L’incontro con l’altro genera e trasforma. Questo testo nasce appunto dall’incontro, in spazi e tempi diversi, degli Autori con Wilfred Bion, le cui teorizzazioni psicoanalitiche hanno fornito una profonda e articolata lettura di quelli che sono i meccanismi alla base dei processi di pensiero. È attorno a questa concezione dello sviluppo della mente sia individuale che gruppale che le due parti del testo, all’apparenza indipendenti, sono fortemente integrate. Nella prima un lavoro di Ferruccio Marcoli ci rivela quanto la storia individuale di Bion ne abbia segnato la prospettiva professionale, teorica, metodologica. Nella seconda Paolo Magatti intreccia in un’ottica psicosocioanalitica il Bion di Marcoli con quello di Pagliarani restituendo al lettore la sua visione e la sua interpretazione del pensiero bioniano. Nasce così Venere e l’Orso, un testo che impone un continuo gioco di specchi e rimandi dove l’incontro con l’Altro si pone come chiara e prepotente opportunità di arricchimento reciproco.
PAOLO MAGATTI Laureato in filosofia e in psicologia, è formatore, consulente di sviluppo organizzativo, psicosocioanalista e psicoterapeuta individuale e di gruppo. È socio di Ariele Psicoterapia e dell’Istituto italiano di psicoanalisi di gruppo (IIPG). È docente a contratto presso il Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa” dell’Università Milano-Bicocca. Ha pubblicato diversi saggi sul gruppo come dispositivo per la formazione e l’apprendimento tra cui Gruppo di lavoro, gruppo operativo (2013) e Formazione, trasformazioni e campo analitico (2015).
VENERE E L’ORSO
FERRUCCIO MARCOLI Nato in Svizzera, è stato maestro di scuola elementare, filosofo e psicoterapeuta ad indirizzo psicoanalitico. Con Luigi Pagliarani ha contribuito alla fondazione del Centro Individuo e Società di Milano. Psicoterapeuta presso l’Organizzazione socio-psichiatrica di Lugano, ha fondato nel 1987 l’Istituto Ricerche di Gruppo di Lugano di cui è stato presidente. È stato inoltre presidente onorario dell’Associazione di Psicologia Generativa della Svizzera Italiana (APGSI). Ha ideato il metodo di lavoro “fare storie” per la prevenzione e cura con bambini, ragazzi e adolescenti, che rielabora in modo originale concetti chiave del pensiero di W.R. Bion.
F. MARCOLI - P. MAGATTI
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FERRUCCIO MARCOLI PAOLO MAGATTI
VENERE E L’ORSO APPUNTI SU BION E LA PSICOSOCIOANALISI
ISBN 978-88-6153-890-0
P E R C O R S I PsicoSocioAnalitici Euro 22,00 (I.i.)
“Percorsi PsicoSocioAnalitici”è il punto di connessione tra teoria e ricerca operativa in ARIELE Psicoterapia e ne intreccia il continuo approfondimento clinico, teorico e tecnico. La PsicoSocioAnalisi orienta teoria e prassi attraverso il paradigma individuo-famigliagruppo-polis declinando i verbi fondamentali del vivere umano: “amare” e “lavorare”. La collana rappresenta l’occasione per tracciare un itinerario e utilizzare l’approccio psicosocioanalitico per analizzare da diversi vertici l’esperienza e la sofferenza psichiche nelle loro molteplici manifestazioni. “Percorsi PsicoSocioAnalitici” è indirizzata a quanti operano nei vasti ambiti della psicologia, della psicoterapia, delle scienze sociali e della formazione e a quanti siano interessati ad un approccio psicoanalitico dinamico e articolato.
5 Ferruccio Marcoli – Paolo Magatti
VENERE E L'ORSO Appunti su Bion e la Psicosocioanalisi Introduzione di Paola Scalari e Giulia Rossetto
Indice Introduzione ................................................................... 9 di Paola Scalari e Giulia Rossetto PRIMA PARTE Come ho fatto ballare l’orso di Ferruccio Marcoli Incontri .......................................................................... 15 Le effrazioni del dolore .............................................. 21 Cominciare a metà della storia ................................. 27 Vita in famiglia ............................................................. 35 La pratica clinica .......................................................... 43 Il percorso scientifico .................................................. 49 Rappresentare le intuizioni ....................................... 53 Pensare i pensieri ......................................................... 59 Intrapsichico e intersoggettivo ................................. 63 Dalla griglia al regolo ................................................. 69 Funzione del sogno e rêverie materna ................... 75 In conclusione ............................................................... 83 Bibliografia ................................................................... 85 SECONDA PARTE La ricerca psicosocioanalitica e la tradizione bioniana: snodi, connessioni e sviluppi di Paolo Magatti Snodi .............................................................................. 91 Consonanza di stile e vertigine estetica ................. 97 Capacità negativa ...................................................... 103 Puer, progettualità e impatto con O ...................... 115 Coppia .......................................................................... 121 Un caso: la griglia-partitura ..................................... 129 Gruppo ......................................................................... 137 Istituzione ................................................................... 145 Sognare e risognare la caesura ............................... 157 Una direzione di ricerca: sognare il compito ........ 169 Bibliografia ................................................................. 175
Introduzione
di Paola Scalari e Giulia Rossetto1
Antonino Ferro in una sua recente conferenza ha dichiarato che “sono molte le cose di Bion abbastanza aperte in attesa di sviluppo”. È proprio con questo spirito che nasce questo testo che analizza da diverse prospettive la metodologia di lavoro di questo autore, nata per trasformare l’impensato in pensabile. Ferruccio Marcoli e Paolo Magatti cercano, applicando la lezione di Bion, il punto O, cioè la verità su questo impareggiabile psicoanalista nato in India, formatosi in Inghilterra e divenuto presto generoso formatore di molti colleghi residenti nell’America Latina. Marcoli, con il passo fermo e sicuro di chi questo Autore lo conosce in profondità, sapientemente intreccia pensiero, biografia e bibliografia proprie e del proprio Maestro, rendendo umano il percorso della conoscenza. Osservare poi con Magatti il pensiero bioniano attraverso il sapere psicosocioanalitico, derivante dalla concettualizzazione di Luigi Pagliarani, permette di ampliare la lente d’ingrandimento che guarda all’uomo e ai suoi contesti di vita, che opera per costruire narrazioni individuali e collettive, che s’impegna per trasformare traumi senza parole in narrazioni co-costruite. La bellezza dell’ibridarsi, parola cara a Pagliarani, è quindi alla base della profondità del conoscere la mente umana, così come Marcoli e Magatti ci propongono rileggendo a diversi livelli il pensiero bioniano. Ed è proprio attraverso la lente dell’ibridazione che questo testo ha preso forma e contenuto in un dia1 Paola Scalari, psicologa, psicoterapeuta, psicosocioanalista, membro della Commissione Editoria dell’Associazione Ariele Psicoterapia, socia C.O.I.R.A.G. ETS e docente C.O.I.R.A.G. ETS. Giulia Rossetto, psicologa, psicoterapeuta, psicosocioanalista, membro della Commissione Comunicazione dell’Associazione Ariele Psicoterapia, socia C.O.I.R.A.G. ETS e docente C.O.I.R.A.G. ETS.
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logo intergenerazionale che garantisce al pensiero creativo di dare forma al nuovo. In questa ottica il volume è formato da due parti all’apparenza indipendenti, ma fortemente integrate attorno alla psicoanalisi bioniana. Nella prima troviamo l’edizione, curata da Maria Teresa Aceti e Giuliana Tonoli2, di un lavoro di Ferruccio Marcoli, nato da un suo seminario per la scuola di Psicoterapia della C.O.I.R.A.G. ETS, promosso nel 2016 da Ariele Psicoterapia. Lo riteniamo un omaggio a questo maestro da poco scomparso, che a sua volta omaggia un altro maestro. Nel costruire questo volume della collana Percorsi PsicoSocioAnalitici ci sono apparsi però subito chiari la necessità e anche il desiderio di allargare e riattraversare i contenuti del testo nell’ottica che contraddistingue la matrice teorica dell’associazione Ariele Psicoterapia. Nella seconda parte, quindi, Paolo Magatti propone una lettura psicosocioanalitica collegando il Bion di Marcoli con quello di Pagliarani, dando vita alla sua lettura, analisi e interpretazione del pensiero bioniano. Nasce così Venere e l’Orso, come testo che impone un continuo gioco di specchi e rimandi dove è chiara e prepotente la possibilità di incontrare l’Altro arricchendosi reciprocamente. Questa è la bellezza del pensiero bioniano e postbioniano che continua oggi a crescere, svilupparsi ed ampliarsi in tutti coloro che hanno una visione della mente gruppale. Il dialogo delle voci interiori diventa quindi dialogo tra le diverse menti pensanti che costituiscono la trama e l’ordito di questo volume. Un titolo come “Venere e l’Orso” può suonare tuttavia bizzarro a chi non ha frequentato il pensiero di Luigi Pagliarani e quello di Ferruccio Marcoli su Bion, ma si andrà chiarendo nel corso della lettura del testo perché fa riferimento a due metafore: “Il coraggio di Venere” che è anche il titolo dell’opera più importante di Pagliarani, e “Far ballare l’orso di nome Bion” che è il titolo dato da Marcoli al seminario tenuto in C.O.I.R.A.G. ETS. La socioanalisi di matrice inglese, cara inizialmente a Pagliarani, dunque, incontra la psicologia sociale analitica di matrice argentina che ha in comune con Bion il pensiero sia di Sándor Ferenczi che della sua analizzata Melanie Klein. Maria Teresa Aceti, psicologa, psicoterapeuta, psicosocioanalista, membro della Commissione Comunicazione dell’associazione Ariele Psicoterapia, socia C.O.I.R.A.G. ETS e Direttrice della Sede di Milano della Scuola C.O.I.R.A.G. ETS Giuliana Tonoli, psicologa, psicoterapeuta, psicosocioanalista, socia C.O.I.R.A.G. ETS e docente C.O.I.R.A.G. ETS. 2
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INTRODUZIONE
Si va così scoprendo la bellezza della diversità, della divergenza, dell’andare oltre il noto, della ricerca. L’incontro con José Bleger, racconta Pagliarani, è per lui illuminante e gli apre la via alla costruzione della definizione della Psicosocioanalisi. Tutti loro, peraltro fecondati dal pensiero di Ferenczi, sono contaminati da un intenso via vai tra Buenos Aires e Londra. Emilio Rodriguè, cofondatore dell’Associazione Psicoanalitica Argentina, a lungo studia a Londra con Melanie Klein, incontra Wilfred Bion e tutta la sua scuola. Rientra dunque in patria con un bagaglio bioniano che poi contagerà indirettamente Enrique Pichon Rivière e la psicoanalisi argentina. Ma anche gli psicoanalisti inglesi passeranno più volte l’oceano portando il loro pensiero nelle Americhe. La rete relazionale tra tutti questi psicoanalisti è dunque intensa e a noi sta districarla in senso storico, ma anche teorico. Fa sempre però da fil rouge il gruppo, nozione fondamentale per Bion, della quale, pur abbandonandone apparentemente l’applicazione, rimarrà sempre un fedele interprete. Il gruppo diviene dunque la passione centrale per Marcoli così come per Luigi Pagliarani e gli psicosocioanalisti che ora trovano in Magatti uno studioso della sua dimensione operativa. Questo perciò è un testo corale dove più voci narranti ci fanno sentire il lavorio della trasformazione del pensiero che proprio nel gruppo, come ci insegna Bion, trova la sua matrice generativa primaria. La metafora dell’Orso proposta da Ferruccio Marcoli si presta dunque a rappresentare l’esplorazione del pensiero, a volte ostico e sicuramente sempre complesso, di questo psicoanalista che ha costruito una ineguagliabile rappresentazione del funzionamento della mente umana. Forse risultando alle volte difficilmente digeribile e per questo ora più apprezzabile attraverso lo sguardo di chi ci guida nell’incontro mantenendo sullo sfondo la narrazione di come lui stesso lo ha conosciuto e se ne è innamorato. In questa vicenda di relazioni che nascono, nello scorrere del testo fa capolino Venere, proponendo la bellezza dell'incontro, così come Magatti ci porta via via a scoprire attraverso il fondatore del pensiero psicosocioanalitico. Bion quindi unisce i due Autori di questo volume attraverso la metafora della generatività derivante dal copulare, dal piacere della convivenza psichica, insomma dall’intimità che genera il nuovo attraverso lo scambio più intimo e profondo, inesauribile. Il
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non conoscere mai del tutto mantiene vivo il desiderio. È la passione vissuta nella penetrazione del pensiero bioniano che porta l’Orso a divenire amabile, appassionante, avvincente. Addomesticato pur nella sua imponenza. Un compagno nella propria vita professionale da cui farsi sedurre, amare, ammirare, sollecitare. Venerabile nella sua bellezza. Chi cerca quindi di farne la conoscenza non lo abbandona più e ne ammaestra nel tempo il discorso, così come fanno i due Autori di questo quinto volume della collana Percorsi PsicoSocioAnalitici. Nella nostra epoca – dove la complessità rischia di abdicare facilmente a favore di un sapere premasticato, preconfezionato – preimpostato, questo è un monito professionale che ci scuote e ci propone davvero una sfida intellettuale da non perdere. Una lettura dunque nella quale lasciarsi accompagnare e dentro alla quale immergersi senza pregiudizi, fissità, rigidità per emergere rinnovati nella conoscenza. Una lettura che ci chiede di fare i conti autenticamente con la memoria e il desiderio.
Parte prima Come ho fatto ballare l'orso di Ferruccio Marcoli
Incontri
Ho sentito per la prima volta il nome di Wilfred Ruprecht Bion nel 1967 mentre ero studente a Strasburgo all’Institut d’éducateurs spécialisés. L’Accademia di cui faceva parte la mia scuola intratteneva rapporti con la Maison d’Europe, dove studiosi ed esperti preparavano l’Unione Europea. Tra queste personalità c’erano un criminologo inglese, O. Bishop, e R. Oberlé, mio professore di psicologia. In questo contesto partecipai nei Vosgi, sul Mont Sainte-Odile a un’attività residenziale di gruppo di una settimana impostata (così ci dissero) “secondo il modo bioniano”. Una ventina di studenti – suddivisi in due gruppi condotti da Bishop e Oberlé – seduti in circolo a dialogare faccia a faccia. Innovazione tutt’altro che trascurabile per chi fino a quel momento era abituato a lezioni cattedratiche! Durante la giornata il “piccolo gruppo” si riuniva due volte al mattino per un’ora e due volte al pomeriggio. Tra l’una e l’altra seduta i due gruppi si ritrovavano in cerchio a formare il “grande gruppo” con entrambi i conduttori presenti e riprendevano a dialogare. In totale: 4 sedute di “piccolo gruppo” più 2 sedute di “grande gruppo” al giorno. Avviata l’attività, i conduttori stavano zitti (non ricordo che facessero altro3). Gli studenti, immersi in un ambiente emotivo carico di ansia, ponevano domande, ma non ottenevano risposte4. L’esperimento mi piacque. Dopo quell’esperienza presi parte per alcuni mesi ai moti del Sessantotto. Tornato in Svizzera, diplomato e padre di famiglia, mi venne proposta la cattedra di psicologia e didattica. La procedura adottata da Bishop e Oberlé si rifaceva a quanto Bion scrisse nel saggio The leaderless group project del 1946 (cfr. The complete works of W.R. Bion, Karnac Books, London, 2014, vol. IV, 31 sg). 4 È risaputo che nei seminari degli anni Settanta Bion faceva spesso riferimento alla formula del filosofo francese Blanchot secondo cui “La réponse est le malheur de la question”: “la risposta è la disgrazia della domanda” in quanto inibisce la disposizione a indagare e a scoprire, e ostacola l’uso delle emozioni per un adeguato sviluppo mentale. 3
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E proprio alla Magistrale, unica scuola del Canton Ticino dove queste materie erano in programma e dalla quale ero uscito solo qualche anno prima come maestro di scuola elementare, cominciai la mia carriera di docente. Docente esordiente frastornato di fronte all’orda contestatrice, ma tanto euforico da non dare importanza alla precisa indicazione programmatica ricevuta dal direttore di allora (neofita anche lui): “fai quello che vuoi, basta che non sia quello che facevano prima di te!”. Me la cavai ricorrendo al “metodo bioniano dei gruppi” appreso sul Mont Sainte-Odile. E l’esperienza, che nei Vosgi era durata una settimana, nella Scuola Magistrale durò l’intero anno scolastico 1968/69. Da parte mia con crescente temerarietà e graduali modifiche; da parte degli allievi per il piacere di discutere. Potendo in tal modo restare per la maggior parte del tempo in silenzio, guadagnavo paradossalmente in prestigio e autorevolezza. La necessità di reperire nuovi mezzi per affrontare la situazione mi costrinse dunque a domare contemporaneamente due orsi: gli studenti contestatori e Bion stesso. Per continuare a far ballare l’orso mi sono determinato, non senza qualche difficoltà, a conoscere veramente Bion. Non è stato semplice. Nelle biblioteche non trovavo nulla. Sapevo poco o niente di inglese e non potevo accedere alle versioni originali. Frugai dentro i cataloghi di diversi editori. Erano i primi anni Settanta e, nella collana “Serie di psicoanalisi”5 delle edizioni Armando, trovai finalmente due traduzioni. La prima del 1970, Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico6; la seconda, Esperienze nei gruppi, pubblicata dieci anni prima a Londra. Mi procurai entrambi i libri compiaciuto di scoprire che, nella stessa serie, Armando avrebbe pubblicato anche Apprendere dall’esperienza, Elementi della psicoanalisi e Trasformazioni. Dopo un primo abbozzo di lettura di Analisi degli schizofrenici, le difficoltà di comprensione tramutarono il compiacimento in inquietudine e, per un paio d’anni, dimenticai il libro su un ripiano della libreria di casa. D’altronde, era per me essenziale capire Esperienze nei gruppi. A prima vista lo trovavo più facile e in grado di spiegarmi in cosa consistesse il metodo che attribuivo a Bion quando ai miei allievi dicevo che lo stavo applicando con loro. In classe, comunque, navigavo a vista, beneficiando delle medaglie che l’immaginario Curata da Francesco Corrao. Con il titolo Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico, l’editore aveva tradotto l’opera originale Second Thougths pubblicata da Heinemann, Londra, nel 1967.
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Quando ero in Francia, nel 1967, Luigi Pagliarani fondò, con Franco Fornari e Laura Frontori, l’Istituto Italiano di Polemologia per promuovere ricerche sul conflitto bellico e sulla conflittualità sociale. Era inoltre già attivo e riconosciuto per le sue capacità d’analisi dei rapporti istituzionali. 8 Marcoli F., 1988.
INCONTRI
studentesco mi aveva assegnato come reduce del maggio contestatario francese. Godendo di un certo gradimento potevo maturare nuove esperienze con i gruppi. Per contro, lontano da scuola mi misuravo privatamente con ogni riga del testo bioniano senza perdere di vista l’intenzione di capire che cosa stessi veramente facendo io. Il risultato più immediato fu di collezionare citazioni che, di fronte ai miei allievi, usavo come sentenze ostentando in tal modo competenza e sicurezza anche se, nell’intimo, ero inquieto e insicuro. Non avendo nessuno con cui confrontarmi, facevo una fatica enorme raddoppiata dallo sforzo di non darlo a vedere. Ero però giovane, ambizioso e determinato a domare l’orso. Guardandomi in giro, trovai un alleato poco distante da casa in Luigi Pagliarani. Lavorava a Milano e abitava in Ticino, a Vacallo. Aveva poco meno di cinquant’anni e io poco meno di trenta. Per altri motivi, anche lui stava approfondendo le Esperienze nei gruppi. Bastò qualche incontro per trovarmi coinvolto nella fondazione del Centro Individuo e Società (CIS) voluto per tenere vivo lo spirito dell’Istituto Italiano di Polemologia7, che aveva nel frattempo perduto l’originaria vitalità. Grazie a Pagliarani conobbi diversi studiosi; con uno di loro, Piero Leonardi, intrapresi la mia analisi personale. Seguirono altre conoscenze ed eventi. Col tempo, lasciai l’insegnamento alla Magistrale e iniziai a praticare la psicoterapia individuale e di gruppo. Furono comunque le pagine ciclostilate a inchiostro dei resoconti delle riunioni del CIS da novembre 1972 a fine gennaio 1973 a darmi lo spunto per l’opera Wilfred R. Bion e le esperienze nei gruppi8. Quando il libro fu pubblicato ero già entrato nell’anno 1988; molta acqua era già passata sotto i ponti e avevo già da un po’ tolto dal ripiano della libreria Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico e messo le mani sulle altre opere bioniane che, nel frattempo, erano state pubblicate. “Mettere mano” è termine giusto perché non mi limitavo a riempire le pagine di quei libri di sottolineature e annotazioni, ma le sciupavo letteralmente. Non raramente più di una si staccava e, come i miei pensieri, se ne andava per proprio conto e si perdeva tanto da costringermi a comperare una nuo7
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Ferruccio Marcoli
va copia del libro. Assieme alle mani occorreva però metterci la testa e l’apparato digerente. Questo era il problema e, talvolta, sconfortato, giungevo ad augurarmi che chi le aveva scritte scomparisse per non doverne manipolare di nuove, dal momento che l’avevo scelto come punto di riferimento. Bion morì per davvero a 82 anni, l’8 novembre 1979, colpito da una forma di leucemia mieloide sviluppatasi con straordinaria rapidità. Mentre scrivevo W.R. Bion e le esperienze nei gruppi e mi addentravo nell’oscurità dei libri apparsi successivamente, la sua notorietà era assai cresciuta rispetto agli inizi degli anni Settanta. Nel circolo relativamente chiuso dell’aristocrazia psicoanalitica veniva apertamente discusso e criticato: bene e male. Da parte mia registravo quasi essenzialmente i giudizi positivi. In Francia, mi confortava quello di A. Green9 che, scagliandosi contro i “sindaci della burocrazia psicoanalitica”, sosteneva che per sopravvivere la psicoanalisi, più che muoversi alla ricerca di un nuovo anelito, doveva potersi aprire a una nuova rivoluzione. E l’esempio veniva proprio da Bion, con il suo tentativo destinato a edificare nuove costruzioni per mezzo di referenti più arditamente ipotetici e respingendo qualsiasi realismo della psiche. Tuttavia ciò implicava una nuova rivoluzione psicoanalitica, tanto audace quanto quella di cui si assunse la responsabilità Freud. In Italia, F. Fornari10 non esitava a sottolineare la straordinaria fertilità di Bion per come era in grado di stimolare l’intuizione e la creatività, togliendo le evidenze in base alle quali si era abituati a costruire il pensiero. In Gran Bretagna, D. Winnicott già da tempo lo aveva designato il grande uomo del futuro nell’ambito della Società Psicoanalitica11, compiacendosi per il modo in cui procedeva diritto per la propria strada. Mi dichiaravo soprattutto in sintonia con I. Matte Blanco che, con una certa enfasi, scriveva: [...] La mia intenzione: imparare da Bion, immergermi nella sua così impersonale personalità. Non posso, tuttavia, fare questo se non mantengo la mia propria autenticità, la mia impersonale personalità. Il risultato di queste due premesse è, a volte, la scoperta di un isomorfismo tra lui e me; e nella maggior parte dei casi, uno sviluppo della mia autenticità12.
Green A., 1980, p. XX. Fornari F., 1983, p. 149. 11 Winnicott D.W., 1987, p. 153, 213. 12 Matte Blanco I., 1981, pp. 446-479. 9
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Marcoli F., 1997. Bion W.R., 1971, trad. it. pp. 47-48.
INCONTRI
Tra gli anni Ottanta e Novanta, fui designato responsabile circondariale del Servizio di Sostegno Pedagogico nelle scuole elementari e materne dove un gruppo di collaboratori accolse il mio invito di mettere a punto un metodo che servisse a prevenire e affrontare i disturbi del pensare causati da eccessiva interferenza delle emozioni in bambini, ragazzi e adolescenti. Nel progetto proposto al Dipartimento dell’Educazione e della Cultura scrissi che, nella procedura, mi sarei basato su “alcuni significativi elementi del quadro concettuale di Bion”. La proposta fu accolta e il risultato fu la pubblicazione, nel 1997, dell’opera Il pensiero affettivo13. Tracciando le coordinate della ricerca mi rendevo conto che l’“impersonale personalità” che Matte Blanco assegnava a Bion si accordava male con l’intenzione (e la necessità) che avevo di “rubargli il mestiere”. Per sviluppare la mia autenticità era necessario misurarmi con il modo in cui Bion praticava il suo lavoro e, purtroppo, dalla lettura dei suoi scritti ricavavo scarse informazioni. Per quanto suggestivo, l’ossimoro coniato da Matte Blanco non faceva per me. Non riuscendo a “rubare il mestiere” a Bion, decisi quindi di avvalermi di “alcuni significativi elementi del suo sistema concettuale” per dare corpo alla mia autenticità con un metodo tutto mio. La decisione mi consentiva di continuare a far ballare l’orso – e in ciò la mia ammirazione mutò in irriverenza – libero tuttavia di frugare nei testi bioniani e ghermirvi ciò che mi sembrava utile, ignorando ciò che non riuscivo a capire. Operando in questo modo, oltre che “orsante” ero anche un “predatore” che legittimava il suo operato con gli argomenti di colui che occupava la tomba nella quale rovistavo14 nell’accordare ai saccheggiatori del cimitero reale di Ur “una posizione nel Pantheon della Fama scientifica almeno altrettanto elevata di quella che viene concessa ai precursori della Scienza”, in quanto li riteneva capaci di addentrarsi nel “dominio lasciato usualmente in possesso alla Magia, alla Religione e alla Morte”. L’argomentazione su cui mi appoggiavo per giustificare il mio operato è il riferimento che Bion fa alla scoperta, negli anni Venti, di diverse maestose tombe colme di ori e gioielli ritenute la prova del sacrificio umano praticato nell’universo sumerico e babilonese. Il rinvenimento del sito ha indotto diversi storici a ipotizzare che, in seguito al decesso di
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un re o una regina, i membri della corte dovessero accompagnarli nell’aldilà dopo essere stati messi a morte a loro volta per avvelenamento. Mi allettava l’idea di paragonare gli importanti ritrovati nella tomba di Ur ai testi bioniani e me stesso al ladro-scienziato benché, per la verità, anziché da emulo dei saccheggiatori delle tombe di Ur mi comportavo piuttosto da disinvolto cercatore di materiali preziosi dentro un promettente bacino minerario.
Parte seconda La ricerca psicosocioanalitica e la tradizione bioniana: snodi, connessioni e sviluppi di Paolo Magatti
Snodi
Un telaio, in edilizia, è una struttura costituita da elementi orizzontali e verticali che hanno il compito di sopportare il peso dell’edificio e di scaricarlo sul suolo. Pensando al rapporto tra la psicosocioanalisi, come corrente nata a partire dal pensiero di Luigi Pagliarani, e la tradizione bioniana è l’immagine del telaio, graticcio di travi e pilastri, che per prima mi si è presentata alla mente. Un’immagine che rimanda a un edificio in costruzione, in cui sono ben visibili le strutture che hanno il compito di contenere e scaricare le forze. Mi sono immaginato che l’edifico della psicosocioanalisi si regga grazie a una intelaiatura interna di concetti e di prassi che rimandano ad autori e correnti diverse (Ferenczi, Bion, Balint, la concezione operativa di Pichon-Rivière e Bleger, la socioanalisi, l’epistemologia della complessità...) ma che sono tra loro connessi in modo che il fabbricato, alla prova della realtà, si possa reggere in modo consistente. Proporre una riflessione sul rapporto tra la psicosocioanalisi e la tradizione bioniana significa allora individuare quali sono i principali snodi del reticolo che derivano da tale intreccio, provando a capire come essi giocano nel sistema di forze complessivo che la psicosocioanalisi, come teoria e come prassi, esprime. Utilizzando, ricorsivamente, una nozione di Bion, possiamo ipotizzare che tra la psicosocioanalisi e la “tradizione bioniana” – uso questo termine in riferimento al volume collettaneo del 2016 The W.R. Bion Tradition1 che sottolinea come si sia affermata, a partire dagli anni Settanta, una vera e propria tradizione bioniana transnazionale che pur valorizzando il meglio dell’eredità freudiana, non ha esitato ad andare oltre i suoi limiti – si sia costituita una relazione dinamica contenitore/contenuto. La psicosocioanalisi, a partire da Pagliarani, ha svolto una funzione di contenitore tra1
Levine H.B., Civitarese G. (a cura di), 2016.
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Paolo Magatti
sformativo, inglobando al proprio interno e nutrendosi di alcuni aspetti dello stile e del pensiero di Bion e dei post-bioniani. D’altro canto, potremmo pensare alla stessa psicosocioanalisi come a un contenuto, ossia a una corrente, certo ibridata anche da altri autori e da altre correnti interne ed esterne al campo psicoanalitico, se non riconducibile tout court quanto meno contigua e in risonanza con gli approcci post-bioniani con i quali condivide alcuni fondamenti epistemologici di base. Vediamone alcuni: la radicale intersoggettività dell’esperienza umana, l’apertura alla complessità, il superamento di una concezione lineare della causalità nei fenomeni psichici e psicosociali (individuali e collettivi), la provvisorietà dei risultati di ogni processo conoscitivo, la necessità di sviluppare una riflessione accurata sui processi di osservazione dei fenomeni dinamici che avvengono nei diversi contesti clinici, l’utilità di disporre non tanto di teorie quanto di modelli (come ↔ ), adattabili a diversi ambiti e situazioni. Tali aspetti a loro volta si iscrivono in una più generale svolta paradigmatica che la tradizione bioniana, riformulando la nozione di inconscio e quella di sogno, ha impresso alla psicoanalisi, portandola ben oltre l’eredità freudiana. L’inconscio bioniano non è più considerato (solo) come il luogo del rimosso dove confluiscono le rappresentazioni e le pulsioni inaccettabili per la coscienza, bensì come una funzione, o un insieme di funzioni trasformative e produttive, alla base dei processi di simbolizzazione; come scrive De Masi:
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In Bion l’inconscio perde il suo significato ontico di luogo; è una funzione della mente, non uno spazio per depositare il rimosso. Per Bion non esiste opposizione tra conscio e inconscio (quest’ultimo come un insieme di contenuti primitivi e arcaici che possono essere svelati e compresi) ma relazioni tra oggetti e funzioni. […] L’accento si è spostato ora dal “rimosso” al “non ancora rappresentato”, dallo “scoperto” al “creato”[…]2.
A partire dal suo lavoro sul pensiero degli schizofrenici, Bion inaugura pertanto il passaggio da una psicoanalisi dei “contenuti” a una psicoanalisi delle “funzioni”3. In altri termini, non si tratDe Masi F., 2000, p. 94. “Bion ha avuto la capacità di operare un salto, una discontinuità, passando da una psicoanalisi dei contenuti a una delle funzioni mentali, da una simbologia bloccata
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(campanile = pene) a una astratta, in quanto svuotata di impressioni sensoriali (alfa, beta, “O”), capace di infinite potenzialità di senso, che influenzerà profondamente il modo di ascoltare e di intervenire dell’analista e dunque il setting nel suo complesso, sia pure con una forte prevalenza per il cosiddetto setting interno”, Ferro A. (a cura di), 2013, p. 37.
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ta più – solo – di ristabilire una verità rimossa, recuperando un contenuto inconscio, quanto piuttosto di sviluppare le funzioni psichiche che consentono di “sognare” e “pensare” l’esperienza. Ciò significa allontanarsi dalla metafora della ricostruzione archeologica, secondo la quale il processo analitico coincide con uno scavo in profondità per riportare alla luce dei frammenti dimenticati (dimensione verticale, alto/basso), per esplorare, nel qui e ora della relazione, una molteplicità di direzioni alla ricerca di un’espansione della capacità di pensare/sognare. Come metteremo a fuoco nelle prossime pagine, Pagliarani, lettore di Bion, è in pieno accordo con questo passaggio quando sottolinea il carattere “architettonico” (costruttivo e progettuale), più che archeologico (ricostruttivo), della pratica clinica, sia essa terapeutica o formativa. Rispetto al sogno, la rivoluzione bioniana consiste nel considerare l’attività onirica non tanto come distorsione [Entstellung] di un significato vero che corrisponde al contenuto latente del sogno, quanto piuttosto come trasformazione [Transformation] “personale” di contenuti emotivi grezzi e anonimi, derivanti dal contatto turbolento con il reale, che si realizza sia durante il sonno sia nel corso della veglia. Mettere in relazione la psicosocioanalisi e la tradizione bioniana implica pertanto porre il problema di quale sia la concezione di inconscio (e di sogno) alla quale ci si intende riferire e in base alla quale impostare le proprie pratiche. L’obiettivo del presente saggio è di tentare una cartografia che, senza pretesa di completezza, individui alcuni nuclei che la psicosocioanalisi, a partire dal lavoro e dalle intuizioni di Pagliarani, ha colto dalla lezione bioniana, con la finalità di avere un quadro più articolato di come lo “stile” e il pensiero bioniani abbiano permeato il campo della psicosocioanalisi. L’intento non è tanto di effettuare una ricostruzione filologica e storica, anche se sarà inevitabile fare riferimento ad alcuni passaggi documentati nei testi, quanto piuttosto quello di focalizzare l’attenzione su alcuni snodi che ci sono sembrati particolarmente fecondi e che, in prospettiva, possono aprire nuovi campi di ricerca. L’organizzazione del testo, mantenendo la metafora dell’edificio, procede per livelli. Il primo affronta le consonanze di stile che
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Pagliarani avverte nei confronti di Bion e che riguardano principalmente l’adozione di uno sguardo “estetico” nei confronti dell’incontro con l’altro e con il mondo; il che implica, sul piano della tecnica, l’esercizio della capacità negativa come principio metodologico fondamentale sul quale si effettuerà un approfondimento. Al secondo livello, partendo dal costrutto di puer come figura dello sviluppo e della crescita individuale e collettiva, si è cercato di cogliere le possibili tracce del pensiero di Bion depositate nei diversi situemi. Il filo conduttore della ricerca è stato quello di interrogarci su come il vettore della crescita si possa articolare a partire dalle diverse situazioni relazionali ed emotive (coppia, gruppo, istituzione, polis), tra loro correlate ma distinte. Al terzo livello, si sono considerati due aspetti trasversali che la psicosocioanalisi ha filtrato dal corpus bioniano e che hanno contribuito a definirne la specificità e l’evoluzione. In primo luogo, ci siamo soffermati su un sogno che Pagliarani riporta ne Il coraggio di Venere e che raffigura il transito doloroso tra stati primitivi, pre-ambivalenti, e stati evoluti della mente, tra il livello indifferenziato e quello simbolico. Il gesto di indagare questa caesura, come invita a fare Bion, ha consentito alla psicosocioanalisi di mettere a tema e sviluppare una ricerca originale, ancora in corso, sull’angoscia della bellezza, sull’ambiguità e sugli spazi intermedi. In secondo luogo, abbiamo identificato nel primato dell’azione un altro tema trasversale all’incrocio tra le due tradizioni. Bion, nella Griglia, pone l’azione come la forma più evoluta di uso del contenitore mentale; la psicosocioanalisi, non solo riabilita l’azione rispetto al suo essere relegata ad acting out, ma la valorizza come ciò che produce un contatto effettivo, ossia produttivo di effetti, con la realtà. Il richiamo bioniano al “Linguaggio dell’Effettività” non è solo un modo per tematizzare la portata performativa del linguaggio, ma anche il tentativo di praticare una parola non autoreferenziale ma profondamente affettivizzata e costantemente intramata con il reale. A questo proposito, anche per non sbilanciare pericolosamente il “telaio” con troppi riferimenti teorici o testuali con il rischio che l’edificio possa cadere, ho pensato di inserire nel testo alcune situazioni cliniche con l’auspicio che possano stimolare ulteriori riflessioni sul piano della prassi. Se è vero, come sostiene Bleger, che solo a conclusione di un percorso si può comprendere meglio quale fosse il compito che
Pagliarani riprende l’immagine che Bion utilizza nel corso del seminario romano del luglio 1977, organizzato da Francesco Corrao e dal Centro di Ricerche Psicoanalisi di Gruppo del Pollaiolo, della foglia che cade dall’albero della quale non si sa su quale lato atterrerà per sottolineare l’imprevedibilità degli effetti del suo pensiero sul gruppo che lo sta ascoltando (Cassani E., Varchetta G. (a cura di), 1990, p. 114).
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ci aveva convocati, posso dire che, per quanto mi riguarda, comporre questo saggio è stata l’occasione, entusiasmante ma faticosa, di cucire insieme parti diverse della mia storia, professionale e formativa, cercando di armonizzare nel mio teatro interno le diverse voci di maestri, formatori, analisti, supervisori, pazienti, clienti che ho incontrato in questi anni e che mi hanno in-segnato profondamente. Non so come sia venuto l’abito. Spero di avere quantomeno dato un contributo affinché il pensiero di Bion possa continuare a cadere sul terreno della psicosocioanalisi come una foglia viva, anche se non si sa mai “su quale lato atterrerà”4.
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L’incontro con l’altro genera e trasforma. Questo testo nasce appunto dall’incontro, in spazi e tempi diversi, degli Autori con Wilfred Bion, le cui teorizzazioni psicoanalitiche hanno fornito una profonda e articolata lettura di quelli che sono i meccanismi alla base dei processi di pensiero. È attorno a questa concezione dello sviluppo della mente sia individuale che gruppale che le due parti del testo, all’apparenza indipendenti, sono fortemente integrate. Nella prima un lavoro di Ferruccio Marcoli ci rivela quanto la storia individuale di Bion ne abbia segnato la prospettiva professionale, teorica, metodologica. Nella seconda Paolo Magatti intreccia in un’ottica psicosocioanalitica il Bion di Marcoli con quello di Pagliarani restituendo al lettore la sua visione e la sua interpretazione del pensiero bioniano. Nasce così Venere e l’Orso, un testo che impone un continuo gioco di specchi e rimandi dove l’incontro con l’Altro si pone come chiara e prepotente opportunità di arricchimento reciproco.
PAOLO MAGATTI Laureato in filosofia e in psicologia, è formatore, consulente di sviluppo organizzativo, psicosocioanalista e psicoterapeuta individuale e di gruppo. È socio di Ariele Psicoterapia e dell’Istituto italiano di psicoanalisi di gruppo (IIPG). È docente a contratto presso il Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa” dell’Università Milano-Bicocca. Ha pubblicato diversi saggi sul gruppo come dispositivo per la formazione e l’apprendimento tra cui Gruppo di lavoro, gruppo operativo (2013) e Formazione, trasformazioni e campo analitico (2015).
ISBN 978-88-6153-890-0
Euro 22,00 (I.i.)
VENERE E L’ORSO
FERRUCCIO MARCOLI Nato in Svizzera, è stato maestro di scuola elementare, filosofo e psicoterapeuta ad indirizzo psicoanalitico. Con Luigi Pagliarani ha contribuito alla fondazione del Centro Individuo e Società di Milano. Psicoterapeuta presso l’Organizzazione socio-psichiatrica di Lugano, ha fondato nel 1987 l’Istituto Ricerche di Gruppo di Lugano di cui è stato presidente. È stato inoltre presidente onorario dell’Associazione di Psicologia Generativa della Svizzera Italiana (APGSI). Ha ideato il metodo di lavoro “fare storie” per la prevenzione e cura con bambini, ragazzi e adolescenti, che rielabora in modo originale concetti chiave del pensiero di W.R. Bion.
F. MARCOLI - P. MAGATTI
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FERRUCCIO MARCOLI PAOLO MAGATTI
VENERE E L’ORSO APPUNTI SU BION E LA PSICOSOCIOANALISI
P E R C O R S I PsicoSocioAnalitici
“Percorsi PsicoSocioAnalitici”è il punto di connessione tra teoria e ricerca operativa in ARIELE Psicoterapia e ne intreccia il continuo approfondimento clinico, teorico e tecnico. La PsicoSocioAnalisi orienta teoria e prassi attraverso il paradigma individuo-famigliagruppo-polis declinando i verbi fondamentali del vivere umano: “amare” e “lavorare”. La collana rappresenta l’occasione per tracciare un itinerario e utilizzare l’approccio psicosocioanalitico per analizzare da diversi vertici l’esperienza e la sofferenza psichiche nelle loro molteplici manifestazioni. “Percorsi PsicoSocioAnalitici” è indirizzata a quanti operano nei vasti ambiti della psicologia, della psicoterapia, delle scienze sociali e della formazione e a quanti siano interessati ad un approccio psicoanalitico dinamico e articolato.