Messaggero 2009-08 Ott-Dic

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Rivista trimestrale - anno 99

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Ottobre Dicembre 2009

I sacramenti: Eucarestia Dieci minuti per te Messaggio dalla Madonna del Sasso Le pagine dell’Ordine Francescano Secolare


Sommario

Intervista a don Sandro Vitalini

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Partecipare alla Messa

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Per meglio comprendere e vivere il Natale

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Esiste un ideale frate minore?

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fra Riccardo Quadri

Musiche per Maria

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Messaggio biblico

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Le pagine dell’OFS

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Meditare: una tranquilla passione

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fra Andrea Schnöller

Appunti di vita ecclesiale

Comitato di Redazione fra Callisto Caldelari (dir. responsabile) fra Ugo Orelli fra Edy Rossi-Pedruzzi fra Michele Ravetta Claudio Cerfoglia (segretariato) E-Mail redazione@messaggero.ch Hanno collaborato a questo numero fra Agostino Del-Pietro Gino Driussi Alberto Lepori Gabriella Modonesi fra Riccardo Quadri fra Andrea Schnöller don Sandro Vitalini

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Alberto Lepori

L’autunno caldo dell’ecumenismo

MESSAGGERO Rivista di cultura ed informazione religiosa fondata nel 1911 ed edita dai Frati Cappuccini della Svizzera Italiana - Lugano

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Gino Diussi

Il Presepe di San Francesco

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Stretta parentela tra uomini e animali

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Abbiamo letto... abbiamo visto…

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Note importanti Compilando la polizza per l’abbonamento non mancate di riportare l’esatto nominativo al quale la rivista è stata spedita. Indicate anche per favore l’indirizzo di spedizione. Per semplicità organizzativa la polizza di versamento é stata inserita in tutte le copie di questo numero.

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Lettera della Redazione

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ccoci all'ultimo numero di quest'anno 2009. Continuiamo la riflessione sui sacramenti. Don Vitalini – bravo come sempre – ci chiarisce alcuni aspetti teologici. Segue una spiegazione della Messa fatta in stile facile per permettere ai genitori e a catechisti di usarla nella spiegazione che danno ai loro figli e allievi. Diversi articoli riguardano la festa di Natale. Tutti noi sappiamo che questa ricorrenza, teologicamente parlando, non è la massima festa della cristianità, ma siamo altresì coscienti che è la più popolare, quella che sentimentalmente viene meglio vissuta. Come mai? Il Natale parla di nascita, un'esperienza che tutti abbiamo vissuto anche se in modo non cosciente, ma che poi abbiamo rivissuto coscientemente in famiglia o presso famiglie amiche. Mentre la solennità maggiore – la Pasqua – parte da un fatto che nessuno di noi ha vissuto e nemmeno visto. Il Natale possiamo definirlo una festa umana, la Pasqua una festa sovrumana. Comunque è importante conoscere il Natale, i suoi simboli, le sue tradizioni, se non altro per combattere le sue deformazioni, prima fra tutte il Babbo Natale. Questa del vecchio con le renne è forse la peggiore mistificazione e l'attentato antistorico più blasfemo alla festa cristiana. Combattere o per lo meno ignorarlo – specie nelle famiglie cristiane - è un dovere, per far riemergere quel mistero di spiritualità che la festa comporta e che possiamo riassumere nella frase biblica: "Dio ha tanto amato gli uomini donando loro il Suo Figlio Unigenito". Con questo numero iniziamo ad attingere alla bella rivista della Chiesa evangelica della Svizzera Italiana "Voce evangelica", dove abbiamo trovato un articolo interessante di un frate cappuccino svizzero, p. Anton Rotzetter. Grazie al redattore pastore Paolo Tognina per il permesso accordato e pronti al ricambio. Seguono le solite rubriche. Il fatto che il Messaggero abbia – per il momento – uno schema fisso, facilita la sua redazione ed offre ai lettori una continuazione tematica ad ampio raggio. Ci sarebbero altre rubriche che meriterebbero la nostra attenzione: le missioni, il terzo mondo, l'ecologia, ecc. In una trentina di pagine non si può fare tutto; cerchiamo di fare diligentemente quello che possiamo. Una parola sul rinnovo degli abbonamenti. Caro lettore che ci leggi, affrettati – se non l'hai ancora fatto – a rinnovare la tua adesione a questa rivista. Scegli, se ti è possibile, l'abbonamento sostenitore, ma soprattutto cerca nuovi abbonati. Lo puoi fare anche regalando il Messaggero ad amici, specie giovani coppie: primi fra tutti i figli che avessero da poco formato un nuova famiglia. Per tutto il 2010 possiamo garantire l'uscita di altri quattro numeri, ma se gli abbonati non cresceranno e, di conseguenza, aumenteranno i debiti, dovremmo chiudere o trovare altre soluzioni. Non è una bella prospettiva e, nella speranza che il Nuovo Anno porti consiglio e le feste natalizie ci portino quale dono diversi nuovi abbonati che permettano di camminare finanziariamente più sicuri, vi saluta ed augura "Pace e Bene".

la redazione

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Messaggio tematico

Intervista a don Sandro Vitalini Si dice che l’Eucarestia è fonte e culmine della vita della Chiesa: che senso hanno queste parole? L’Eucarestia prolunga nel mondo il mistero dell’incarnazione del Verbo. La sua presenza personale nei segni sacramentali della Parola, del pane e del vino, del popolo e dei celebranti, esprime la Chiesa nella sua realtà più profonda: quella di essere nel Cristo pane spezzato per il mondo. Il miracolo che attesta la presenza reale del Cristo non è certo il sanguinamento di un’ostia, ma l’amore per ogni prossimo che promana dalla celebrazione. Se il prossimo è affamato si vendono anche i vasi sacri e gli stessi edifici (che spesso vennero anche trasformati in ospedali, in lazzaretti) per l’impellente bisogno di servire il prossimo nelle sue necessità materiali e spirituali. Perché le espressioni “fonte e culmine” non siano vane parole è indispensabile verificarle nel contesto della vita concreta! Più la Chiesa “lava i piedi” dell’uomo e cioè si pone al servizio di ogni persona - segnatamente là dove è in difficoltà - e più si percepisce che le viscere di misericordia del Signore Gesù sono presenti tra noi oggi e noi, battezzati, le visibilizziamo.

Per Eucarestia s’intende solo Messa con Comunione, o anche adorazione e benedizioni eucaristiche? Che valore hanno queste funzioni che stanno quasi scomparendo? Di per sé l’Eucarestia non termina mai. Il saluto “la Messa è finita” è carico di equivoci e dovrebbe essere omesso. Si dice che Gesù abbia celebrato un’unica messa, ma si dimentica che la sua Eucarestia, come rendimento di grazie al Padre, è ininterrotta sia in terra come nei cieli. La celebrazione sacramentale ha dei limiti (più ampi per la Chiesa orientale) ma di per sé si prolunga nella nostra vita spezzata per gli altri, che non conoscerà termine nemmeno al di là del velo della morte. Si deve comprendere come tutta la celebrazione sacramentale sia comunione tra di noi, con il ministro, con la Parola, con il Pane consacrato. Non può far la comunione chi non fa comunione, e cioè chi odia uno dei suoi fratelli. Ma tutti noi, se pentiti, facciamo comunione tra noi e il Cristo, coscienti che lui è il perdono, e cioè l’agnello di Dio che assorbe il nostro peccato. L’idea di adorazione solenne e di processione si è sviluppata nel Medioevo, quando si imponeva una comunione almeno una volta all’anno (!!!) e così si sostituiva la comunione sacramentale con quella oculare. Questa conserva il suo significato di prolungamento dell’assimilazione meditativa al Cristo. Più si assumono i suoi sentimenti e più si è capaci di uscire di chiesa per “riparare” le ferite inferte al corpo di Cristo. Il nostro impe-

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gno anche politico ci spinge a lottare contro ogni sfruttamento (dello straniero, del piccolo, della donna) e a promuovere la giustizia e la fraternità in tutto il mondo.

Una volta non si faceva la Comunione durante la S. Messa, ma prima o dopo. Forse ci si preparava meglio, oggi quasi la totalità di chi partecipa ad una S. Messa si accosta alla Comunione: non è un atteggiamento un po’ superficiale? La comunione fuori della Messa va prevista solo per i malati e per gli agonizzanti (viatico). Come si è detto l’Eucarestia è tutta una comunione e di per sé non si interrompe mai, preludendo alla visione celeste. Si noti come la comunione implichi la comune-unione ai fratelli. “Se la ricevete bene, voi ricevete voi stessi”, dice Agostino. Nel Medioevo c’è stata una distorsione che ha fatto immaginare la comunione come un atto privato. Cito una parola di un Padre di cui non è noto il nome: “Non si consacra il Cristo se non si consacra l’universo”. Credo che la comunione privata del passato era gesto superficiale, scusato dall’ignoranza generale che regnava al proposito. Oggi si evita questa superficialità se si ammette che il pane spezzato che ci è posto sulla mano è quel Gesù che ci porta con Lui a spezzarci per i fratelli. Il fatto che i fedeli di Corinto (1Corinti 11) si abbuffassero e si ubriacassero, senza spezzare quanto avevano con i poveri che non disponevano di nulla, rendeva inesistente le cena del Signore (v. 20). La sintesi di tutta la legge è “amerai il tuo prossimo come te stesso” (Giacomo 2,8). Solo in questo modo si sottolinea la dimensione sacrificale della santa Cena: non certo nel senso che il sangue di Cristo “placa l’ira del Padre” (!), ma nel senso che il suo e il nostro sangue sono effusi, anche goccia a goccia, perché si realizzi il disegno del Padre che vuole rendere la terra un giardino, un regno di giustizia, di amore e di pace. La rivelazione di Gesù è una vera rivoluzione!

I fedeli comprendono che il Battesimo e la Cresima, nonché il Matrimonio, impegnano anche socialmente, non sembra così per l’Eucarestia. Questo sacramento ha una dimensione sociale? Senza la dimensione sociale non c’è Eucarestia. Anche Charles de Foucauld, che celebra solo nel deserto, è unito a tutti i suoi fratelli e la sua Eucarestia porta ancora frutto. Si ricordi come il termine “messa” venga da “missio”. Era il momento atteso del congedo quando, usciti sul sagrato, i fedeli prolungavano la festa con canti, giochi, vivande condivise. In tedesco il termine significa ancora oggi “fiera”. In una civiltà contadina - che non conosceva le ferie - le do-


meniche e le altre solennità costituivano la festa popolare che prolungava l’Eucarestia in chiesa. Pur in un contesto sociale cambiato, dobbiamo ricuperare questo valore di festa comunitaria, frutto del nostro incontro con il Signore. In parte si è già passati dal banchetto riservato alle autorità religiose e civili per le solennità ad un pranzo aperto a tutti o almeno ad un aperitivo per tutti. Si

incomincia a portare all’offertorio doni da presentare a bambini poveri, a missionari, ad anziani, a malati. Si tratta di gesti modesti (come quello dell’offerta pecuniaria) che ci ricordano che siamo famiglia unica, nello Spirito del Cristo a gloria del Padre. Se non ci riconosciamo tutti sorelle e fratelli, in modo fattivo, concreto, il banchetto sacrificale e conviviale con Gesù perde ogni significato.

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Messaggio tematico

Partecipare alla Messa

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opo aver letto le risposte che il teologo don Sandro Vitalini ha offerto ad alcune nostre domande sull’Eucarestia, veniamo a spiegare in modo semplice e facile (adatto anche ai bambini guidati dai catechisti) quella celebrazione Eucaristica che chiamiamo anche Messa. Il nome Eucarestia deriva dal greco e significa “Rendimento di Grazie”, in quanto è un rendere grazie a Dio per tutti i suoi benefici. Il nome Messa deriva invece dalla frase di congedo al termine della celebrazione, e può significare sia un invito ad andare in missione, esortando i cristiani riuniti a portare ciò che hanno imparato e accumulato di beni spirituali durante quella Messa, sia il fatto di aver mandato a Dio la celebrazione del sacrificio Eucaristico. Ma vediamo come è divisa questa celebrazione. Fondamentalmente ricopia qualsiasi ritrovo umano, nel quale possiamo distinguere quattro momenti: ci si riunisce, si parla ed ascolta, si condivide, e poi ci si congeda.

La riunione Parlo soprattutto della Messa domenicale. Inizio esortando tutti i miei lettori a riunirsi per tempo. Io chiedo ai miei parrocchiani di arrivare in chiesa almeno cinque minuti prima; hanno così il modo di incontrarsi, di salutarsi fuori di chiesa e di entrare prima che inizi la celebrazione per un momento di raccoglimento e silenzio, in preparazione alla stessa. Purtroppo c’è sempre chi ha il vizio di arrivare in ritardo, forse effetto di una antica educazione che sosteneva l’assurda possibilità di soddisfare il precetto domenicale anche giungendo in chiesa solo all’offertorio, quindi saltando completamente la liturgia della parola che, essendo fatta allora in latino, era pressoché incomprensibile. Arrivare per tempo, creare un’atmosfera di comunità è indispensabile se vogliamo realizzare la promessa di Cristo: “Quando due o più sono riuniti nel mio nome, Io sono in mezzo a loro”.

Riti di inizio Sarebbe bene che tutte le Messe iniziassero con una breve spiegazione della liturgia da parte di un laico il quale, al termine, indica un canto di introduzione. Questo canto dovrebbe sollecitare la partecipazione e sottolineare la gioia che deve accompagnare tutto il sacrificio eucaristico. Il sacerdote che presiede la celebrazione, ma che non deve ritenersi l’unico celebrante perché tutto il popolo concelebra con lui, saluterà i presenti e per l’occasione può dare a questo saluto un’intonazione particolare senza ripetere quello che è già stato detto dal laico animatore. Poi invita alla confessione dei peccati. Teniamo presente che questa confessione, o richiesta di perdono, è un vero atto

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penitenziale e serve per preparare il nostro spirito, libero da peccati non gravi, ad ascoltare con orecchie spiritualmente più pulite la Parola di Dio e predispone il nostro cuore, più aperto, a ricevere la sua grazia soprattutto attraverso la Comunione eucaristica. All’atto penitenziale, eccetto in Quaresima ed Avvento, segue il canto del Gloria che dovrebbe essere eseguito coralmente, evitando degli assoli fatti da singole persone o dalla corale stessa. Chiude questa prima parte una preghiera che viene tecnicamente chiamata “Colletta”, perché dovrebbe raccogliere tutto il senso della liturgia, rivolgendosi a Dio Padre, per mezzo di Gesù Cristo, affinché ci dia la grazia di un ascolto attento alla Parola che immediatamente segue.

Liturgia della Parola Inizia ora un secondo momento dedicato alla lettura e all’ascolto. Viene chiamato “Liturgia della Parola”, anche se potremmo chiamarlo la “Mensa della Parola”, perché ciò che viene letto secondo un ciclo preciso deve diventare un cibo spirituale che sostenga perennemente le nostre anime. Nell’organizzare il ciclo in tre anni, si è scelto per primo il brano del Vangelo per cui nell’anno detto A si legge Mat-


teo, nell’anno B si legge Marco e Luca nell’anno C. Il Vangelo di Giovanni viene letto invece durante la Quaresima e nel tempo pasquale di ogni anno; viene anche usato per cinque settimane durante l’estate nell’anno dedicato a Marco. La prima lettura, che può essere dall’Antico Testamento o dagli Atti degli Apostoli (durante il tempo di Pasqua), è stata scelta perché sia in collegamento con il Vangelo. Nel tempo ordinario la seconda lettura, tratta dalle Lettere di Paolo o da quelle apostoliche, di solito è indipendente dalle altre due letture in quanto cerca di presentare gradualmente una determinata Lettera, settimana dopo settimana. Tuttavia nelle feste principali e durante particolari tempi liturgici (Avvento, Natale, Quaresima e Pasqua) le tre letture seguono tutte il tema del giorno. È importante che durante la “Liturgia della Parola” ogni lettura sia preceduta da un pensiero che dia la chiave di comprensione perché non sempre, soprattutto per i fedeli che non hanno famigliarità con la Bibbia, queste letture sono sufficientemente comprensibili. Le letture vengono fatte normalmente da un laico eccetto il Vangelo che viene proclamato da un diacono o dal sacerdote celebrante. Attenzione a scegliere laici preparati, che leggano con senso: evitare soprattutto bambini che nemmeno comprendono quello che stanno

leggendo. La “Liturgia della Parola” ha una sua precisa articolazione: dopo la prima lettura l’assemblea risponde con un salmo. È importante che tutti cantino o recitino il versetto che caratterizza questo salmo. Molte persone partecipano ancora alla Messa senza aprire bocca, cioè senza partecipare e pregare; sembrano imbronciate con Dio e con gli uomini. Dopo la seconda lettura vi è il canto dell’alleluja che deve essere gioioso come indica la parola stessa; in Quaresima vi è il canto di un antifona appropriata. Segue il Vangelo, dopo il quale il celebrante tiene un’omelia. È forse questo il momento più critico e delicato, sia per colui che celebra perché l’omelia domanda una seria preparazione, sia per coloro che ascoltano, molti dei quali stanno attenti soltanto per criticare ciò che il sacerdote dice. Questi deve evitare di svolgere temi personali, di moraleggiare tirando la parola di Dio come una coperta con la quale si vogliono coprire tutti i mali del mondo, o anche soltanto della parrocchia. Il sacerdote dovrebbe individuare fra le letture che sono state proclamate dei pensieri forti e sviluppare quelli, anticipando queste considerazioni con qualche indicazione esegetica (spiegazioni del testo) che aiuti gli ascoltatori a entrare vivamente nella situazione che le Sacre Scritture hanno descritto e, così, farle proprie. Terminata l’omelia è consigliabile un momento di silenzio e di meditazione, magari con una musica appena soffusa che permetta, a chi ha ascoltato con attenzione, di riflettere. Segue il Credo, attestazione della propria fede in ciò che è stato proclamato e ai misteri che si stanno celebrando. Ed infine una serie di preghiere durante le quali si espongono a Dio i bisogni della Chiesa, della Comunità, del popolo, cercando di andare sul personale, nel senso buono della parola, cioè non ricopiando soltanto schemi fissi, ma adattando queste preghiere all’attualità, specie se questa presenta dei lati tristi, o momenti di disgrazia.

Presentazione dei doni Inizia poi un’altra parte della Messa: vengono portati sull’altare il pane ed il vino, in qualche rara occasione più solenne anche altri doni. Il sacerdote li presenta a Dio. Questo momento si chiama anche Offertorio, ma non dobbiamo dimenticare che l’unica vera offerta è Cristo stesso che si offre al Padre e che con lui dobbiamo offrirci anche noi in quanto parte del suo Corpo mistico. Durante la presentazione dei doni può essere eseguito un canto appropriato, mentre viene raccolta un’offerta destinata ai i bisogni della Comunità e, soprattutto, ai poveri. È bene, nelle occasioni più solenni, annunciare qual’è la destinazione precisa dell’offerta; ed il popolo di Dio dovrebbe sentirsi impegnato a dare il proprio contributo per l’intenzione manifestata.

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Messaggio tematico

Anche nell’offerta ordinaria bisogna essere generosi, perché l’edificio chiesa costa e le attività comunitarie e sociali di una parrocchia non si possono svolgere senza avere il necessario finanziamento.

La preghiera eucaristica Siamo alla parte centrale della Messa. La grande preghiera eucaristica inizia con un inno che viene detto Prefazio e che termina con il Santo, parole tratte dal Libro del profeta Isaia. È bene che il Santo venga cantato, proclamando Dio tre volte Santo e invocandolo come “Benedetto Colui che viene nel nome del Signore”. Seguono altre preghiere importanti: è un far memoria delle meraviglie compiute da Dio. Fra queste vi è l’invocazione allo Spirito Santo perché scenda sui doni eucaristici. Nel momento così detto della consacrazione vengono ripetute le parole stesse di Gesù: “Questo è il mio corpo ... Questo è il calice del mio Sangue...”, ma non dobbiamo rendere questo momento un atto magico, dobbiamo vederlo nell’interno di tutto il discorso eucaristico. Dopo il momento della consacrazione l’assemblea afferma, con il canto delle acclamazioni, la sua adesione al memoriale che è stato celebrato. Poi la preghiera eucaristica continua riassumendo gli eventi salvifici. Si prega per la Chiesa, si nominano il Papa e il Vescovo locale, si ricordano i vivi ed i morti, si inserisce la mediazione dei santi. Questa grande preghiera si conclude con una dossologia finale e con un grande “Amen” che dovrebbe sempre essere cantato per manifestare da parte del popolo, che purtroppo deve star muto durante questa preghiera, la sua adesione.

I riti di comunione Nell’Ultima cena Gesù prese il pane e il calice del vino e dopo aver pronunciato la benedizione lo diede ai suoi discepoli. Nella celebrazione eucaristica viene distribuito soltanto il pane, eccezionalmente anche il vino. Questo momento, che viene chiamato “Comunione”, è preceduto da alcune preghiere che ancora una volta chiedono perdono a Dio per i nostri peccati. Si tratta di purificare la nostra anima perché sia più degna di ricevere il corpo del Signore: abbiamo il “Padre nostro”, testo molto opportuno perché contiene l’invocazione per ottenere il pane quotidiano e inoltre, come ho detto, si chiede il perdono per le nostre mancanze, il che è necessario non solo per la comunione eucaristica, ma per una comunione con tutti i fratelli e sorelle. Per rafforzare questa comunione ci si scambia anche un segno di pace. Vi sono altre preghiere penitenziali, l’”Agnello di Dio”, il “Signore, io non son degno”. Ecco il

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momento della distribuzione del pane. Fin verso il secolo XIV la Comunione veniva data sotto le due specie, pane e vino, poi per motivi pratici la si ridusse soltanto al pane. Ed oggi questo viene deposto, da chi lo distribuisce (sacerdoti, diaconi, eccezionalmente anche laici), nelle mani del richiedente. Alcune persone preferiscono ancora ricevere l’ostia in bocca; non è proibito, personalmente lo sconsiglio perché Gesù non ha detto: “Prendete ed imboccate, ma prendete e mangiate”. Non ci si illuda che chi riceve direttamente in bocca la particola consacrata abbia più rispetto di coloro che lo ricevono in mano. Mentre riceviamo la comunione il ministro dice “Il Corpo di Cristo” e noi rispondiamo “Amen”. Questo nostro “Amen” contiene molteplici significati: indica che riconosciamo il Pane e il Vino come il vero Corpo e Sangue del Signore; esprimiamo anche la convinzione che il Corpo di Cristo è formato da tutti quelli che partecipano a questo Sacro Banchetto e dichiariamo la disponibilità a essere anche noi Corpo di Cristo spezzato e condiviso con tutti. Durante la distribuzione della Comunione si esegue un canto; è bello accostarsi al banchetto eucaristico con gioia, ed il canto dovrebbe esprimere la felicità di colui che si avvicina per accogliere in se stesso il Signore Gesù. Sarebbe opportuno, finito il canto, un momento di silenzio, di ringraziamento personale, chiuso dalla preghiera liturgica chiamata appunto “Preghiera dopo la Comunione”.

Il Congedo Il congedo è breve, troppo breve: non ci si congeda così dagli amici più cari! Normalmente è un invito a lasciare la chiesa; è opportuno che il sacerdote lo faccia indicando un pensiero da portare fuori, un proposito da realizzare. C’è poi la benedizione finale e, ancora, un canto che deve manifestare la gioia di aver partecipato al più alto momento comunitario della settimana. Tutti escono di chiesa e sarebbe opportuno che la gente non fugga subito a casa ma che ci si fermi per salutare e per scambiare delle impressioni (e non solo per criticare la predica), soprattutto per condividere la propria gioia di essere fratelli in Cristo. Una Celebrazione Eucaristica vissuta così darà il tono spirituale a tutta la settimana che inizia e, lentamente, ci renderà cristiani più autentici e veramente fedeli. Chi partecipa attivamente alla Messa domenicale comprende perché la Chiesa indica in questa partecipazione il modo migliore di osservare il terzo comandamento: “Ricordati di santificare la festa”. Ma chi non può (o non vuole) partecipare alla Messa domenicale non si ritenga dispensato di osservare questo comandamento: trovi un altro modo di santificare il giorno del Signore.


Per meglio comprendere e vivere il Natale

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di povertà, per ben tre volte ribadito dall’evangelista per imprimere questo stato nella mente dei suoi lettori. Infatti nel suo brano Luca nomina tre volte la mangiatoia: – Maria lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia (v. 7) – L’angelo disse ai pastori quale segno per riconoscere il Bambino: “Troverete un bambino avvolto in fasce e deInterrogativi e note sul racconto di Luca posto in una mangiatoia” (v. 12) – I pastori andarono senza indugio e trovarono Maria e L’evangelista dice che Giuseppe, per obbedire ad un coGiuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia mando di Cesare Augusto, da Nazaret – dove (v. 16) abitava – scese con Maria sua sposa che era incinta nella Uno scrittore preciso e fine come Luca non ripete tre volte città di Davide, Betlemme, e lì sarebbe nato il loro “primola stessa parola se questa non contiene un preciso mesgenito”, Gesù. Possibile che per farsi registrare, Giuseppe e saggio, quello appunto della povertà. Maria, debbano andare al luogo d’origine? Sembra proprio Luca parla di figlio”primogenito”, il che ha fatto dire ad aldi sì. Augusto, con questa disposizione, voleva vincere l’urbanizzazione, rimandando al proprio paese tutti coloro che cuni esegeti che – dopo Gesù – Maria ebbe altri figli. Infatti emigravano nelle città. Per l’evangelista, comunque, l’ani vangeli parlano di “fratelli e sorelle del Signore”. Questa spiegazione non è necessariamente provata: presso gli ebrei data di Giuseppe da Nazaret a Betlemme era un ritorno alle il termine “primogenito” - applicato al primo maschio - era origini della sua famiglia che discendeva dal re Davide, illupiù un termine giuridico e stre cittadino di Betlemme. di onore che una indicaMa ci sono degli esegeti, zione di “primo nato” fra anche cattolici, che azzaraltri fratelli. È vero che i dano l’ipotesi che BeVangeli, ed anche gli Atti tlemme sia luogo solo degli apostoli, parlano di teologico-biblico della nascita di Gesù. Per loro Gesù “fratelli e sorelle”; dei primi sarebbe nato a Nazaret e lo danno anche i nomi, le seprovano col fatto che fu conde non sono mai nomisempre chiamato “il Nazanate, ma per spiegare reno” e mai “il Betlemita”. questo passo ci sono parecchie ipotesi: – Che si tratta di figli di Qualche traduzione del un precedente matrimonio racconto della nascita parla di Giuseppe. Tesi sostenuta di “albergo” dove per loro dai Vangeli apocrifi e che (Maria e Giuseppe) non non contraddice gli usi della c’era posto. Perché proprio Palestina di quei tempo, per loro? A Betlemme non dove un giovane vedovo c’erano alberghi di una o normalmente si risposava, due stelle adatti ai poveri. se non altro per assicurare C’era un caravanserraglio una presenza materna alla che ospitava uomini e bestie, luogo non adatto per sua figliolanza. partorire in modo decente – C’è chi sostiene che il e riservato. Inoltre i poveri termine “fratello”, in questo abitavano in grotte: sulcaso, non sta ad indicare l’uscio la famiglia e nel consanguineo, ma veniva applicato anche a cugini di cavo roccioso gli animali. Lì gradi diversi. Questa tesi è c’era la mangiatoia dove contestata perché – dicono Maria poté deporre il suo gli esegeti più esperti Bambino: segno evidente Natale Francescano di Norberto

inunciando ad un commento vero e proprio della pagina con la quale Luca (2, 1-20) descrive la nascita di Gesù, è troppo nota e non vorrei offendere i lettori del Messaggero, vorrei soffermarmi su alcuni particolari di questo splendido presepio costruito dal terzo evangelista.

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il vocabolo usato sta ad indicare persone della stessa famiglia, non del clan familiare. Altra ipotesi, che il termine fratelli e sorelle siano presi in senso spirituale (come noi frate e suora): ipotesi più pia che scientifica.

E chi sono questi pastori? Non assomigliano ai bucolici personaggi dei nostri presepi. Sono uomini rudi, poveri, ma attenti ai segni, sia che provengano dalla steppa, gli ululati delle bestie feroci che minacciano i greggi, sia che scendano dal cielo (gli angeli). Sono uomini che ubbidiscono. In latino, l’aggettivo che descrive simile ubbidienza, è “festinanter”, (in fretta, senza indugio) che suggerisce anche un musicale: “Andate con giubilo”. I pastori andarono, videro, raccontarono. Tutti quelli che li ascoltavano non potevano che meravigliarsi perché, quei fortunati, annunciavano cose meravigliose. Da pastori ad apostoli, anzi evangelisti, annunciatori di quella “Buona novella” che l’angelo aveva loro comunicato; la nascita del vostro Salvatore, il Cristo Signore. In queste parole angeliche vi è l’annuncio che ha varcato i secoli, il vertice dei racconti dell’infanzia, la sintesi della professione di fede circa la vera identità di Gesù: Salvatore, Cristo (Messia), Signore (Dio), il portatore della pace e di ogni dono, il segno agli uomini che Dio li ama.

Un messaggio anche per chi non crede Anche colui che non crede alla natura divina di Gesù, dovrà ammettere che quella nascita ha cambiato la storia; non perché da quell’anno inizia una nuova era (calcolo oltretutto errato), ma perché inizia una nuova cultura, quella della fratellanza e della pace. Ecco perché nel mondo cristiano tutti festeggiano il Natale, credenti e non credenti: per i primi è la nascita della vita, Cristo infatti si è definito Io sono la vita. Per i secondi deve essere la festa della vita, soprattutto nelle famiglie e per i bambini, cioè nell’ambiente generatore di vita e per le vite appena generate. E lo si festeggia il 25 dicembre; non conoscendo la data esatta della nascita del Salvatore, i cristiani di Roma gli hanno dedicato il giorno del solstizio invernale in cui celebravano la nascita del “Sole vittorioso”, (quindi data eminentemente convenzionale non biografica). La prima testimonianza di questa solennità è tardiva, ce la offre un cronografo romano nel 354.

Un racconto poetico Nelle chiese e nelle case, per Natale, si costruiscono i presepi, inconscio omaggio riprodotto in mille modi alla culla

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della vita spirituale e fisica. Vi è la tradizione anche dell’albero che, lungi dall’essere un simbolo pagano, è la rappresentazione di una profezia di Isaia che parla di un virgulto che deve spuntare dell’albero di Jesse (nonno di Davide, antenato di Cristo). Simboli biblici, d’antica tradizione, ben più eloquenti del babbo Natale, sfacciata figura commerciale. E se volete leggere un racconto intensamente umano e squisitamente poetico sulla nascita di Gesù, prendete le pagine di un bellissimo libro di Erri De Luca (In nome della madre, Feltrinelli, 2006, pp. 65-66) che descrive Maria, tutta sola – perché secondo la tradizione ebraica il padre non poteva assistere alla nascita del figlio – che partorisce nella capanna di Betlemme. Un discorso che qualcuno chiamerà “veristico”, io lo definisco “poetico”, che mi ha fatto letteralmente innamorare di quella giovane mamma appoggiata alla mangiatoia che parla col suo nascente. “Bel colpo Ieshu, un altro così e sei fuori, ecco ti aiuto, spingiamo insieme, le mani sono pronte ad accoglierti, via? Via, è uscita la spalla, l’ho toccata, poi è rientrata, ma subito dopo lo slancio Ieshu ha messo fuori la testa, l’ho avuta fra le mani, mi sono commossa, m’è scappato un singhiozzo e sul singhiozzo è venuto fuori tutto e l’ ho afferrato al volo. L’ho alzato per i piedi per liberare i polmoni e fare spazio al primo vento che forza l’ingresso chiuso dal respiro. Ieshu ha inghiottito aria senza piangere. Faccio mosse esperte senza conoscerle. Il mio corpo fa da solo, esegue. Non l’ho istruito io. Adoro la creatura perfetta che mi è nata, posso allentare il nervo attorcigliato del sospetto: è maschio, è la certezza, non più una profezia. È maschio, primogenito in terra di Iosef e Miriàm, carne da circoncidere, oggi otto. È maschio, l’ho fatto io, sgusciato sano in mezzo all’acqua e al sangue, il corpo esulta insieme a quello di ogni donna che mette al mondo l’altro sesso, perché è un regalo a noi”.

Curiosità cronologiche Partendo dalla data in cui si festeggia la nascita di Gesù, il 25 dicembre, la Chiesa cattolica celebra nove mesi prima la festa della sua annunciazione (25 marzo). Avendo scritto Luca (1, 26) che l’annunciazione di Gesù avvenne: Quando Elisabetta fu al sesto mese, la sua annunciazione dovrebbe essere avvenuta in ottobre (ma non è ricordata) di conseguenza la nascita del Precursore viene festeggiata il 24 giugno. La festa della visitazione di Maria ad Elisabetta al paese di Zaccaria che una tradizione avrebbe identificato in AnKarim di Giudea, viene celebrata il 2 luglio. Le date ci sono e sono coordinate per permetterci di celebrare questi avvenimenti, non per sottolineare la storicità dei fatti.


Oggi Egli è nato: ad Efrata, Vaticinato ostello, Ascese un'alma Vergine, La gloria d'Israello, Grave di tal portato: Da cui promise è nato, Donde era atteso uscì. La mira Madre in poveri Panni il Figliol compose, E nell'umil presepio Soavemente il pose; E l'adorò: beata! Innanzi al Dio prostrata, Che il puro sen le aprì. L'Angel del cielo, agli uomini Nunzio di tanta sorte, Non de' potenti volgesi Alle vegliate porte; Ma tra i pastor devoti,

Al duro mondo ignoti, Subito in luce appar. E intorno a Lui, per l'ampia Notte calati a stuolo, Mille celesti strinsero Il fiammeggiante volo; E accesi in dolce zelo, Come si canta in cielo, A Dio gloria cantar. L'allegro inno seguirono, Tornando al firmamento: Tra le varcate nuvole Allontanossi, e lento Il suon sacrato ascese, Fin che più nulla intese La compagnia fedel. Senza indugiar, cercarono L'albergo poveretto Que' fortunati, e videro,

Siccome a lor fu detto, Videro in panni avvolto, In un presepe accolto, Vagire il Re del Ciel. Dormi, o Fanciul; non piangere; Dormi, o Fanciul celeste: Sovra il tuo capo stridere Non osin le tempeste, Use sull'empia terra, Come cavalli in guerra, Correr davanti a Te. Dormi, o Celeste: i popoli Chi nato sia non sanno; Ma il dì verrà che nobile Retaggio tuo saranno; Che in quell'umil riposo, Che nella polve ascoso, Conosceranno il Re

[da Inni Sacri, A. Manzoni]


Conoscere Francesco

Esiste un ideale frate minore?

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er tentare di rispondere a questo interrogativo, cercheremo di leggere assieme due testi importanti delle Fonti Francescane. Il primo brano è tratto dalla ‘Vita prima’ del noto fra Tommaso da Celano. Dopo aver detto della premura del vescovo Ugolino (il futuro papa Gregorio IX) per Francesco molto provato dalla malattia, l’agiografo si sofferma a parlare dei frati, ai quali il santo ha deciso di affidare la cura della sua povera persona ammalata. Sono detti uomini virtuosi, cari a Dio e agli uomini, e – si sottolinea – molto modesti, come conviene che siano i “veri religiosi”. Per questo motivo fra Tommaso non ne fa il nome ma la tradizione ha voluto identificarli in Angelo Tancredi, Bernardo, Leone e Rufino oppure in Angelo Tancredi, Rufino, Leone e Giovanni delle Lodi.

Alcuni di questi nomi – come vedrete – ricorrono pure nel testo dello “Specchio di perfezione”. Per l’agiografo, comunque, è molto importante sottolineare le virtù che rifulsero in questi fratelli della prima ora e cioè la ‘discrezionè (una virtù poco conosciuta ma molto importante), la ‘pazienza’, la ‘semplicità’, la ‘mitezza d’animo’ pur se associata casualmente alla ‘robustezza di corpo’. Leggiamo il testo del Celanese.

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Il Santo sopportò tutte queste infermità per quasi due anni, con ogni pazienza e umiltà, in tutto rendendo grazie a Dio. Ma per poter attendere con maggior libertà e devozione a Dio, e percorrere le celesti dimore nelle frequenti estasi e potersi finalmente collocare in cielo davanti al dolcissimo e serenissimo Signore dell’universo, ben provvisto di meriti, affidò la cura della sua persona ad alcuni frati, veramente degni della sua predilezione. Erano uomini assai virtuosi, devoti a Dio, cari ai santi del cielo e amati dagli uomini sulla terra, e su di essi il beato Francesco si appoggiava come casa su quattro colonne. Ne ometto i nomi per riguardo alla loro modestia, virtù che, da veri religiosi, amano molto cordialmente. La modestia infatti è il decoro di tutte le età, testimone di innocenza, indizio d’un cuore puro, verga di disciplina, gloria particolare della coscienza, garanzia della buona riputazione, pregio e coronamento della perfetta rettitudine. Questa virtù era loro comune e li rendeva graditi e amabili a tutti. Ciascuno poi aveva una virtù propria: il primo era particolarmente discreto, il secondo mirabilmente paziente, il terzo di encomiabile semplicità, l’ultimo era robusto di corpo e mite di animo. Essi con ogni diligenza, cura e buona volontà difendevano il raccoglimento spirituale del beato padre, curavano la sua malattia senza risparmiarsi pene e fatiche, felici di dedicarsi totalmente al servizio di lui. (FF 498-499) Il secondo brano è stato ricavato dallo “Specchio di perfezione”, un testo scoperto e pubblicato solo nel 1898 dal noto storico francese Paul Sabatier, il quale dava molta importanza alle cosiddette ‘memorie’ lasciate dal compagno di san Francesco, cioè Leone ‘la pecorella di Dio’. Oggi la ri-

cerca storica ha potuto stabilire come data della sua comparsa il 1318 e nessuno ormai ne attribuisce la paternità a frate Leone. Lo ‘Specchio’ comunque resta un testo molto importante per capire una figura difficile come è quella di Francesco. Il testo, a differenza di quello di fra Tommaso, non presenta frate Francesco ammalato e riconoscente verso i suoi fratelli infermieri, ma – partendo dal buon esempio che gli danno i suoi compagni – pensa fra sé e sé quale potrebbe essere definito un vero frate minore. Leggiamolo. Francesco, immedesimato in certo modo nei suoi fratelli per l’ardente amore e il fervido zelo che aveva per la loro perfezione, spesso pensava tra sé quelle qualità e virtù di cui doveva essere ornato un autentico frate minore. E diceva che sarebbe buon frate minore colui che riunisse in sé la vita e le attitudini dei seguenti santi frati: la fede di Bernardo, che la ebbe perfetta insieme con l’amore della povertà; la semplicità e la purità di Leone, che rifulse veramente di santissima purità, la cortesia di Angelo, che fu il primo cavaliere entrato nell’Ordine e fu adorno di ogni gentilezza e bontà, l’aspetto attraente e il buon senso di Masseo, con il suo parlare bello e devoto; la mente elevata nella contemplazione che ebbe Egidio fino alla più alta perfezione; la virtuosa incessante orazione di Rufino, che pregava anche dormendo e in qualunque occupazione aveva incessantemente lo spirito unito al Signore; la pazienza di Ginepro, che giunse a uno stato di pazienza perfetto con la rinunzia alla propria volontà e con l’ardente desiderio d’imitare Cristo seguendo la via della croce; la robustezza fisica e spirituale di Giovanni delle Lodi, che a quel tempo sorpassò per vigoria tutti


gli uomini; la carità di Ruggero, la cui vita e comportamento erano ardenti di amore, la santa inquietudine di Lucido, che, sempre all’erta, quasi non voleva dimorare in un luogo più di un mese, ma quando vi si stava affezionando, subito se ne allontanava, dicendo: Non abbiamo dimora stabile quaggiù, ma in cielo. (FF 1782)

Come avrete potuto notare voi stessi, l’autore dello “Specchio di perfezione” non esita ad elencare i nomi dei primi compagni di Francesco e le loro relative buone qualità. Alcuni di questi frati sono molto noti, altri meno e solo uno, cioè Lucido, risulta del tutto sconosciuto. A questo punto possiamo rischiare di

dare un nome ad un ideale frate minore? Purtroppo no. Il che però non significa che non possa esistere un ‘vero frate minore’. Del resto, tutti i primi compagni di Francesco sono stati e devono essere ritenuti dei ‘veri frati minori’. fra Riccardo Quadri

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Messaggio dal santuario

Musiche per Maria uello che sta oramai volgendo al termine è stato un anno molto particolare per il nostro Santuario. Da una parte s’è dato avvio alla seconda importante fase dei lavori di restauro dell’intero complesso, a proposito dei quali abbiamo riferito nel numero cinque di MESSAGGERO. Lavori che hanno comportato e continuano a comportare anche alcuni incomodi sia per i fedeli, sia per i visitatori, sia per i frati della comunità; primo tra questi disagi, la chiusura della chiesa dell’Assunta. D’altra parte il 2009 era particolare anche a motivo dell’anniversario della Peregrinatio Mariae del 1949, in merito al quale sono apparsi alcuni articoli negli ultimi due numeri di questa rivista. A causa della chiusura della chiesa principale, sia per la festa del Santuario sia per la tradizionale Novena di preparazione, abbiamo dovuto trovare delle soluzioni alternative. Il pellegrinaggio diocesano alla Madonna del Sasso di domenica 6 settembre è stato coronato da un innegabile successo, anche grazie alla accurata preparazione e al tempo veramente splendido che hanno conferito alla Piazza Grande cittadina una veste solenne, fervorosa e gioiosa. All’evento commemorativo della prima domenica di settembre, nel limite della situazione attuale, abbiamo voluto prepararci anche in Santuario, proponendo, oltre alle ss. Messe mattutine della Novena, anche alcuni appuntamenti di preghiera e di riflessione serali.

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Nel Messaggio dal Santuario dell’ultimo numero di MESSAGGERO fra Callisto ha pubblicato i suoi ricordi della Madonna Pellegrina, con i quali aveva dato avvio a una sua conferenza tenuta durante la Novena. Qui di seguito trovate un articolo del maestro Giovanni Galfetti, che riassume una sua splendida riflessione sull’immagine della Madonna contemplata nella tradizione musicale propostaci nello stesso ambito. Confesso che quando il caro frate Agostino mi contattò, proponendomi di aprire le tre serate incastonate nella novena di preparazione alla festa della Madonna del Sasso, il mio animo si sentì pervaso da un’intensa emozione: al di là dell’onore che mi veniva fatto e della considerazione che mi veniva dimostrata mi si offriva l’occasione di parlare di Maria legandola alla musica che, nel corso dei secoli, le era stata dedicata, e questo in occasione della nuova discesa dell’effige della Vergine del Sasso tra i fedeli del Ticino raccolti in Piazza Grande. A prescindere dalla consapevolezza di quanto ciò che io sapessi fosse ben misera cosa di fronte all’ampiezza dell’argomento, dissi subito di sì, senza pensarci troppo. Sin dall’inizio delle riflessioni che accompagnarono la mia preparazione alla serata mi furono, da subito, chiare due cose: non avrei tentato un discosto filologico ma mi sarei affidato alla mia esperienza affettiva e alle mie emozioni. In secondo luogo mi sembrò evidente quanto fosse fondamentale tentare di indagare su quale fosse il mio rapporto personale con Maria, al fine di meglio comprendere il perché di determinate scelte musicali. Discorso difficile e profondo quello del nostro rapporto con Maria. Eppure, da quando il caro amico Claudio Cavadini mi citò, anni fa, questa massima del Rosmini tutto mi apparve più chiaro e spaventosamente semplice nella sua grandezza: ”è lassù, ai piedi della croce del Cristo morente, che acquistammo il diritto di chiamare Mamma Maria”. Anni di studi musicali mi hanno insegnato ad accostarmi alla musica dei Grandi con rispetto, ammirazione e devozione; altrettanti anni di servizio come organista liturgico mi hanno abituato a “sentire” a livello emozionale l’assemblea dei fedeli: nulla è mai più intenso di un “Vergin dolcissima”, di un “Sul colle risplende” o di un “Mira il tuo popolo”. Perché? Una prospettiva bifocale la mia, sulla quale ho cercato di riflettere.


Sono sempre stato affascinato dalla musica pervenutaci dalla notte dei tempi. Scoprire la ricchezza arcaica del canto Melchita vuol dire regalarsi l’emozione del profumo ancestrale dei canti dei primi cristiani riuniti attorno al bacino del Mediterraneo, culla privilegiata del formidabile messaggio evangelico…e scoprire che lo stesso, nei primi secoli era talvolta cantato in lingua araba! L’oscura opulenza delle cattedrali gotiche sembra poi essere il ricettacolo naturale, atto a dare risonanza alle prime polifonie realizzate, agli inizi del secondo millennio, all’organum della Scuola di Notre-Dame; e che dire degli slanci vitali, dell’energia rigeneratrice dell’Ars Nova di Guillaume De Machaud? La solare perfezione del Magnificat di Bach sembra ulteriormente trasfigurare la disarmante potenza della risposta di Maria all’Angelo, risposta che assurge, nella cristallina trama del contrappunto bachiano, allo statuto di vero e proprio ineluttabile teorema d’Amore.

In “Maria Durch ein Dornwald ging” ho sempre letto un messaggio di sconsolata felicità: la gioia per la nascita velata di malinconica consapevolezza del sacrificio. E come non avvertire, nello struggente incedere dello “Stabat Mater” di Poulenc il gelo del dardo che sta per trafiggere ripetutamente il cuore della “Mater Dolorosa” o percepire nel “Totus Tuus” di Gorecki l’abbandono nella fede del Grande Papa al suo destino di servizio? Potrei continuare a lungo col rischio di diventare ridondante, molto più di quanto, probabilmente, non sia già stato. Meglio allora affidarsi a padre Turoldo: “La tua prima parola, Maria, / ti chiediamo d’accogliere in cuore: / come sia possibile ancora / concepire pur noi il suo Verbo. / Te beata perché hai creduto, / così in te ha potuto inverarsi / la parola vivente del Padre / benedetta dimora di Dio”. Giovanni Galfetti

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Messaggio biblico

Sabato: non solo riposo Genesi 2, 1-3 Abbiamo visto nell’ultimo numero che Dio, secondo l’autore biblico, completò la creazione in sei giorni; ma qualche cosa mancava. E con che cosa Dio la completò?... Il commento ebraico alla Bibbia dice: “Dio completò la creazione con il sabato, giorno del riposo”. Veniamo dunque a parlare di un giorno che ci è particolarmente caro, il sabato, giorno festivo. Noi cristiani questo giorno lo abbiamo trasportato in ricordo della resurrezione di Cristo avvenuta il giorno dopo il sabato, e quel giorno lo abbiamo chiamato “Dominicus die”, cioè domenica. Perciò tutto quello che in questo “Pensiero” noi diremo del sabato, dobbiamo applicarlo alla domenica, giorno che - malgrado tutto - rimane ancora sacro. Per gli ebrei il sacro e il profano si collocavano l’uno in faccia a l’altro in luoghi diametralmente opposti; se una cosa era sacra lo era perché aveva abbandonato e allontanato da se tutto ciò che era profano, se una cosa era profana aveva abbandonato e allontanato da se tutto ciò che era sacro. E non esistevano soltanto dei tempi sacri, ma anche dei luoghi sacri.

Ma cosa, fondamentalmente, voleva dire sacro per un ebreo? Era sacro tutto ciò che apparteneva alla divinità. Nei luoghi sacri l’uomo poteva accedere soltanto dopo avere adempiuto riti particolari; doveva per esempio purificarsi, assumere atteggiamenti rituali, soprattutto non gli era consentito introdurvi o farvi alcunché di profano. Nei tempi sacri doveva dedicarsi in primo luogo a ciò che esigeva la divinità: riti, sacrifici, preghiera.

Come l’uomo ha concepito e concepisce il sacro? Il primitivo immagina la santità e la sacralità come una forza invisibile e pericolosa che distrugge colui che imprudentemente entra in rapporto con essa; questa concessione primordiale è anche, nei suoi tratti più dubbi, espressione di un’esperienza di Dio, vista la divinità come ente del tutto diverso ed imprevedibile, una potenza che assale. Forse per questo anche oggi ci sono delle persone - poche in verità almeno nelle nostre latitudini - che hanno una concessione così terribile del sacro che con difficoltà si avvicinano ad esso, con paura cercano di amministrarlo. Al contrario la maggior parte dei contemporanei ha quasi bandito il sacro, soprattutto hanno “desacralizzato” il

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giorno sacro della settimana, la nostra domenica. È ben vero che vi è un comandamento di Dio che dice: “Ricordati di santificare le feste”, ma fra tutti i comandamenti è certamente uno dei più trasgrediti. L’uomo occidentale è stato preso dalla frenesia del lavoro, arrivando addirittura a idolatrarlo, per cui un giorno senza lavoro sembra essere un giorno inutile, un giorno sprecato. I nostri stressati lavoratori domandano la settimana corta, ma la domandano, non per diminuire il lavoro, ma per poter lavorare di più, per dedicarsi a quei lavori che piacciono, in quanto la maggior parte delle persone fa un mestiere che gli è stato imposto dalle circostanze e non scelto dalle propria volontà. Per la verità la settimana corta serve - e questo è un bene - per ricrearsi dentro il lavoro dei propri hobby. E i nostri commercianti invece domandano la settimana lunga, si deve lavorare anche la domenica per guadagnare di più, perché il dio che regge il commercio è il dio denaro, al quale bisogna ubbidire!


Che senso ha oggi rispettare, come fece Dio, il giorno del riposo? A mio modesto avviso tre sono gli elementi che dovrebbero caratterizzare il giorno sacro. Il primo è appunto il riposo: l’uomo non è uno schiavo obbligato a lavorare a tutti i costi per far piacere ad un padrone dispotico. L’uomo deve sentirsi libero anche di fronte al lavoro e deve interrompere questo lavoro per poter dedicare il suo tempo, almeno una volta alla settimana, a ciò che gli piace e ricuperare dentro il piacere tutte quelle forze indispensabili per poter costruire completamente se stesso. In questo senso il riposo sabbatico o domenicale è rivalutato anche da chi la domenica mattina dorme un po’ di più, a condizione che non passi la maggior parte del dì festivo a poltrire sotto le coltri. Inoltre questo sonno deve essere veramente riposante e non infastidito dagli incubi per ciò che ha fatto il sabato sera, o per ciò che dovrà fare la prossima settimana.

Il secondo elemento che dovrebbe caratterizzare il giorno festivo è quello di vivere in comunità. Il lavoro ci porta ad essere e a diventare sempre più solitari; sono pochi i lavori che si fanno in comune e anche quei pochi domandano normalmente tale e tanta attenzione per cui non puoi condividere le tue preoccupazioni con il vicino che ti lavora accanto. Ma soprattutto vanno aumentando i lavori che devi far da solo; l’uomo davanti al computer, che per tutto il giorno compie dei gesti meccanici su una piccola tastiera e aguzza i propri occhi su un tabulato luminoso, può essere preso come il simbolo della solitudine! Il sabato, e per noi anche la domenica, dovrebbe essere invece il giorno della comunità, il giorno della famiglia per chi è sposato ed ha figli, il giorno da dedicare a quei rapporti indispensabili che permettono alle persone di scambiarsi le proprie gioie e i propri dolori, il giorno della vita sociativa e perché no, anche il giorno dello stadio, il giorno della squadra, il giorno della cordata in montagna, il giorno insomma che si passa con gli altri per poter sviluppare la nostra dimensione sociale. E non va dimenticata la terza caratteristica che permette al sabato o alla domenica di essere ancora il giorno sacro: in quel giorno i cristiani devono dedicare un po’ di tempo a Dio. Normalmente questo tempo lo si indica con la partecipazione alla celebrazione eucaristica, ma purtroppo questa partecipazione va piuttosto scemando. Nel nostro paese, se oltre il 90% si dice cristiano, non arrivano nemmeno al 15% coloro che partecipano alla Messa domenicale. Le cause di questa defezione sono parecchie, e credo che molti dei miei lettori - perché dedico soprattutto a loro, a chi non va a Messa, questi “Pensieri” - sono fra coloro che hanno perso l’usanza di frequentare la chiesa. Ebbene, un vero sforzo in questa direzione potrebbe essere utile, magari trovando una celebrazione viva e partecipata che offra degli stimoli. Certamente non si va in chiesa per il celebrante o per la comunità, ma è altrettanto vero che sacerdote e comunità devono essere stimolanti e accoglienti. E se proprio uno non si sente, o nella sua vita passa un periodo di crisi verso l’istituzione ecclesiastica e verso le forme liturgiche, dovrebbe ugualmente santificare il giorno festivo, mediante altre iniziative; una fra queste potrebbe essere la lettura di una pagina della Bibbia con un suo breve commento; una indicazione in merito la trovate nell’ultima pagina della copertina. Ecco perché ho voluto dedicare questo “Pensiero”, ai versetti 1-3 del capitolo secondo della Genesi.

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Messaggio biblico

Adam, lavoratore gioioso Genesi 2, 1-16 Abbiamo già detto che due sono gli scrittori che hanno composto questi primi capitoli della Genesi. Finora ne abbiamo letto uno, chiamato “sacerdotale”, e il suo stupendo inno alla creazione diviso in sette giorni ci ha affascinato. Ora iniziamo a leggere il secondo scrittore, chiamato “jahvista”, perché tutte le volte che nomina Dio lo chiama appunto Jahvè. Questo scrittore è più antico del “sacerdotale”, evidentemente non lo conosce, perciò inizia il suo racconto dicendo: “Quando Dio, il Signore, fece il cielo e la terra, sulla terra non c’era ancora nemmeno un cespuglio e nei campi non germogliava l’erba. Dio il Signore non aveva ancora mandato la pioggia e non c’era l’uomo per lavorare la terra”. Che cosa vogliono dire queste parole? Dobbiamo entrare nella mentalità dell’orientale il quale parla spesso per figure e non per astrazione. Non c’erano cespugli, non c’erano campi, non germogliava l’erba, non c’era la pioggia, non c’era l’uomo, quindi... c’era il nulla. In altre parole lo scrittore “jahvista” dice le stesse cose del “sacerdotale”: “All’inizio non c’era nulla, c’era solo il Signore Iddio”. Ma fa una piccola eccezione: “Vi era solamente vapore che saliva dal suolo e ne inumidiva la superficie”. Come mai questo vapore? Il commentatore del Talmud dice una cosa intelligente: “Siccome Jahvè stava per creare con la terra l’uomo, aveva bisogno che questa terra fosse umida, come ha bisogno dell’acqua il pastaio che vuole formare il pane. Ecco dunque che la terra viene inumidita da un vapore e solo allora il Signore prese dal suolo un po’ di terra e con quella plasmò l’uomo, gli soffiò nelle narici un alito vitale e l’uomo diventò una creatura vivente”. Bellissima questa descrizione della creazione dell’uomo! In altre parole l’uomo è creatura formata dalla terra e del respiro di Dio, perciò si colloca fra il terrestre e il divino, è l’essere a metà strada che congiunge i due elementi, il ma-

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teriale e lo spirituale. Ma vi rendete conto chi siamo? Poi “Dio, il Signore, piantò un giardino in Oriente nella regione di Eden e vi mise l’uomo che Egli aveva plasmato, fece spuntare dal suolo alberi di ogni specie, erano belli a vedersi e i loro frutti squisiti. In mezzo al giardino piantò due alberi, uno per dare la vita e l’altro per infondere la conoscenza di tutto”. Dopo aver creato l’uomo Dio crea l’ambiente, il giardino, e pone l’uomo, che è frutto del campo, della terra, nel suo campo, nel suo terreno. Avete notato che finora nella traduzione che sto leggendo non si è mai usata la parola Adamo, ma sempre l’uomo. La parola “uomo” è la traduzione di Adam, e proviene certamente dal vocabolo adamà che vuol dire il terreno del campo. Dunque l’uomo è detto Adam perché è stato preso da adamà. E fa bene la traduzione della Bibbia in lingua corrente a non usare il nome proprio Adamo per sostituirlo semplicemente con la parola “uomo”. Infatti la storia che stiamo per raccontare non è la storia del signore Adamo, ma è la storia di ogni Adamo, quindi di ogni uomo. Dicevamo che Dio colloca l’uomo nel giardino, un giardino bellissimo che richiama le antiche oasi orientali, un giardino dove c’erano alberi belli a vedersi e frutti squisiti. La Bibbia parla poi di quattro fiumi che esistono in questo giardino: due di questi sono fiumi noti, il Tigri e l’Eufrate; gli altri probabilmente sono fiumi simbolici, ma il messaggio che da questi versetti promana è il seguente: un giardino non esiste se non esiste la linfa vitale dell’acqua. Continua il Sacro Testo: “Poi il Signore Iddio prese l’uomo e lo mise nel giardino per coltivare la terra e custodirla”. È simpatico il commento del Talmud: dice chiaramente che Dio prese l’uomo con parole gentili e lo persuase ad entrare nel giardino. Perché Dio fece questo invito? Perché quasi sospinse


l’uomo ad entrare in quel bellissimo giardino? Perché il giardino aveva bisogno dell’uomo; senza di lui quel giardino che rappresenta il mondo è un deserto. Ma non deve restare deserto; acquisterà la sua vera bellezza per mezzo dell’uomo. Adamo, cioè l’uomo, secondo l’affermazione del testo, legato alla mentalità del proprio tempo, trasforma la terra incolta in un giardino. Ma il catechismo che noi adulti abbiamo studiato nelle prime classi elementari non dice forse che l’uomo è stato creato da Dio per “amarlo e servirlo in questa vita, e poi goderlo eternamente nell’altra?”. Sì, il vecchio catechismo, a somiglianza degli antichi miti pagani orientali, afferma che l’uomo è creato solo per Dio e per la religione, la Bibbia invece ci dice che Dio destina l’uomo al mondo, deve dedicarsi ad esso, è messo nel giardino del creato che è il suo posto irrinunciabile. Ora l’attività con cui l’uomo si dedica al mondo è il lavoro, e il lavoro non si porrà come una delle tante occupazioni dell’uomo, ma come l’impegno consegnatogli da Dio perché coltivi e custodisca la terra! E dato che l’uomo-lavoratore è quasi il continuatore dell’opera creatrice divina, il suo lavoro diventa una forma di governo universale attraverso il quale rende presente la stessa azione di Dio. Per questo motivo il lavoro è santificato dalla sua stessa essenza, ancora prima che l’uomo lo orienti volutamente verso Dio; il lavoro è già un rapporto con Dio, anzi è l’agire di Dio attraverso l’uomo. Forse sarebbe dunque utile correggere quella risposta del vecchio catechismo; l’uomo è creato per Dio nel senso che deve continuare l’opera di Dio di custodire, migliorare attraverso il suo lavoro il giardino del creato. Vorrei insistere ancora sul valore del lavoro nei primi due capitoli della Bibbia. Nel capitolo primo abbiamo visto come Dio, dopo essersi consultato e aver deciso di fare l’uomo, gli dà subito un compito: dominare sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, sugli animali. E appena creato l’uomo, gli affida il più grande e meraviglioso lavoro che può fare: essere fecondo, diventare numeroso, popolare la terra, per poi aggiungere: questa terra dovete governarla e dominarla. Dicevamo allora che il verbo “dominare” non va inteso nel senso del potere, ma nel senso stesso con cui Dio domina, con la legge della provvidenza e dell’amore. Soltanto dopo che aveva dato all’uomo l’ordine di procreare e di riempire la terra e di servire gli animali, le piante e tutto il creato - sempre nel primo capitolo - lo scrittore sacerdotale dice: “E Dio vide che tutto quello che aveva fatto era molto bello”. Nel secondo capitolo un altro scrittore insiste: “Prese

l’uomo e lo mise nel giardino per coltivare la terra e custodirla”. Sì, proprio quell’uomo che dalla terra era stato tratto, ma vivificato dallo spirito divino, per gli autori biblici è nelle condizioni migliori per coltivare la terra e custodirla. Da questa omelia biblica sul lavoro possiamo dedurre due considerazioni. La prima: il rapporto esistente tra l’uomo e la terra è lo stesso rapporto che deve esistere tra il figlio e la madre; più la terra è vecchia più il figlio deve aver cura di questa madre, non dimenticando però che per essere figlio ha dovuto avere un padre e questo Padre è Iddio che, con il soffio del Suo Spirito, ha vivificato la terra per ricavarne la Sua immagine e la Sua rassomiglianza: l’uomo, Adam. Ecco perché noi dobbiamo amare la terra; nessuno può disprezzare sua madre, nessuno può calpestarla, può distruggerla, può cambiargli i connotati, può torturarla, può avvelenarla, può renderla sterile, può strappargli i capelli delle foreste, ma tutti i figli - per la propria madre - devono avere un profondo rispetto e un grande amore. E la seconda considerazione: il rapporto fra l’uomo e il lavoro. L’uomo è fatto per lavorare, ma di un lavoro gioioso, costruttivo, che gli dia la possibilità di realizzarsi a pieno come persona. Ecco perché dovremmo combattere tutti quei lavori che non sono realizzatori dell’uomo, ma sono semplicemente pro-cacciatori di denaro. Lo so che è un discorso utopico, ma credo che sia importante ricordarlo, soprattutto in questo momento in cui nel rapporto uomo-lavoro si è introdotto uno spirito maligno: la disoccupazione. Quando vedo dei giovani disoccupati mi rincresce per loro, non tanto perché non guadagnano; lo Stato provvede a questo aspetto negativo della mancanza di denaro, ma soprattutto perché non riescono a realizzarsi in pieno, in quanto l’uomo attraverso il lavoro allena, non soltanto le sue membra, ma soprattutto la sua mente. Ed è per questo che dobbiamo fare tutto il possibile per togliere la piaga della disoccupazione; dobbiamo soprattutto interrogarci se non è il caso che chi lavora troppo (e troppo guadagna) non possa cedere parte del suo lavoro (e del suo guadagno) a chi non ha da lavorare e non può guadagnare. Ma, ripeto, il problema della disoccupazione è prima di tutto un problema psicologico e antropologico, senza minimizzare le conseguenze economiche. Per concludere: l’impegno di chi crede in questo discorso biblico sull’importante rapporto che deve esistere fra l’uomo e il lavoro è quello di far sì che tutti gli uomini possano entrare nel giardino della terra e possano coltivarlo e custodirlo. Rendendo migliore la terra, miglioreremo noi stessi!

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Messaggio dall’Ordine Francescano Secolare

Sorelle e Fratelli dell'OFS Le radici del nostro carisma francescano nell’islam Sono tanti nel mondo gli amici di San Francesco d’Assisi, anche fra i non cristiani, e perfino tra i non credenti. Il Poverello di Assisi affascina per la sua radicalità evangelica e nello stesso tempo per la sua profonda umanità. L’uomo e il cristiano si fondono in lui in maniera mirabile; ecco perché attira tutti. In tante questioni si può dire che è stato profetico e tanti suoi gesti si possono capire meglio oggi che otto secoli fa. Ad esempio l’ecologia… Oggi, preoccupati come siamo del problema dell’inquinamento, se non riscopriamo la “sacralità” della terra, proprio quella che Francesco ha cantato nel suo Cantico delle Creature, siamo perduti. Sorella acqua, utile umile, preziosa e casta sta diventando un problema planetario. E che dire del dialogo interreligioso? La realtà coabitativa di oggi ci pone di fronte all’islam. Tutti ricordiamo come lui, il Poverello, nel mezzo delle crociate decide di incontrare il sultano d’Egitto. È una follia e tutti cercano di dissuaderlo. Per Francesco c’è soltanto la morte ad attenderlo. Con gli infedeli non si può discutere. Ma Francesco con la sua fede opera un cambiamento totale di situazione: il cristiano e il mussulmano si incontrano in amicizia. Corano e Vangelo non coincidono, ma il rispetto è possibile. La via del dialogo (dall’etimologia della parola: lasciarsi attraversare dalle parole dell’altro) con il mondo mussulmano ce l’ha aperta soprattutto san Francesco. Ed è una via che chiede più che mai di essere percorsa, doverosa e necessaria. San Francesco non ha fatto politica, ma ha indicato alla politica il giusto atteggiamento di fondo. Non ha stipulato leggi o compromessi diplomatici. Seguaci e amici di Francesco vogliamo, in questi tempi, testimoniare a tutti la via del dialogo, senza sotterfugi. Si tratta di dare ragione della nostra presenza francescana tra “i saraceni” andando alle radici del nostro carisma. È il dialogo della vita fatta di piccole cose, fatta di gesti concreti e di amicizia cercata a volte con ostinazione.

Storia Damietta è una città egiziana all’altezza di Alessandria ma sul versante opposto del delta del Nilo. È una capitale sconosciuta del dialogo fra cristiani e mussulmani. Qui c’è il ricordo dell’incontro di san Francesco con il sultano d’Egitto. Dal 1218 al 1221 la città fortificata fu cinta d’assedio e poi occupata dai Franchi. L’intento iniziale era di scambiare quella porta d’accesso all’Egitto con Gerusalemme, ma il cardinale Pelagio, legato pontificio, accarezzò l’idea di distruggere l’Islam prendendo il Cairo. L’armata cristiana fu rapidamente arrestata, si impantanò nella pianura dai molti

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canali e dovette capitolare per evitare l’annegamento. Nel corso di questa crociata, la quinta, nel 1219 Francesco d’Assisi e un compagno approfittarono di una tregua per oltrepassare le linee e trovarsi al cospetto del sultano Melek el Kamel. Con sorpresa dei cristiani e forse anche dei mussulmani l’incontro ebbe tanto successo che il re dei saraceni, si dice, avrebbe voluto tenere il monaco presso di sé. Per la Chiesa del tempo quest’episodio della vita del santo rappresentava uno scacco giacché il grande Francesco non aveva convertito il sultano e neppure ottenuto la gloria del martirio. Non era tuttavia un vero scacco per lui che tornato ad Assisi portò a termine la redazione della sua Regola, spingendo i discepoli ad andare a vivere tra i mussulmani nell’umile testimonianza della vita cristiana.

Fonti Francescane Dalla Leggenda maggiore di San Bonaventura da Bagnoregio (1173) Partì, dunque, prendendo con sé un compagno, che si chiamava Illuminato ed era davvero illuminato e virtuoso. Appena si furono avviati, incontrarono due pecorelle, il Santo si rallegrò e disse al compagno: “Abbi fiducia nel Signore, fratello, perché si sta realizzando in noi quella parola del Vangelo: “Ecco, vi mando come agnelli in mezzo ai lupi”… Li portarono dal Sultano, come l’uomo di Dio voleva. Quel principe incominciò a indagare da chi, e a quale scopo e a quale titolo erano stati inviati e in che modo erano giunti fin là. Francesco, il servo di Dio, con cuore intrepido rispose che egli era stato inviato non da uomini, ma da Dio altissimo, per mostrare a lui e al suo popolo la via della salvezza e annunciare il Vangelo della verità… Dalla Leggenda maggiore di San Bonaventura da Bagnoregio (1356) Tre volte, per tale cagione, egli intraprese il cammino verso i paesi degli infedeli; ma le prime due volte ne fu impedito da disposizione divina. Finalmente la terza volta, dopo aver provato molti oltraggi, catene, percosse e fatiche innumerevoli, con la guida di Dio venne condotto al cospetto del Soldano di Babilonia: là predicò il Vangelo di Cristo, con una manifestazione così efficace di spirito e di potenza che lo stesso Soldano ne fu ammirato e, diventato mansueto per divina disposizione, lo ascoltò con benevolenza…. I Fioretti (1855) Santo Francesco, istigato dallo zelo della fede di Cristo e dal desiderio del martirio, andò una volta oltremare con dodici suoi compagni santissimi, ritti per andare al Soldano di Babilonia. E giugnendo in alcuna contrada di Sara-


cini, ove si guardavano i passi da certi sì crudeli uomini, che nessuno dè cristiani, che vi passasse, potea iscampare che non fusse morto: e come piacque a Dio non furono morti, ma presi, battuti e legati furono e menati dinanzi al Soldano.

Cronache e altre testimonianze non francescane Giacomo da Vitry, lettera del 1220 sulla presa di Damiata (2212) Il maestro di questi frati cioè il fondatore di questo Ordine si chiama frate Francesco: un uomo talmente amabile che è da tutti venerato, venuto presso il nostro esercito, acceso dallo zelo della fede, non ebbe timore di portarsi in mezzo all’esercito dei nostri nemici e per molti giorni predicò ai Saraceni la parola di Dio, ma senza molto frutto. Ma il Sultano, re dell’Egitto, lo pregò, in segreto, di supplicare per lui il Signore perché potesse, dietro divina ispirazione, aderire a quella religione che più piacesse a Dio. (2227) ...venuto nell’esercito cristiano, accampato davanti a Damiata, in terra d’Egitto, volle recarsi, intrepido e munito

solo dello scudo della fede, nell’accampamento del Sultano d’Egitto. Ai Saraceni che l’avevano fatto prigioniero lungo il tragitto, egli ripeteva: «Sono cristiano, conducetemi davanti al vostro signore». Quando gli fu portato davanti, osservando l’aspetto di quell’uomo di Dio, la bestia crudele si sentì mutata in uomo mansueto, e per parecchi giorni l’ascoltò con molta attenzione, mentre predicava Cristo davanti a lui e ai suoi. Poi, preso dal timore che qualcuno dei suoi si lasciasse convertire al Signore dall’efficacia delle sue parole, e passasse all’esercito cristiano, lo fece ricondurre, con onore e protezione nel nostro campo; e mentre lo congedava, gli raccomandò: «Prega per me, perché Dio si degni mostrarmi quale legge e fede gli è più gradita». il Consiglio regionale

Avanti tutta! “Buon Natale, buon Natale… Gridò forte il mio cuore. E in quell’istante cambiò l’atmosfera: centomila luci si accesero in un unico bagliore, al ritmo frenetico di milioni di passi agitati, i pensieri si affollavano nelle menti di ognuno con rapidità e chiarezza, e la gente si scambiava pacchetti e sorrisi e ognuno gridava qualcosa di bello ad un altro e i cuori battevan veloci. … E c’era qualcuno che si ricordava di un bambino, nato in una capanna alla luce di una stella.” Alice Sturiale (1983 - 1996) Carissimi, un anno è già volato via e il calendario ci ripropone la celebrazione del santo Natale. In apertura del mio messaggio natalizio, ho voluto scegliere un testo scritto da una bambina toscana vissuta solo 13 anni, contenuto nel suo diario. Un breve passaggio su questa terra, quello di Alice, proprio come la cometa che descrive nella sua poesia di Natale. Ma si sa, quando nel cielo gli astri passano veloci verso l’infinito, producono più luce che non le stelle immobili della notte. Alice mette in parallelo la frenesia del Natale, con la sua

preparazione “pratica” delle festività, alla quasi segretezza del vero messaggio del Natale: la nascita di Gesù. È la luce che dà testimonianza a questo prodigioso evento in terra; la luce di una stella che rischiara non solo il cielo nella notte dei pastori, notte di veglia, di fatica e di attesa del nuovo giorno, ma in tutte le notti dell’umanità. Appare una cometa… e la storia dell’umanità cambierà per sempre. Il Natale è un tempo prezioso per la mente e il cuore di ciascuno; qualcuno la definisce una festa triste, in particolare per chi non ha più nessuno a cui fare regali o scrivere due parole di augurio. Natale è la festa dell’amicizia tra Dio e noi! Siamo ancora capaci di lasciarci stupire dal Natale, come quando nelle nostre case nasce un figlio o un nipote? Ci siamo abituati alla presenza di Dio nella nostra vita oppure il suo amore per noi ci rinnova continuamente il cuore? La luce di questo Natale vi porti gioia nella vostra quotidianità, e quella serenità necessaria all’andare avanti malgrado tutto. La vita è strana ma è pur sempre una gran bella avventura. A tutti voi, con il cuore pieno di riconoscenza per l’affetto che sempre mi dimostrate, auguro di cuore un felice Natale e tanta pace nell’anno 2010 che percorreremo insieme. fra Michele Ravetta

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Dieci minuti per te

Meditare: una tranquilla passione el suo splendido libro La tranquilla passione1, Corrado Pensa definisce la meditazione un lavoro interiore, il cui scopo è quello di farci progredire nella conoscenza e nella realizzazione della verità e del bene. Questo lavoro interiore – specifica poi – consiste in «una pratica giornaliera di raccoglimento, con un accento speciale sulla meditazione di presenza mentale, associata con la coltivazione dell’attenzione cosciente nella vita quotidiana». Col tempo, se vissuto correttamente, questo lavoro è destinato a diventare una passione, cioè qualcosa che, da una parte, ci affascina e ci coinvolge, e dall’altra parte è perseguito con interesse, gusto e perseveranza, dal momento che più ci si dedica a esso, più se ne raccolgono i frutti, e più ci si persuade della sua incontestabile preziosità. L’impressione che accompagna coloro che intraprendono questo cammino è paragonabile a quella di chi, dopo un lungo sonno si ridesta alla luce del giorno o, dopo una prolungata malattia, si risveglia alla vita e riprende il gusto di vivere. «Sul finire di una malattia – scrive Corrado Pensa – viene un momento in cui avvertiamo con chiarezza che ci stiamo di nuovo svegliando alla vita. Finora eravamo come spenti e passivi, senza energia. Adesso invece, finalmente, qualcosa rivive in noi: siamo contenti e prendiamo ad assaporare di nuovo semplici cose, come mangiare, camminare, fare qualche progetto interessante per il futuro. In sostanza, ci sta ritornando il gusto di vivere, la passione per la vita. E ci accorgiamo che è un sentimento forte e preciso, che salutiamo con sollievo quando ricompare all’orizzonte e che ci causa invece apprensione se tarda a raggiungerci. Allo stesso modo il lavoro interiore dovrà suscitare in noi, prima o poi, una risposta simile, tra meraviglia, attenzione e sollecitudine». Questa risposta appassionata che, da una parte, ci fa sentire vivi, è anche risposta che, sul piano del lavoro interiore, rende il nostro lavoro più “lavoro” e più “interiore”. Ma è, quasi paradossalmente, una passione tranquilla. Perché l’esercizio della meditazione ci familiarizza con un’attitudine che è l’esatto contrario di quell’agire compulsivo di chi, come un piccolo bambino, vuole sempre tutto e subito. La meditazione, in realtà, ha molto a che fare col nostro divenire adulti, cioè capaci di gestire le cose della vita con serenità interiore ed equilibrio, con vera pace del cuore, anche quando i cambiamenti desiderati e giustamente perseguiti stentano a fare la loro comparsa sull’orizzonte della nostra vita. Anche questo è il risultato di un tirocinio che richiede un investimento tutt’altro che scontato di energia e di tempo. In effetti, è facile che, all’inizio, «il nostro lavoro interiore sia soltanto una fascinazione». Altre volte può succedere che ci vediamo coinvolti in questo lavoro interiore sotto la potente spinta di condizionamenti inconsci, ma anche di circostanze esterne che ci trascinano, senza che

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vi sia ancora, da parte nostra, un’intima e motivata convinzione. Tutto questo lo si può facilmente capire, ma va superato. Non al fine di sfociare in un’abitudine ma, piuttosto, «acciocché il lavoro interiore possa maturare in qualcosa di più vitale», che possiamo chiamare, appunto, una tranquilla passione: cioè una ricerca e un desiderio via via più forti di verità e di bene». È, comunque, passione tranquilla «perché, paradossalmente, è una passione che accresce il non attaccamento. E più non attaccamento significa più spazio interiore». Uno dei requisiti indispensabili perché questa nobile passione possa sfociare in un atteggiamento stabile e profondamente condiviso è, quindi, la perseveranza. Da una parte, essa è condizione indispensabile alla pratica, ma è anche il frutto della pratica, perché è in virtù della pratica che la nostra visione si fa sempre più trasparente e chiara, rafforzando la motivazione. Ma la perseveranza è anche il frutto della tranquillità, perché la tranquillità è un grande antidoto allo scoraggiamento. Essa ha il potere di alimentare e mantenere viva la perseveranza in mezzo a tutta una consistente serie di resistenze e difficoltà che uno incontra lungo il percorso. Perseveranza, tranquillità e passione sono, quindi, virtù cardini del lavoro interiore. «Se voglio diventare un buon artigiano dovrò sviluppare il gusto, la passione di lavorare con le mani. E se desidero apprendere in modo non superficiale, ho necessità di una passione per lo studio e l’investigazione. Parimenti, se intendo crescere e cambiare, ho bisogno di una passione per il lavoro interiore». È una passione non momentanea, ma che ci accompagna nel tempo, destinata e crescere a mano a mano che si procede nel cammino. Forse è il senso che Gesù attribuiva alle parole, riferite dal vangelo di Matteo: «Il regno dei cieli soffre violenza e soltanto i violenti se ne impadroniscono».2 I violenti sono, in questo caso, quelli che, avendo intravvista la bontà di una proposta, l’accolgono e la perseguono con perseveranza. Da tutto ciò che fin qui si è detto, può nascere l’impressione che la passione per il lavoro interiore non differisca, alla fine, dalle molte altre passioni costruttive che animano la nostra vita. E tuttavia – osserva Corrado Pensa – la passione per il lavoro interiore ha una sua caratteristica propria, che la distingue da tutte le altre passioni. Questa caratteristica consiste nel fatto che essa alimenta il non attaccamento. In realtà, qualsiasi altra passione, per quanto costruttiva, tende per sua natura ad accendere l’attaccamento. Ad esempio, se io ho una forte passione per la musica, tenderò, fosse anche solo inconsciamente, a dividere il mondo in due metà: la metà buona della musica e la metà cattiva della non musica, e a contrapporre l’una all’altra. Questo, infatti, è l’effetto di ogni preferenza. «La preferenza


per la musica sarà per me fonte di grande godimento e, al tempo stesso, motivo di frustrazione tutte le volte che non avrò abbastanza musica o che mi imbatterò in cattiva musica». Naturalmente, questo effetto separativo, che crea conflitto, potrà essere facilmente superato se la mia passione per la musica non costituisce un assoluto, ma si inserisce in un contesto più ampio, che è il mio interesse e la mia passione per la vita. In questo caso, la buona musica sarà certamente alimento che nutre e accresce la mia passione per la vita; ma non sarà vero il contrario, che cioè l’assenza di musica o anche la stessa cattiva musica eclissino in me ogni altro interesse e, soprattutto, qualsiasi interesse e passione per la vita. Ma ciò che qui maggiormente mi sta a cuore e, quindi, merita di essere sottolineato, è il fatto che, contrariamente ad altre passioni, la passione per il lavoro interiore ha, per sua natura, un potere unificante invece che separante. E la ragione è semplice. Essa è connessa al fatto che l’oggetto del lavoro interiore non è questo o quello. È bensì «tutto ciò che sorge nella nostra coscienza un momento dopo l’altro». In altre parole, è tutto ciò che la vita ci propone, ci fa incontrare e assaporare, non importa se piccolo o grande, piacevole o spiacevole, proveniente dal di dentro o incontrato al di fuori di noi. In un bellissimo dialogo che si svolge tra san Francesco e frate Tancredi, giunto su La Verna per sfogare il suo profondo rammarico a causa dell’allontanamento dei frati dall’originaria semplicità della vita secondo il vangelo e per convincere Francesco a intervenire di autorità e con vigore, il santo che, per questo stesso motivo, era a sua volta passato attraverso una lunga e tormentata crisi interiore, risponde, con chiarezza cristallina: «Il Signore ha avuto pietà di me e mi ha rivelato che la più alta attività dell’uomo e la sua maturità consistono, anziché nella ricerca di un ideale, per quanto nobile e santo, nell’accettare con gioia la realtà, tutta la realtà»; ossia ogni cosa, così come si propone

a noi qui e ora. «L’uomo che vagheggia il suo ideale – precisa Francesco – rimane chiuso in se stesso. Egli non comunica veramente con gli altri, né prende coscienza dell’universo. Gli mancano il silenzio, la profondità e la pace. La profondità dell’uomo non è altro che la sua disposizione ad accogliere il mondo». Se non si perviene a questo traguardo, si è simili a insetti che non riescono a spogliarsi del loro guscio. Tali uomini «si agitano, disperati, nel cerchio dei loro limiti». Anche quando, in virtù del loro impegno, credono di aver cambiato qualcosa, essi «non s’avvedono di morire senza aver visto la luce del giorno». In realtà, tali uomini «non sono mai del tutto svegli alla realtà. Hanno vissuto in sogno».3 Mi sono introdotto citando Corrado Pensa. Ora voglio concludere con lui. Dopo quanto si è detto – afferma – possiamo paragonare la passione per il lavoro interiore, ossia il lavoro per l’opera della consapevolezza, a «un grande fuoco nel quale si mette ogni cosa e nel quale ogni cosa, nella misura in cui riusciamo a essere consapevoli, contribuisce alla sua fiamma. E ciò è molto diverso da quanto accade in un’esistenza non ravvivata dalla passione per il lavoro interiore, dove qualsiasi pensiero, intenzione, sensazione, sentimento o emozione può diventare una forza indipendente che ci controlla o uno scopo continuamente cangiante che ci assorbe. Al contrario, in una vita orientata secondo la consapevolezza, lo scopo primario di ogni cosa che nasce nella nostra mente è sempre il medesimo, e cioè diventare oggetto di attenzione, diventare combustibile per il grande fuoco. E perciò in questo senso ogni cosa ci aiuta, tutto è grazia». fra Andrea Schnöller 1 2 3

Pensa C., La tranquilla passione, Ubaldini, Roma 1994. Mt 11,12 Leclerc E., La sapienza di un povero, Edizioni Biblioteca Francescana, Piazza Sant’Agelo 2, Milano 2007, p. 144.

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Messaggi dal mondo della chiesa

Appunti di vita ecclesiale Giustizia e pace festeggia i 40 anni La Commissione “GIUSTIZIA E PACE”, istituita nel 1979, è una commissione della Conferenza dei vescovi svizzeri (CES) e rappresenta la voce etica della Chiesa svizzera per le questioni sociali, ecologiche ed economiche. Paolo VI, nella “Populorum progressio” (1967) aveva annunciato la creazione di una commissione pontificia: “Giustizia e pace è il suo nome e il suo programma”. L’esempio era poi seguito dalle principali Conferenze episcopali, e anche da diocesi e organismi religiosi: in Europa esistono attualmente 31 commissioni nazionali che costituiscono la Conferenza delle Commissioni europee Giustizia e Pace (CEJPE) che regolarmente si riuniscono per coordinare il lavoro dei cattolici a favore dello sviluppo e per esaminare temi che domandano un comune impegno. I rappresentanti della CEJPE, attualmente presieduta da mons. Gérard Defois, vescovo emerito di Lille (Francia) hanno tenuto dal 18 al 22 settembre scorsi a Siviglia (Spagna) l’assemblea generale annuale e un seminario sul tema “Quali frontiere per la solidarietà in Europa?”. La Commissione svizzera è composta di 21 membri (tra cui i ticinesi Ruben Rossello e Martino Dotta), provenienti dalle diverse diocesi e istituzioni cattoliche impegnati nel sociale e, sulla base della visione cristiana, elabora analisi, prese di posizioni, pubblicazioni sia per incarico della CES, sia per contribuire alla formazione dei cattolici impegnati nella vita politica e sociale. Attualmente è presieduta da Nadia Bühlmann, mentre mons. Peter Henrici e don Félix Gmür rappresentano la CES, e si avvale di un segretario generale e di tre collaboratori scientifici. Ha festeggiato a Berna i 40 anni di attività il 26 settembre, presente mons.Koch, vescovo di Basilea e presidente della CES, e di mons. Defois che ha svolto una relazione sul tema: “La solidarietà in tempo di crisi”. Tra i temi trattati dalla Commissione svizzera in questi ultimi anni, talvolta in collaborazione con l’Istituto di etica delle Chiese protestanti o altri organismi cristiani, ricordiamo quelli dell’asilo e degli stranieri, del rispetto della domenica, della famiglia e della bioetica, della coesione sociale e della pace, dell’energia e dell’ambiente. La preoccupazione per la salvaguardia della creazione e per tutte le persone che già risentono delle conseguenze dei cambiamenti climatici, ha indotto i Vescovi svizzeri a chiedere alla Commissione nazionale Giustizia e Pace di occuparsi del fenomeno in modo approfondito, ciò che è stato fatto con la pubblicazione del fascicolo “Cambiamenti climatici. Dalle parole ai fatti. Suggestioni in una prospettiva di etica sociale”. Il fascicolo, edito in collaborazione con associazione “Chiesa e ambiente” (oeku) presenta in forma accessibile

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quali sono le conseguenze dei cambiamenti climatici. L’opuscolo, disponibile nelle lingue nazionali, va richiesto al segretariato J+P, Effingerstrasse 11, casella postale 6872, 3001 Berna (info@juspax.ch - www.juspax.ch)

Riforma grigionese dell’IRS Nella scuola obbligatoria grigionese in futuro gli allievi dovranno seguire obbligatoriamente un’ora settimanale di “scienza delle religioni ed etica” e un’ora di insegnamento religioso: da quest’ ultima è possibile ottenere la dispensa. Un’iniziativa dei Giovani socialisti chiedeva di sostituire le due ore di religione (dal primo al nono anno di scuola) con due ore di etica: agli allievi sarebbero stati trasmessi valori cristiani e sociali, conoscenze relative alle diverse religioni e pensiero critico. I cittadini invece hanno preferito in votazione popolare il cosiddetto modello “1+1”, progetto elaborato dal Gran Consiglio, accolto con 24’772 SÌ contro 14’014 NO, mentre hanno respinto nettamente, con 26’130 NO contro 11’631 SÌ, la proposta socialista. La partecipazione alle urne è stata del 31,7%. L’ora di religione sarà impartita, come in passato, da rappresentanti delle Chiese, mentre l’altra ora sarà insegnata da docenti statali. Il nuovo modello realizza una proposta formulata da una commissione composta della Chiesa evangelica riformata, della Chiesa cattolica e dell’Ordinariato vescovile. Sarà dapprima introdotto nel ciclo superiore e, in base alle esperienze fatte, eventualmente anche nelle elementari. L’obbiettivo è che siano sensibilizzati ai valori fondamentali anche i giovani dispensati dall’insegnamento religioso. Pure quest’anno è stato pubblicato, da parte delle edizioni ENBIRO (casella postale 6018, 1002 Losanna, www.enbiro.ch) un calendario interreligioso 2009/2010, dal titolo “En quête d’absolu: moines, moniales, ascètes er mystiques” (In cerca dell’assoluto: monaci, monache, asceti e mistici) . Il calendario presenta una serie di fotografie relative a diverse confessioni e un testo per approfondire tradizioni poco conosciute; sono inoltre indicate le date delle feste delle principali religioni.

Le diocesi svizzere Il territorio della Svizzera è diviso in sei diocesi, cui si aggiungono le due abazie di Einsiedeln e di Saint-Maurice; undici sono invece i vescovi in esercizio, perché oltre ai titolari sono attivi tre vescovi ausiliari (due a Basilea, uno a Ginevra) e nove i vescovi “emeriti” (tra cui il cardinale Schwery, già a Sion, mons. Togni e mons. Vollmar che ha lasciato il vicariato di Zurigo lo scorso ottobre). Solo la diocesi di Lugano comprende il territorio di un unico Cantone;


la diocesi di Sion comprende il Vallese e una piccola porzione di Vaud; alla diocesi di San Gallo appartengono anche i due Appenzelli; i Cantoni di Friburgo, Ginevra, Neuchâtel e gran parte di Vaud hanno il loro vescovo diocesano a Friburgo, mentre a Ginevra risiede l’ausiliare; il vescovo di Coira amministra una vasta diocesi che comprende oltre ai Grigioni, Glarona, Nidvaldo ed Obvaldo, Svitto, Uri e Zurigo; la più vasta diocesi svizzera è quella di Basilea (il vescovo risiede però a Soletta) e comprende dieci Cantoni della parte settentrionale della Svizzera, cioè da Zugo e Lucerna, passando per Berna e Soletta, e poi il Giura, i due Basilea, Argovia, Turgovia e Sciaffusa. Questa ripartizione geografica, frutto della storia (prima la Riforma protestante, poi la fondazione della Svizzera moderna nell’Ottocento, con l’abolizione dei diritti di vescovi stranieri sul territorio elvetico), da tempo è criticata e oggi sarebbe finalmente possibile una più equilibrata ripartizione, tenendo conto, più che dei territori, della ripartizione della popolazione; infatti è stato abolito (ma solo nel 2001!) l’articolo costituzionale che sottoponeva la creazione di nuove diocesi alla approvazione della Confederazione. Ma un ostacolo impedisce oggi di affrontare una nuova ripartizione diocesana che molti ritengono necessaria: in diverse diocesi (Basilea, Coira, San Gallo) esistono forme di partecipazione “dal basso” nella scelta del vescovo, quindi diritti (di Cantoni, capitoli, altri organismi locali) che dovrebbero essere tenuti presenti discutendo con la Santa Sede, per aggiornarli e uniformarli in tutte le diocesi svizzere.

Richieste dei cristiani al governo Il surriscaldamento climatico colpisce soprattutto chi vi ha contribuito di meno, cioè i poveri nel Sud del mondo. La siccità, uragani e inondazioni si fanno frequenti rendendo ancor più difficile l’accesso al cibo e minacciando così le basi per la sopravvivenza. Per questo Sacrificio Quaresimale e Pane per tutti, in collaborazione con Essere solidali (cioè le organizzazioni dei cristiani svizzeri che collaborano per l’aiuto allo sviluppo) hanno presentato lo scorso mese di settembre al Consiglio federale una petizione, sostenuta da oltre 10.000 firme, chiedendo che il Governo elvetico si adoperi, assieme ad altri Paesi industrializzati, a favore di una politica climatica drastica, efficace ma anche differenziata ed equa. Essa dovrebbe basarsi su questi su tre impegni: la Svizzera deve ridurre le proprie emissioni di CO2 del 40% se possibile entro il 2020; dovranno essere acquistati solo certificati d’emissione che siano sostenibili dal punto di vista ecologico, economico e sociale; i mezzi finanziari necessari sono da reperire separatamente da quelli richiesti dall’ONU per l’aiuto allo sviluppo. Purtroppo il Consiglio fe-

derale non intende esaudire la richiesta delle stesse organizzazioni umanitarie cristiane di aumentare il contributo della Svizzera all’aiuto allo sviluppo (attualmente solo dello 0,42% del PIL, invece del minimo dello 0,7%), richiesta sostenuta da oltre 100.000 firme e parzialmente accolta dalle Camere federali che hanno proposto di aumentare l’aiuto allo 0,5%.

Generosità Svizzera Secondo i dati diffusi dalla Fondazione Zewo (il servizio svizzero di certificazione delle donazioni), nel 2008 i privati svizzeri hanno donato alle organizzazioni di utilità pubblica in totale 830 milioni di franchi, e ciò malgrado l’inizio della crisi economica, cui vanno aggiunti 607 milioni provenienti da fondazioni, Chiese, aziende e legati, per un totale complessivo quindi di 1’437 miliardi, con un aumento del 6,7% rispetto al 2007. Anche Sacrificio Quaresimale (l’organizzazione caritativa dei cattolici svizzeri) ha registrato un aumento, raccogliendo nel 2008 un totale di 23 milioni di franchi da privati e parrocchie, con un aumento di 35’000 franchi. Tuttavia le previsioni per il 2009 sono al ribasso (circa un milione in meno!), essendo in generale diminuito non il numero degli offerenti, ma minori gli importi versati. Da ricordare che, secondo la FAO (organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione), il numero delle vittime della fame nel mondo è aumentato ed ha raggiunto la cifra di oltre un miliardo di persone: un appello alla generosità è quindi più che necessario. Alberto Lepori

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Messaggio ecumenico

L'autunno caldo dell’ecumenismo o scorso mese di ottobre è stato caratterizzato da un gran numero di assemblee, riunioni, incontri ed eventi che hanno interessato da vicino l’ecumenismo. Siccome non molti di essi hanno fatto le prime pagine dei giornali, essendo riservati agli specialisti, vale la pena di ripercorrerli cronologicamente.

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Dal 7 al 13 ottobre si è tenuta a Kolympari, sull’isola di Creta, la sessione plenaria della Commissione “Fede e Costituzione” del Consiglio ecumenico delle Chiese. Si tratta del più ampio forum di dialogo teologico tra Chiese cristiane, poiché anche la Chiesa cattolica, pur non appartenendo al CEC, è membro a pieno titolo di “Fede e Costituzione”. I 150 teologi convenuti dal mondo intero hanno discusso tre temi principali: la natura e la missione della Chiesa, le fonti di autorità all’interno delle Chiese e i processi di discernimento morale nelle Chiese. Quest’ultimo ha costituito una nuova area di studio, affrontata attraverso la presentazione di quattro casi concreti riguardanti questioni controverse, non per giudicare ma per capire sulla base di quali percorsi e riferendosi a quali autorità Chiese diverse e, all’interno della stessa Chiesa, cristiani della stessa confessione arrivino a decisioni opposte. La sessione è stata aperta da una magistrale allocuzione del patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I, il quale ha affermato che “l’unità della Chiesa alla quale noi aspiriamo è un dono che viene dall’alto e che dobbiamo cercare con costanza e pazienza”. Per Bartolomeo, bisogna quindi mettere al bando gli atteggiamenti di impazienza per la lunghezza del viaggio ecumenico, di frustrazione per i risultati mancati e di orgoglio e arroganza per imporre le proprie idee. Il cammino verso l’unità dei cristiani richiede un profondo cambiamento di mentalità e soprattutto una maggiore leadership dei giovani. È quanto è emerso dalla sessione plenaria del Gruppo Misto di Lavoro tra la Chiesa cattolica e il Consiglio ecumenico delle Chiese, riunitosi a Cordoba, in Spagna, dal 12 al 19 ottobre. I temi in discussione hanno riguardato la ricezione ecumenica e le radici spirituali dell’ecumenismo, data la necessità di raccogliere i frutti di molti anni di incontri e di dialoghi ecumenici. “Le radici spirituali dell’ecumenismo – si legge nel comunicato diffuso al termine dei lavori – sono alla base stessa della ricerca dell’unità dei cristiani e comportano conversione, rinnovamento, santità di vita secondo il Vangelo, preghiera individuale e comune”. Il Gruppo Misto di Lavoro è stato creato nel 1965 ed è composto da 36 persone, 18 nominate dalla Chiesa cattolica e 18 scelte da varie Chiese membro del Consiglio ecumenico.

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Dialogo con i protestanti Il 15 ottobre il cardinal Walter Kasper, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, ha presentato a Roma il suo libro, uscito per il momento in lingua inglese, intitolato “Harvesting the fruits. Basic Aspects of Christian Faith in Ecumenical Dialogue” (“Raccolta dei frutti. Aspetti fondamentali della fede cristiana nel dialogo ecumenico”). Si tratta di una pubblicazione di sicuro interesse, costata due anni di preparazione, che evidenzia per la prima volta i risultati concreti raggiunti in 40 anni di dialogo bilaterale tra la Chiesa cattolica e quattro Chiese storiche protestanti, ossia quella luterana, quella riformata, quella anglicana e quella metodista. Nel corso della sua presentazione, Kasper ha detto che “nessuno può affermare che stiamo attraversando un inverno ecumenico. Al contrario, siamo in alta stagione”. Il cardinale ha tuttavia riconosciuto che è passato il facile entusiasmo che aveva caratterizzato gli anni dopo il Concilio e che oggi si è diffusa una certa stanchezza, forse anche una certa delusione. “Nè vanno sottovalutati - ha aggiunto Kasper con grande onestà – i cambiamenti all’interno della Chiesa cattolica. Talvolta i nostri documenti sono difficili da digerire per i partner ecumenici”. Spostiamoci ora a Cipro, più precisamente a Paphos, dove dal 16 al 23 ottobre ha avuto luogo l’undicesima riunione plenaria della Commissione Congiunta Internazionale per il dialogo telogico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa. Il tema trattato ha costituito la continuazione di quello discusso a Ravenna nel 2007 ed un suo approfondimento: il ruolo del vescovo di Roma nella comunione della Chiesa nel primo millennio, cioè prima dello scisma del 1054. L’esame del testo continuerà nel 2010 a Vienna. Siccome il papato rimane il più grande ostacolo sulla via della riunificazione tra cattolici e ortodossi, Kasper ha riconosciuto che a Cipro sono stati fatti solo piccoli passi avanti nella giusta direzione e che permangono divergenze sulle prerogative che comportava il primato del vescovo di Roma (che era il “protos” tra tutti i patriarchi, fatto riconosciuto anche dagli ortodossi) nel primo millennio. Da notare che a Cipro erano presenti anche i delegati della più importante delle Chiese ortodosse, quella russa, che a Ravenna se n’erano andati sbattendo la porta per un contenzioso con il patriarcato di Costantinopoli relativo alla Chiesa estone.

Porte aperte agli anglicani Il 20 ottobre si è tenuta, congiuntamente a Roma e a Londra (presente anche l’arcivescovo di Canterbury, Rowan


Williams), una conferenza stampa per annunciare la pubblicazione di una costituzione apostolica voluta da Benedetto XVI per rispondere alle numerose richieste sottoposte alla Santa Sede da gruppi di chierici e fedeli anglicani, provenienti da diverse parti del mondo, i quali desiderano entrare nella piena comunione con la Chiesa cattolica. Si tratta principalmente di anglicani contrari alle aperture a gay e lesbiche del ministero sacerdotale ed episcopale (principalmente negli Stati Uniti) ed al sacerdozio femminile (con prospettive ormai lanciate anche verso l’episcopato) in Inghilterra. Sostanzialmente, il Papa prevede la creazione di ordinariati personali (simili a quelli militari), che conserveranno lo specifico patrimonio spirituale e liturgico anglicano purchè conforme con la Chiesa cattolica e alla cui guida ci sarà un ordinario usualmente nominato dal clero già anglicano. Da notare che potranno essere ordinati al sacerdozio cattolico ex-preti ed ex-vescovi anglicani anche sposati, ma questi ultimi non potranno accedere all’episcopato cattolico. Questa apertura del Papa agli anglicani più tradizionalisti (trattata non dal Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani ma dalla Congregazione per la Dottrina della fede) ha suscitato reazioni di segno opposto. Grande entusiasmo è stato manifestato dal quotidiano cattolico italiano “Avvenire”, che ha rilevato come Benedetto XVI, in assoluta coerenza con quanto dichiarato nella sua prima omelia da Pontefice, abbia impresso al cammino per l’unità “un’accelerazione davvero impressionante”. Negativo, invece, il parere di esponenti protestanti e soprattutto di Hans Küng, che ha rilevato come il Papa concepisca l’ecumenismo come il vecchio invito al “ritorno a Roma”, una visione che non è certo quella delle Chiese appartenenti al Consiglio ecumenico. La nostra carrellata ci porta per concludere ad Augsburg, in Germania, dove il 30 e 31 ottobre si è celebrato il decimo

anniversario della firma della Dichiarazione congiunta sulla Dottrina della Giustificazione siglata nella cittadina tedesca dalla Federazione Luterana Mondiale e dalla Chiesa cattolica romana (cui si sono aggiunte, nel 2006, anche le Chiese metodiste). Il testo era stato considerato una pietra miliare in campo ecumenico perchè i firmatari affermavano che le ripetute condanne reciproche, avvenute per secoli in materia di giustificazione, non avevano più ragione di essere ed era stato rimosso uno dei motivi centrali della Riforma protestante. Tuttavia, in occasione di questo anniversario, diversi commentatori hanno constatato come l’accordo di Augsburg non abbia avuto alcuna conseguenza ecclesiologica pratica: nei rapporti dei cattolici con i luterani (e i metodisti), tutto è rimasto come prima, anzi talvolta le cose sono peggiorate. Lo stesso cardinal Kasper, intervistato ad Augsburg, ha detto che bisogna essere realisti e consapevoli che sulla strada per raccogliere il popolo di Dio “ci sono a volte anche dei macigni”. Con ogni probabilità, il prelato alludeva ad alcune recenti derive manifestate da Chiese appartenenti alla Federazione Luterana Mondiale. Così, la Chiesa luterana in America ha aperto l’accesso al ministero pastorale a uomini e donne che hanno una relazione di coppia con una persona dello stesso sesso (prima erano ammessi solo omosessuali che vivevano nel celibato). Ma a destare maggior scalpore è stata la Chiesa di Svezia, dapprima con l’elezione a vescovo di Stoccolma di Eva Brunne, una lesbica che vive con una pastora e con il loro figlio di 3 anni, poi con la decisione del Sinodo nazionale di ammettere al rito religioso del matrimonio (quindi non solo con una benedizione) anche le coppie omo- sessuali. In entrambi i casi, si tratta di poco invidiabili “prime” mondiali a livello di Chiese cristiane. Gino Driussi

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Il Presepe di San Francesco Messaggi dai conventi

foto Ely Riva

resepe significa «dinanzi al chiuso », «dinanzi al recinto ». E il recinto, anticamente, serviva a raccogliere le bestie. Valeva, dunque, per «stazzo» e, in senso più largo, per «stalla». Dinanzi alla stalla, dov'era nato Gesù, s'accese una particolare devozione, specialmente dopo che Sant'Elena, madre dell'Imperatore Costantino, costruì a 'Betlemme, sopra la grotta indicata dalla tradizione per quella della Natività, una grande basilica. Il Presepio concepito da San Francesco fu un'altra cosa ed ebbe carattere di sacra rappresentazione. Se derivò, come vedremo, dalla scena della Natività, descritta da San Luca e dagli apocrifi, e quindi dalle opere d'arte dove era rappresentato il miracoloso evento, ebbe però un altro spirito e un'evidenza rappresentativa più immediata. Infatti, una cosa è il Presepe, ed un'altra cosa è la Natività. Una cosa è farsi «dinanzi alla stalla », e un'altra cosa è rievocare il grande evento della nascita di Gesù. La Natività consiste in una raffigurazione artistica della scena. Il Presepe, invece, consiste nella ricostruzione ambientale della medesima scena, concepita quasi teatralmente, come sacra rappresentazione. L'idea di questa sacra rappresentazione non poteva venire che a San Francesco, cioè al «giullare di Dio », che dinanzi al popolo del Medioevo voleva rappresentare al vivo le verità del Vangelo. Egli voleva muovere, anche prima del sentimento, la fantasia popolare, predicando, non solo con la parola, ma con l’azione. Santo e artista, aveva bisogno di rendere sensibili concetti e ideali, traducendo, nella maniera più efficace, la parola nei fatti. Con questo spirito e per questo scopo, egli ideò il famoso Presepio di Greccio. Il viaggio in Terra Santa aveva commosso ancora di più la sua fantasia. Lì era sceso l’Atteso; lì si era incarnato il Verbo; lì, in una grotta, aveva vagito il Re dell’Universo, in una notte di abbagliante mistero. Verso il Natale del 1223, tornava da Roma, ed entrando nella valle reatina, i compagni lo videro sorridere tra sé e sé. Qualcosa di nuovo gli si muoveva nella mente. San Francesco aveva tra gli amici molti castellani. Quei feudatari paterni e saggi, ai quali faceva capo tutta la vita del castello, non erano poi sempre tiranni malefici, come li ha dipinti la storiografia romantica. San Francesco ne conosceva dei buoni; per esempio, il conte Orlando Cattani della Verna. il conte Guido di Montauto, e, a Greccio, Giovanni Velita. San Francesco, giunto al suo eremo, lo mandò a chiamare. Giovanni Velita accorse e San Francesco gli disse: « Se tu l'hai caro, io vorrei celebrare con te quest'anno, l'imminente solennità del Signore. Affrettati dunque a preparare quanto desidero ». Per il castellano di Greccio ogni deside-

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rio del santo era più che un ordine. Perciò Francesco seguitò: «È mio pensiero rievocare al vivo la memoria di quel Bambin celeste che è nato laggiù in Betlemme, e suscitare davanti allo sguardo del popolo e al mio cuore·gli incomodi delle sue infantili necessità, vederlo proprio giacere su poca paglia, reclinato in un presepio, riscaldato dal fiato di un bue e di un asinello ... ». Tutto fu eseguito a puntino, sotto la direzione del buon messer Giovanni, e la notte di Natale del 1223, nel bosco di Greccio, si ebbe la prima rappresentazione natalizia, cioè il primo presepio. Un sacerdote celebrò la messa sulla mangiatoia. San Francesco, non essendo sacerdote, ma soltanto diacono, cantò il Vangelo della Nascita, e lo spiegò al popolo accorso con fiaccole accese. Piero Bargellini, scrittore

Le feste natalizie al Bigorio ella chiesa del convento viene celebrata una Messa solenne nella notte della vigilia, alle ore 22.00. Poesia e fede danno risalto a questa solennità. In chiesa si può ammirare il Presepio, che tutti gli anni si rinnova e, sul sagrato della chiesa, dopo questa celebrazione, si fa festa attorno ad un fuoco e, gustando un dolce, si crea un ambiente di fraternità e di amicizia. Nel mese di gennaio e precisamente il 5, vigilia dell’Epifania, si rinnova un’antica tradizione, che è quella della “Cavalcata dei Re Magi”. In quest’occasione il Bigorio è ravvivato da una schiera di bambini che, accompagnati dai genitori, attendono l’apparizione dei Re Magi. Questi personaggi, addobbati di tutto punto e con un’aria di mistero, accolgono tutti questi bambini e donano loro un piccolo regalo. È un momento di festa, tutto per loro, accompagnato dal suono delle cornamuse. L’intensità dei sentimenti che vengono espressi in questi momenti, sono i segni di un rapporto vivo tra il convento e la popolazione, e danno importanza al mantenimento di queste tradizioni. fra Roberto

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I presepi nella chiesa del Sacro Cuore a Bellinzona

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ome gli altri anni, dal giorno di Natale a tutto il mese di gennaio, viene allestito un “Percorso presepi” visitabile tutti i giorni dalle 9.30 alle 12 e dalle 14 alle 17. Nei giorni festivi alle 9, 10.45 e 18 si celebrano le SS. Messe durante le quali la visita è sospesa.



Messaggio amico

Stretta parentela tra uomini e animali niziamo con questo articolo una collaborazione con la “Voce evangelica”, organo della Chiesa riformata Idelrivista Cantone Ticino. Una rivista bella ed interessante, ricca di contenuti e di spunti, che meritano di essere conosciuti da un pubblico più vasto. La collaborazione è anche un ulteriore segno ecumenico – oltre a quello garantitoci dagli apporti di Gino Driussi – fra cristiani viventi ed operanti nello stesso paese. Il “Tempo del creato” (1 settembre - 4 ottobre) è dedicato quest’anno al rapporto tra uomo e animali. Per il frate cappuccino Anton Rotzetter ciò implica in particolare il rispetto per la vita e la ricerca della pace con sé stessi.

Signor Rotzetter, che ne direbbe di una bistecca al sangue? Vent’anni fa non avrei esitato a mangiarne con piacere una, se non addirittura due. Ma nel frattempo ho acquisito determinate convinzioni e conoscenze che mi rovinano l’appetito di fronte a un pezzo di carne.

L’appetito lo vuole rovinare anche agli altri: tre anni fa ha per esempio invitato gli ordini religiosi a rinunciare alla carne. È così. Ho inoltre chiesto che le chiese rinuncino alla carne in occasione dei loro appuntamenti ufficiali. La ragione sta nei fondamenti biblici della chiesa. E chi ne fa parte perché ha ricevuto la chiamata, deve differenziarsi, è un obbligo nei confronti del futuro e della vita stessi. Per quanto riguarda gli ordini religiosi, sono addirittura obbligati alla pratica ascetica, anche per quel che concerne i consumi. Non bisogna dimenticare che nei primi mille anni del cristianesimo, il consumo di carne era più o meno severamente vietato all’interno dei vari ordini religiosi.

Oggi tuttavia viviamo in altri tempi… È vero. Oggi le ragioni per essere vegetariani oltre che religiose, sono anche legate al pericolo che sta vivendo il nostro pianeta. Crisi alimentare, fame e povertà, penuria d’acqua, riscaldamento climatico, emissioni di CO2, abuso di energia, scomparsa della foresta amazzonica e molti altri problemi dei nostri tempi sono legati in modo inequivocabile al consumo di carne. Dimostrare questo legame sarebbe ora troppo lungo, in generale si può dire che il tutto ha a che fare con il rispetto della vita, in tutte le sue forme.

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Quest’anno festeggiamo l’anno di Darwin, secondo il quale l’uomo non è “l’apice” della creazione ma un parente prossimo della scimmia. D’altronde se si osservano gli esemplari di alcuni tipi di scimmie è chiaro che sono “imparentati” con noi. E la biologia e le scienze comportamentali possono dimostrarlo in svariati modi. Ma non solo: anche teologicamente viene messa in evidenza la parentela fra l’uomo e la scimmia. Se si leggono con attenzione i racconti sulla creazione - che tra l’altro indicano come obiettivo un’alimentazione vegetariana contenuti nella Bibbia, si apprende che gli animali “terrestri”, nel senso che camminano sulla terra, hanno le stesse origini dell’uomo. Entrambi sono stati “creati dalla terra”, entrambi sono stati animati dallo stesso soffio divino. Dal punto di vista biblico, gli animali sono i fratelli maggiori dell’uomo e quando Dio, dopo il diluvio, stringe un patto con l’uomo, estende quel patto anche a tutte le altre creature viventi. Ancor prima di donare la propria benedizione all’uomo, Dio la dona agli animali.

La consapevolezza dello stretto legame di parentela tra uomo e animali non ha tuttavia cambiato nulla nel comportamento umano, anzi... I tempi attuali sono il frutto del passato. Dal punto di vista della storia del pensiero filosofico, sono stati due i momenti di rottura che hanno portato alla situazione attuale. Da un lato si è acquisita l’idea che l’uomo, in quanto essere senziente, razionale, si differenzi dagli animali. Ne è conseguito che la filosofia occidentale si è sempre più concentrata sugli aspetti intellettuali dell’essere umano. Si sono così trascurate tutte le caratteristiche che abbiamo in comune con gli animali, come l’istinto o le emozioni. Le scienze comportamentali possono tuttavia mettere in discussione la certezza di questa presunta differenza tra uomo, essere razionale, e animale, privo di coscienza. Il secondo momento di rottura è stato quando la filosofia ha seguito il pensiero di Descartes, secondo il quale l’animale non è che una realtà puramente meccanica e null’altro. Purtroppo anche la teologia ha scelto questi due percorsi sbagliati.

Così oggi macelliamo e mangiamo un numero enorme di animali, come mai prima d’ora… L’essere umano vuole soddisfare quantitativamente piuttosto che qualitativamente i propri bisogni basilari. Crede di essere di più, quando ha di più. E ovviamente questo


si manifesta anche in ambito economico. Tutto col tempo viene assoggettato al consumo, tutto viene considerato da un punto di vista dell’usare, del comprare, del vendere. Tutto è in vendita, compreso l’essere umano, compreso l’amore. E questa mancanza di rispetto per la vita tocca in modo particolare l’animale.

Parola chiave: rispetto. La sua spiritualità è cambiata attraverso il suo rapporto con gli animali? Credo che la domanda non sia formulata in modo corretto. In effetti, è stata la spiritualità a rendere più profondo un amore per gli animali che ho sempre avuto, sin da piccolo. Francesco d’Assisi vedeva in ogni creatura e in ogni animale un legame con Dio: Dio è ovunque e deve essere cercato in ogni cosa. Ogni animale, ciascuno in modo diverso, particolare, porta in sé ed è espressione del mistero di Dio.

Lei benedice, durante il culto, gli animali. Crede che essi preghino? Cosa facciano gli animali, resta per noi uomini un mistero. In base alla mia personale esperienza e in base agli studi comportamentali, emerge che gli animali cercano la vicinanza e la sicurezza, coltivano e iniziano relazioni,

provano emozioni, sorpresa e qualcosa di simile allo stupore. Tutto ciò è parte di ciò che noi chiamiamo preghiera. Francesco d’Assisi credeva che ogni animale pregasse Dio a modo suo.

In che modo si può avere un buon rapporto con gli animali? Si tratta di un fatto individuale. Di certo l’animale non deve essere manipolato, deve poter restare animale. Io sono suo fratello e cerco di avvicinarmi in svariati modi all’animale. Se cerca la mia vicinanza, gli sto vicino, altrimenti lo lascio in pace, non m’impongo.

Cosa serve affinché l’uomo possa riappacificarsi con gli animali? Le buone intenzioni non bastano. Bisogna iniziare ad amare tutta la creazione, senza distinzioni, e non da ultimo, sé stessi. Abbiamo oltre il novanta per cento dei geni in comune con gli animali, ragion per cui abbiamo in noi molto di “animalesco”. Ed è con questa parte di noi che dobbiamo riappacificarci. (intervista a cura di Tilmann Zuber, trad. it. Amanda Pfändler) (da Voce evangelica, ottobre 2009)

Anton Rotzetter Nato settant’anni fa a Basilea, entrato nell’ordine cappuccino nel 1959, Anton Rotzetter ha studiato teologia a Friburgo, Bonn e Tübingen. Scrittore prolifico - ha pubblicato una settantina di titoli - si è occupato a più riprese della figura e dell’opera di Francesco d’Assisi. Per molti anni ha vissuto nel convento cappuccino di Altdorf. Dal 1978 al 1988 ha diretto l’Istituto per la Spiritualità di Münster, in Germania. Ha presieduto l’Accademia Francescana, dal 1998 fa parte del comitato degli scrittori e delle scrittrici della Svizzera interna, è stato a lungo membro del comitato direttivo dell’Azione dei Cristiani per l’Abolizione della Tortura ACAT in Svizzera. Per diversi anni ha fatto parte del gruppo di preti e pastori impegnati nel programma “Wort zum Sonntag“, la meditazione cristiana diffusa dalla Televisione della Svizzera Tedesca. Ha collaborato a lungo con la televisione austriaca nell’ambito del programma “Erfüllte Zeit“. È presidente dell’Azione Chiesa e Animali (Aktion Kirche und Tier, AKUT) e sta per inaugurare, a Münster, un Istituto per la Teologia Biologica, un centro che intende promuovere il dialogo tra scienze naturali e teologia.

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Abbiamo letto... abbiamo visto... Mendolia Gallino Oreste Anch'io vado a Messa, una guida per i bambini, con racconti di Bruno Ferrero e illustrazioni di Franca Vitali Leumann, Elledici, 2006

Questo libro è nato per i bambini e vuol essere una guida perché imparino a partecipare attivamente alla Messa che è fatta di movimento, canto, gioia, comunione e partecipazione, e non di formule astratte e noiose, ed è anche fondamentale per la loro crescita spirituale e umana. Il libro ha tante illustrazioni che espongono i diversi momenti della celebrazione eucaristica; a quelle si affiancano di volta in volta, coloratissime immagini di una festa in casa dei nonni. Cosicché i bambini imparino a capire il significato dei gesti rituali e liturgici, aiutati dal parallelismo – e facendone il confronto – tra la celebrazione eucaristica e quella di una festa di anniversario: entrambe "memoria" dell'amore, uno divino, l'altro umano, che è bello ricordare e rinnovare nella gioia e nell'esultanza della festa. Oltre a questo libro gli autori hanno preparato delle "schede didattiche", sempre sulla Messa, ottime per lavorare in gruppo, specialmente in preparazione alla Prima Comunione.

Caldelari Callisto Pensieri del dì di festa e Preghiere del dì di festa Padova, Messaggero

Iniziando l'anno liturgico C, ecco due sussidi; uno spiega i vangeli (di rito romano), l'altro sono delle "Riflessioni domenicali per credenti e non credenti". Scritti e consigliati per chi "non va (o non può andare) a Messa". Si possono comandare presso l'autore. Bellinzona, chiesa S. Cuore.

PER NATALE REGALATE I LIBRI SU GESÙ AI VOSTRI AMICI DUBBIOSI E NON CREDENTI - Gesù - prima biografia per chi dubita, è in difficoltà e non crede - Gesù - parte seconda. Le sue meravigliose parabole per chi ancora non le conosce, per chi dubita, è in difficoltà e non crede - Atti degli apostoli. Vita della Chiesa primitiva (nuovissimo) Se comandati direttamente all'autore, P. Callisto (segreteria S. Cuore, 091 82.00.880), per gli abbonati del Messaggero al prezzo scontato di fr. 25 l'uno.


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