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Gennaio n째 Marzo 2014
Il questionario sulla famiglia dei vescovi svizzeri
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Gennaio n° Marzo 2014
Dossier Concilio Vaticano II
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Messaggio dal Santuario
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Straordinaria partecipazione al questionario sulla famiglia
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La Pasqua
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MESSAGGERO
fra Callisto Caldelari
Comitato Editoriale
Il fascino dei presepi
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Attività del Bigorio
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Religioni nel mondo
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Alberto Lepori
Messaggio ecumenico
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Gino Driussi
Dieci minuti per te
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fra Andrea Schnöller
Il nuovo Adamo Mario Corti
Rivista fondata nel 1911 ed edita dai Frati Cappuccini della Svizzera Italiana - Lugano ISSN 2235-3291
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fra Callisto Caldelari (dir. responsabile) fra Edy Rossi-Pedruzzi Maurizio Agustoni Gino Driussi Alberto Lepori
Hanno collaborato a questo numero Mario Corti fra Roberto Pasotti fra Andrea Schnöller don Sandro Vitalini
Redazione e Amministrazione Convento dei Cappuccini Salita dei Frati 4 CH - 6900 Lugano Tel +41 (91) 922.60.32 Internet www.messaggero.ch www.facebook.com/messaggero.ch E-Mail segreteria@messaggero.ch
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Per una politica degli stranieri attenta alla persona
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o scorso 9 febbraio il popolo svizzero, in modo invero inaspettato, ha modificato la Costituzione federale inserendo un nuovo articolo 121a il quale prevede che ”il numero di permessi di dimora per stranieri in Svizzera [richiedenti d’asilo e frontalieri inclusi] è limitato da tetti massimi annuali e contingenti annuali. […]. Il diritto al soggiorno duraturo, al ricongiungimento familiare e alle prestazioni sociali può essere limitato”. Non voglio qui attardarmi nell’analisi di questo voto, che è il risultato di molteplici fattori. In Ticino ha probabilmente prevalso il diffuso malessere riguardo alla situazione del mercato del lavoro, messo sotto pressione dal massiccio afflusso di manodopera estera a basso costo. La questione oggi decisiva è quella di sapere come sarà adeguata la nostra legislazione in materia di stranieri per renderla compatibile con la nuova normativa costituzionale. Credo che, al di là dei tecnicismi giuridici, occorrerà promuovere una cultura che consideri lo straniero innanzitutto nella sua dimensione (e dignità) umana e che non cada in generalizzazioni degradanti. Il tipo di argomenti sviluppati e diffusi durante la campagna di voto rischia in effetti di generare una sorta di ossessione nei confronti dello straniero. Ecco alcuni degli argomenti utilizzati: il 44,6% dei disoccupati sono stranieri, il 45,4% delle persone in assistenza sono straniere, gli stranieri hanno fatto aumentare gli affitti del 49% (in 10 anni), la massiccia presenza di stranieri ha effetti ambientali negativi, gli stranieri mettono a repentaglio la nostra identità culturale, la presenza di (figli di) stranieri a scuola compromette il livello formativo generale, il 73,8% dei detenuti nelle carceri svizzere è straniero. I dati statistici citati dai fautori del nuovo articolo costituzionale sono oggettivamente corretti, ma riflettono la diversa situazione sociale di molti stranieri. È per esempio noto che gli stranieri, in misura maggiore degli svizzeri, svolgono professioni poco qualificate e soggette ad oscillazioni stagionali (es. nel turismo). È quindi evidente che queste persone sono più esposte al rischio di disoccupazione. È inoltre pericoloso concepire delle politiche sulla mera base di statistiche. Per esempio nel carcere di Champ-Dollon (Ginevra) il 21% dei detenuti è di religione cattolica, mentre i detenuti evangelico-riformati sono solo il 2%. Cosa dovremmo dedurne: che i cattolici sono intrinsecamente più disonesti dei protestanti? Un altro dato statistico mostra che i detenuti in Svizzera sono alti in media 175 cm. Dovremmo dedurne che le persone di media statura sono più inclini al crimine? Gli esempi che dimostrano i rischi insiti in ogni generalizzazione si sprecano. La politica nei confronti degli stranieri non può quindi svilupparsi attraverso dei pregiudizi “statistici”, ma – sfuggendo alla tentazione semplificatrice di appiccicare etichette a tutto e tutti – deve penetrare nell’individualità di ogni singola persona. Una persona non può essere aprioristicamente “sospettata” di essere fannullona, criminale o disadat-
tata per il solo fatto di avere un certo passaporto o di appartenere a una certa etnia. È uno sforzo, anche culturale, che va compiuto per evitare che il germe del pregiudizio e dell’ostilità si insinui nei nostri cuori, inaridendoli e chiudendoli ai più elementari doveri di accoglienza. È un dovere che non solo ci incombe collettivamente come cittadini di una società che si vuole civile, ma che ci obbliga anche individualmente come cristiani. Riferendosi alla parabola del buon Samaritano Benedetto XVI, nell’enciclica Deus caritas est, ha scritto: “mentre il concetto di «prossimo» era riferito, fino ad allora, essenzialmente ai connazionali e agli stranieri che si erano stanziati nella terra d’Israele e quindi alla comunità solidale di un paese e di un popolo, adesso questo limite viene abolito. Chiunque ha bisogno di me e io posso aiutarlo, è il mio prossimo. Il concetto di prossimo viene universalizzato e rimane tuttavia concreto. Nonostante la sua estensione a tutti gli uomini, non si riduce all’espressione di un amore generico ed astratto, in se stesso poco impegnativo, ma richiede il mio impegno pratico qui ed ora” (n. 15). Pur essendo scontato che uno Stato, se vuole preservare un certo equilibrio, debba adottare un certo criterio nell’affrontare il tema delle migrazioni, occorre costantemente tenere presente questa dimensione universale del concetto di “prossimo”. Il mio auspicio è che nella concretizzazione del nuovo art. 121a della Costituzione federale questi principi siano adeguatamente considerati affinché sia rispettato l’inalienabile principio secondo cui “ogni migrante è una persona umana che, in quanto tale, possiede diritti fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione” (Caritas in veritate, n. 62). Maurizio Agustoni
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Decreto sulle Chiese cattoliche orientali
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uando si parla di Chiese cattoliche orientali, la maggior parte dei lettori che pur si interessano di “cose di Chiesa”, pensano alle Chiese staccate da Roma, quindi non gravitanti nell’area cattolica. Invece il Concilio Vaticano II, al termine della terza sessione approvò, dopo la costituzione Lumen Gentium, anche il decreto Orientalium Ecclesiarum, dedicato alle Chiese cattoliche Orientali di cui abbiamo un elenco nelle pagine seguenti: secondo questo decreto (n.3) “Le Chiese particolari, di Oriente ed Occidente, godono di pari dignità, cosicché nessuna di loro prevale per ragione di rito”. Lo stesso Concilio che raccolse dei timidi tentativi preesistenti di valorizzazione di dette Chiese, all’articolo 9 dice: “Questo santo Concilio stabilisce che siano ripristinati i diritti e i privilegi dei patriarchi delle Chiese Orientali, secondo le antiche tradizioni di ogni Chiesa e i decreti dei Concili ecumenici. Questi diritti e privilegi sono quelli vigenti al tempo dell’unione dell’Oriente ed Occidente, quantunque debbano essere alquanto adattati alle odierne condizioni”. Questa valorizzazione dei patriarchi, da tempo aveva generato la questione, se in ordine gerarchico, questi ecclesiastici fossero sotto, sopra, uguali ai cardinali di Santa Romana Chiesa. Questione non risolta, perché alcuni patriarchi furono insigniti della porpora facendo supporre che il patriarcato fosse una dignità inferiore al cardinalato. Altri – anche recentemente – non lo furono, facendo pensare che nelle Chiese cattoliche Orientali patriarcato e cardinalato fossero dignità equiparabili. Ma la questione, per la verità, non è importante. Una questione concreta è quella dei preti uxorati (sposati). Infatti – come scrive Luigi Sandri nel suo bel libro Da Gerusalemme I al Vaticano II (pag. 595) – molte Chiese cattoliche Orientali, come del resto le loro consorelle non cattoliche, ammettono all’ordinazione uomini già sposati, mentre il celibato è proprio dei monaci e dei vescovi. Generalmente i parroci sono preti sposati. Questo fatto – oltre alla storia – ci fa dire che il celibato ecclesiastico, non è di diritto divino e fa pensare, che certe richieste portate avanti specialmen-
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te dai laici in questo campo, obbligheranno a trovare delle risposte. Non credo che l’abolizione del celibato sia la soluzione per arginare la mancanza di vocazioni, credo piuttosto che una diversa disciplina (l’ordinazione di uomini sposati di fede sicura e di grande zelo apostolico) possa essere un primo passo. Il documento del Vaticano II sviluppa un articolato discorso sulla disciplina dei sacramenti, comprendente l’obbligo del precetto festivo, nonché la forma canonica della celebrazione dei matrimoni misti. Chiude con alcuni articoli sui rapporti con i fratelli delle chiese separate esortando a promuovere l’unità. Quello che deve essere ammirato e conservato nelle Chiese cattoliche Orientali, ed anche nelle altre Chiese non cattoliche, è la varietà e la ricchezza dei riti. Evidentemente questi corrispondono alla sensibilità dei pastori e dei laici che li celebrano, ma anche per noi latini, quelle celebrazioni possono essere dei momenti di spiritualità che elevano l’anima a Dio, anche se non si comprendono la lingua ed i gesti. Non dobbiamo rinunciare alle nostre liturgie che il Vaticano II ha reso più comprensibili e partecipate (anche se su questa strada c’è ancora da fare molto cammino), ma dobbiamo ammirare chi loda Dio in un modo diverso da come facciamo noi perché, come noi, questa lode si esprime in spirito e verità. Il decreto venne approvato con 2110 voti favorevoli e 39 contrari dai vescovi riuniti in Concilio e fu promulgato dal papa Paolo VI il 21 novembre 1964.
Orientalium Ecclesiarum I tesori spirituali delle Chiese d’Oriente
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’attenzione dei papi verso le Chiese orientali cattoliche ha determinato un mutamento di ottica anche nel dialogo ecumenico. Da Leone XIII al Vaticano II c’è stato un cammino di avvicinamento, fino a riconoscere la pari dignità fra tutti i riti, che nella loro varietà sono un segno di unità. Nel decreto Orientalium Ecclesiarum il Concilio ha voluto esprimere la stima della Chiesa universale verso le Chiese orientali cattoliche e per il sacro loro patrimonio. Apprezzamento che nel corso degli anni si è consolidato. Con Leone XIII ha inizio una nuova epoca nei rapporti tra Roma e gli orientali. La sua attenzione si rivolge in due direzioni: Dare piena dignità alle Chiese cattoliche di rito orientale (melchiti, ruteni e ucraini; cattolici copti, armeno cattolici e siromalabaresi, ecc.), garantendo il rispetto delle loro tradizioni liturgiche e il trattamento di parità con il rito latino storicamente considerato praestantior, cioè di prima classe rispetto agli altri riti. Prendere un’iniziativa ecumenica, con l’invito rivolto ai patriarchi orientali, cattolici e non cattolici, a conversazioni con lui a Roma per promuovere l’unione. Il tentativo non riuscì per le resistenze dei patriarchi ortodossi, che rifiutavano la premessa di “un loro ritorno” alla Chiesa cattolica. Ma fu significativo che Leone XIII con la lettera apostolica Orientalium dignitas (30.11.1894) dichiarasse che «la veneranda antichità che caratterizza i diversi tipi di rito orientale è un vanto eccellente per tutta la Chiesa, e fa emergere la divina unità della fede cattolica». Egli riconosceva la legittimità degli ordinamenti ecclesiastici propri degli orientali. Con l’altra lettera apostolica Praeclara gratulationis si impegnava, anche a nome dei suoi successori, ad assicurare, in caso di nomine, il rispetto dei diritti e dei privilegi dei diversi patriarchi e delle usanze liturgiche delle loro Chiese. Il successore Pio X confermò l’apprezzamento che Roma nutriva per la dignità e lo splendore dell’Oriente. Nel 1908, celebrando con una liturgia orientale in San Pietro il 1500° anniversario della morte di san Giovanni Crisostomo, egli disse che «Roma intende salvaguardare le usanze nazionali ed ammira gli indiscutibili meriti e le gesta gloriose della grande terra d’Oriente». Nel pontificato di Benedetto XV furono significativi due avvenimenti: l’erezione della Congregazione per le Chiese orientali (1.5.1917) e la fondazione del Pontificio istituto per gli studi orientali (15.10.1917), con il compito di svolgere anche un lavoro scientifico preparatorio per avvicinare l’Oriente e l’Occidente. L’istituto con le sue ricerche poté portare un contributo essenziale a una maturazione che poi rese possibili le prese di posizione del concilio Vaticano II sull’Oriente. Pio XI mostrò grande apprezzamento per i tesori spirituali dell’Oriente e vivo interesse per il movimen-
to di riunificazione con gli ortodossi, inteso, in linea con i predecessori, come adesione e ritorno dei fratelli separati alla Chiesa cattolica. Oltre a rendere efficiente e vitale il Pontificio istituto orientale, egli fondò per lo studio della teologia e della liturgia delle Chiese orientali il monastero orientale benedettino di Chevetogne, l’istituto Istina di Parigi, e il Pontificio collegio Russicum. Costituì anche una commissione per preparare un nuovo diritto canonico orientale. Pio XII dedicò molta attenzione alla situazione e alle sofferenze che le Chiese orientali subivano per la persecuzione comunista, scatenata dopo la conquista sovietica dell’Europa orientale. Nell’Enciclica Orientalis Ecclesiae (9.4.1944) assicura gli orientali che in caso di unione non saranno mai costretti ad abbandonare i riti liturgici e le loro antiche situazioni in favore di quelli latini. Nel 1945 scrisse l’enciclica Orientales omnes Ecclesias per celebrare il 350° anniversario dell’Unione di Brest e nel 1953 la Orientales ecclesias per denunciare l’oppressione subita dai cattolici orientali da parte del regime sovietico. Con papa Giovanni XXIII, nei rapporti tra la Chiesa cattolica e gli ortodossi si crea una nuova atmosfera. Egli fonda il Segretariato per l’unione, di cui fu presidente il cardinale Agostino Bea, che aveva già svolto un’attività grandiosa per la riunificazione e godeva anche della fiducia degli orientali non cattolici. Al segretariato il Papa assegna il compito di aiutare gli altri «a trovare più facilmente la via al raggiungimento di quella unione che Gesù ha implorato dal Padre celeste con preghiera insistente». Non parla più di “ritorno”, ma di cammino da fare insieme verso l’unità voluta da Cristo.
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Sacerdoti Copti
Princìpi per un nuovo cammino Il Vaticano II pone le basi per un nuovo, positivo cammino. Il decreto sulle Chiese orientali cattoliche sancisce alcuni principi di rilevante importanza: La varietà dei riti non solo non nuoce all’unità, ma la manifesta. I riti godono di pari dignità e nessuno di essi prevale sugli altri. Il Concilio considera il patrimonio ecclesiastico e spirituale delle Chiese orientali come «patrimonio di tutta la Chiesa». Speciale onore deve essere riservato ai patriarchi delle Chiese orientali, ognuno dei quali presiede al suo
patriarcato come padre e capo. Alle Chiese orientali cattoliche compete lo speciale ufficio di promuovere l’unità di tutti i cristiani, specialmente orientali; dagli orientali separati che, mossi dalla grazia dello Spirito Santo, vengono all’unità cattolica, «non si esiga più di quanto esige la semplice professione della fede cattolica». Questo decreto è parallelo e complementare all’altro, Unitatis redintegratio, che dà orientamenti coraggiosi e innovativi per promuovere il dialogo ecumenico. card. Achille Silvestrini (da Vita Pastorale, agosto-settembre 2005)
Le Chiese cattoliche orientali
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uando si parla di Chiese cattoliche orientali, il nostro lettore di media cultura religiosa ha qualche interrogativo? Sono cattolici come noi? Obbediscono al Papa? Hanno gli stessi riti e sacramenti? Abbiamo chiesto al nostro esperto in ecumenismo, Gino Driussi, di dirci chi sono queste Chiese. Per Chiese cattoliche orientali o “sui iuris” (chiamate un po’ spregiativamente “uniate” dagli ortodossi) si intendono le Chiese di tradizione bizantina, monofisita o nestoriana che hanno accettato di tornare in piena comunione con la Chiesa di Roma – in particolare tra il XV e il XVIII secolo – riconoscendo l’autorità del Papa ma mantenendo i propri riti e tradizioni e un’ampia autonomia ecclesiastica, in particolare per quanto riguarda la nomina dei patriarchi e degli arcivescovi maggiori. Oltre al rito (che è simile a quello delle Chiese ortodosse, rispettivamente delle antiche Chiese orientali), si differenziano dalla Chiesa cattolica
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latina per il fatto che ammettono al sacerdozio (ma non all’episcopato) anche uomini sposati. Complessivamente, contano circa 20 milioni di fedeli, presenti in particolare in Medio Oriente, Europa orientale, India e Africa nord-orientale. La loro vita ecclesiale è regolata dal Codice dei canoni della Chiese orientali, promulgato da Giovanni Paolo II il 18 ottobre 1990, e il loro riferimento nella Curia vaticana è la Congregazione per le Chiese orientali, attualmente guidata dal cardinale Leonardo Sandri. A loro, il Concilio Vaticano II ha dedicato il decreto “Orientalium Ecclesiarum”.
Attualmente esistono 23 Chiese cattoliche orientali, così suddivise: Chiese di rito liturgico bizantino (15): • Chiesa greco-cattolica albanese • Chiesa greco-cattolica bielorussa • Chiesa greco-cattolica bulgara • Chiesa greco-cattolica croata • Chiesa greco-cattolica di Grecia (Grecia e Turchia) • Chiesa greco-cattolica di Serbia e Montenegro • Chiesa greco-cattolica macedone • Chiesa greco-cattolica melchita (Siria, Libano, Israele, Palestina, Giordania, Iraq, Egitto e comunità mediorientali nel mondo)
• Chiesa greco-cattolica romena • Chiesa greco-cattolica rutena (eparchia di Mukačevo, Ucraina) • Chiesa greco-cattolica russa • Chiesa greco-cattolica slovacca • Chiesa greco-cattolica ucraina (Ucraina, Polonia, Stati Uniti, Canada e comunità ucraine nel mondo) • Chiesa greco-cattolica ungherese • Chiesa greco-cattolica italo-albanese (eparchie di Lungro e di Piana degli Albanesi, in Italia)
Chiese di rito liturgico alessandrino (2) • Chiesa copta cattolica (Egitto)
• Chiesa cattolica etiope (Etiopia ed Eritrea)
Chiese di rito liturgico antiocheno o siriaco occidentale (3) • Chiesa maronita • Chiesa cattolica sira (Libano, Siria, Cipro, Israele, Palestina, Egitto, (Libano, Iraq, Giordania, Kuwait, Palestina, Egitto, Giordania e diaspora siro-libanese nel mondo). Sudan, Siria, Turchia, Stati Uniti, Canada La Chiesa maronita è la sola Chiesa orientale cattolica e Venezuela) a non avere il rispettivo simmetrico ortodosso. • Chiesa cattolica siro-malankarese (India) Chiese di rito liturgico siriaco orientale (2) • Chiesa cattolica caldea (Iraq, Iran, Libano, Egitto, Siria, Turchia, Stati Uniti)
• Chiesa cattolica siro-malabarese (India e Stati Uniti)
Chiesa di rito liturgico armeno (1) • Chiesa cattolica armena (Libano, Iran, Iraq, Egitto, Siria, Turchia, Israele, Palestina, Italia e diaspora armena nel mondo).
Le Chiese cattoliche orientali più importanti sono le Chiese patriarcali: quella di Alessandria dei copti (sede al Cairo, patriarca Ibrahim Isaac Sidrak), quella di Antiochia dei siri (sede a Beirut, in Libano, patriarca Ignace Youssif III Younan), quella di Antiochia dei greco-melchiti (sede a Damasco, in Siria, patriarca Gregorios III Laham), quella di Antiochia dei maroniti (sede a Bkerké, in Libano, patriarca il cardinale Bechara Boutros Raï), quella di Babilonia dei caldei (sede a Baghdad, in Iraq, patriarca Louis Raphaël Sako) e quella di Cilicia degli armeni (sede a Beirut, patriarca Nerses Bedros XIX Tarmouni). Seguono le Chiese arcivescovili maggiori: quella di Leopoli (o Lviv) degli ucraini (sede a Kiev, arcivescovo Svjatoslav Shevchuk), quella di Ernakulam-Angamaly dei siro-malabaresi
(sede a Kochi, in India, arcivescovo il cardinale George Alencherry), quella di Trivandrum dei siro-malankaresi (sede a Thiruvananthapuram, in India, arcivescovo il cardinale Baselios Cleemis Thottunkal) e quella di Fagaras e Alba Iulia dei romeni (sede a Blaj, in Romania, arcivescovo il cardinale Lucian Muresan). Bisogna anche ricordare che nell’Europa dell’Est durante il comunismo le Chiese greco-cattoliche hanno subito violente persecuzioni e sono state soppresse. Con la fine del comunismo hanno potuto tornare in vita ma con non pochi attriti con le Chiese ortodosse (segnatamente per il possesso dei luoghi di culto), attriti talvolta non del tutto risolti nei nostri giorni. Gino Driussi
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Domande a don Sandro Vitalini Il documento conciliare Orientalium Ecclesiarum si apre con un’affermazione che “La varietà dei riti non nuoce all’unità” delle diverse Chiese. Non è piuttosto il contrario? Noi dobbiamo partire dal principio che tutti i battezzati, immersi nella vita trinitaria, formano nel Cristo un solo corpo. Se noi percepiamo che l’essenziale è ciò che ci resterà in Paradiso – l’amore reciproco in Dio – dobbiamo relativizzare tutto il resto. La varietà di dottrina e di celebrazione è una ricchezza che esprime una fede radicata in multiformi ambienti culturali che mostra come le Chiese si sviluppino in conformità alle loro tradizioni particolari. Più c’è varietà nell’unità e più risplende la bellezza del corpo del Signore. L’uniformità ci uccide, la varietà ci esalta. Dobbiamo rifarci alla più antica tradizione per ammirarne il variegato sviluppo. Nei primi secoli non esistevano libri liturgici, ma il celebrante, ispirandosi al Vangelo, celebrava la divina eucaristia seguendo con larga capacità d’improvvisazione la linea celebrativa indicata dai Vangeli (liturgia della Parola e del Sacrificio). Siamo ancora agli inizi in questa scoperta della varietà di espressioni dell’unica fede nella Trinità. All’art. 20 parlando della Pasqua si dice che “Fino a che fra tutti i cristiani non si sarà giunti al desiderato accordo circa la fissazione di un unico giorno per la comune celebrazione della festa della Pasqua” nella medesima regione la si celebri la stessa domenica. È così necessario trovare un’unica data per la celebrazione della Pasqua? Non è meglio mantenerla in date diverse più corrispondenti alla storia delle singole Chiese? Se da una parte è desiderabile trovare un’intesa comune sulla data della Pasqua – che mostri al mondo la nostra unità di unica famiglia - dall’altra è pure una realtà positiva indicare al mondo che le Chiese celebrano in domeniche diverse la Pasqua, consapevoli delle più disparate tradizioni che rappresentano. Ritengo che sarebbe un segno di accentuata fraternità riconoscere insieme un’unica data, ma riconosco che la varietà anche in questo caso va vista come un valore. Più le Chiese approfondiscono l’amore reciproco e meglio capiscono le loro differenze Nell’antichità le varie Chiese riconoscevano l’intercomunione, anche se le loro diffe-
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renze, anche sulla data della Pasqua, non portavano a un’intesa. Sentiamoci piccoli e aperti, umili e accoglienti! Il decreto è molto largo sulla “comunicazione in cose sacre”, per esempio permettendo ai cattolici di richiedere i sacramenti ad acattolici, così pure permette per giusta ragione la partecipazione a funzioni, cose e luoghi sacri tra cattolici e fratelli separati. Questi permessi non possono generare confusioni? Se si ammettono i principi esposti sopra, allora la Chiesa cattolica è aperta all’intercomunione con la Chiesa ortodossa. Purtroppo quest’ultima è molto più reticente e non ammette facilmente i cattolici romani alla comunione. E’ auspicabile che da parte nostra si intensifichi l’intercomunione con gli ortodossi che vivono da noi, così che si formi una mentalità ecumenica aperta e si capisca esistenzialmente d’ambo le parti che la fede nel Mistero eucaristico è comune ed essa va pertanto dimostrata nell’agape con il Signore. Celebrando l’unica Eucaristia ci rendiamo tutti meglio conto che siamo tutti fratelli e che ci distanziamo dalle divisioni artificiose e fasulle che vennero indebitamente create nel fluir dei secoli, in opposizione alla volontà del Signore (Giovanni 17,21).
Messaggio dal Santuario
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opo la breve interruzione dovuta ai recenti cambiamenti avvenuti sul Sasso, riprendiamo con questo numero di Messaggero la rubrica, già curata da fra Agostino, Messaggio dal Santuario. Anche se non siamo tutti nuovi a questo impegno, la prima domanda che ci siamo fatti fu: Che cosa offriamo ai lettori del Messaggero, in questa rubrica, dedicata interamente alla Madonna del Sasso? Abbiamo riflettuto e siamo giunti alla conclusione di seguire quattro filoni d’interesse: a) Vita in Santuario, ossia una breve cronistoria della vita in Santuario, oggi. Riteniamo che interessi i lettori del Messaggero e, nel contempo, contribuisca a mantenere viva l’attenzione e l’amore alla Madonna del Sasso nel nostro tempo; b) Echi dal passato, ossia qualche cenno alla storia passata del Santuario, perché risulta non solo interessante, ma anche significativo e stimolante accostare l’oggi all’ieri, in un contesto di confronto che porti a riflettere e a far tesoro delle suggestioni che ci vengono dal presente e dal passato; c) Arte in Santuario, ossia: visto il successo dei lavori di restauro, riferendoci in particolare di quelli riguardanti stucchi e affreschi che sono in Santuario, presentare di volta in volta, quando è possibile, almeno alcuni di essi, con brevi annotazione di carattere storico e artistico, così da coglierne e apprezzare il messaggio umano e di bellezza, spirituale e di fede che ci trasmettono. d) Documenti di pietà, ossia: racconti o testi di preghiera del presente e del passato riguardanti la Madonna del Sasso, anche qui per un momento di riflessione e di confronto che stimolino la creatività. Evidentemente non sarà possibile seguire regolarmente tutt’e quattro questi filoni d’attenzione. Lo faremo in forma alternata, privilegiando per ora soprattutto i primi due.
Vita in Santuario Domenica 1 Settembre, Festa solenne della Madonna del Sasso, era presente al Santuario, come di consueto, il vescovo della diocesi di Lugano, mons. Pier Giacomo Grampa. Ha presieduto la celebrazione eucaristica delle ore 10.00, offrendoci all’omelia un magistrale, ma soprattutto incisivo, commento alla brano del Vangelo di Luca 14,7-14, che invita a scegliere l’ultimo posto, perché chi si esalta sarà umiliato, mentre chi si umilia sarà esaltato. Al termine dell’omelia ha espresso un caloroso ringraziamento a fra Agostino, eletto alla carica di provinciale dei frati Cappuccini della Svizzera al capitolo tenutosi a SaintMaurice dal 2 al 7 Giugno 2013. «Lo ringraziamo – ha detto il vescovo – per il bene che ha compiuto in Ticino in tutti questi anni con la sua presenza saggia, discreta, ricca di interiorità. Lo ringraziamo per essere stato guardiano qui al Sasso durante gli ultimi anni del restauro». Nel contempo gli ha rivolto l’augurio di intraprendere, «con lo spirito del Vangelo di oggi», il suo nuovo ministero a favore del suo Ordine e della Chiesa svizzera. Il suo augurio si è poi esteso al nuovo superiore della Madonna del Sasso, «tanto caro alla gente del nostro Ticino». Con la definitiva partenza di fra Agostino per Lucerna, agli inizi di Ottobre, ci siamo trovati nella condizione di organizzare a nuovo la nostra vita di fraternità, distribuendo, secondo le predisposizioni e le possibili-
tà di ognuno, i compiti di servizio al Convento e Santuario del Sasso. Fra Andrea Schnöller è stato nominato nuovo superiore della comunità. Fra Titus Bärtsch, proveniente dal convento di Brig, prende il posto lasciato vuoto dalla partenza di fra Agostino e sostituirà, in qualità di vicario, fra Andrea nei periodi di assenza; a lui, inoltre, è stata assegnata la responsabilità della pastorale in lingua tedesca al Santuario. Fra Joseph Chalisseri Thomas, giovane frate indiano, proveniente dalla provincia cappuccina di Pavanatma, è stato incaricato della gestione economica del Convento-Santuario Madonna del Sasso; è coadiuvato da fra Angelico Forni che, insieme a fra Andrea e frate Nicolao, si trova già da diversi anni al Convento del Sasso. A fra Nicolao Rezzonico di Locarno è stata assegnata, alla bella età
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di oltre 90 anni, la portineria e la cucina, in fraterna collaborazione con gli altri membri della comunità. L’età media dei frati presenti alla Madonna del Sasso è di anni 74. Risulterebbe decisamente più elevata se non avessimo la fortuna di avere tra noi fra Joseph Chalisseri Thomas, di 35 anni. Fra Andrea, fra Nicolao e fra Angelico Forni sono, per quel che riguarda gli anni di presenza, i veterani del Sasso. Sono giunti insieme al convento di Orselina nel 1967 e, ad eccezione di fra Angelico, assente dal Sasso dal 1970 al 1990 per servire il convento di Bellinzona, sono rimasti stabilmente fissi in questo luogo. Tra il personale esterno che presta servizio al Santuario-Convento della Madonna del Sasso figura anzitutto Jean-Pierre Nicolet, sagrestano. Anche Mirella Porta-Ferrari e Adriana Antonucci-Gabbani sono impegnate da diversi anni al Sasso, offrendo il loro prezioso servizio, sia pure a tempo limitato, in cucina la prima, e quale addetta ai lavori domestici e di governo della casa la seconda. Un’importante collaborazione ci viene pure da Lucia Zamboni, fedele organista del Santuario; e da Gérard Rovelli, ospite del convento del Sasso dopo il suo rientro dal Ciad, dove fu collaboratore di Mons. Rosario Ramolo, vescovo della diocesi di Gore. A dispetto del livello decisamente alto dell’età media dei fratelli presenti al Sasso, tutti godono ancora di una discreta buona salute e ognuno dà, sia pure in misura diversa, il proprio contributo alla vita del Santuario. Sono lieti di servire il Signore e i fratelli in questo luogo solitario che, persino nei momenti di maggiore afflusso di pellegrini e turisti, rimane comunque un «eremo», ossia un luogo isolato dal resto del mondo, avvolto in un clima di silenzio e raccoglimento. Tale lo è soprattutto nei mesi invernali, quando l’afflusso di pellegrini e turisti si riduce drasticamente e la presenza di fedeli si fa sempre più irregolare e rarefatta anche negli stessi giorni di domenica e di festa. Quest’anno – forse anche a motivo delle precarie condizioni atmosferiche – il concorso di fedeli al Santuario è stato ridottissimo persino in occasione delle Feste Natalizie e di Capodanno. Il presepe allestito con impegno e gusto dal nostro sagrestano Jean-Pierre, con le belle statue d’inizio del secolo scorso e messe a nuovo da Lorenzo Cancelli, restauratore della Ditta Pasinelli Francesco di Locarno, non è stato in grado di abbattere le incertezze e le resistenze causate dal maltempo. Intanto, però, già cominciano ad annunciarsi i primi gruppi di pellegrini per i prossimi periodi di primavera ed estate. Insieme ai gruppi di pellegrini, in
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calendario figurano anche alcune proposte di carattere più culturale: Sabato 15 Febbraio ha già avuto luogo, mentre vi scriviamo, l’incontro con il gruppo di canti e danze medievali organizzato da Paolo Tomamichel di Bosco Gurin, che si è esibito nel chiostro del convento e sul sagrato della chiesa per un pubblico ridotto, ma partecipe e riconoscente.
Sabato 5 Aprile 2014 si esibisce, invece, l’Ensemble vocale maschile «Ermitage» di Pietroburgo. Eseguirà, sotto la direzione di Alexander Alexeev, canti sacri della tradizione russa. L’arrangiamento di opere impegnative per solo quattro voci è stato curato dal direttore del gruppo, che già in altre occasioni si è esibito al Santuario lasciando letteralmente a fiato sospeso il pubblico convenuto, sia per la potenza, ma anche la finezza delle esecuzioni. L’annunciato concerto si terrà in Basilica alle ore 20.15. L’ingresso è libero. Il ricavato delle offerte volontarie, invece, sarà interamente devoluto al mantenimento delle famiglie dei coristi. Per informazioni sul coro: www.ermitage.org. Giovedì 1 Maggio 2014 Stefano Keller, organista della chiesa parrocchiale di Santa Teresa di Viganello, sarà presente al Santuario con i bambini del «Piccolo Coro di Santa Teresa», dell’omonima parrocchia di Viganello, diretto dalla maestra Annamaria Marzini. Con i loro canti, i giovanissimi cantori condecoreranno la santa Messa che si celebrerà appositamente per loro verso le ore 10.30. Sabato 20 Settembre 2014 alle ore 20.00 sarà offerto in Santuario un concerto strumentale e corale diretto da Michaela Kals. Eseguiranno brani di musica classica e canti religiosi d’impronta soprattutto mariana.
Messaggio dal Santuario Echi dal passato Un giorno non meglio definito del 1480 fra Bartolomeo Piatti d’Ivrea lasciava – come a tutti è noto – il convento di San Francesco in Locarno per ritirarsi sul Saxum de la Rocha e porre le fondamenta di quello che diventerà in seguito il Santuario della Madonna del Sasso. Quali che fossero le sue intenzioni, un dato è certo: alle primissime costruzioni sul Monte – una chiesuola o cappella dedicata alla Vergine Avvocata; due oratori, tra cui quello della Pietà consacrata nel 1487; e una minuscola abitazione per il frate – si aggiunse ben presto un’ulteriore costruzione, quella della chiesa innalzata ai piedi del Monte, vera e propria porta d’ingresso al Saxum de la Rocha, consacrata alla Vergine dell’Annunciazione nel 1502. In questa chiesetta ai piedi del Monte fu sepolto fra Bartolomeo d’Ivrea tra il 1511/1513. Negli anni successivi alla morte di fra Bartolomeo si diede inizio, a partire dal 1513 fino ai primi due decenni del 1600, alla costruzione di ulteriori cappelle. Le prime, innalzate lungo la via della Valle – quella che dalla chiesetta dell’Annunciata conduce, fiancheggiando il torrente Ramogna, verso la cima del Sasso – sono: le cappelle della Visitazione, della Natività e dell’Adorazione dei Magi. Alla costruzione delle seconde si diede principio a partire dal 1617, nelle immediate vicinanze del Santuario e al di sopra di esso. Sono o furono le cappelle della Santa Cena, della Risurrezione e della Pentecoste, ancora esistenti; e quelle della Veronica, del Calvario, della dell’Ascensione andate, col passare degli anni, in completa rovina. Anche il nucleo originario della chiesuola o cappella della Vergine Avvocata, innalzato da fra Bartolomeo sulla cima del Monte fin dall’inizio della sua avventurosa esperienza, fu oggetto, già in quegli anni, di continui ampliamenti e abbellimenti e, alla fine, fu ribattezzata e divenne, da chiesuola della Vergine Avvocata, la chiesa che ancora oggi porta il titolo di Chiesa della Beata Vergine Assunta. 1480-1530 sono dunque gli anni in cui il complesso architettonico del Sasso raggiunse il suo massimo splendore e assunse progressivamente le connotazioni del Sacro Monte dedicato alla Vergine Maria. Del suo fascino – che non è solo architettonico, ma anche di paesaggio – possiamo farci una pallida idea seguendo la descrizione che ce ne danno, nel 1625, il canonico Giacomo Stoffio di Locarno e, nel 1677,
padre Michele Leoni del convento di San Francesco in Locarno, il quale, nella sua «Descrittione della devotissima chiesa di Santa Maria del Sasso sopra il magnifico borgo di Locarno», riferisce per intero il testo dello Stoffio, aggiungendo di proprio, in corsivo, notizie dei cambiamenti avvenuti sul Monte nei 50 anni successivi, dal 1625 al 1677. Riportiamo integralmente il testo dello StoffioLeoni, rinunciando alla prima intenzione o tentazione di intervenire sul testo per renderlo più accessibile al lettore di oggi. Per facilitarne comunque la lettura premettiamo di volta in volta ai testi riportati una breve sintesi dei contenuti. Descrizione della devotissima chiesa di Santa Maria del Sasso ad opera di Giacomo Stoffio di Locarno e Michele Leoni, francescano Riassunto. Il salmista, «poeta delle divine lodi», aveva a cuore una cosa soltanto: la lode di Dio. Egli considera la più nobile attività tra tutte le nobili attività dell’agire cristiano. A questa lode si uniscono anche tutte le altre creature dell’universo, le quali lodano Dio con la loro stessa presenza e, nel contempo, stimolano l’uomo, costituito loro signore, a fare altrettanto. L’invito alla lode di Dio, però, ci giunge soprattutto attraverso la testimonianza dei santi. Tra questi poi, chi emerge al di sopra di tutti è la gloriosissima Vergine Maria. Essa ci soccorre sempre e ovunque, quando la invochiamo. La sua materna sollecitudine, però, si manifesta e rifulge soprattutto in alcuni luoghi, che sono diventati luoghi di pellegrinaggio, d’incontro e di grazia. Tali luoghi sono, ad esempio la Santa Casa di Loreto, nella quale vissero e operarono Maria, Giuseppe e Gesù. Trasportata dagli angeli da Nazareth in Schiavonia, in riva al mare Adriatico, fu trasferita in seguito nel territorio di Recanati: prima nella Selva di Laureta, poi sul colle dei due fratelli Simone e Stefano Antici, e in fine sulla cima di una collina coperta di lauri, chiamata appunto Lauretum. Altro luogo insigne della materna e sollecita presenza di Maria è la miracolosissima chiesa della Madonna del Pilar di Saragoza, fabbricata per ordine esplicito della Vergine all’apostolo San Giacomo Maggiore. Famosissima è pure la Chiesa di Santa Maria Maggiore in Roma, costruita su esplicito comando di Maria, che ella impartì a papa Liberio, 36° vescovo di Roma, e ai coniugi Giovanni, patrizio romano, e a sua moglie.
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Altri luoghi notissimi di pellegrinaggio mariano sono: la Madonna di Casale Monferrato nei pressi di Serralunga di Crea, in provincia di Alessandria. Con esso si deve menzionare il santuario di Santa Maria presso San Celso di Milano, le cui origini risalgono ai tempi di sant’Ambrogio, ma divenne luogo di grande concorso di fedeli in seguito alla costruzione del nuovo tempio, che risale al 1485, a cinque anni di distanza dagli inizi della devozione alla Madonna del Sasso. Non meno celebre e famosa è la chiesa di Santa Maria del Monte sopra Varese, contemporanea al santuario del Sasso, anche se le sue più lontani origini risalgono, come quelle di Santa Maria di Milano, ai tempi di sant’Ambrogio. Tra questi gloriosi luoghi che celebrano la materna sollecitudine di Maria, figura anche il nostro Santuario della Madonna del Sasso, meta di grande concorso di genti, e di cui ora vi parlerò, ben consapevole che, sia il luogo che colei che lo abita, meriterebbero ben altro genio e penna. Ma ecco il testo originario dello Stoffio-Leoni.
«Quell’illustrissimo Poeta delle divine lodi, cui null’altro più premeva che‘l glorificare la Divina Maestà, a questa, che tra le più nobili operazioni del cristiano nobilissima è, invitava eziandio le creature irragionevoli, le quali, ancorché mutole, pur con tanti simboli alle lodi del loro Creatore prorompono, eccitando e incitando a ciò l’uomo, dall’Altissimo Iddio di tutte quelle costituito signore; e però, sì gran beneficio riconoscendo, se altro non può, questo almeno ricco tributo della gloria render gli deve: «Faciet te excelsiorem cunctis gentibus, quas creavit in honorem, et nomen, et gloriam suam»;1 e tanto più si dee a ciò la creatura intellettuale indurre, quando che tra le altre sola dotata si conosce di mente e voce, con le quali a Dio il debito della gloria e per se stessa e per le altre creature è tenuta sodisfare. Ma se si trova in obligo l’huomo di glorificare la Divina Maestà nelle cose da quella fatte, tutto che basse e vili, quanto maggiormente sarà dovuto esaltar l’istessa nelli suoi santi? Al che appunto ci invitava il già detto serenissimo Salmista: «Laudate Dominum in sanctis eius».2
Hor se lodar si deve il Signor’ Iddio ne’ suoi santi, non è di gran lunga maggior l’obbligo, che habbiamo di glorificarlo nella gloriosissima Vergine Madre dell’Unigenito suo? La quale prima di tutti i secoli eletta et riserbata fu per Tabernacolo di Dio, in cui a pieno si diffuse quella pienezza di grazia che ne gli altri Santi fu partitamente divisa; peroché, ove questi hebbero il colmo, ivi quella gettò il fondamento della sua grandezza: «Fundamenta eius in montibus sanctis»;3 ed ella di se stessa disse: «Radicavi in populo honorificato, et in plenitudine Sanctorum detentio mea».4 E’ questa, Maria, quel specchio senza macchia che mostrossi a tutti lucidissimo e purissimo per farli imitare da tutte le persone di ogni sesso e da tutte le etadi; e così essendo da noi lodata e imitata nelle sue virtù, in quanto le debil nostre forze possono arrivare, sarà il mezzo efficacissimo per ottenerci dal Cielo ciò che sia bisogno per la nostra salute. Et se bene a questa Celeste Imperatrice in ogni luogo ricorrer possiamo, conciosia che per tutto ella soccorre a quanti gli dimandano aiuto; nondimeno più spesso, e più mirabilmente si vede che soccorre in alcuni particolari luoghi, che lei s’ha eletti, come vediamo chiaramente della Santa Casa di Loreto, la quale, se bene è l’istessa che habitò mentre visse in Nazarette, pure volse conceder in quella grazie, hor in Schiavonia, su’l lido del Mare Adriatico, hor nel Territorio di Recanati, prima nella Selva di Laureta, poi nel colle delli due fratelli, ed ultimamente nel mezzo della via pubblica dell’istessa comunità dove, essendo, come fu ne gli altri luoghi, portata da gli Angeli, si compiace dimostrare quelle grazie e miracoli che hoggidì a tutti sono noti e manifesti. Il medesimo si vede apertamente in altre chiese che in lei honore furono fabricate; e massime in alcune, di particolar sua commissione erette; del che ne fa chiaro testimonio, fra gli altri, l’antichissima e miracolosissima chiesa della Madonna del Pilar di Saragoza, che fabbricata fu per particolare ordine di Maria Vergine all’Apostolo S. Giacomo Maggiore, il quale, mentre colà predicava, andando una notte per la riva del Fiume Ebro con certi pochi suoi discepoli per meglio ammaestrarli ed insegnar loro il modo di fare orazione, vidde sopra una colonna che quivi era, la Signora de gl’Angeli, da grandissimo numero di quelli – che in lei lode con dolcissima armonia
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Le sue fondamenta sono sui monti santi.
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Ho posto le mue radici in mezzo a un popolo glorioso, e tra i santi è la mia dimora.
I Santuari mariani, luoghi di grazia e di preghiera
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Ti ha posto al di sopra di tutte le genti, che egli creò per la gloria e la lode del suo nome. Celebrate Dio nei suoi santi.
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Messaggio dal Santuario
cantavano – accompagnata; perilché, inginocchiatosi l’Apostolo per far riverenza, essa gli disse: «Qui mi ti sono mostrata, o Apostolo del mio Figliuolo, acciocché in questo luogo tu procuri che mi sia fabricata una chiesa in mio nome, perché conosco che questo popolo della Spagna ha da esser mio fedele e divoto, onde sin d’hora lo piglio sotto la mia protezione. Il che detto, sparve. E subito l’Apostolo diede principio a far ivi fabricare una divota Capella, in cui ripose quella stessa colonna sopra la quale posò Maria Vergine, ed è quella che, essendo oggidì in tata venerazione, da il nome alla chiesa. Di Santa Maria Maggiore in Roma, sappiamo, che fu fabbricata in honore di Maria Vergine per particolar sua commissione, data a Liberio Sommo Pontefice, a Giovanni patrizio Romano, ed a sua moglie. Il simile si legge della chiesa, tanto nominata nella Christianità, della Madonna di Monferrato, qual si fabricò, perché certi pastorelli alcuni sabati da sera viddero sopra detto monte che in una caverna scendevano dal cielo lumi risplendentissimi e s’udivano armonie soavissime; il che, essendo da quei pastorelli notificato a’ loro padri, e da questi avisati li curati ed il vescovo, andarono processionalemente in quel luogo, ove ritrovarono un’Immagine della Madonna Santissima di rilievo; perilché si cominciò quella divozione, che hora è tanto frequentata. Et se dalle vicini divozioni vogliamo prender’
esempio, ciò pure ci conferma la devotissima chiesa di Santa Maria presso San Celso di Milano, qual hebbe origine d’un Immagine di Maria Vergine che Sant’Ambrogio fece dipinger sopra un pilastro nel luogo ove ritrovò il corpo di San Nazaro; dove, essendosi in progresso di tempo fabriacata una maggior chiesa, fu la detta Immagine collocata sopra l’altar; nel quale, celebrandosi una volta l’anno 1485 – cinque anni doppo che si cominciò nominar la nostra di Santa Maria del Sasso – apparvero visibilmente duoi angeli, quali alzarono il velo, che era avanti la santa Immagine; e la Santissima Vergine, volendo mostrare che aggradiva d’esser ivi riverita et honorata, affacciossi alla crate, che anco oggidì si vede; onde crebbe molto più concorso et divozione de’ fedeli. A questa chiesa, fra le prime d’Italia nominata et frequentata, non meno celebre et famosa è la chiesa di Santa Maria del Monte sopra Varese, quale nell’istesso tempo hebbe principio, et dal medesimo Santo a cui, dopo la segnalata vittoria che ottenne contro gli Arriani sopra l’istesso monte, comparve visibilmente la Santissima Vergine; per il che, conoscendo che ella si compiaceva d’esser quivi invocata, in rendimento di grazie fece fabricare una capelletta et altare, quali da lui furono consacrati in honore dell’Assonzione di Maria Vergine; et così di tempo in tempo fu maggiormente visitato et frequentato questo Sacro Monte, come appò d’ogn’uno è noto e conto. Hor, se queste e altre chiese sono in tanta venerazione, perché hebbero, nel modo che s’è detto, i loro principij, a loro pari caminar deve certo questo, ch’io sono per descrivere, sacro tempio, addimandato La Madonna del Sasso; il quale fu cominciato a fabricare per non dissimile occasione dalle sudette et in cui, dal sublime suo seggio, esaudisce Maria Vergine i prieghi de’ supplicanti, acciocché questo di dì in dì più sia frequentato. Era questa invero impresa di più ben temperata penna, et non della più inetta che sia in questo Borgo, come è la mia; tuttavia il desìo immenso che ho sempre avuto et ho di servire a questa santissima Vergine, così per i meriti suoi come per le molte grazie per mezzo suo ottenute e che d’ottener spero, mi ha somministrato ardire per rendergli, se non il tributo ch’io devo, quello almeno che posso, conforme la debolezza mia; sperando che ella (tanto benigna) non sdegnerà quel poco che in lei lode dirò per risvegliare et accrescere la divozione a questo suo Sacro Tempio, a cui essa volse che nel seguente modo si desse principio.
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Straordinaria partecipazione al questionario sulla famiglia
L
’invito dei Vescovi a rispondere al questionario sulla pastorale famigliare elaborato dall’Istituto di socio logia pastorale di San Gallo (riassunto del questionario vaticano di 38 domande) ha raccolto una grande rispondenza da parte dei cattolici svizzeri, con oltre 25’000 risposte, per i tre quarti tramite internet (una risposta ogni cento cattolici adulti), mentre le risposte dal Ticino sono state solo 444. Secondo quanto riferito dalla stampa i dati indicano un elevato tasso di approvazione al matrimonio religioso (89%) e all’educazione religiosa dei figli (97%): hanno cioè risposto cattolici convinti, per cui vanno prese seriamente in considerazione le risposte relative alla benedizione e ai sacramenti per le coppie risposate (90% favorevoli) e per quelle omosessuali (60 favorevoli). La consultazione ha inaugurato una nuova forma di comunicazione nella Chiesa che, proprio per la larga partecipazione, ha dimostrato essere una necessità che non deve restare un fatto isolato. L’Istituto provvederà ad elaborare una sintesi con un lavoro che richiederà qualche mese. Secondo il vescovo Valerio Lazzeri, “con questo mezzo si è tentato di ravvivare, prima di tutto nei battezzati, un senso di corresponsabilità nella preparazione di un Sinodo chiamato a riflettere su questioni che riguardano una così larga parte del popolo di Dio in cammino nella storia”. MESSAGGERO non ha potuto tempestivamente suggerire ai propri lettori di partecipare alla consultazione ma, proprio perché occasione di riflessione, invita a rispondere comunque ora al questionario: a pag. 15 trovate la presentazione ufficiale dell’iniziativa. Compilate la scheda nell’inserto qui a fianco e inviatela alla Redazione (Salita dei Frati 4 – 6900 Lugano) entro il 30 aprile prossimo. MESSAGGERO sintetizzerà i risultati in un prossimo numero e li trasmetterà direttamente ai Vescovi e alla Segreteria del Sinodo (che terrà la prima riunione nel prossimo ottobre).
I lettori ci scrivono... Egregi collaboratori, un vivo grazie per il “Messaggero” che offre sempre una lettura interessante e nella giusta misura erudita (non specialistica). I contributi di questo ultimo numero, ad esempio, quello di E. Borghi suscita il desiderio di una ‘Scuola della Parola’ propria al Cardinal Martini; quello di A. Lepori apre l’orizzonte, spesso limitato tristemente al nostro piccolo, sulla situazione del cristianesimo nel mondo; e quello di M. Corti stimola a andare a conoscere i sacri monti coscienti della loro poco nota origine. Grazie! Felicitazioni! Maria Teresa B.C.
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Ricevo un invito standard a rinnovare l’abbonamento al Messaggero. Come già comunicato in uno scritto precedente, in cui ho sinteticamente illustrato le motivazioni che mi hanno portato dopo vari anni e molta pazienza a non rinnovare l’adesione alla pubblicazione, confermo quanto già scritto: non condivido alcune posizioni filo-protestanti e altre non il linea con il Catechismo della Chiesa Cattolica. Non ho mai ricevuto risposta ma sono sempre disponibile comunque ad approfondire i motivi delle mie affermazioni. Cristiani e cattolici saluti. Federico P.
Convento dei Cappuccini Salita dei Frati 4 CH - 6900 Lugano
Consultazione sulla pastorale della Chiesa cattolica su matrimonio, famiglia e vita di coppia
Grazie per la sua partecipazione!
Consultazione sulla pastorale della Chiesa cattolica su matrimonio, famiglia e vita di coppia Domande inerenti il matrimonio
molto poco non importante importante importante importante 1 2 3 4
Pensate che il matrimonio religioso sia...
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piuttosto no 3
no 4
nessuna risposta non so 5
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molto favorevole 1
favorevole 2
poco favorevole 3
sfavorevole 4
nessuna risposta non so 5
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si 1
piuttosto sì 2
piuttosto no 3
no 4
nessuna risposta non so 5
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Domande inerenti al partenariato omosessuale
si 1
piuttosto sì 2
piuttosto no 3
no 4
nessuna risposta non so 5
Ti auguri che la Chiesa riconosca e benedica le coppie omosessuali?
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Vi siete sposati in chiesa?
(Se sposati in chiesa) Vi ricordate della preparazione al matrimonio prima delle nozze? (Se SI) La preparazione al matrimonio è stata utile per la vostra vita matrimoniale? Durante un’eventuale crisi matrimoniale, avete beneficiato del sostegno di sacerdoti/agenti pastorali o di altri?
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si 1
no 2
non sposati 3
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si 1
piuttosto sì 2
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nessuna risposta non so 5
Come si è configurato tale sostegno? (per favore, se applicabile, descrivere brevemente il sostegno ricevuto)
Qual è il vostro punto di vista sul «matrimonio di prova» (la c.d. coabitazione preconiugale)?
Cosa dovrebbe fare la Chiesa per sostenere le persone in coppia/partenariato? (per favore, descrivere brevemente il sostegno auspicato)
Domande sui divorziati risposati È giusto secondo voi escludere dai sacramenti persone sposate in chiesa che hanno divorziato e si sono risposate con rito civile? Vi augurate che la Chiesa riconosca e benedica le coppie divorziate risposate?
Domande sulla trasmissione della fede in seno alla famiglia
si 1
no 2
Avete figli?
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si 1
piuttosto sì 2
piuttosto no 3
no 4
nessuna risposta non so 5
Ritenete che l’educazione cristiana dei figli sia importante?
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(Ai papà e mamme) Riuscite come genitori a trasmettere la fede ai vostri figli?
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Molto spesso 1
spesso 2
raramente 3
mai 4
nessuna risposta non so 5
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❏
Pregate assieme ai vostri figli?
se sì, quanti?
Partecipate ai riti religiosi con i vostri figli (per esempio prima che vadano a letto)? Se SI: per favore descrivere brevemente il rito...
Domande sui metodi contraccettivi
si 1
piuttosto sì 2
piuttosto no 3
no 4
nessuna risposta non so 5
Siete a conoscenza di metodi anticoncezionali naturali?
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Preferite far ricorso a metodi anticoncezionali non naturali?
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Domande sulle posizioni ufficiali della Chiesa in materia di vita di coppia, matrimonio e famiglia
si 1
piuttosto sì 2
piuttosto no 3
no 4
nessuna risposta non so 5
Vi è nota la dottrina della Chiesa sulla famiglia?
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Se conoscete almeno in parte la dottrina della Chiesa sulla famiglia, la condividete?
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Dove sono secondo voi gli ostacoli più grossi per la messa in pratica dell’ideale di famiglia promosso dalla Chiesa? (per favore descrivere brevemente)
Connotati personali:
Età:
Cantone di domicilio:
Sesso: ❏ M ❏ F ❏ non rispondo Stato civile: ❏ Celibe/nubile ❏ Coniuge ❏ Separato/a – Divorziato/a ❏ Vedovo/a ❏ Partenariato omosessuale
❏ Vive al di fuori della Svizzera Affiliazione confessionale/religiosa: ❏ cattolico-romana ❏ altra confessione cristiana ❏ altra comunità religiosa ❏ nessuna
Istruzioni per la spedizione: 1. Staccare l’inserto 2. Compilare 3. Piegare a metà con l’indirizzo all’esterno 4. Graffettare alla base 5. Affrancare 6. Spedire
Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione Il Sinodo: famiglia ed evangelizzazione La missione di predicare il Vangelo a ogni creatura è stata affidata direttamente dal Signore ai suoi discepoli e di essa la Chiesa è portatrice nella storia. Nel tempo che stiamo vivendo l’evidente crisi sociale e spirituale diventa una sfida pastorale, che interpella la missione evangelizzatrice della Chiesa per la famiglia, nucleo vitale della società e della comunità ecclesiale. Proporre il Vangelo sulla famiglia in questo contesto risulta quanto mai urgente e necessario. L’importanza del tema emerge dal fatto che il Santo Padre ha deciso di stabilire per il Sinodo dei Vescovi un itinerario di lavoro in due tappe: la prima, l’Assemblea Generale Straordinaria del 2014, volto a precisare lo “status quaestionis” e a raccogliere testimonianze e proposte dei Vescovi per annunciare e vivere credibilmente il Vangelo per la famiglia; la seconda, l’Assemblea Generale Ordinaria del 2015, per cercare linee operative per la pastorale della persona umana e della famiglia. Si profilano oggi problematiche inedite fino a pochi anni fa, dalla diffusione delle coppie di fatto, che non accedono al matrimonio e a volte ne escludono l’idea, alle unioni fra persone dello stesso sesso, cui non di rado è consentita l’adozione di figli. Fra le numerose nuove situazioni che richiedono l’attenzione e l’impegno pastorale della Chiesa basterà ricordare: matrimoni misti o inter-religiosi; famiglia monoparentale; poligamia; matrimoni combinati con la conseguente problematica della dote, a volte intesa come prezzo di acquisto della donna; sistema delle caste; cultura del non-impegno e della presupposta instabilità del vincolo; forme di femminismo ostile alla Chiesa; fenomeni migratori e riformulazione dell’idea stessa di famiglia; pluralismo relativista nella concezione del matrimonio; influenza dei media sulla cultura popolare nella comprensione delle nozze e della vita familiare; tendenze di pensiero sottese a proposte legislative che svalutano la permanenza e la fedeltà del patto matrimoniale; diffondersi del fenomeno delle madri surrogate (utero in affitto); nuove interpretazioni dei diritti umani. Ma soprattutto in ambito più strettamente ecclesiale, indebolimento o abbandono della fede nella sacramentalità del matrimonio e nel potere terapeutico della penitenza sacramentale. Da tutto questo si comprende quanto urgente sia che l’attenzione dell’episcopato mondiale “cum et sub Petro” si rivolga a queste sfide. Se ad esempio si pensa al solo fatto che nell’attuale contesto molti ragazzi e giovani, nati da matrimoni irregolari, potranno
non vedere mai i loro genitori accostarsi ai sacramenti, si comprende quanto urgenti siano le sfide poste all’evangelizzazione dalla situazione attuale, peraltro diffusa in ogni parte del “villaggio globale”. Questa realtà ha una singolare rispondenza nella vasta accoglienza che sta avendo ai nostri giorni l’insegnamento sulla misericordia divina e sulla tenerezza nei confronti delle persone ferite, nelle periferie geografiche ed esistenziali: le attese che ne conseguono circa le scelte pastorali riguardo alla famiglia sono amplissime. Una riflessione del Sinodo dei Vescovi su questi temi appare perciò tanto necessaria e urgente, quanto doverosa come espressione di carità dei Pastori nei confronti di quanti sono a loro affidati e dell’intera famiglia umana. La Chiesa e il Vangelo sulla famiglia La buona novella dell’amore divino va proclamata a quanti vivono questa fondamentale esperienza umana personale, di coppia e di comunione aperta al dono dei figli, che è la comunità familiare. La dottrina della fede sul matrimonio va presentata in modo comunicativo ed efficace, perché essa sia in grado di raggiungere i cuori e di trasformarli secondo la volontà di Dio manifestata in Cristo Gesù. Circa il richiamo ai documenti del Magistero sembra opportuno limitarsi ai documenti del Magistero universale della Chiesa, integrandoli con alcuni testi del Pontificio Consiglio della Famiglia e rimandando ai Vescovi partecipanti al Sinodo il compito di dar voce ai documenti dei loro rispettivi organismi episcopali. In ogni tempo e nelle più diverse culture non è mai mancato né l’insegnamento chiaro dei pastori né la testimonianza concreta dei credenti, uomini e donne, che in circostanze molto differenti hanno vissuto il Vangelo sulla famiglia come un dono incommensurabile per la vita loro e dei loro figli. L’impegno per il prossimo Sinodo Straordinario è mosso e sostenuto dal desiderio di comunicare a tutti, con incisività maggiore, questo messaggio, sperando così che «il tesoro della rivelazione, affidato alla Chiesa, riempia sempre più il cuore degli uomini» (DV 26).
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La Pasqua
C
on questo numero vogliamo iniziare una nuova rubrica sulla liturgia. Passeremo in rassegna la storia delle feste principali dell’anno, iniziando – come ovvio – con il triduo pasquale al quale ci avviciniamo.
1. Lasciamo perdere la questione della data della Pasqua che ancor oggi divide le Chiese cristiane e puntiamo subito all’inaugurazione del triduo pasquale con la messa vespertina “in coena Domini”. Fino al IV sec. nella liturgia romana non si trova traccia di una commemorazione della cena. L’unica liturgia eucaristica dei tre giorni era quella della veglia pasquale. A partire dal sec. VII si nota un’evoluzione: in questo giorno si è giunti a celebrare tre messe, una al mattino per la riconciliazione dei penitenti; una verso mezzogiorno per la consacrazione degli oli; una alla sera, per lo più senza la liturgia della Parola, a commemorazione della cena. La riforma del Messale e dell’anno liturgico voluta dal Vaticano II, ha posto la messa “in coena Domini” come apertura del triduo pasquale, ristabilendo in tal modo l’unità dei tre giorni “venerdì, sabato e domenica”. La celebrazione dalla messa “in coena Domini” viene fatta alla sera ed ha tono festivo. I testi biblici pongono in risalto che Cristo ci ha dato la sua pasqua nel rito della cena che esige, da parte della chiesa, il legame inscindibile, sul piano della vita, del servizio e della carità fraterna come condivisione del mistero della passione del Signore. In questo contesto va visto il rito della lavanda dei piedi, praticata fin dai tempi di S. Agostino, in seguito riservata per secoli alla sola chiesa cattedrale poi, con la riforma di Pio XII del 1955, permessa in tutte le chiese. Al termine della celebrazione eucaristica, le sacre specie vengono solennemente portate ad un luogo debitamente preparato perché siano adorate fino alla mezzanotte e conservate per la comunione nell’azione liturgica del venerdì santo. In tal modo viene significato tutto il culto che si deve al mistero eucaristico nella e fuori della messa. Non si tratta quindi di un “sepolcro”, bensì di una solenne ostensione del tabernacolo che contiene le sacre specie. 2. Venerdì Santo, primo giorno del triduo. La Chiesa celebra il mistero della morte di Cristo nel primo giorno del triduo pasquale con una solenne liturgia della Parola. Come giorno di digiuno pieno, fin dalle origini, il venerdì santo non ha mai compreso le celebrazione eucaristica. Alle letture seguono – secondo l’ordine già indicato da Giustino nel II sec. – le orazioni solenni o “preghiera universale”.
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Al posto della parte eucaristia, si compie il rito dell’adorazione della croce, di origine gerosolimitana. La celebrazione, secondo l’antica usanza romana, anche se varia nelle sue modalità, si conclude con la comunione. Nel venerdì della passione e morte del Signore va religiosamente osservato il digiuno chiamato significativamente con l’appellativo di “pasquale”. Tale digiuno è consigliato protrarlo, se possibile, fino all’eucaristia della notte pasquale, “in modo da giungere con animo sollevato e aperto ai gaudi della domenica di risurrezione”. Il digiuno del venerdì santo è segno sacramentale della partecipazione al sacrificio di Cristo; infatti “sono giunti i giorni nei quali lo sposo è tolto”, perciò, secondo l’indicazione di Gesù, i discepoli digiuneranno. 3. Sabato Santo, secondo giorno del triduo. Il sabato santo, almeno fin dal II sec., è sempre stato giorno di rigoroso digiuno e, perciò, a-liturgico, cioè senza celebrazione eucaristica. Non ci si riuniva neppure in assemblea, per rinunciare alla gioia del ritrovarsi insieme. Dopo il lungo periodo secolare in cui, perduta l’unità del triduo pasquale, si era perduto il significato del sabato santo con l’indebito anticipo dei riti della veglia al mattino di questo giorno, nel 1955 la riforma di Pio XII ha restituito al sabato il suo carattere “a-liturgico”. La chiesa in questo giorno si raccoglie soltanto per la celebrazione della liturgia delle ore. Con la preghiera viene celebrato il riposo di Cristo nella tomba dopo il vittorioso e glorioso combattimento della croce e viene meditato il mistero salvifico della discesa di Cristo nel mondo della morte dove “in spirito andò ad annunciare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione”. 4. Domenica della Risurrezione, terzo giorno del triduo. Il sabato santo fin dall’inizio era concluso da una celebrazione vigiliare, che sfociava nell’alba della domenica con l’offerta dell’eucaristia. Inizialmente il rito non aveva nulla di diverso da quello di tutti i sabati; la prima celebrazione liturgica cristiana, infatti, fu la vigilia domenicale. In questo senso va interpretata l’espressione di S. Agostino che chiamava la notte pasquale “madre di tutte le vigilie”. Il rito romano si è andato arricchendo nel corso dei secoli di elementi non originari romani, come il rito del fuoco e quello del cero, che costituivano l’inizio della veglia.
Capire la liturgia Dal II sec. la notte pasquale si è caratterizzata anche per la celebrazione del battesimo come parte integrante della veglia. Tutto poi si completava nell’offerta del sacrificio eucaristico al quale partecipavano per la prima volta i neo battezzati. Attualmente, anche dopo la riforma del Vaticano II, la veglia pasquale è caratterizzata in senso battesimale, per cui si esige che tale indole – per quanto è possibile – sia rispettata non soltanto con la rinnovazione delle promesse battesimali, degli adulti, ma soprattutto con un’effettiva celebrazione del battesimo. La celebrazione si svolge interamente nella gioia della pasqua e con un rimo progressivamente ascensionale che sfocia nella liturgia eucaristica, la vera eucaristia pasquale. Dopo i riti introduttivi della benedizione
del fuoco e dl cero con il canto del preconio pasquale, si celebra la liturgia battesimale e quindi la liturgia eucaristica. I diversi momenti della celebrazione vanno considerati come un “tutto unitario” che esplicita il mistero pasquale con la proclamazione della Parola e la sua attuazione mediante i sacramenti dell’iniziazione cristiana. Il simbolismo fondamentale della celebrazione della veglia pasquale è di essere una “notte illuminata”, anzi una “notte vinta dal giorno”, dimostrando mediante i segni che la vita della grazia è scaturita dalla morte di Cristo. Per questo la veglia, in quanto pasquale, è notturna per sua natura. Il passaggio dalle tenebre alla luce.
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Il fascino dei presepi
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ontinuano a stupire i parecchi (oltre una trentina) presepi esposti nella chiesa del Sacro Cuore di Bellinzo na visitati da un alto numero di persone provenienti da diverse parti del cantone e dalla Svizzera interna. Questa iniziativa è nata qualche anno fa, quando circolava la proposta di rinunciare ai simboli religiosi natalizi per rispettare le altre religioni non cristiane con le quali conviviamo. Questa proposta si è rivelata controproducente. In diverse località del cantone sono nate delle esposizioni di presepi, sia nella chiese come nelle strade, e sono aumentati i presepi nelle case, nonché i singoli collezionisti.
Nella chiesa del Sacro Cuore a questa esposizione è stato dato un nome significativo : «Percorso», perché il visitatore è invitato a prendere una guida appositamente preparata che gli permetta di sapere da dove vengono i singoli manufatti, da chi sono stati allestiti, con che materiale e, soprattutto, quale messaggio vogliono trasmettere. Al termine del «Percorso» il visitatore è invitato a scrivere un suo commento e a scegliere quello che gli è piaciuto di più; commoventi gli scritti dei bambini. Ogni anno, fra i diversi presepi, ve n’è uno «provocatorio». Molti ancora ricordano quello rappresentante Gesù che nasce fra i minareti, allestito l’anno in cui il popolo svizzero aveva proibito quei segni islamici sul suolo nazionale. Fu ripreso da giornali di mezza Europa; un quotidiano polacco gli dedicò un’intera pagina, per dimostrare che non tutti gli svizzeri sono così intolleranti verso altre religioni. Un anno Gesù Bambino è stato posto in un cassonetto della spazzatura, per ricordare quei neonati che vengono letteralmente
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«buttati via», come se fossero dei rifiuti. Quest’anno la provocazione è costituita da un manufatto che rappresenta un’onda del mare di Lampedusa che sovrasta l’imbarcazione sulla quale i profughi Giuseppe, Maria e il neonato Gesù tentano di scappare dagli orrori della guerra, opera di Walter Gianotti, primo premio. Fra i presepi esposti alcuni sono costruiti dai gruppi della comunità e sono i più impegnativi, come quello del «Gruppo presepisti» che gemellandosi con la parrocchia Santa Angela Merici di Milano ha sfruttato gli involucri da loro creati ed usati lo scorso anno. Vi sono presepi, o almeno personaggi, che sono stati acquistati durante pellegrinaggi che la comunità ha vissuto precedentemente. Anche i bambini del catechismo parrocchiale hanno costruito il loro presepio. Bello quello allestito dagli allievi delle scuole speciali di Lodrino e Biasca coordinati dalla loro catechista Giusi Pronzini. Parecchi presepi etnici sono raccolti in due bacheche a dimostrazione che in tutto il mondo, e fra tutte le culture, il presepio ha un fascino particolare. Alcuni presepi di sicura fattura artistica sono stati portati dai loro costruttori e saranno ritirati al termine della rassegna. Per la gioia dei bambini é stato potenziato il grande presepio in coro dove le statue degli artigiani si muovono. Altri sono stati regalati da generosi benefattori.
Attività al Bigorio
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on è la prima volta che il Convento del Bigorio organizza una giornata delle porte aperte e, quest’an no, sotto il patrocinio dell’Associazione Amici del Bigorio, rinnova questa possibilità allo scopo di mostrare al grande pubblico gli ambienti e le opere artistiche del convento attraverso una visita accompagnata. Questa visita servirà a dare informazioni utili sulla storia plurisecolare del convento e sulla sua funzione quale centro di irradiazione spirituale dalle origini a oggi e, in tempi più recenti, quale centro per giornate di studio e di formazione. La data scelta, non ancora definitiva, è quella di domenica 5 ottobre. Oltre a questa giornata, il programma per il 2014 prevede, come già avvenuto per gli anni passati, alcuni appuntamenti che hanno quale obiettivo quello di conoscere meglio gli artisti della nostra regione con esposizioni e concerti per i quali gli ambienti del convento sono una cornice ideale. Dopo la mostra sulle vetrate di fra Roberto, appena conclusasi, saranno presentate al pubblico le opere della tessitrice capriaschese Antonietta Airoldi, da mercoledì 28 maggio, e le opere del pittore ticinese Samuele Gabai, da sabato 4 ottobre. Oltre a queste esposizioni temporanee, sono in calendario anche alcuni concerti che vedranno protagonisti il coro della Chiesa di S. Stefano di Tesserete “Vos dra Capriasca”, che si esibirà nella chiesa del convento il prossimo 19 marzo alle ore 20.30. Per sabato 10 maggio, invece, è previsto il concerto degli allievi del Conservatorio di Lugano, sotto la direzione di Yamashita Taisuke. La promozione culturale svolta dall’Associazione Amici del Bigorio ha anche in serbo alcuni progetti a più lungo termine. Ad esempio, si stanno mettendo le basi per poter procedere ad una catalogazione completa dei libri presenti nella biblioteca settecentesca del convento, operazione molto onerosa e complessa a causa della fragilità e del valore storico dei libri presenti. Si stanno raccogliendo le adesioni di enti pubblici o fondazioni in modo da riuscire a reperire i fondi necessari a questo scopo. Si sta pure mettendo in atto un’operazione altamente culturale e preziosa che è quella di poter preparare una catalogazione precisa e corredata di perizie artistiche della quadreria del convento. Questo materiale sarà di aiuto per un’eventuale esposizione al pubblico di queste opere artistiche che possono essere
attualmente viste solo da chi entra in convento. Più legato all’attività principale del Convento del Bigorio, cioè quella di centro seminariale, è invece il progetto del Comitato dell’Associazione di rinforzare la comunicazione verso i media non solo in Ticino ma anche verso la Svizzera Tedesca e l’Italia, in modo da far conoscere l’offerta del Bigorio quale sede per conferenze, seminari e giornate di studio. Anche questo è un modo per conoscere il convento del Bigorio, sempre nuovo, nonostante i quasi cinque secoli di storia.
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Religioni nel mondo Cristiani perseguitati L’indice mondiale di persecuzione propone ogni anno una classifica dei cinquanta Paesi in cui la pratica del cristianesimo è più pericolosa. Questo studio è elaborato dall’associazione Portes Ouvertes, creata in Svizzera nel 1979, il cui scopo è di permettere ai cristiani del mondo di praticare la propria religione dovunque si trovino. Da 12 anni, la Corea del Nord è in testa ai Paesi dove i cristiani sono più duramente perseguitati. La Somalia e la Siria occupano il secon do posto e il terzo di questa classifica. Possedere una Bibbia può costare la vita ai cristiani della Corea del Nord. Essi sono circa 400’000, di cui 50’000/70’000 sono internati in campi, dove sono torturati e spesso uccisi. Per sopravvivere in quella dittatura comunista, essi devono praticare la loro religione nella clandesti nità. L’arrivo al potere del giovane Kim Jong Un, nel 2011, aveva suscitato la speranza di un miglioramento. Ma la Corea del Nord resta in testa alla lista mondiale di persecuzione del 2014. La situazione è preoccupante anche in Africa, dove la Somalia occupa il secondo posto della classifica. In quel Paese, situato all’estremità orientale del corno d’Africa, la religione ufficiale è l’Islam. E la libertà religiosa non è protetta né dalla Costituzione né da alcuna disposizione legale. Meno dell’1% dei somali sono cristiani ed essi praticano la loro fede nella massima segretezza. Ma la Somalia non è l’unico Paese africano in cui imperversa l’oppres sione. Anche la situazione generale dei Paesi della cintura saheliana è delicata. Per esempio, la Repubblica Centrafricana sta subendo violenti conflitti dal marzo scorso. Milizie cristiane si oppongono ai ribelli musulmani e oltre 400’000 persone hanno lasciato il Paese. Nel Medio Oriente, la Siria è risalita al terzo posto della classifica del 2014, mentre occupava l’11. posto nel 2008. I cristiani sono diventati il bersaglio delle milizie jihadiste da quando sono iniziate le proteste contro il governo di Bachar el-Assad, perché sono considerati come sostenitori di quel regime. Sono circa 1.9 milioni a vivere in Siria e finora hanno beneficiato della libertà di culto, ma la situazione sta cambiando. Dall’inizio dei conflitti nel marzo 2011, sono sempre più numerosi a cercare di lasciare il Paese. Se l’lslam radicale è una delle principali cause di persecuzione, anche la situazione in Paesi quali la Colombia, lo Sri Lanka, l’India o il Vietnam si sta deteriorando. In Colombia, attualmente al 25. posto della classifica, mentre occupava il 46. lo scorso anno, la situazione si è nettamente deteriorata a causa di attacchi di gruppi di guerriglia.
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I cartelli della droga e i narcotrafficanti intrattengono una violenza costante, e i cristiani sono spesso rapiti e assassinati perché rifiutano il riscatto. Lo Sri Lanka, che non faceva parte dei cinquanta Paesi più pericolosi, ha raggiunto il 29. posto nel 2014: nuovi gruppi di buddisti estremisti sono all’origine di oltre cinquanta aggressioni contro chiese. La diplomazia vaticana tra Santa Sede e Chiesa La Santa Sede intrattiene relazioni diplomatiche bilaterali con 181 Stati, le ultime concluse con il Sudan del Sud e lo Stato Palestinese. Il Sud-Sudan è stato riconosciuto come Stato indipendente dalle Nazioni Unite sul finire del 2012, mentre per la Palestina il riconoscimento come Stato è avvenuto dopo la decisione delle Nazioni Unite, mentre da tempo esistevano relazioni con l’Autorità palestinese dei Territori. Ai 181 Stati sono da aggiungere l’Ordine sovrano di Malta e la Unione Europea, mentre la Santa Sede partecipa a numerose organizzazioni internazionali ed a organismi internazionali, tra le quali l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Agricoltura e l’Alimentazione (FAO) e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e anche …la Lega degli Stati Arabi! Dei 181 Stati che tengono relazioni bilaterali, ben 77 Stati hanno un ambasciatore residente a Roma (gli ultimi arrivati dall’Armenia e dal Ghana), segno dell’importanza che è riconosciuta a questi rapporti; l’aumento degli Stati rappresentati è intervenuto specialmente negli ultimi decenni, da un’ottantina all’attuale situazione quasi “universale”. Tra le assenze più “significative”, quelle della Cina popolare e del Vietnam. Questa attività della Santa Sede (che non è lo Stato della Città del Vaticano, ma una organizzazione religiosa riconosciuta di diritto internazionale) presenta aspetti singolari che non mancano di creare problemi politici ed ecumenici. Né il Consiglio ecumenico delle Chiese di Ginevra, né singole Confessioni cristiane (Anglicani, Luterani, le Chiese ortodosse) o le grandi e storiche religioni usufruiscono di questo riconoscimento, che permette alla Santa Sede una rilevante presenza mondiale, con aspetti anche discutibili, come l’adesione al Trattato antiatomico o alla Carta di Helsinki (che riconosce tutti i diritti umani). E anche situazioni imbarazzanti, come il recente esame a Ginevra sul rispetto dei Diritti del fanciullo, dove la Santa Sede è stata giudicata come fosse uno Stato “normale”, vescovi e preti essendo considerati suoi cittadini o dipendenti, e il codice canonico una legge statale che non riconosce
l’uguaglianza tra i sessi e condanna l’aborto. Trent’anni di intesa Il 21 febbraio 1984 fu firmata la cosiddetta Intesa fra Governo della Repubblica italiana e Tavola valdese, cioè la comunità che raggruppa i Valdesi, il gruppo storico dei protestanti italiani, sorto nelle alte valli piemontesi ancor prima della Riforma luterana. Fu il coronamento di un percorso durato anni e rappresentava la prima attuazione del terzo comma dell’art. 8 della Costituzione della Repubblica italiana, entrata in vigore il 1. gennaio 1948. Il documento d’intesa venne sottoscritto da Bettino Craxi, allora Presidente del Consiglio dei Ministri, e da Giorgio Bouchard, Moderatore della Tavola valdese e fu poi approvata dal Parlamento italiano l’11 agosto 1984 e infine dal Sinodo delle Chiese valdesi e metodiste nell’agosto del 1984. In seguito furono aggiunte due integrazioni al primitivo testo e nuove intese con altre confessioni sono state sottoscritte dallo Stato. Malgrado diverse proposte presentate in Parlamento, manca ancora in Italia una legge che garantisca pienamente la libertà religiosa sia alle comunità minoritarie sia alle singole persone. Ebrei U.S.A. Secondo una ricerca del Pew Research Center, la religione sta perdendo sensibilmente importanza nella vita degli ebrei statunitensi. In un inchiesta effettuata fra 3’475 cittadini americani di religione ebraica, il 22% ha dichiarato che la loro identità ebraica si basava unicamente sulla cultura e sull’ascendenza; nel 2000, solo il 7% aveva scelto questa risposta. Gli aspetti importanti dell’identità ebraica sono, secondo loro, la memoria dell’Olocausto (73%), il rispetto di principi di vita conformi all’etica (69%) e l’impegno a favore della giustizia sociale (56%). Sono sempre più numerosi i matrimoni tra ebrei e persone non ebree: il 58% degli ebrei che si sono sposati dal 2005 lo hanno fatto con una persona non ebrea; prima del 1970, soltanto il 17% degli ebrei contraevano matrimoni «misti». Per quanto riguarda il rapporto con Israele, circa il 30% degli ebrei americani interrogati ha dichiarato di sentire un forte legame e il 39% un legame abbastanza forte; il 43% si è recato già una volta in Israele. Dagli anni 1950, la proporzione di ebrei nella popolazione degli Stati Uniti è diminuita dal 3.4 % al 2.2%. Alberto Lepori
Un museo nel ghetto di Varsavia Un nuovo Museo della storia degli ebrei di Polonia è stato aperto lo scorso anno nell’ex ghetto di Varsavia. L’edificio è situato nelle vicinanze immediate del monumento commemorativo dell’insurrezione avvenuta il 19 aprile 1943. Nei quattro piani superiori si trovano una sala di concerti e dei locali che permettono di accogliere atelier, seminari e mostre. È stato inoltre ricostruito il soffitto di una sinagoga del XVII secolo. Nei due piani sotterranei, i visitatori vedono illustrata la storia millenaria degli ebrei di Polonia, dal medioevo fino ai nostri giorni. Il progetto è stato promosso a metà degli anni 90 dall’Associazione dell’Istituto storico ebraico di Varsavia, organo responsabile del museo, con lo Stato e la città. L’associazione ha finanziato l’allestimento con 25 milioni di euro provenienti da doni, fra i quali uno di cinque milioni della Repubblica federale di Germania. Le spese di costruzione del museo, coperte dallo Stato polacco, ammontano a circa 50 milioni di euro. Sulle facciate di vetro della costruzione si distinguono le lettere intrecciate della parola “Polonia”, scritta in polacco e in ebraico; in ebraico, Polonia si dice «Po lin», che significa pressapoco «qui posso riposarmi». Il tema dello sterminio è ripreso nell’architettura del museo, costruito secondo il progetto di due architetti finlandesi: uno strappo simbolico di calcestruzzo in forma di onda, visibile dall’esterno attraverso una parete di vetro, spacca in due il cubo architettonico, ricordando la frattura verificatasi nella storia di parecchi secoli degli ebrei in Polonia. Ma lo strappo non separa completamente le due parti, è anche un ponte, e il museo stesso deve fare da ponte per i polacchi che impareranno a conoscere meglio la parte ebraica della propria storia. Si tratta infatti di un «museo della presenza», in contrasto con i numerosi luoghi che ricordano lo sterminio degli ebrei da parte della Germania nazista. Sui 3.3 milioni di ebrei che risiedevano in Polonia nel 1939, pochissimi sono sopravvissuti al massacro, mentre circa il 70% dei 14 milioni di ebrei nel mondo hanno antenati polacchi.
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Francesco e Bartolomeo in maggio a Gerusalemme
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el clima di gioia, tipico di questo tempo natalizio, desidero annunciare che dal 24 al 26 maggio pros simo, a Dio piacendo, compirò un pellegrinaggio in Terra Santa. Scopo principale è commemorare lo storico incontro tra il Papa Paolo VI e il Patriarca Atenagora, che avvenne esattamente il 5 gennaio, come oggi, di 50 anni fa. Le tappe saranno tre: Amman, Betlemme e Gerusalemme. Tre giorni. Presso il Santo Sepolcro celebreremo un incontro ecumenico aFin da ora vi domando di pregare per questo pellegrinaggio, che sarà un pellegrinaggio di preghiera”. Con queste parole, pronunciate al termine dell’Angelus di domenica 5 gennaio, Papa Francesco annunciava dunque la sua visita in Terra Santa, destinata ad avere un forte impatto ecumenico, come lo ebbe quella, storica, di Paolo VI nel 1964, con la quale Papa Montini inaugurò i viaggi internazionali dei pontefici nell’era moderna. Ricordiamo allora l’evento più significativo di quella visita, cioè l’incontro tra Paolo VI e il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Atenagora (cioè i successori di Pietro e Andrea), avvenuto la sera del 5 gennaio 1964 presso la Delegazione apostolica di Gerusalemme (vedi foto). Dopo secoli di divisioni, era la prima volta che si trovavano faccia a faccia il pontefice romano e il “primus inter pares” tra i capi delle Chiese ortodosse. Il colloquio – intriso di una grande, recipro-
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ca commozione - avrebbe dovuto rimanere riservato, ma fu ripreso e registrato dai microfoni della Rai, che per un felice disguido non furono spenti, ed è stato pubblicato lo scorso 4 gennaio dall’“Osservatore Romano”. Paolo VI non tacque sul punto cruciale che divide Roma dall’Oriente: la costituzione della Chiesa e in essa il ruolo del Papa. Montini promise ad Atenagora: “Le dirò quello che credo sia esatto, derivato dal Vangelo, dalla volontà di Dio e dall’autentica tradizione. Lo esprimerò. E se vi saranno dei punti che non coincidono con il suo pensiero circa la costituzione della Chiesa…”. “Lo stesso farò io e sono sicuro che noi saremo sempre insieme. Ho in vostra Santità una fiducia assoluta”, disse il Patriarca. E Paolo VI: “Si discuterà, cercheremo di trovare la verità… Nessuna questione di prestigio, di primato, che non sia quello stabilito da Cristo. Assolutamente nulla che tratti di onori, di privilegi. Vediamo quello che Cristo ci chiede e ciascuno prende la sua posizione; ma senza alcuna umana ambizione di prevalere, d’aver gloria, vantaggi. Ma di servire”. Secondo lo scrittore americano Jerry Ryan (ma la cosa è tutta da verificare), Paolo VI e Atenagora avevano addirittura preso in considerazione la possibilità di concelebrare l’eucarestia: dapprima a Istanbul o a Creta, poi a Roma. A questo proposito avrebbero istituito una commissione segreta mista (che non vi avrebbe visto alcun impedimento teologico), ma vi sarebbe stata una fuga di notizie, che avrebbe provocato furibonde reazioni in Grecia e sul Monte Athos, per cui, sempre secondo Ryan, non se ne fece più nulla. Quello che invece è sicuro è che uno dei frutti dell’incontro di Gerusalemme tra Paolo VI e Atenagora fu la levata reciproca delle scomuniche risalenti al 1054, sancita il 7 dicembre 1965, vigilia della chiusura del Concilio Vaticano II. Tale evento non appianò le differenze tra le due Chiese ma definì un nuovo periodo di dialogo, che portò a un grande risultato: il 30 novembre 1979, il Patriarca ecumenico Demetrio I e Papa Giovanni Paolo II, in visita al Fanar di Costantinopoli, istituivano la Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa nel suo insieme. “Lo scopo del dialogo – si legge nel
Messaggio ecumenico documento – è il ristabilimento della piena comunione tra le due Chiese”. Il nodo del primato petrino Da allora, la Commissione ha tenuto, tra alti e bassi, 12 sessioni plenarie, l’ultima delle quali a Vienna nel settembre 2010 e a partire dalla metà degli anni 2000 ha affrontato la questione più spinosa che separa cattolici e ortodossi, cioè quella del primato papale, che gli ortodossi non possono accettare così come è formulato dalla Chiesa cattolica, in particolare dopo la proclamazione dei dogmi del Concilio Vaticano I sulla giurisdizione universale e l’infallibilità del pontefice. Il documento base del confronto sul ruolo universale del vescovo di Roma fu messo a punto a Ravenna nel 2007, durante la decima sessione plenaria della Commissione e fu approvato dai presenti all’unanimità. A Ravenna era però assente la Chiesa ortodossa russa, a motivo di un suo dissidio con il patriarcato ecumenico di Costantinopoli. Un’assenza di peso, perché la Chiesa russa rappresenta la parte di gran lunga più consistente dell’intero mondo ortodosso. Quel dissidio interortodosso fu poi appianato e anche la Chiesa russa accettò di unirsi al dialogo, sulla base del documento di Ravenna e di un successivo testo di lavoro sul ruolo del papato nel primo millennio, redatto a Creta nel 2008 da una sottocommissione. Ma in due successivi incontri tenuti a Cipro nel 2009 e a Vienna, come già ricordato, nel 2010, le obiezioni della Chiesa russa furono tali e tante da frenare ogni avvicinamento tra le parti. La delegazione di Mosca chiese e ottenne che il testo di lavoro di Creta fosse declassato e riscritto da cima a fondo da una nuova sottocommissione (l’esame del nuovo testo è in programma a Novi Sad, in Serbia, nel settembre di quest’anno). Ed espresse critiche sostanziali anche al documento di Ravenna, che nel suo paragrafo 41 descrive così i punti di accordo e di disaccordo tra Roma e l’Oriente: “Entrambe le parti concordano sul fatto che [...] Roma, in quanto Chiesa che ‘presiede nella carità’, secondo l’espressione di Sant’Ignazio di Antiochia, occupava il primo posto nella ‘taxis’, e che il vescovo di Roma è pertanto il ‘protos’ tra i patriarchi. Tuttavia le parti non sono d’accordo sull’interpretazione delle testimonianze storiche di quest’epoca per ciò che riguarda le prerogative del vescovo di Roma in quanto ‘protos,’ questione compresa in modi diversi già nel primo millennio”. (“Protos” è parola greca che significa “primo” e “taxis” è l’ordinamento della Chiesa universale).
Divergenze tra Mosca e Costantinopoli Più recentemente, il 26 dicembre 2013, solo pochi giorni dopo una visita a Mosca (dove ha incontrato tra gli altri il Patriarca Kirill) del cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, il patriarcato di Mosca ha reso pubblico un proprio documento, approvato dal Santo Sinodo e adottato come “guida nel dialogo ortodosso-cattolico”, nel quale ribadisce il suo disaccordo con il testo di Ravenna e riconferma il suo totale rifiuto di riconoscere al vescovo di Roma qualsiasi primato che non sia semplicemente “di onore” sulla Chiesa universale. Il documento russo esprime infatti la convinzione che “la Chiesa di Roma è una delle Chiese locali autocefale, senza alcun diritto di estendere la propria giurisdizione al territorio di altre Chiese locali”. Qui si misura tutto l’abisso che esiste tra l’ecclesiologia cattolica e quella ortodossa. A correggere un po’ il tiro ci ha pensato il patriarcato di Costantinopoli, che l’8 gennaio di quest’anno ha pubblicato un’articolata risposta del metropolita di Bursa Elpidophoros Lambriniadis. Da parte sua, il metropolita di Pergamo Ioannis Zizioulas, uno dei più eminenti teologi ortodossi contemporanei e co-presidente della Commissione mista, ha messo in guardia dal rischio di “autoemarginazione”, che costituisce il maggior pericolo per l’ortodossia. Secondo Zizioulas, questo avviene ogni volta che un movimento, una forza spirituale rifiuta di confrontarsi e venire in dialogo con tutti i movimenti intellettuali e sociali della propria era. Sul futuro e i progressi del dialogo teologico tra cattolici e ortodossi molto dipenderà dai rapporti interortodossi. Le 16 Chiese ortodosse autocefale e autonome hanno infatti ciascuna un approccio molto diverso con la Chiesa di Roma: il più aperto è sicuramente quello del patriarcato di Costantinopoli (che detiene un primato d’onore), mentre all’estremo opposto troviamo Mosca (malgrado notevoli convergenze con i cattolici, da diversi anni, su temi legati all’etica, alla vita e alla famiglia), la Grecia e la Serbia. Ma a pesare saranno soprattutto i rapporti, tutt’altro che idilliaci, tra Mosca e Costantinopoli (di nuovo ai ferri corti per uno scisma che divide la Chiesa autocefala della Repubblica ceca e della Slovacchia), mentre sta andando per le lunghe e incontra complicazioni la preparazione del santo e grande Concilio della Chiesa ortodossa, iniziata nel lontano 1960. Gino Driussi
Un grande grazie ed una prospettiva di vita
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na comunità e un saluto: è stato questo il titolo e l’argomento del nostro primo incontro con la comunità cristiana di Corinto e con la lettera che Paolo indirizza a questa comunità nell’anno 55/56 dell’era cristiana, conosciuta, oggi, come Prima Lettera di Paolo ai Corinzi. La risposta, del tutto spontanea, nasce da un dato di fatto, da tutti constatabile: abbiamo un urgente bisogno di mettere ordine nella nostra testa e, in particolare, nel nostro modo di concepire e di vivere il rapporto con Dio attraverso Gesù, se vogliamo che la nostra presenza cristiana nel mondo sia, piuttosto che un ostacolo, un sostegno e un incentivo alla ricerca interiore, spirituale nostra e di chi ci vive accanto, oggi. Ma qualcuno potrebbe subito obiettare: perché questo interesse per Paolo o per la Comunità cristiana di Corinto in una rubrica che si occupa di spiritualità e di meditazione, piuttosto che di storia o di esegesi, di studio della Bibbia? A tale riguardo è noto che la prima generazione cristiana camminava nella storia «tenendo fisso lo sguardo su Gesù, apostolo e sommo sacerdote» – altri traducono anche: «autore e perfezionatore» – di quella fede alla quale avevano aderito e che professavano (Eb 3,1). Davanti a questa attestazione, nasce spontanea la domanda: Quale è la nostra condizione oggi? In che misura Gesù è per noi ancora un punto di riferimento? Quale Gesù? Qualunque sia la risposta che diamo a questa domanda – fosse anche la più negativa – non si tratta di gridare allo scandalo, d’inveire contro qualcuno o di deprimerci in sterili sensi di colpa. Si tratta piuttosto di prendere atto, il più oggettivamente possibile, di un dato di fatto di cui spesso veniamo accusati, o di cui, più spesso ancora, noi stessi ci accusiamo: ossia, quello di non essere più – sul piano individuale e su quello comunitario – una presenza significativa, «luce posta sopra il lucerniere», «sale che dà sapore», «lievito mescolato con la pasta perché tutta si fermenti» (Mt 5,13-16; 13,33). Non sembra fosse questa la condizione della comunità cristiana alla quale Paolo indirizzava lo scritto che oggi figura come Prima Lettera ai Corinzi. Come presto vedremo, anche quella comunità aveva le sue gatte da pelare. Non erano tutte rose e fiori. Ma Paolo, subito dopo il saluto iniziale, eleva un caloroso grazie a Dio per le cose meravigliose successe a Corinto. Per quanto «bambini non ancora svezzati», essi hanno accolto il messaggio che viene da Dio e sono stati arricchiti con «tutti i doni della predicazione e della conoscenza» (1,5). Di conseguenza, nonostante la loro tenerissima età spirituale, non devono temere: Dio porterà a termine il lavoro iniziato, poiché «Dio mantiene le sue promesse» (1,9). Quando dà inizio a un progetto, perché trova accoglienza da parte dell’uomo, lo porta avanti con fedeltà, fino al suo compimento. Qui c’è subito un punto da chiarire. Ossia, per non fraintendere le parole di Paolo – che sembra attribuire tutto il merito della trasformazione avvenuta
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a Corinto a Dio, piuttosto che ai Corinzi, che hanno accolto il messaggio di Gesù – dobbiamo fare il piccolo sforzo di porci nella prospettiva di Paolo, che è la prospettiva dell’uomo biblico e, in genere, degli antichi. Essi vivevano all’interno di un «mito», ossia di un modello culturale interpretativo della realtà, delle sue dinamiche e dei suoi eventi, diverso dal nostro. Benché i due modelli non si escludano a vicenda, ma sono piuttosto complementari l’uno all’altro, il modo con cui ci portano a vedere e a interpretare la realtà cambia notevolmente. Davanti all’affermazione di Teilhard de Chardin: «Dio non fa le cose, ma offre alle cose la possibilità di farsi», l’uomo contemporaneo di Paolo avrebbero subito messo l’accento sull’azione di Dio, sul «offre alle cose la possibilità». Noi, al contrario, siamo molto più portati a mettere l’accento sull’uomo e, di conseguenze, sul «Dio non fa le cose». E, di fatto, se non le facciamo noi, chi le fa? Non succede niente! Come ho già detto, non si tratta di contrapporre queste due affermazioni l’una all’altra, come se si escludessero a vicenda. Il fatto è che gli antichi erano profondamente consapevoli che nella vita tutto ci è dato. La sorgente di tutto è sempre e soltanto Dio, il Creatore. E’ lui che ha il primato in tutte le cose, nello stesso sentire, accogliere, pensare ed agire dell’uomo. Per questo ascoltavano molto. Dio era vicino e si esprimeva attraverso tutte le realtà della vita. Erano aperti a lui e si rendevano disponibili all’azione creatrice di Dio nell’universo e nella storia attraverso l’abbandono fiducioso, che dava loro la luce e la forza per l’azione retta nella storia. Tutto questo rimane di fondamentale importanza ancora oggi. L’uomo contemporaneo, tuttavia, mette molto l’accento, sia nel suo rapporto con Dio che con la realtà, sull’autonomia, sulla creatività e, in particolare, sulla propria responsabilità e intraprendenza. Anche gli antichi conoscevano queste parole, e forse le mettevano in atto meglio di noi; ma le accentuazioni erano comunque diverse. Erano diverse, perché diverso era il punto da cui osservavano le cose. Essi guardavano dall’alto, osser-
Dieci minuti per te vavano la realtà a partire dalla fonte da cui tutto proviene. Noi guardiamo dal basso, siamo più propensi a osservare le cose a partire dall’uomo, dal suo impegno e dalla sua responsabilità. La ragione sta da entrambe le parti. Tutto viene da Dio e senza di lui nulla esiste. Ma l’agire di Dio, per diventare storia, richiede piena accoglienza da parte dell’uomo; e l’abbandono fiducioso è illusorio se non diventa azione. Anche Paolo lo sapeva. Quindi, quando ringrazia Dio per ciò che è successo a Corinto, per quanto sembra attribuire tutto il merito a Dio soltanto, in realtà elogia anche i Corinzi. L’azione di Dio ha trovato accoglienza presso di loro. Paolo è perfettamente cosciente del fatto che a Corinto le cose sono andate diversamente da come si sono svolte ad Atene, nell’Aeròpago. A Corinto, il messaggio che portava ha incontrato ascolto, presenza, accoglienza. Ad Atene, al contrario, mentre egli ancora parlava, alcuni lo schernivano; altri, più educati, gli permisero di finire il discorso; ma poi, congedandosi da lui, lasciarono chiaramente capire che il messaggio portato da Paolo non li interessava: «Su questo punto ti sentiremo un’altra volta» (At 17,52) Il ritorno di Gesù è anch’esso un tema importante. A tutti è nota quanto fosse viva l’attesa del ritorno del Signore nella prima generazione cristiana. Quest’attesa si fondava sulla promessa di Gesù: «Io vado a prepararvi un posto. E se vado e ve lo preparo, tornerò e vi prenderò con me. Così anche voi sarete dove io sono» Gv 14,2-3). Stando a queste parole di Gesù, la prima generazione cristiana – Paolo compreso – si convinse che egli sarebbe dovuto tornare da un momento all’altro. Erano persuasi che l’avrebbero visto con i loro occhi incedere glorioso «sopra le nubi del cielo» (Mt 26,64) per inaugurare definitivamente il regno di Dio sulla terra. Molti consigli pratici che Paolo dà ai cristiani della sua generazione scaturiscono da questa certezza di un ritorno immediato del Signore. Lo vedremo meglio a mano a mano che avanzeremo nella lettura di questa stessa lettera ai Corinzi. In realtà non fu così. Passavano gli anni, ci si invecchiava, alcuni morivano, ma Gesù non si faceva vivo. Come reagirono a questo continuo rimando del suo ritorno? E’ una domanda che ci interessa. Perché, in realtà, anche noi attendiamo. Sia pure con modalità e intensità profondamente diverse tra di loro, tutti viviamo nell’attesa del ritorno di Gesù, nell’attesa della piena, definitiva manifestazione del regno di Dio per un mondo nuovo.
Come reagì, dunque, la prima generazione cristiano a questo continuo rinvio del ritorno del Signore glorioso? Anzitutto si resero conto che i tempi di Dio, forse, non erano uguali ai tempi dell’uomo. Infatti, «ai tuoi occhi, mille anni sono come il giorno di ieri che è passato, sono come il turno di veglia nella notte» (Sal 90,4). Ma più importante ancora è il fatto che essi, col passare degli anni, si resero perfettamente conto che non solo i tempi di Dio erano diversi dal tempo degli uomini, ma che Dio non è diverso dall’uomo. Dio è l’amore leale e paziente. Dio non s’impone, ma si propone. E’ come la verità che fa liberi: si offre agli uomini perché sia accolta. Questo significa che non è il ritorno di Gesù che inaugura i nuovi cieli e la nuova terra, ma la nostra conversione a lui e alla sua testimonianza data a Dio. Il ritorno di Gesù non è questione di tempo, di una data fissata nel calendario divino. Dipende, invece, da una nostra profonda trasformazione interiore, che ci mette nella condizione di adire a Dio e alla sua volontà come ha fatto Gesù; ed è, insieme, il frutto maturo di tale adesione. Quando parliamo in questi termini del glorioso ritorno di Gesù, allora si capisce facilmente che i tempi diventano necessariamente non solo lunghi, ma lunghissimi. Perché è del tutto evidente che si tratta di una trasformazione interiore estremamente impegnativa, di un cammino irto di difficoltà, incertezze e resistenze. Oltre tutto, si tratta di un cammino e di un traguardo che non ci coinvolgono solo come singoli individui, o come semplice famiglia umana. E’ un discorso che, oltrepassando i confini dell’uomo, interessa e coinvolge l’intera creazione. Perché Dio non è solo nostro Padre; Dio è la fonte di tutto ciò che esiste. E noi siamo tutti in relazione di interdipendenza, nel bene e nel male, gli uni con gli altri e con tutte le cose. Non si arriva in paradiso, il regno di Dio, da soli, ma insieme; perché la felicità non è una questione di luogo, ma di amore e di relazione. Non si può essere perfettamente felici se uno soffre. Paolo ce lo dirà con estrema chiarezza più avanti, quando ci addita il corpo come maestro di vera comprensione e di saggezza: «Se una parte soffre, tutte le altre soffrono con lei; e se una parte è onorata, tutte le altre si rallegrano con lei» (1 Cor 12,26). Di fronte a questa prospettiva, non stupisce l’inquietante domanda di Gesù: «Quando il Figlio dell’uomo tornerà sulla terra, troverà ancora fede?» (Lc 18,8). fra Andrea Schnöller
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Il nuovo Adamo
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ella sterminata produzione letteraria di Hermann Hesse, premio Nobel per la letteratura nel 1946, spicca un piccolo saggio, fresco, agile, scritto in stile semplice e con fanciullesco candore, intitolato “Franz von Assisi”. L’autore lo scrisse e pubblicò nel 1904, all’età di 22 anni, dopo due viaggi ad Assisi effettuati nel 1901 e nel 1903. Curiosamente nello stesso anno Hesse pubblicò sempre a Berlino anche un saggio su un altro celebre personaggio italiano: Giovanni Boccaccio. Quasi come se egli volesse evidenziare i due lati opposti del carattere italiano: da un lato la profonda spiritualità francescana e dall’altro la carnalità gaudente del grande novelliere toscano. Due furono le fonti di ispirazione di Hesse nello scrivere il saggio su Francesco: innanzitutto l’opera del pastore protestante Paul Sabatier che vide nel Poverello di Assisi il prototipo della libertà di coscienza individuale e l’uomo capace di ridare autentica purezza al messaggio cristiano, sottraendolo al rigido dogmatismo gerarchico della Chiesa Cattolica. Inoltre Hesse apprezzava enormemente l’opera in due volumi di Henry Thode intitolata “Francesco d’Assisi e le origini del Rinascimento in Italia” (di cui abbiamo già parlato). In un suo commento critico ai “Fioretti di San Francesco” pubblicati in lingua tedesca a Monaco nel 1905 Hesse scrisse che: ”… nel rapporto fra Francesco e arte figurativa e sul suo enorme significato per i secoli a venire Henry Thode, nella sua celebre opera su Francesco, ha scritto una delle più convincenti e importanti monografie artistiche dei nostri tempi”. Dei viaggi ad Assisi rimasero negli occhi e nel cuore di Hesse i colori della campagna umbra, le colline boscose, i riflessi argentei del lago Trasimeno, il verde dei prati: e l’amore totale, incondizionato per Francesco. ”Francesco - scrive nel saggio Hesse - fa parte di quelle straordinarie creature che hanno avvicinato tutti gli altri uomini a Dio e restituito valore e pregio al mistero della creazione, che hanno interpretato con santa ispirazione. Hanno sempre riscoperto daccapo l’essenza e la legge dell’uomo interiore, poiché si ponevano spogli davanti alla terra come al cielo, quasi fossero stati i primi uomini, mentre noi pensiamo di poter vivere solo nel guscio di idee preconcette e di abitudini ereditate”. Francesco per Hesse è dunque l’homo novus, il nuovo Adamo, colui che riscopre il valore di ogni creatura. Hermann Hesse comprende così qual’è la novità della figura di Francesco nella storia dell’umanità: in lui si ricompone il circolo della creazione, tanto da poter chiamare fratelli e sorelle il sole, l’acqua, il fuoco, le stelle e persino la morte: e questa ritrovata fraternità e armonia con la natura si esprimerà nel Cantico delle Creature, che aprirà un’epoca nuova anche nella storia della poesia e della lingua italiana. E nella sua scia la rivissuta vicenda umana del Cristo porterà Giotto a cancellare il fondo oro dell’arte bizantina per riproporre dietro ai suoi personaggi il dolce paesaggio umbro o toscano. Hesse nel Poverello di Assisi vede incarnato un
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ideale di vita in armonia colle forze della natura, in grado di parlare profondamente anche all’animo scontento dell’uomo contemporaneo, sofferente per i “disagi da civiltà”. E quanto questo vale ancora ai nostri giorni! Come dobbiamo essere consapevoli delle scissioni e delle lacerazioni che si sono prodotte tra l’uomo e la natura e quanto tutto questo si ripercuote sull’animo umano! E Francesco, come Siddartha, rappresenta in Hesse l’essere umano in cammino sia fisicamente che spiritualmente, teso all’ascolto della voce di Dio che gli parla e che può essere udita solo se ci si pone in un ascolto lieto e paziente. Per Hesse Francesco appartiene alla schiera di uomini passionali e grandi sognatori, capaci di congiungere cielo e terra e di portare Dio più vicino a noi. In lui Hesse percepisce la grande bellezza interiore, la forza trascinante dell’esempio, l’eccezionalità del sentire, la capacità di riconciliare gli uomini fra loro e col Creatore. La sua forza è quella dirompente del Vangelo ”sine glossa”. Francesco in vita fece un’unica eccezione a questo riguardo con Antonio di Padova: in un suo biglietto lo chiamò addirittura “mio vescovo” concedendogli di dedicarsi ai suoi prediletti studi teologici purché non venisse meno ai doveri della predicazione e della santa Povertà. Povertà come quella abbracciata da Francesco, libera, priva di costrizioni e non imposta da violenza, oppressione o ingiustizia. E quando Francesco restituisce i vestiti al padre, Pietro di Bernardone, egli rivendica per sè una profonda e sofferta paternità divina, che dopo l’evento delle stimmate lo consacrerà quale alter Christus. Hermann Hesse nel suo saggio dimostra un grande affetto e stima per l’eccezionale figura del Santo: egli sottolinea la bontà e la serenità d’animo di Francesco, proprio ciò a cui egli anelava e che gli mancava. L’artista Hesse vede in Francesco un grande artista, che ha creato la sua opera più bella con la sua stessa vita semplice e pura. Egli invidia a Francesco di avere avuto una madre come Pica: in questa predilezione per domina Pica si avverte
tutta la nostalgia dell’autore per la madre che avrebbe voluto. Sua madre, figlia e moglie di un pastore protestante, missionaria con il marito in India, rigida, severa, difettava di quelle doti che egli ammirava nella madre di Francesco: in particolare la fantasia e la capacità di sognare dando un significato nuovo all’esistenza. Hesse ammira Pica in modo totale quando essa libera Francesco, che era stato segregato e incatenato dal padre che non comprendeva il mutamento del figlio che aveva trovato sé stesso nelle nozze con Madonna Povertà. Hesse usando una metafora junghiana (Carl Gustav Jung, l’eretico discepolo di Freud, ebbe a lungo in cura analitica l’autore), arriva a dire che a liberarlo è l’Anima, la parte femminile di Francesco, quella pronta ed aperta ai richiami della trascendenza. Così che egli può esprimere a pieno la sua spiritualità fatta di amore per l’uomo e di rispetto per il creato, di sobrietà, povertà, tenerissima e dolcissima carità e umiltà. Hesse ama talmente Francesco e si immedesima così in lui che Peter Camenzind, il protagonista dell’omonimo romanzo che Hesse pubblicherà sempre nel 1904 subito dopo il “Franz von Assisi”, sta a metà strada fra Hermann e Francesco: egli è un letterato che, dopo aver girato il mondo, decide di ritirarsi dalla vita mondana, torna al suo paese di origine, abbandona l’intellettualismo e per liberarsi del suo orgoglio si prende cura di un uomo invalido e di suo padre anziano. Peter arriva ad essere felice di sé e ha così tanto amore che può anche offrirne. Ed è quello che anche Hesse segretamente vorrebbe essere, nella scia e sull’esempio di Francesco che incarna un messaggio capace di dare ragioni di vita e di speranza al cuore di tutti, anche all’uomo di oggi scosso da una crisi che, prima che economica o politica, è spirituale e morale. E nella conclusione del suo saggio Hesse scrive: ”…la vita di un uomo puro e generoso è sempre cosa sacra e miracolosa, dalla quale si sprigionano forze inaudite, che operano anche in lontananza. Nella vita del Poverello questo è ancora più evidente che in quella della maggior parte degli altri eroi e grandi spiriti”. E più avanti: “Si potrebbe facilmente dimostrare come Francesco abbia esercitato una grandiosa influenza su molti campi dello spirito. Le figure, così grandi e amate, la cui memoria si radica nell’immaginario di tutto un popolo ed è soggetta a continue rielaborazioni, hanno sempre fornito all’arte nuovi orizzonti e nuova linfa vitale. L’elemento imperscrutabile ed eterno di tali figure sta proprio nel fatto che il solo pensarle fa miracoli, dà nuova forza, incita gli eroi all’azione, i pittori a dipingere e i poeti a cantare, perché tutti costoro vi
scorgono un esempio che suscita un desiderio ardente e un saluto di Dio alla terra”. E nella parte finale: “Ci sono soltanto pochi uomini che, in virtù della profondità e dell’ardore del loro intimo, abbiano donato ai popoli, quali messaggeri e seminatori divini, parole e pensieri di eternità e dell’antichissimo anelito umano. E ce ne sono pochi che da secoli siano amati e ammirati non in virtù delle belle parole e opere da loro create, ma soltanto per la loro natura pura e nobile, e quali astri beati si librino ancora sopra di noi nel puro firmamento, dorati e sorridenti, benevoli guide al peregrinare degli uomini nelle tenebre.” Mario Corti
Hermann Hesse
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Convento dei Cappuccini Salita dei Frati 4 CH - 6900 Lugano
Titolo
Abbiamo letto... abbiamo visto... Stefani Piero
Gesù: un nome che ci accompagna da duemila anni
GAB 6900 Lugano
Il Mulino, Bologna, 2012 Che cosa sappiamo effettivamente di Gesù? La domanda riceve, da sempre, molte risposte. Non a motivo delle fonti - ce ne sono di canoniche e di apocrife, oltre a un numero limitato di documenti non cristiani - ma a causa della loro interpretazione. Il volume si confronta con tre fondamentali approcci alla figura di Gesù: ecclesiale, storico, letterario. Attraverso questa polifonia di voci - insita già negli stessi vangeli di Matteo, Marco, Luca e Giovanni - si ripercorrono le parole e le opere di una figura unica, che ha inciso in modo profondo e duraturo sulle vicende del mondo. Giorgio Campanini
Famiglia, storia e società Studi e ricerche, edizione Studium, Roma, 2008 La famiglia è stata assoggettata negli ultimi due secoli ad un profondo processo di accentuata privatizzazione: quella che era stata, per una lunghissima stagione della storia dell’umanità, una delle strutture portanti della società appare oggi come una sorta di ultimo rifugio della vita personale. Nonostante tutto, per altro, la famiglia mantiene una sua fondamentale dimensione sociale, come dimostra la sua stessa storia, in questo volume ripercorsa nelle sue grandi linee. Di qui l’importanza di fare il punto della situazione presente della famiglia, per recuperare il senso di una istituzione che continua ad essere per la maggioranza un eminente ed insostituibile “luogo di umanità”. SAE (a cura)
Condividere e annunciare la Parola. “Come il Padre ha mandato me, così anch’io mando voi” Paoline, Milano, 2014 Il Segretariato Attività Ecumeniche (SAE), con la pubblicazione degli Atti della cinquantesima sessione di formazione ecumenica, lancia alle Chiese un progetto audace: annunciare e testimoniare insieme la Parola condivisa, in un percorso di accoglienza reciproca. E’ un percorso che le Chiese devono ancora in larga parte costruire, nella consapevolezza della fragilità di ogni esperienza umana, sostenuta peraltro dalla fede di essere guidate dallo Spirito. Un cammino che richiede la volontà di rispondere ai rapidi cambiamenti del mondo attuale e il coraggio di vivere in forme nuove le proprie tradizioni.
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