cogliamo, richiede l’attivazione della rete come intervento indispensabile. Il lavoro in équipe diventa un imperativo: il confronto con altri operatori è un momento importantissimo e imprescindibile dove si attiva quella che potremmo chiamare la funzione riflessiva gruppale. Funzione che ci permette di non cadere nella continua oscillazione tra l’evitamento e, all’opposto, l’iperidentificazione. Riprendendo pertanto i meccanismi difensivi precedenti vediamo ora come il lavoro di rete impedisca di cadere in balia delle emozioni con ripercussioni inevitabili sull’operatività che minano la protezione del minore6. 29

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M.E. Antonioli – A. Carolo – M.G. Morosini – M. Pezzolo

MECCANISMI DI DIFESA

RIPERCUSSIONI SULL’OPERATIVITÀ

Negazione

Non si attiva l’intervento poiché l’operatore non ritiene dannosi gli elementi rilevati.

Rimozione

Non si attiva l’intervento poiché l’operatore non trova alcun motivo di problematicità nella situazione.

Distanziamento emotivo

Non si attiva l’intervento poiché l’operatore è portato a “non considerare” o “sminuire” i segnali di disagio (data l’assenza di condivisione delle emozioni tra operatore e bambino).

Evitamento fobico

Non si attiva l’intervento perché le informazioni sono troppo ansiogene e vengono evitate.

Razionalizzazione

L’intervento viene rinviato ripetutamente finché le razionalizzazioni non reggono più.

Collusione

L’intervento viene rinviato a data da definirsi perché si tende a identificarsi con l’adulto giustificandolo.

Scissione e proiezione

L’intervento risulta attivato in modo inadeguato, frammentato e/o invalidato. Sono meccanismi di difesa che indicano un notevole grado di problematicità del professionista. Egli agisce considerando solo gli aspetti “positivi” o “negativi”, attribuendoli ad un’altra figura coinvolta nel problema senza metterli in relazione (professionisti, genitori, bambino, ecc.).

Idealizzazione

L’intervento, se viene attivato, ha caratteristiche inadeguate e incongrue. Di fatto è inefficace perché non tiene conto della realtà.

Identificazione con il bambino

L’intervento è bloccato, se l’identificazione è con il senso di impotenza e l’eccessivo dolore del bambino. L’intervento è rivendicativo, se l’identificazione è con la rabbia del bambino. L’intervento è compensatorio, filantropico, quando ci si attiva per fornire “tanto affetto terapeutico e risanatore”.

Identificazione con il giustiziere

L’intervento è reattivo e contro-aggressivo, perpetua la catena della violenza, risulta realizzato in modo affrettato, non all’altezza delle proprie competenze, parziale e fallimentare. Il professionista rimane completamente catturato dal bisogno di “giustizia”, perde di vista la necessità di attuare una valutazione psico-socio-sanitaria del bambino e della famiglia per permetterne la cura, e dimentica che il “far giustizia” è competenza dell’autorità giudiziaria: i genitori si sentono criminalizzati e vivono in modo persecutorio anche le offerte di aiuto.

Identificazione con il genitore buono

Il professionista non ha un ruolo genitoriale, se assume tale compito operativamente non è più in grado di mantenere una posizione di “giusta distanza”, come sarebbe necessario. In questa situazione egli giudica e attacca costantemente le figure genitoriali del bambino interagendo con loro in modo inappropriato, accusatorio e criminalizzante. Il professionista può quindi attivarsi in modo solitario e inadeguato, oppure non attivare alcun intervento nell’illusione di essere in grado da solo di compensare le carenze del bambino.

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L’équipe quindi rappresenta un contenitore mentale necessario in queste situazioni così dolorose che aiuta a non sentirsi soli e isolati. Il gruppo di lavoro viene ad essere come un adulto responsabile/genitore sociale che può tollerare e confortare e che, pur sapendo quanto sia difficile stare in queste situazioni, sa rimanere in ascolto per capire dove andare e non inizia a correre per fuggire. Il bambino, quindi, troverà una risposta alla sua richiesta di aiuto.

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VEDO, ASCOLTO, PARLO... TI AIUTO

La segnalazione

1.5

L’articolo 331 del Codice di procedura penale stabilisce l’obbligo di denuncia per il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio per i reati di procedibilità d’ufficio, ed espone a precise responsabilità anche penali. Chiunque faccia denuncia non deve fare indagini: non si deve preoccupare dell’accertamento del reato, che è di competenza dell’autorità giudiziaria, ordinaria se l’autore è maggiorenne, minorile se l’autore è un minore. Le resistenze della segnalazione Vi sono dei fraintendimenti sul ruolo della segnalazione intesa spesso come il risultato di una certezza sull’avvenuto atto violento, per cui l’operatore mostra resistenza a segnalare all’autorità giudiziaria: “Non segnalo perché non sono proprio sicuro che sia avvenuto”. Oppure riferisce incertezza delle proprie percezioni: “E se mi sbagliassi?”. In questo modo si evidenzia come sia sottesa la paura del conflitto e della solitudine: in particolare paura di reazioni violente o di un’escalation del conflitto: “Questa famiglia è pericolosa, meglio non intensificare i conflitti”. Di frequente negli operatori è presente il timore che la segnalazione possa mettere in pericolo il bambino: “Se segnalo peggioro solo la sua situazione” o la preoccupazione di mancare di lealtà nei confronti del bambino: “Mi ha confidato un segreto, non posso tradire la sua fiducia”. Ma l’operatore può percepire, in forma più o meno consapevole, la paura della solitudine e dell’isolamento rispetto alla rete: “E se magari poi non è vero, cosa dirà il mio responsabile? Come mi regolo con le critiche dei colleghi?”. Ma la preoccupazione per l’alto livello di emotività sotteso a ogni rivelazione di maltrattamenti o abusi sessuali può indurre l’operatore, anche esperto, alla negazione del potenziale arricchimento, insito nell’ascolto empatico e nella disponibilità alla condivisione: “Non voglio avere fastidi-rogne e poi non ci guadagno niente”, evidenziando una palese svalutazione della sensibilità e dell’eticità e responsabilità soggettiva: “Tanto non serve, i Servizi o i giudici non fanno niente”. Questo atteggiamento, magari ben nascosto anche ai soggetti interessati, porta alla non segnalazione e di fatto

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a una vera e propria collusione: “Questi genitori cambieranno, li aiuto, aspettiamo, forse è solo un momento critico”. Per non aver paura di segnalare è fondamentale riconoscere i propri limiti e sapere chiedere aiuto: nessuno deve sentirsi solo ma sempre parte di una rete.

Note 1. Who, 2002. 2. Foti, 2003. 3. De Zulueta, 1999. 4. Montecchi, 2005b. 5. Villa, 2002. 6. La tabella che segue è stata elaborata a partire da Montecchi, 2002.

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VEDO, ASCOLTO, PARLO... TI AIUTO

Scheda operativa Come ascoltare la rivelazione verbale Rivelazione del maltrattamento e/o abuso

Accolgo, rassicuro, comunico che ne parlerò per aiutarlo

Mi accerto se il minore è in una situazione di pericolo e in assenza di protezione

Monitora la situazione

NO

SI Chiamo assistente sociale o forze dell’ordine

Allontanamento d’urgenza (Art. 403)

Attivazione della RETE: segnalazione alla Procura Ordinaria (Procura Minori se l’autore è minorenne) e Progetto condiviso

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Le Autrici hanno lavorato insieme per diversi anni presso l’équipe specialistica per la cura del maltrattamento e dell’abuso dei minori “I Girasoli” dell’Ulss 6 Euganea – Regione Veneto, che svolge la propria attività su incarico dei Servizi socio-sanitari e dell’autorità giudiziaria.

Euro 18,50 (I.i.)

M.E. Antonioli - A. Carolo M.G. Morosini - M. Pezzolo

Maria Elisa Antonioli - Antonella Carolo Maria Giulia Morosini - Monica Pezzolo

Vedo, Ascolto, Parlo... Ti Aiuto

Il maltrattamento all’infanzia è una realtà che ha da sempre accompagnato la storia dell’umanità. La storia dei diritti dei soggetti di minore età e della loro rappresentanza nella società è piuttosto recente e prende corpo a partire da una maggiore considerazione del bambino come persona, come soggetto di diritti. Nonostante siano state rilevate e studiate le varie forme di maltrattamento e le gravi conseguenze sull’evoluzione fisica e psicologica del minore, tuttora la violenza sui bambini e sugli adolescenti è un fenomeno diffuso e trasversale a tutte le classi sociali, ma al contempo sottostimato e sottovalutato, se non negato, dalla società attuale. In tutto il mondo ogni anno milioni di soggetti in età evolutiva continuano ad essere vittime e testimoni di violenza fisica, sessuale, psicologica e di sfruttamento. La risposta alla complessità necessita sempre di un approccio globale, multidisciplinare e interistituzionale, caratterizzato da competenza e da una formazione specifica sul tema. Questo testo, pensato tenendo in considerazione i punti di vista e il diverso coinvolgimento delle varie figure professionali, nasce dal desiderio di riunire pensieri e percorsi elaborati in tanti anni di lavoro sul campo in un’area sempre estremamente articolata e complessa che spesso disorienta. Le autrici, un gruppo di professioniste che ha condiviso anni di lavoro e formazione nell’ambito dell’abuso, si rivolgono in primis a tutti coloro che, incontrando per lavoro bambini, ragazzi e famiglie, possono trovarsi ad affrontare tali contesti e, non avendo una specifica competenza in queste tematiche, sentono l’esigenza di capire e vagliare come muoversi di fronte a situazioni così difficili e complesse. Il testo si rivolge ad operatori dei Servizi sociosanitari, ma anche a educatori, insegnanti, medici e infermieri, avvocati, giudici e forze dell’ordine e a tutti coloro che possono incontrare nel loro quotidiano bambini che mandano segnali di disagio o raccontano episodi di maltrattamento o abuso.

Vedo, Ascolto, Parlo... Ti Aiuto Come accogliere e comprendere le situazioni di maltrattamento e abuso che vedono coinvolti i minori

ISBN 978-88-6153-694-4

9 788861 536944

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