Messaggero 2010-10 Apr-Giu

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Rivista trimestrale - anno C

10 Aprile Giugno 2010

I sacramenti: Unzione degli infermi Dieci minuti per te Messaggio dalla Madonna del Sasso Le pagine dell’Ordine Francescano Secolare


Intervista a don Sandro Vitalini

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Per conoscere questo ignoto Sacramento

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Tra “Luigi” e “Napoli”

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Bigorio alto luogo dello Spirito

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Le pagine dell’OFS

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Tau simbolo francescano

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Ricordo di p. Alberto Weingand

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Messaggio biblico

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Preghiera, ascolto e senso della vita

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Appunti di vita ecclesiale

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Alberto Lepori

Rilanciare il dialogo con protestanti ed anglicani

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Comitato di Redazione fra Callisto Caldelari (dir. responsabile) fra Ugo Orelli fra Edy Rossi-Pedruzzi fra Michele Ravetta Claudio Cerfoglia (segretariato) E-Mail redazione@messaggero.ch Hanno collaborato a questo numero fra Agostino Del-Pietro Gino Driussi Franca Humair Alberto Lepori Fernando Lepori fra Andrea Schnöller don Sandro Vitalini Redazione e Amministrazione Convento dei Cappuccini Salita dei Frati 4 CH - 6900 Lugano Tel +41 (91) 922.60.32 Fax +41 (91) 922.60.37 Internet www.messaggero.ch E-Mail segreteria@messaggero.ch

Gino Driussi

La rivista “Fogli”

MESSAGGERO Rivista di cultura ed informazione religiosa fondata nel 1911 ed edita dai Frati Cappuccini della Svizzera Italiana - Lugano

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Fernando Lepori

Note importanti Compilando la polizza per l’abbonamento non mancate di riportare l’esatto nominativo al quale la rivista è stata spedita. Indicate anche per favore l’indirizzo di spedizione.

Abbonamenti 2010 Per la Svizzera: ordinario CHF 30.sostenitore da CHF 50.CCP 65-901-8 Per l’Italia: ordinario € 20,00 sostenitore da € 40,00 Conto Corrente Postale 88948575 intestato Cerfoglia Claudio - Varese causale “abbonamento Messaggero” E-Mail amministrazione@messaggero.ch Copertina Vetrata realizzata da fra Roberto nella Cappella Casa Anziani di Novazzano Fotolito, stampa e spedizione RPrint - Locarno


Lettera della Redazione Se qualcuno… e qualcuno di voi è malato. chiami i responsabili della comunità. Essi preghino per lui e lo ungano con olio, pregando il Signore. Questa preghiera fatta con fede, salverà il malato e il Signore gli darà sollievo. Inoltre se il malato avesse commesso dei peccati, gli saranno perdonati. Queste parole dell’apostolo Giacomo sono il fondamento biblico di tutto il discorso che in questo numero facciamo sul Sacramento degli infermi. Segnosacro che ha bisogno di essere approfondito e liberato da molte paure che lo fanno considerare una “estrema unzione” dopo la quale non vi è più nulla, se non la morte, vista non come francescana sorella, ma come appuntita falce che ti strappa da tutto e da tutti.

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Se qualcuno di noi ha la tentazione di essere un cristiano chiuso, legga le pagine dedicate alla chiesa e agli avvenimenti ecumenici e troverà incentivi d’apertura. Oggi questa tentazione può essere anche forte, dato che la società sta sempre più secolarizzandosi. Allora, invece di aprirsi ad un dialogo con chi professa, magari in modo diverso, la stessa fede, si preferisce trincerarsi entro certezze per molti indiscutibili, confondendo quella che è la fedeltà alla tradizione con la fedeltà al vangelo che è messaggio di apertura. Ecco, come in ogni numero, lo schema anche di questo, poi arricchito da altre rubriche - Bibbia, meditazione, storia del santuario, annuncio di una Sacra rappresentazione sul Cantico delle creature - e una pagina che ricorda padre Alberto Weingand che di questa rivista fu per parecchi anni l’amministratore. Sappiamo che il “Messaggero” è apprezzato, anche se stenta a trovare nuovi lettori: perché non regalare l’abbonamento a qualche amico, a qualche giovane coppia? In un paese come il nostro – il Ticino – che ha urgente bisogno di un supplemento d’istruzione cristiana per affrontare con coraggio le sfide della società moderna, troppe persone che si considerano “fedeli” si accontentano di una saltuaria pratica sacramentale e dimenticano che il peccato più grave dei cristiani d’oggi è l’ignoranza, dalla quale nascono preconcetti, sospetti e critiche. Come frati (fratelli) abbiamo assunto l’impegno di essere voce per vincere questa ignoranza, così da aiutare tutti coloro che vogliano vivere la libertà del vangelo ad essere convinti e convincenti messaggeri della “Buona novella”, di quel Regno di Dio del quale Francesco si è proclamato araldo. la redazione

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Messaggio tematico

Intervista a don Sandro Vitalini Il Sacramento degli infermi Come in ogni numero iniziamo a parlare di un Sacramento facendo alcune domande al nostro teologo don Sandro Vitalini che ringraziamo sentitamente per le chiare risposte.

Che sacramento è mai questo che viene solitamente amministrato quando l’infermo non capisce più nulla? Nell’antichità le sacre unzioni venivano compiute sui malati anche da laici. La persona veniva unta con olio che aveva toccato le reliquie di Santi. L’olio benedetto dal Vescovo venne poi riservato alle unzioni praticate sui malati dai presbiteri. Lentamente anche la finalità dell’unzione cambiò. Mentre nell’antichità si mirava alla guarigione della persona (come appare in Marco 6,13), nel medioevo si vide nell’unzione un sacramento per la guarigione dell’anima e il perdono dei peccati, anche e soprattutto per chi non aveva più la possibilità di confessarsi. Si è allora pensato che anche il malato ormai incosciente potesse ricevere l’unzione, perché non si escludeva che interiormente chiedesse perdono a Dio. Si è così insinuato l’abuso di dare l’unzione a chi è in fin di vita ed è incosciente. Nello spirito dell’antica tradizione e del Vaticano II non dobbiamo chiamare questo sacramento “estrema unzione”, ma “unzione degli infermi” (Sacrosanctum Concilium n. 73) e prevederne la celebrazione al momento in cui una malattia grave si profila in una persona. Il sacramento dei morenti resta il viatico. Ma l’unzione mira alla guarigione e al rinnovamento della persona. La sua celebrazione dovrebbe essere comunitaria, in chiesa, avvolta da un’atmosfera pasquale (che si prolunghi in una merenda festosa). Anziani e malati cronici possono riceverla una volta all’anno per rinnovare il loro proposito di combattere la malattia per essere testimoni della risurrezione del Signore. Non si dovrebbe dare il sacramento a una persona oramai incosciente, soprattutto se si sa che, cosciente, l’avrebbe rifiutato. Questo sacramento, che ci unisce alla sofferenza di Gesù crocifisso, ci consacra a lottare contro ogni male. A volte esso è stato fonte di improvvise guarigioni. Sia sempre fonte di rinnovata serenità nella lotta contro la malattia e ogni male nel mondo.

Si dice che tutti i sacramenti siano stati istituiti da Gesù Cristo. Dove si legge nel Vangelo che Gesù istituì il sacramento degli infermi? L’antica tradizione della Chiesa prevede che chi è malato

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sia visitato dai presbiteri e che riceva un’unzione che lo sollevi spiritualmente e fisicamente (Giacomo 5, 14-15). In Oriente l’unzione ha conservato questa solennità “collegiale”. Anche se in Occidente si sono conosciute unzioni praticate da laici (che oggi definiremmo come “sacramentali”), bisogna riconoscere che nell’ambito della missione apostolica, che prolunga quella di Cristo, del consacrato unto di Spirito Santo (Luca 4, 18), c’è anche l’ordine di Gesù: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi” (Matteo 10,8). A chi mi obietta che la guarigione dei malati non sembra dipendere dall’unzione, preciso che anche Gesù non ha guarito tutti i malati che avvicinava (Giovanni 5,3), ma aggiungo che la nostra attività sacramentale sarebbe più efficace se accettassimo l’ordine che Gesù ci dà nel versetto seguente (Matteo 10,9): “Non procuratevi né argento né oro né danaro…” Gesù ci richiede una povertà assoluta. Più volte ho indicato ai miei allievi la “ricetta” per guarire i malati e moltiplicare i pani: “Quando non avremo più niente, saremo svuotati anche del nostro io e ci abbandoneremo totalmente alla provvidenza del Padre, allora saremo degli strumenti atti a trasmettere i segni di Dio!” È importante che ci rendiamo conto che un sacramento va visto in un contesto di liberazione globale dell’uomo per la quale dobbiamo batterci anche se ci martirizzeranno. Non dobbiamo avere paura di denunciare come Chiesa i crimini di mammona, che dissanguano e schiavizzano i poveri nel mondo. Più l’annuncio liberatore della Chiesa suona forte per gli oppressi, i disoccupati, gli emarginati, gli anziani, gli infermi, e più il Vangelo del Cristo è credibile e operante.

In che contesto dovrebbe essere amministrato questo sacramento, dato che spesso i parenti, quando entra il sacerdote nella camera dell’ammalato, lasciano la stanza? Il contesto deve essere pasquale e va preferita la Chiesa. In un caso di improvviso aggravamento o in seguito a un incidente il sacramento è celebrato nella stanza del malato. Se possibile venga ornata di fiori e si dia alla celebrazione un carattere pasquale, eseguendo ad esempio un canto. L’unzione è in vista della guarigione. Io stesso posso testimoniare di aver visto malati molto gravi riprendersi perfettamente dopo l’unzione. Oggi i teologi si interrogano se non si potrebbe prevedere che anche i diaconi o chi assiste regolarmente un malato non possano essere abilitati al suo conferimento. Se ci riferiamo alla storia dobbiamo ammettere la fondatezza di questa ipotesi, che dovrà maturare nel contesto di una riflessione


di tutto il popolo di Dio. Bisognerà anche riconoscere come i riti possano variare a seconda del genio dei singoli popoli, tenendo sempre presente che la celebrazione non è funebre, ma pasquale.

È possibile dare l’unzione degli infermi ad una persona appena morta? Per un agonizzante credente si preveda il viatico, collocando la particola sulla lingua, secondo un’antichissima

tradizione. Per chi è morto non si può più prevedere un sacramento, ma solo lo si deve affidare all’infinita misericordia di Dio che, come una fiamma sprigionante un amore infinito, avvolge la persona in un abbraccio di purificazione (Luca 15,20) che lo porterà al convito celeste. Abituiamoci a dire che preghiamo con i nostri vivi nell’aldilà e non per loro. La nostra preghiera non modifica l’infinita misericordia di Dio, ma approfondisce la comunione con tutti i santi: della terra e del purgatorio e del paradiso.

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Messaggio tematico

Per conoscere questo ignoto Sacramento

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opo le risposte chiare di don Sandro Vitalini, approfondiamo la dottrina sul sacramento dell’unzione degli infermi, segno-sacro fra quelli meno conosciuti perciò disattesi o mal ricevuti. Ci facciamo aiutare dal catechismo della chiesa universale, che inizia a parlare di questo sacramento con una citazione della ‘Lumen gentium’: “Con la sacra unzione degli infermi e la preghiera dei presbiteri, tutta la Chiesa raccomanda gli ammalati al Signore sofferente e glorificato, perché alleggerisca le loro pene e li salvi, anzi li esorta a unirsi spontaneamente alla passione e alla morte di Cristo, per contribuire così al bene del popolo di Dio”. Ma dove ha i suoi fondamenti dottrinali questo “segno”? Sono nell’Economia della Salvezza, cioè nel modo in cui Dio offre all’uomo la sua salvezza che, giustamente, parte dalla considerazione delle varie funzioni che può avere la malattia nella vita umana. La malattia e la sofferenza sono sempre state tra i problemi più gravi che mettono alla prova la vita umana. Nella malattia l’uomo fa l’esperienza della propria impotenza, dei propri limiti e della propria finitezza. Ogni malattia può farci intravvedere la morte. Inoltre la malattia può condurre all’angoscia, al ripiegamento su di sé, talvolta persino alla disperazione e alla ribellione contro Dio. Ma essa può anche rendere la persona più matura, aiutandola a discernere nella propria vita ciò che non è essenziale per volgersi verso ciò che lo è. Molto spesso la malattia provoca una ricerca di Dio, un ritorno a Lui, così che spesso il malato si trova di fronte a Dio. Già l’uomo dell’Antico Testamento vive la malattia di fronte a Dio. È davanti a Dio che egli versa le sue lacrime sulla propria malattia; è da Lui, il Signore della vita e della morte, che egli implora la guarigione. La malattia diventa cammino di conversione e il perdono di Dio dà inizio alla guarigione. Israele sperimenta che la malattia è legata, in un modo misterioso, al peccato e al male, e che la fedeltà a Dio, secondo la sua Legge ridona la vita: “perché io sono il Signore, colui che ti guarisce!” (Es 15,26). Il profeta intuisce che la sofferenza può anche avere un valore redentivo per i peccati altrui. Infine Isaia annuncia che Dio farà sorgere per Sion un tempo in cui perdonerà ogni colpa e guarirà ogni malattia. Ma è soprattutto nel Nuovo Testamento che il rapporto tra Parola e Persona di Dio diventa più esplicito.

Gesù è infatti considerato “Medico delle anime” La compassione di Cristo verso i malati e le sue numerose guarigioni di infermi di ogni genere sono un chiaro segno del fatto che “Dio ha visitato il suo popolo” (Lc 7, 16) e che il Regno di Dio è vicino. Gesù non ha soltanto il potere

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di guarire, ma anche di perdonare i peccati: è venuto a guarire l’uomo tutto intero, anima e corpo; è il medico di cui i malati hanno bisogno. La sua compassione verso tutti coloro che soffrono si spinge così lontano che egli si identifica con loro: “Ero malato e mi avete visitato” (Mt 25, 36). Il suo amore di predilezione per gli infermi non ha cessato lungo i secoli, di rendere i cristiani particolarmente premurosi verso tutti coloro che soffrono nel corpo e nello spirito. Essa sta all’origine degli instancabili sforzi per alleviare le loro pene. Ma spesso Gesù chiede ai malati di credere. Si serve di segni per guarire: saliva e imposizioni delle mani, fango e abluzioni. I malati cercano di toccarlo “perché da Lui usciva una forza che sanava tutti” (Lc 6,19). Così, nei sacramenti, Cristo continua a “toccarci” per guarirci. Commosso da tante sofferenze, Cristo non soltanto si lascia toccare dai malati, ma fa sue le loro miserie: “Egli ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie” (Mt 8, 17). Non ha guarito però tutti i malati. Le sue guarigioni erano segni della venuta del Regno di Dio. Annunciavano una guarigione più radicale: la vittoria sul peccato e sulla morte attraverso la sua Pasqua. Sulla croce, Cristo ha preso su di sé tutto il peso del male e ha tolto il “peccato del mondo” (Gv 1,29), di cui la malattia non é che una conseguenza. Con la sua passione e la sua morte sulla Croce, Cristo ha dato un senso nuovo alla sofferenza: essa può ormai configurarci a lui e unirci alla sua passione redentrice.

L’azione di Cristo verso gli ammalati, programma irrinunciabile per i suoi discepoli. Cristo invita i suoi discepoli a seguirlo prendendo anch’essi la loro croce. Seguendolo, assumono un nuovo modo di vedere la malattia e i malati. Gesù li associa alla sua vita di povertà e di servizio. Li rende partecipi del suo ministero di compassione e di guarigione: “E partiti, predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano”. (Mc 6, 12-13). Dopo la risurrezione rinnova questo invio: “Nel mio nome imporranno le mani ai malati e questi guariranno”, (Mc 16, 17-18) e lo conferma per mezzo dei segni che la Chiesa compie invocando il suo nome. Questi segni manifestano in modo speciale che Gesù è veramente “Dio che salva”. Inoltre lo Spirito Santo dona ad alcuni un carisma speciale di guarigione per manifestare la forza della grazia del Risorto. Tuttavia, neppure le preghiere più intense ottengono la guarigione di tutte le malattie. Così san Paolo deve imparare dal Signore che “ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza” (2


Per riceverlo con efficacia Cor 12,9), e che le sofferenze da sopportare possono avere come senso quello per cui “io completo nella mia carne ciò che manca ai patimenti di Cristo, a favore del Suo corpo che é la Chiesa” (Col 1,24).

“Guarite gli infermi!”, compito della Chiesa Lo ha ricevuto dal Signore e cerca di attuarlo sia attraverso le cure che presta ai malati sia mediante la preghiera di intercessione con la quale li accompagna. Essa crede nella presenza vivificante di Cristo, medico delle anime e dei corpi. Questa presenza è particolarmente operante nei sacramenti e in modo tutto speciale nell’Eucarestia, pane che dà la vita eterna e al cui legame con la salute del corpo san Paolo allude. La Chiesa apostolica conosce tuttavia un rito specifico in favore degli infermi, attestato da san Giacomo: “Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà e, se ha commesso peccati, gli saranno perdonati” (Gc 5, 14-15). La Tradizione ha riconosciuto in questo rito uno dei sette sacramenti della Chiesa.

er completare quanto abbiamo già detto e importante offrire alcune indicazioni pratiche che rivaluti questo sacramento e lo colleghi nella sua giusta funzione: segno-sacro del sollievo degli ammalati. Lo facciamo con Lawrence E. Mick che ha scritto quel libretto che consigliamo in ultima di copertina.

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Nell’articolo precedente abbiamo detto che la Chiesa crede e professa che esista, tra i sette sacramenti, uno specialmente destinato a confortare coloro che sono provati dalla malattia: l’Unzione degli infermi. Questa unzione sacra dei malati è stata istituita come vero e proprio sacramento del Nuovo Testamento dal Signore nostro Gesù Cristo. Accennato da Marco, è stato raccomandato ai fedeli e promulgato da Giacomo, apostolo e fratello del Signore. Nella tradizione liturgica, tanto in Oriente quanto in Occidente, si hanno fin dall’antichità testimonianze di unzioni di infermi praticate con olio benedetto. Nel corso dei secoli, l’Unzione degli infermi è stata conferita sempre più esclusivamente a coloro che erano in punto di morte. Per questo motivo aveva ricevuto il nome di “Estrema Unzione”. Malgrado questa evoluzione la Liturgia non ha mai tralasciato di pregare il Signore affinché il malato riacquisti la salute, se ciò può giovare alla sua salvezza. Anche recentemente la Costituzione apostolica “Sacram unctionem infirmorum” del 30 novembre 1972, in linea con il Concilio Vaticano II ha stabilito che, per l’avvenire, sia osservato nel rito romano quanto segue: “Il sacramento dell’Unzione degli infermi viene conferito ai malati in grave pericolo, ungendoli sulla fronte e sulle mani con olio debitamente benedetto – olio di oliva o altro olio vegetale – dicendo una sola volta: Per questa santa unzione e per la sua piissima misericordia ti aiuti il Signore con la grazia dello Spirito Santo, e liberandoti dai peccati, ti salvi e nella sua bontà ti sollevi.

Chi può ricevere il sacramento dell’unzione? Una corretta comprensione dell’unzione degli infermi ci permette di prendere decisioni altrettanto corrette circa questo sacramento. Uno degli aspetti fondamentali riguarda chi sono propriamente i candidati dell’unzione. Le premesse del Rituale ci danno alcune direttive in proposito: “Con ogni premura e diligenza si deve provvedere al conferimento dell’unzione a quei fedeli il cui stato di salute risulta seriamente compromesso per malattia o per vecchiaia”. Il testo evita deliberatamente di usare termini come “gravemente” o “pericolosamente” e parla semplicemente di malattia seria. Ciò indica il tipo di giudizio che si deve fare. Il candidato a ricevere propriamente questo sacramento è chiunque sia seriamente ammalato. Il paziente non deve essere necessariamente

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Messaggio tematico

in punto di morte, ma neppure si deve amministrare il sacramento a una persona colpita da una malattia di poco conto. Come dicono le premesse del Rituale: “Per valutare la gravità del male, è sufficiente un giudizio prudente o probabile, senza inutili ansietà: si può eventualmente interpellare un medico”. Il sacramento si può anche ripetere se la persona guarisce, ma poi ricade nuovamente nella malattia oppure se le sue condizioni si aggravano.

È giusto chiederlo prima di una operazione chirurgica? È diventato abbastanza comune che un malato riceva l’unzione prima di una operazione chirurgica, cosa che il Rituale approva ogni volta che una malattia seria richieda l’intervento del chirurgo. Gli anziani possono ricevere l’unzione se sono indeboliti, anche se non sia presente nessuna malattia seria, dato che la loro salute è deteriorata per il semplice fatto dell’età avanzata in cui si trovano. Ciò non significa però che tutti gli anziani sono automaticamente candidati a ricevere l’unzione degli infermi. Come dicono le premesse al rito, si può dare la sacra unzione ai vecchi solo quando c’è un “indebolimento accentuato delle loro forze”.

sigliabile in tali casi consultarsi con il medico curante per determinare se l’unzione possa verosimilmente dare aiuto e consolazione al malato.

In che contesto deve essere amministrato? E importante ricordare sempre che questo sacramento trova la sua giusta collocazione nel contesto di una cura pastorale ad ampio raggio che l’intera comunità della chiesa vuole svolgere per il bene dei malati. Con l’unzione degli infermi, come con tutti gli altri sacramenti, si deve evitare ogni idea magica a loro riguardo. I sacramenti sono esperienze umane e il loro beneficio dipende in larga misura dal modo in cui ci si prepara e li si celebra. Certamente Dio benedirà e si prenderà cura dei malati anche se noi prestiamo uno scarso servizio pastorale verso di loro. Ma una cura attenta e amorosa, unita a una celebrazione dei sacramenti ben fatta e piena di rispetto, può sostenere e potenziare gli effetti dell’azione di Dio mediante i gesti sacramentali. Infatti i sacramenti mirano a essere il punto culminante di come sperimentiamo la presenza di Dio nella nostra vita; una buona azione pastorale di tutti i membri della comunità cristiana può rendere evidente tale presenza presso i malati proprio nel dolore della malattia.

I bambini possono riceverlo? Come celebrarlo? Anche ai bambini si può dare l’unzione, “purché abbiano raggiunto un uso di ragione sufficiente a far loro sentire il conforto di questo sacramento”. Anche qui si richiede un giudizio di buon senso. Un bambino può trovare conforto nel sacramento, anche se è incapace di esprimere verbalmente la comprensione del rito. L’imposizione delle mani e l’unzione con l’olio possono essere il tocco del Signore che consola e dà forza, e la preghiera della fede è di conforto anche per un bambino in tenera età. Se si trova in punto di morte, il rito raccomanda che siano celebrati per il bambino i sacramenti dell’iniziazione (battesimo, cresima ed eucarestia), anche se la sua età fosse inferiore a quella abituale per la ricezione di questi sacramenti.

E gli ammalati mentali? Ci sono state notevoli discussioni e idee confuse circa l’uso di questo sacramento con persone affette da disturbi mentali. Il problema viene affrontato nelle premesse del Rituale, dove si dice: “Quanto ai malati che abbiano eventualmente perduto l’uso di ragione o si trovino in stato di incoscienza, se c’è motivo di ritenere che nel possesso delle loro facoltà essi stessi, come credenti, avrebbero chiesto l’unzione, si può senza difficoltà conferir loro il sacramento”. Può essere con-

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Il sacramento stesso dell’unzione, per quanto possibile, dovrebbe essere celebrato in un ambiente comunitario. In alcuni casi si può organizzare una celebrazione comune in cui partecipano parecchi ammalati, che ricevono l’unzione contemporaneamente. Ma anche se l’unzione riguarda una sola persona, la comunità cristiana dovrebbe riunirsi attorno ad essa. Idealmente dovrebbe esserci un certo numero di parrocchiani amici del malato, ma se ciò non è possibile vanno incoraggiati a essere presenti almeno i membri della famiglia. A differenza delle abitudini del passato, quando i familiari di solito uscivano dalla stanza mentre si celebrava l’unzione (forse perché nel rito era compreso il sacramento della penitenza), il rituale oggi presume la presenza della famiglia, degli amici e di altri membri della comunità ogni volta che ciò sia possibile. Èun incontro di fede attorno a un fratello o sorella dolorante e “la preghiera della fede salverà la persona ammalata” (Giacomo 5, 15). Essendo coinvolti i membri della famiglia, la celebrazione produrrà effetti benefici anche per loro oltre che per l’ammalato. Quando un membro della famiglia è colpito da una malattia, anche gli altri membri della famiglia ne vengono colpiti in vari modi. Può essere che si ammali l’unica persona che guadagna lo stipendio necessario per vivere; e allora viene minac-


ciata la sicurezza finanziaria della famiglia. I coniugi sperimentano il dolore della separazione, spesso accompagnata da sentimenti di impotenza. I bambini soffrono la perdita della presenza di un genitore e della sua guida, almeno temporaneamente. Tutti quelli che sono vicini all’ammalato possono speri- mentare più profondamente la propria infermità o fragilità di fronte alla morte. Quelli che prestano il loro servizio ai malati dovrebbero essere molto attenti al potere delle parole che pronunciano e alle azioni che compiono sia sul gruppo riunito sia sulla persona inferma.

Il sacramento ai moribondi Una volta compreso che l’unzione è un rito per chi è ammalato e non per i moribondi, ciò dovrebbe spingere le persone a chiedere questo sacramento per se stesse o per i propri familiari al momento giusto. Con la diminuzione costante del numero di sacerdoti nel nostro paese, sarà sempre più irrealistico pensare che un sacerdote sia sempre disponibile ogni volta che lo si cerca per amministrare l’unzione degli infermi. Se possibile, questo sacramento dovrebbe essere celebrato prima che la situazione diventi critica. Una persona che sta per subire un’operazione di una certa serietà, potrebbe ricevere l’unzione in parrocchia prima di andare in ospedale. Ciò potrebbe aver luogo nella messa della domenica o in una messa feriale, dove altri parrocchiani possono essere invitati a condividere la preghiera e la celebrazione del rito. Quelli che entrano in una casa di riposo o in un ospizio potrebbero ricevere l’unzione poco tempo dopo essere stati accolti, invece di aspettare che ci sia il pericolo di morte. Le persone colpite da malattia terminale dovrebbero richiedere l’unzione quando ricevono la diagnosi e poi nel corso della malattia possono ricevere ancora il sacramento diverse volte. Se si evitano le richieste degli ultimi istanti, non solo si permette al sacerdote di organizzare meglio la celebrazione inserendola nella sua agenda, ma anche diventa possibile invitare altri membri della famiglia e alcuni parrocchiani, perché partecipino al rito. Naturalmente capiteranno sempre delle emergenze e i sacerdoti sono sempre pronti a fare tutto quello che possono in tali situazioni. Tuttavia dobbiamo distaccarci dalla mentalità “dell’ultimo minuto” che si è sviluppata quando questo sacramento era visto solo come “estrema unzione”, come ultimo rito della vita.

Che rapporto c’è tra l’unzione e il viatico? Un pro-memoria finale, di natura pratica, è di considerare il viatico come il sacramento adatto ai morenti, in quanto ricevere la comunione è il cibo necessario per il viaggio verso il cielo. Ciò intende essere una consolazione per il malato;

quindi il viatico dovrebbe essere celebrato quando sia possibile la partecipazione attiva e cosciente della persona. Se si aspetta troppo a lungo, è probabile che il moribondo non sia più capace né di mangiare né di bere, per cui è impossibile che riceva il sacramento. Se una persona rimane in vita dopo aver ricevuto il viatico, lo può ricevere ancora, anche ogni giorno. Se possibile, va preferita la celebrazione della messa come contesto per amministrare il viatico. Spesso ciò si può organizzare, raccogliendo un piccolo gruppo in un ospedale o in una casa di cura o in famiglia. Se non si può celebrare la messa, il viatico dovrebbe essere comunque un rito comunitario, raccogliendo attorno al morente un piccolo gruppo di cristiani. Benché il sacerdote sia considerato il ministro ordinario del viatico, il rito prevede chiaramente che un diacono o un ministro straordinario della comunione possa amministrare questo sacramento quando un sacerdote non è disponibile. La possibilità che un moribondo riceva il viatico è chiaramente più importante della persona del ministro che lo amministra.

Conclusione L’esperienza di una seria malattia è sempre un tempo di prova per il paziente, i suoi amici e parenti. La malattia ci pone di fronte alla nostra condizione mortale e sconvolge molti aspetti della nostra vita normale e delle relazioni abitudinali. Le necessità dei malati sono grandi e vanno oltre i bisogni fisici e sanitari. La comunità cristiana tenta di rispondere a queste necessità generosamente, imitando l’amore e la sollecitudine di Cristo stesso verso quelli che soffrono nel corpo e nello spirito. Il rituale rinnovato per la cura pastorale degli infermi e per i moribondi offre una ricca risorsa per la comunità ecclesiale. Se usato bene, aiuterà tutti i membri della chiesa a manifestare più chiaramente l’amore di Cristo verso i malati che sono in mezzo a loro.


Messaggio dal santuario

Tra ‘Luigi’e‘Napoli’ l Dizionario Storico della Svizzera (DSS) è un’opera di carattere scientifico, che si prefigge però di presentare in modo chiaro e accessibile la storia del nostro paese anche ai non specialisti. In sintonia con una delle peculiarità svizzere il dizionario è redatto nelle tre lingue nazionali. Il primo volume a stampa dei tredici che comporranno l’opera completa ha visto la luce nell’anno duemiladue. Da allora in poi i successivi tomi sono stati pubblicati con cadenza annuale. Alla fine del duemilanove è stato presentato ufficialmente al pubblico, prima a Lucerna e poi a Lugano, l’ottavo volume del dizionario. Quest’ultimo libro contiene tremiladuecentosette voci, da “Luigi” a “Napoli”. Assieme ai nomi di personaggi, di luoghi e di tematiche di grande rilevanza per la storia del nostro paese, da Mazzini a Napoleone, da Milano a Napoli, da Mercato a Mobilitazione, appare anche la voce Madonna del Sasso. Al nostro santuario è stata riservata un’attenzione particolare rispetto ad altri luoghi di culto, pur significativi per la storia del cantone Ticino. Fra i diversi motivi che possono aver favorito l’inse-

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rimento della voce Madonna del Sasso nella monumentale opera storiografica figurano certamente la struttura del complesso (chiese, Sacro Monte e convento), il suo sviluppo nel corso dei secoli, l’importanza da esso assunta nella storia della Diocesi di Lugano, i monumenti d’arte custoditivi e l’innegabile attrattiva turistica che il luogo continua a suscitare. Il complesso della Madonna del Sasso si estende attualmente sul comprensorio di tre comuni confinanti: Orselina, Muralto e Locarno. Il frate conventuale, Bartolomeo da Ivrea, che dal 1480 iniziò a vivere come eremita sul Sasso sopra Locarno, apparteneva alla fraternità del cittadino convento di san Francesco, un complesso e una comunità conventuali molto significativi sia per la storia della diffusione dell’Ordine francescano, sia per le vicende storiche della città di Locarno, sia per lo sviluppo del santuario della Madonna del Sasso. Fra Bartolomeo trascorrerà gli ultimi trent’anni della sua vita sul Sasso sopra Locarno, iniziando e


portando a termine alcune strutture edili. In quello stesso periodo, per iniziativa del frate francescano Bernardino Caimi, a Varallo Sesia veniva edificato il primo Sacro Monte della storia, che servirà da prototipo per le altre simili strutture sorte in seguito in Piemonte e in Lombardia (le principali: Crea, Orta, Varese, Domodossola, Ghiffa, Arona, Oria-Valsolda, Ossuccio, Oropa, Graglia; per la nostra regione ricordiamo anche Brissago). La costruzione ai piedi del Sasso sopra Locarno della chiesa dedicata all’Annunciata e la sua consacrazione (1502), ancora vivente fra Bartolomeo, accredita l’ipotesi secondo la quale fin dagli inizi si fosse pensato ad un Sacro Monte anche per il complesso locarnese. Di fatto esso, nel corso dei secoli, si è sviluppato ed è diventato a pieno titolo una di queste strutture, attualmente annoverata tra quelle principali sopra ricordate. Tra le diverse opere d’arte conservate nel santuario, ne andrebbero annoverate anche due legate agli albori della sua storia, una di indiscusso valore artistico, l’altra di fondamentale importanza per la devozione mariana. L’ancona lignea detta “della Pietà”, ma anche della “Deposizione dalla Croce” o “del Compianto”, è indicata esistente già nel 1487, anno nel quale venne consacrato il sacello che la custodirà. L’opera, ora concordemente assegnata alla bottega milanese della famiglia De Donati, è stata oggetto di un minuzioso restauro: ha lasciato il santuario e vi ritornerà nella primavera del prossimo anno, dopo che sarà stata esposta anche alla pinacoteca Züst di Rancate. La statua lignea della Madonna del Sasso, è probabilmente pure degli anni 1485/87. Il suo pregio artistico è difficile da valutare, ma il suo valore per la devozione mariana nella nostra Diocesi continua ad essere considerevole, soprattutto dopo la

Grande visita del 1949, come lo ha dimostrato anche lo scorso 6 settembre la commemorazione del 60° anniversario di quello storico avvenimento. Tra i libri conservati nella biblioteca conventuale spiccano i quattro codici miniati trecenteschi provenienti dal convento di san Francesco, che negli scorsi anni il Cantone ha fatto restaurare.

Dalla primavera del 2009 si sta scrivendo una nuova importante pagina della storia del santuario della Madonna del Sasso. È infatti iniziata la seconda fase di un programma di lavori di restauro che interessa l’intero complesso, dal 1848 di proprietà del Cantone. Sia la chiesa dell’Annunciata sia la chiesa principale dell’Assunta sono attualmente chiuse al pubblico. La statua della Madonna del Sasso è custodita in una cappella provvisoria, nella quale si svolgono anche le funzioni religiose. Alla fine del 2011 l’intera struttura, completamente restaurata, sarà di nuovo e più comodamente accessibile da parte dei fedeli e di tutti i suoi innumerevoli estimatori.

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Messaggio dai conventi

Bigorio alto luogo dello Spirito e uscendo dalla galleria dal Gottardo arrivi nella piana di Ambrì e ti sfugge l’occhio sulla montagna a sinistra, vedi un caseggiato fatiscente; è un ex-sanatorio, da anni chiuso perché la malattia che ivi si curava - la tubercolosi - nel nostro paese è ormai scomparsa. Se passi lungo il piano di Magadino e guardi sempre verso la montagna trovi un altro caseggiato che un tempo era sanatorio per bambini, ora adibito ad altri scopi. Le malattie del corpo possono scomparire, mentre le malattie dell’anima arrischiano di peggiorare. Ecco perché chi viene dall’Italia, giunto al piano del Vedeggio può vedere in mezzo ai boschi una casa dalle armoniche proporzioni settecentesche, non è un sanatorio del corpo, eventualmente dell’anima, è il convento di Bigorio, la prima residenza dei Frati Cappuccini in Svizzera che, quando fu aperta al pubblico fu definita un “Alto luogo dello Spirito”. Quante persone in questi… anni hanno rifocillato e rinfrancato il proprio spirito a Bigorio! Oggi, queste cure sono quanto mai necessarie, perché i bacilli del materialismo e della superficialità si fanno sempre più aggressivi. Perciò luoghi come Bigorio sono preziosissimi e sono apprezzati da tutti coloro che sentono la necessità di momenti di spiritualità, indipendentemente dal proprio credo religioso. I frati cappuccini - che non per nulla si chiamano “frati”, quindi fratelli - accolgono nel limite delle loro possibilità tutte quelle persone e gruppi desiderosi di momenti, o di silenzio o di dialogo, aiutandoli a compiere cammini interiori, magari intercalati con comminate nei boschi vicini, al di fuori del baccano cittadino e dalle preoccupazioni del proprio lavoro quotidiano. Ecco perché a Bigorio si tengono dei corsi di silenzio, durante i quali i partecipanti sono invitati, attraverso stimoli discreti, a vivere momenti interiori. Si organizzano giornate di meditazione per apprendere delle tecniche particolari, suggerite anche da altre religioni. Non mancano corsi e incontri di cultura religiosa, quelli su Gesù, i suoi miracoli e le sue parabole, dove oltre ad esposizioni aggiornate si discute e dialoga nell’assoluto rispetto delle idee di ciascun partecipante. Corsi su arte, su musica sacra. Dall’inizio dell’apertura del convento si tengono incontri per fidanzati in preparazione al sacramento del matrimonio, per aiutare le giovani coppie ad affinare il proprio spirito aiutandole ad arricchirsi interiormente per poi donarsi vicendevolmente nell’ambito di una vita che domanda consonanza ed unità di ideali e di intenti. Per questa sua attività Bigorio è quasi un “unicum” nel Ticino e resta la dimostrazione di come si può vivere oggi la povertà francescana, che non consta nella scarsezza dei mezzi, ma nell’offerta dei propri ambienti per vivere - in modo laico - quelle giornate ed esperienze che una volta i

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frati passavano in un antico convento così suggestivo e stimolante per delle ascensioni spirituali. Il complesso è curato, le piccole celle sono rimaste come un tempo, identico è il refettorio conventuale, il coro. Sono state approntate sale per esposizioni dotate di tutti i più moderni mezzi tecnici di comunicazione. Ed oltre alla chiesa conventuale aperta al pubblico, una cappella interna di grande gusto per le celebrazioni particolari. Bigorio, per fare paragoni francescani, assomiglia alle carceri sopra Assisi, alle Celle di Cortona, a La Verna sull’Appennino Toscano. Per molti ticinesi ed anche esteri è un luogo noto, perché vi hanno già passato momenti importanti della loro vita. Per altri è un ambiente tutto da scoprire; se lo vogliono fare .... anche per mezzo di internet...

Vi presentiamo presentiamoleleproposte proposteche cheil ilconvento convento offre offre a partire partire dal dalmese mesedidisettembre: settembre: 11 Giornata di studio sui simboli settembre nell’arte cristiana dalle ore 10 alle ore 15.30, animatore Don C. Premoli, storico dell’arte

25 e 26 Le Parabole di Gesù settembre dalle ore 9 di sabato alle 14 di domenica, animatore Fra Callisto

9 e 10 ottobre

Meditazione cristiana dalle ore 9.30 del sabato alle 17 di domenica, animatore Fra Andrea

13 e 14 I Miracoli di Gesù novembre dalle ore 9 di sabato alle 14 di domenica, animatore Fra Callisto

20 e 21 La riscoperta del silenzio novembre dalle ore 11.30 di sabato alle 17 di domenica, animatore Fra Roberto

27 Giornata di studio sui simboli novembre nell’arte cristiana dalle ore 10 alle ore 15.30, animatore Don C. Premoli, storico dell’arte

4e5 Meditazione cristiana dicembre dalle ore 9.30 del sabato alle 17 di domenica, animatore Fra Andrea

18 e 19 In cammino verso la Culla dicembre dalle ore 16 di sabato alle 14 di domenica, animatore Prof. Vaccani Per informazioni su queste giornate, ci si può rivolgere alla segreteria del convento al numero 091 943 12 22, in orari d’ufficio oppure visitare il sito www.bigorio.ch



Messaggio dall’Ordine Francescano Secolare

Ritiro spirituale a Bigorio Momento forte per i francescani secolari Il convento di Bigorio e il ritiro spirituale di Quaresima hanno un posto particolare nel cuore dei francescani secolari. Il luogo, immerso nel silenzio, nella pace, nella natura impareggiabile che lo circonda, invita alla meditazione e alla preghiera, all’incontro con Dio. Il momento, quello del tempo quaresimale, dove ognuno si concentra sulla grandezza del sacrificio di Gesù sulla croce, invita a fermarsi e a renderci conto dell’immensità del suo amore per noi. Tutto questo unito alla gioia di incontrare tante persone care, che magari non si vedono da tempo, fedeli all’appuntamento a Bigorio, dove si fa l’esperienza di essere famiglia francescana. Quest’anno, dal 5 al 7 marzo, era con noi Padre Mario Bongio, della Fraternità dei cappuccini di Cerro Maggiore di Lombardia, il quale ci ha parlato delle Beatitudini. Lo ha fatto in una maniera particolare perché, sostiene, le Beatitudini parlano da sole, non hanno bisogno di commento. Ha iniziato col farci conoscere ciò che sta intorno, cioè “la cornice”: il luogo, il protagonista, le folle, i discepoli. Le Beatitudini si collocano all’inizio del Discorso della montagna, quella parte di Vangelo che “dà corpo alla nostra vita di cristiani”. È il primo elemento da cogliere, quindi dobbiamo anzitutto ricuperare il contesto del Vangelo. Per comprendere è necessario: proclamare – ascoltare con calma – far risuonare il testo nel nostro cuore. Il testo parlerà da solo. Le Beatitudini sono contenute nei Vangeli di Matteo e di Luca, ma parliamo segnatamente di Matteo. Lui era ebreo e si rivolgeva alla sua comunità, quindi per farsi capire usa tutti gli strumenti della cultura ebraica. Matteo vede in Gesù il nuovo Mosé e vuole spiegare che il Vangelo supera la Torah. La giustizia dei farisei era fondata sui 10 comandamenti. Essi non sono affatto aboliti, Gesù è venuto per farne il compimento. I personaggi di questa pagina di Vangelo sono quindi Gesù, il Maestro, il protagonista, poi le folle, affascinate dai suoi discorsi e dai miracoli (ma poi si sa come andò a finire), infine i discepoli, che chiamò accanto a sé. Ecco un primo insegnamento per noi: per capire il Vangelo non basta una fede superficiale (quella delle folle), ma bisogna che ci sia la fede che scaturisce da una decisione, da una volontà. Gesù chiama quali primi discepoli Simone, Andrea, Giacomo, Giovanni, quelli che gli staranno più vicini sempre, anche se uomini deboli anche loro. Il discorso della montagna è conosciuto anche fuori dal cristianesimo. Per comprenderlo non bisogna fare tanti ragionamenti: basta proclamarlo, ascoltarlo, sentirne l’eco, lasciarlo lievitare. Allora il discorso “parlerà” e capiremo cosa fare. Diventeremo come i discepoli, uomini del Signore, anche quando ci sarà chiesto di portare la croce. Bisogna però che siamo capaci di staccarci da quello che è

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superficiale (pensiamo al significato del “togliersi i sandali prima di entrare nella sinagoga” praticato dagli ebrei). La nostra non è una religione “del Libro” ma è la religione “di una persona”: Gesù Cristo. Egli ci insegna ad essere poveri di fronte a Dio, con la nostra adesione di fede, con la presa di coscienza di ciò che siamo. Dobbiamo stare davanti a Dio con atteggiamento di figliolanza, dipendenti dal Padre: se il Padre non ci aiuta, da soli non possiamo fare niente. Comprendiamo questo se guardiamo ai piccoli, ai poveri, agli ultimi. Egli ci insegna ad essere miti, in un mondo dove regna la violenza, l’arroganza, la prepotenza. La libertà di spirito, la semplicità della vita e la bontà e la tenerezza sono i modi per vivere la mitezza. Egli ci insegna la giustizia del Regno, che è salvezza e misericordia. È Dio che ci salva nonostante la nostra debolezza. È una giustizia che rende giusto chi è fondamentalmente ingiusto. Egli ci insegna la purezza, cioè la semplicità interiore. Dobbiamo imparare a vedere Dio, vedere il Suo volto nella natura, nel creato. Qui san Francesco è maestro, soprattutto se pensiamo che ha scritto il Cantico delle creature quando era cieco e non riusciva più a camminare… Egli ci insegna ad essere portatori di pace. Dovremmo essere professionisti alla scuola di san Francesco. Il suo saluto “Il Signore ti dia Pace” vuol dire il Signore sia con te, la pace di Dio io la do a te. Ma la pace si costruisce, non viene da sé. Gesù ha detto: “Vi lascio la pace, vi dò la mia pace”, non la pace del mondo, ma la Sua. Questa pace porta verità, giustizia, perdono. San Francesco è l’uomo del Vangelo, l’uomo del Discorso della montagna, l’uomo delle Beatitudini. Egli parla abbondantemente delle Beatitudini nei suoi scritti. Sono citati nelle Ammonizioni (da 162 a 178), nella Lettera a un ministro e in diversi altri suoi scritti. Riportiamo solo un esempio, l’Ammonizione XXVII: Dov’è amore e sapienza Ivi non è timore né ignoranza Dov’è pazienza e umiltà Ivi non è né ira né turbamento Dov’è povertà con letizia Ivi non è né cupidigia né avarizia Dov’è quiete e meditazione Ivi non è né affanno né dissipazione Dov’è il timore del Signore a custodire la sua casa Ivi il nemico non può trovare via d’entrata, Dov’è misericordia e discrezione, ivi non è superfluità né durezza.


Bisogna ritornare alla purezza del Vangelo e di san Francesco. Quel san Francesco dei Fioretti che disse: “… Dio non ha trovato più vile creatura sopra la terra e perciò ha eletto me per confondere la nobiltà , la grandigia e la fortezza e bellezza e sapienza del mondo acciò che si conosca che ogni virtù e ogni bene e da lui e non dalla creatura e nessuna persona si possa gloriare nel cospetto suo, ma chi si gloria si glorii nel Signore a cui è ogni onore e gloria in eterno”. Quel san Francesco che chiese: “O, Signore, due grazie ti prego che tu mi faccia prima che io muoia; la prima che in vita mia io senta nell’anima e nel corpo mio, quanto è possibile, quel dolore che tu, dolce Gesù sostenesti nell’ora della tua acerbissima passione ; la seconda che io senta nel cuore mio, quanto è possibile, quell’eccessivo amore del quale tu, Figliolo di Dio, era acceso a sostenere volentieri tanta passione per noi peccatori”. San Francesco ha cercato di fare proprio il mistero di Gesù Cristo, carne della sua carne, vita della sua vita. È un uomo attaccato alla terra. Ci insegna la strada del Vangelo, quello che vien fuori dal Discorso della montagna. San Francesco ha vissuto le Beatitudini, soprattutto la prima (beati i poveri di spirito, cioè quelli che sono poveri di fronte a Dio: Dio affiderà a loro il suo regno). Il Signore gli ha veramente affidato il suo regno. Umiltà, semplicità, povertà, gli sono state maestre. Egli ha vissuto il discorso della montagna nelle tre dimensioni: preghiera – digiuno – elemosina. San Francesco ha vissuto in modo particolare la Beatitudine del perdono, guardiamo ad esempio la Lettera

ad un ministro. Senza perdono, non c’è giustizia; è il perdono che fa il primo passo, come fa Gesù sulla croce, come fa san Francesco con la sua comunità. Il perdono è ciò che tiene in piedi le nostre Fraternità, dove il perdono diventa pazienza, sopportazione, patimento. San Francesco, uomo di pace. Pace con Dio, con gli altri, con te stesso. San Francesco, uomo della gioia. La gioia del Vangelo, che passa attraverso la croce. La gioia, la letizia, la gloria, la speranza passano attraverso la croce. Le cose che valgono sono quelle che costano di più. È sulla croce che il mistero si compie nella sua pienezza. Padre Mario, nei due giorni passati a Bigorio, ci ha fatto comprendere la bellezza di vivere le Beatitudini. Ora ci aspetta il “compito a casa”, come ha detto lui. Perciò, rimettiamoci i sandali, ritorniamo sulla terra, rinnovati nel cuore però. Vangelo e Fonti francescane sul comodino, cerchiamo ogni giorno la parola, l’insegnamento, perché tutto quello che durante il ritiro ci ha fatto comprendere cosa è la felicità, possiamo arrivare a sentirlo e sperimentarlo nel quotidiano. Quel quotidiano che è la nostra famiglia, la fraternità, la parrocchia, il posto di lavoro. Un grazie di cuore a Padre Mario. Speriamo vivamente che sia con noi anche l’anno prossimo. Gli abbiamo espresso un desiderio: dopo averci parlato delle Beatitudini, ci parli della preghiera del Padre Nostro. Un invito quindi per tutti noi: all’anno prossimo ! Franca Humair


Tau simbolo francescano requentando i testimoni della Tradizione, in particolare quelli che hanno influenzato tutto il Medioevo, siamo diventati più capaci di comprendere la devozione al Tau che animava S. Francesco. La sua è una devozione non solo alla croce, ma a tutta la missione del Cristo, che si esprime attraverso questo segno simbolico.

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Il Tau è per lui certezza di salvezza (a causa della vittoria di Cristo sul male). A tal punto che, quando Fra Leone conosce il dubbio sul proprio destino eterno, S. Francesco, per mezzo di questa lettera, il Tau, gli rende la speranza.

a croce del Tau prende il nome dalla lettera greca T, Il Tau, di cui ricalca la forma. Ma in realtà è un simbolo della storia molto interessante che affonda i suoi più reconditi significati all’alba delle civiltà così come le conosciamo noi e che attraversa gran parte della cultura e della fede occidentale.

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Nel Medioevo al segno di Dio viene dato la forma della “T” greca, anche perché é quella della vera “croce”. Rintracciandolo nei passi biblici, vi si leggeva l’ennesima profezia dell’incarnazione di Cristo e del suo martirio per mezzo della croce. La “croce”, intesa come strumento d’esecuzioni capitali dei Romani, era formata da due elementi. Il primo era lo “stipes”, il palo verticale che generalmente rimaneva sempre piantato sul luogo destinato alle esecuzioni. L’altro elemento era il “patibulum”, ovvero il braccio orizzontale che fu legato sopra la schiena, agli omeri, alle braccia e ai polsi del Cristo e portato faticosamente lungo la “via dolorosa”. Il condannato veniva poi issato sul palo verticale assieme al “patibulum” ed in questo modo la croce assumeva la forma di una gigantesca e terribile lettera “T”.

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Il Tau è per lui l’universalità della salvezza. “Attraverso la tua santa croce tu hai riconquistato il regno dei cieli”: questo è il finale della preghiera che i suoi fratelli e lui recitavano ogni volta che notavano “una croce o un’immagine di una croce sul suolo, su un muro, sul tronco di un albero o in un cespuglio trovato lungo il cammino”. Il Tau è per lui il simbolo di conversione permanente e di spoliazione totale dai beni terreni. Convertirsi, lasciarsi segnare dal Tau, è farsi poveri. Così, in una bella Laude, i fratelli dicono a Sora Povertà: “ tu eri con Gesù sotto le urla degli ebrei, sotto i fischi e gli sputi, sotto i colpi di frusta; fin sulla croce, hai subito la tortura con lui. Ma alla fine, quando salì al cielo, egli ti lasciò (il Tau) il sigillo del Re dei cieli per segnare gli eletti, affinché chiunque aspiri al Regno eterno venga a trovarti e a supplicarti di esservi ammesso: perché non si può entrarvi se non segnati dal tuo sigillo”. Il Tau è per lui un impegno necessario e di servizio verso gli altri, perché ricorda che il Signore si è, lui stesso, fatto servitore fino alla morte. Francesco sarà dunque, pure lui, servitore di Dio e servitore dei suoi fratelli, in tutte le sue azioni, nella preghiera come pure nella predicazione. Il Tau, infine, è per lui segno della bontà e dell’amore di Dio; è il suo titolo di gloria e la sorgente della sua gioia perfetta. Forse S. Francesco ha talvolta cantato, applicandolo a se stesso, questa strofa di un inno latino del XII secolo: “Marchiato dal Tau, segno di vita, prova che si vuole servitore del Crocefisso”. Avrebbe comunque apprezzato l’allusione a questo profondo mistero e alla più lontana tradizione, inserita in un inno moderno, e avrebbe cantato con tutto il cuore: Le vostre fronti sono segnate Con segni sacri: Le parole Gesù e vittoria !

(In corsivo, traduzione in italiano di un testo tratto dal libro “Le Tau” di Damien Vorreux, ed. Franciscaines, Parigi, 1977)


Padre santo, Tu hai voluto che il tuo unico Figlio, autore della vita, medico dei corpi e delle anime, prendesse su di sé le nostre infermità per soccorrerci nell’ora della prova e santificarci nell’esperienza del dolore. Nel segno sacramentale dell’Unzione mediante la preghiera della Chiesa, ci purifichi e ci sollevi con la grazia dello Spirito e ci rendi intimamente partecipi della vittoria pasquale.


Missionario e capomastro entusiasta elle prime ore di mercoledì 5 maggio 2010 all’ospedale La Carità di Locarno, dopo un breve periodo di degenza, concludeva la sua lunga e fruttuosa giornata terrena padre Alberto Weingand. Originario di Meienberg (AG), era

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nato l’11 gennaio 1911 nella Frauenklinik di Zurigo. Figlio di Karl e Cristina, nata Fäh, veniva battezzato con il nome di Josef. Aveva due sorelle e tre fratelli. La madre Cristina morì nel 1915 e il piccolo Josef venne accolto nell’orfanotrofio di Walterswil. Come chieri- chetto vi conobbe anche il cappuccino padre Antonio da Obervaz, candidato per la Missione delle Seychelles, che lo indirizzò verso il Seminario francescano minore di Faido. L’otto settembre 1924 il giovanissimo Josef attraversava per la prima volta il tunnel del san Gottardo e per lui, in quel giorno,

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ebbe inizio anche il periodo della formazione alla vita religiosa. Alla fine del mese di luglio del 1928 a Cesena ricevette l’abito cappuccino e cominciò il noviziato con il nome di frate Alberto. Tornato in Svizzera l’anno seguente, nel convento di Lugano iniziò gli studi di filosofia e di teologia, necessari per diventare presbitero. Monsignor Angelo Jelmini lo ordinò sacerdote il sei dicembre 1936. Dopo l’ordinazione fu dapprima predicatore a Lugano, trascorse poi un breve periodo nell’ospizio (convento) di Mesocco. In quegli anni si stava costruendo l’ospizio (convento) di Bellinzona. Non appena i lavori furono conclusi, padre Alberto venne assegnato alla nuova fraternità di stanza nella capitale. Nel 1940 fu trasferito al santuario della Madonna del Sasso. In alcune sue note autobiografiche scriveva: “…mio padre era carpentiere. Mi ricordo di una volta che mi prese con sé sul cantiere di una nuova grande costruzione ed io, come un ometto, aiutai a spostare un gran numero di tegole; gli operai ne ebbero un gran piacere e mio padre fu probabilmente fiero del suo figlioletto. Credo pure di aver ricevuto una piccola paga per il lavoro prestato…”. I confratelli che negli anni Quaranta e Cinquanta ebbero padre Alberto come confratello o come superiore, testimoniano concordemente che il lavoro manuale, soprattutto la carpenteria, suscitava in lui grande interesse. Numerosi furono i lavori edili da lui avviati ed eseguiti in quegli anni nei nostri conventi di Orselina e di Lugano. Di stanza alla Madonna del Sasso padre Alberto visse uno dei momenti più intensi e più significativi della sua attività pastorale nella nostra Diocesi. Abbiamo avuto l’occasione di ricordarlo in modo particolare l’anno scorso, anche sulle pagine di questa rivista (cfr. Messaggero 6 e 7). Dal 3

marzo al 3 luglio 1949 padre Alberto fu infatti uno dei sacerdoti che componevano il gruppo dei missionari della Madonna Pellegrina durante la sua Grande Visita alla nostra Diocesi. Al termine di una rievocazione redatta a cinquant’anni dall’evento, padre Alberto scriveva: “Il ricordo della Grande Visita della nostra Madonna del Sasso, cui ho potuto partecipare come membro attivo è indelebilmente impresso nel mio cuore, e non mi resta che incontrarla in cielo e intonare insieme agli altri missionari, che mi hanno preceduto lassù, l’inno della nostra gioiosa e perenne gratitudine” (cfr. Messaggero 5/99). Negli anni immediatamente successivi a quella singolarissima esperienza “missionaria”, il confratello chiese di potersi recare in Missione per soddisfare anche un desiderio sorto nel suo animo fin da giovinetto. I superiori non acconsen- tirono alla sua domanda e gli ordinarono invece di assumersi il compito di guardiano (superiore del convento) prima alla Madonna del Sasso e poi a Lugano. Solo agli inizi degli anni sessanta gli venne concesso di esaudire il suo giovanile desiderio. “L’11 gennaio 1962,” annota


nel suo curriculum vitae, “col treno diretto, sul quale mi aspettavano altri quattro missionari, iniziai il viaggio per raggiungere via mare il Tanganika, diventato poi Tanzania. Vi lavorai fino all’inizio dell’Anno santo 2000. Campo privilegiato fu naturalmente il lavoro pastorale. Quanti viaggi lunghi e lunghissimi sotto un sole cocente per raggiungere paesi e paesetti per l’istruzione catechistica, Confessioni e s. Messe. Ebbi anche l’incombenza di predicare i santi Esercizi spirituali ai padri Passionisti, Benedettini, Cappuccini per due volte, alle suore di Baldegg e del preziosissimo Sangue in diverse dimore: e ciò in italiano o tedesco o kiswahili. Non trascurai il lavoro materiale: diressi il lavoro per la costruzione ab imis di due parrocchie, mi impegnai a restaurare e sistemare parecchie chiese a stregua della nuova liturgia. E in tutta questa attività non fui risparmiato dalla malaria che dà colpi sensibili alla salute.” Nei quarant’anni trascorsi in terra africana padre Alberto ebbe quindi modo di coltivare, oltre alla sua vocazione missionaria, anche l’altra sua passione giovanile, la carpenteria. Bruder Arthur Hauser visse con lui a

Rhotia negli anni Settanta. Entrambi vi giunsero nel 1973, come primi cappuccini nella Diocesi di Mbulu nel nord della Tanzania, nelle vicinanze del parco nazionale del lago Manyara e Ngorongoro. A proposito del nostro confratello riferisce Bruder Arthur: “Alberto era un capomastro. Ha costruito la chiesa rotonda, con la nota statua della Madonna del Sasso, poi la casa parrocchiale, la casa delle suore e il piccolo ospedale (dispensario e maternità). Era capomastro con anima e corpo. Nel suo lavoro non trascurava però la vita spirituale: breviario, corona del Rosario e Via Crucis. Nella pastorale era sempre pronto a dare una mano. Predicava tutte le domeniche, a volte anche in stazioni esterne. La gente che lo conosceva con il nome di Akobori, che significa barba lunga, lo amava. Quando i lavori di costruzione a Rhotia furono conclusi, si trasferì a Dawdi (1981), da Bruder Wendelin Hasler, per continuare la sua attività di capomastro.” Agli inizi dell’Anno santo 2000, padre Alberto, oramai sulla soglia dei novant’anni, fece ritorno in patria. Scelse di fare parte della fraternità della Madonna del Sasso. Molte cose erano nel frattempo cambiate sia nell’attività ministeriale sia nei fabbricati. Negli anni Sessanta c’era stato il Concilio Vaticano II e alla fine degli anni Settanta il restauro del santuario. Nonostante la sua anzianità negli ultimi dieci anni padre Alberto ha dato ancora moltissimo alla fraternità e ai fedeli del nostro santuario. Vivendogli accanto in questo tempo ho potuto constatare come non di rado affiorasse nella sua mente, nel suo sguardo, nelle sue parole un nostalgico ricordo degli anni in cui era stato capomastro e guardiano alla Madonna del Sasso. Speriamo che il Signore gli consenta ora di seguire e benedire dall’alto le no-

stre vicende, soprattutto i lavori di restauro in corso in santuario, in modo che, a opera conclusa, possa esserne pienamente soddisfatto. fra Agostino Del-Pietro

Missionario della Madonna Pellegrina

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Messaggio biblico

Sabato: non solo riposo Riprendiamo il discorso sulla Bibbia con Genesi 2, 1-3, interrotto nell’ultimo numero. Sappiamo che sono letti con piacere perché costituiscono un commento facile per tutti coloro che desiderano affrontare la lettura della Bibbia. bbiamo visto nelle puntate precedenti che Dio, secondo l’autore biblico, completò la creazione in sei giorni; ma qualche cosa mancava: con che cosa Dio la completò?

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Il commento ebraico alla Bibbia dice: “Dio completò la creazione con il sabato, giorno del riposo”. Veniamo dunque a parlare di un giorno che ci è particolarmente caro, il sabato, giorno festivo. Noi cristiani questo giorno lo abbiamo trasportato, in ricordo della resurrezione di Cristo, il giorno dopo il sabato e quel giorno lo abbiamo chiamato “Dominicus die”, cioè domenica. Perciò tutto quello che in questo esposto noi diremo del sabato, dobbiamo applicarlo alla domenica, giorno che - malgrado tutto - rimane ancora sacro. Per gli ebrei il sacro e il profano si collocavano l’uno in faccia all’altro in luoghi diametralmente opposti. Se una cosa era sacra lo era perché aveva abbandonato e allontanato da sé tutto ciò che era profano; se una cosa era profana aveva abbandonato e allontanato da sé tutto ciò che era sacro. E non esistevano soltanto dei tempi sacri, ma anche dei luoghi sacri. Ma cosa, fondamentalmente, voleva dire sacro per un ebreo? Era sacro tutto ciò che apparteneva alla divinità. Nei luoghi sacri l’uomo poteva accedere soltanto dopo avere adempiuto riti particolari; doveva per esempio pu-

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rificarsi, assumere atteggiamenti rituali, soprattutto non gli era consentito introdurvi o farvi alcunché di profano. Nei tempi sacri doveva dedicarsi in primo luogo a ciò che esigeva la divinità: riti, sacrifici, preghiera. Ma come l’uomo ha concepito e concepisce il sacro? Il primitivo immagina la santità e la sacralità come una forza invisibile e pericolosa che distrugge colui che impruden- temente entra in rapporto con essa; questa concessione primordiale è anche, nei suoi tratti più dubbi, espressione di un’esperienza di Dio, vista la divinità come ente del tutto diverso ed imprevedibile, una potenza che assale. Forse per questo anche oggi ci sono delle persone - poche in verità almeno nelle nostre latitudini - che hanno una concezione così terribile del sacro che con difficoltà si avvicinano ad esso e con paura cercano di amministrarlo. Al contrario la maggior parte dei contemporanei ha quasi bandito il sacro, soprattutto il giorno sacro della settimana, la nostra domenica. E’ ben vero che vi è un comandamento di Dio che dice: “Ricordati di santificare le feste”, ma tra tutti i comandamenti è certamente uno dei più trasgrediti, anche se in alcuni luoghi il “precetto festivo” è difeso anche da leggi civili. L’uomo occidentale è stato preso dalla frenesia del lavoro, arrivando addirittura ad idolatrarlo, per cui un giorno senza lavoro sembra essere un giorno inutile, un giorno sprecato. I nostri stressati lavoratori domandano la settimana corta, ma la domandano, non per diminuire il lavoro, ma per poter lavorare di più, per dedicarsi a quei lavori che piacciono, in quanto la maggior parte delle persone fa un mestiere che gli è stato imposto dalle circo-

stanze e non scelto dalle propria volontà. Per la verità la settimana corta serve - e questo è un bene - per ricrearsi dentro il lavoro dei propri hobby. Ma che senso ha oggi rispettare, come fece Dio, il giorno del riposo festivo? A mio modesto avviso tre sono gli elementi che dovrebbero caratterizzare il giorno sacro. Il primo è lo stesso riposo: l’uomo non è uno schiavo obbligato a lavorare a tutti i costi per far piacere a un padrone dispotico. L’uomo deve sentirsi libero anche di fronte al lavoro e deve interrompere questo lavoro per poter dedicare il suo tempo, almeno una volta alla settimana, a ciò che gli piace, e ricuperare dentro il piacere tutte quelle forze indispensabili per poter costruire completamente se stesso. In questo senso il riposo sabbatico o domenicale è rivalutato anche da chi la domenica mattina dorme un po’ di più, a condizione che non passi la maggior parte del dì festivo a poltrire sotto le coltri. Inoltre questo sonno deve essere veramente riposante e non infastidito dagli incubi per ciò che ha fatto il sabato sera, o per ciò che dovrà fare la prossima settimana. Il secondo elemento che dovrebbe caratterizzare il giorno festivo è quello di vivere in comunità. Il lavoro ci porta ad essere e a diventare sempre più solitari; sono pochi i lavori che si fanno in comune e anche quei pochi domandano normalmente tale e tanta attenzione da non poter condividere le tue preoccupazioni con il vicino che ti lavora accanto. Ma soprattutto vanno aumentando i lavori che devi far da solo; l’uomo davanti al computer, che per tutto il giorno compie dei gesti meccanici su una piccola tastiera e aguzza i propri occhi su un tabulato luminoso, può essere preso come il


simbolo della solitudine! Il sabato, e per noi anche la domenica, dovrebbe essere invece il giorno della comunità, il giorno della famiglia per chi è sposato ed ha figli, il giorno da dedicare a quei rapporti indispensabili che permettono alle persone di scambiarsi le proprie gioie e i propri dolori, il giorno della vita associativa e perché no, anche il giorno dello stadio, il giorno della squadra, il giorno della passeggiata in montagna, il giorno insomma che si passa con gli altri per poter sviluppare la nostra dimensione sociale. Soprattutto non va dimenticata la terza caratteristica che permette al sabato o alla domenica di essere ancora il giorno sacro. In quel giorno i cristiani devono dedicare un po’ di tempo a Dio. Normalmente questo tempo lo si indica con la partecipazione alla celebrazione eucaristica secondo il precetto della Chiesa, ma purtroppo questa partecipazione va piuttosto scemando. Un vero sforzo perché la partecipazione alla Messa domenicale aumenti è certamente quello di migliorare queste partecipazioni, rendendole più vive, partecipate, coinvolgenti. Assistiamo al fatto che parecchie persona cercano, anche fuori parrocchia, una celebrazione viva che offra degli stimoli. Certamente non si va in chiesa per il celebrante o per la comunità, ma è altrettanto vero che sacerdote e comunità devono essere stimolanti e accoglienti. Ma se proprio un cristiano non si sente qualche volta di partecipare alla Messa domenicale, o nella sua vita passa un periodo di crisi verso l’istituzione ecclesiastica e verso le forme liturgiche, dovrebbe ugualmente santificare il giorno festivo, mediante altre iniziative; una fra queste potrebbe essere la lettura di una pagina della Bibbia con un suo breve commento.

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Dieci minuti per te

Preghiera, ascolto e senso della vita

A

ncora oggi, quando pronunciamo la parola preghiera, la mente corre quasi immediatamente a quello che costituisce l’aspetto più appariscente della preghiera: l’aspetto formale, esteriore, fatto di formule, posture, pratiche di pietà, recite, canti, riti, gesti, simboli, ecc. La persona che prega molto è la persona che passa lunghe ore in chiesa, che moltiplica gli atti di devozione, che recita molte preghiere, sia individualmente che con gli altri. Questo aspetto formale, esterno della preghiera ha la sua importanza e non deve essere sottovalutato, perché quando l’uomo prega è tutta la persona che prega e, quindi, anche l’aspetto formale – fatto di tempi, di luoghi, di formule, di contenuti verbali e di pensiero – ha un suo significato. Ma non è l’aspetto determinante della preghiera. Determinante e qualificante è soprattutto il cuore. «È il cuore che prega», si legge nel Catechismo della chiesa cattolica (n. 2562). «Se esso è lontano da Dio, l’espressione della preghiera è vana». E precisa: «Il cuore è la dimora dove sto, dove abito – secondo l’espressione semitica: dove discendo. È il nostro centro nascosto, irraggiungibile dalla nostra ragione e dagli altri; solo lo Spirito di Dio può scrutarlo e conoscerlo. È il luogo della decisione, che sta nel più profondo delle nostre facoltà psichiche. È il luogo della verità, là dove scegliamo la vita o la morte. È il luogo dell’incontro, poiché, ad immagine di Dio, viviamo in relazione: è il luogo dell’Alleanza» (n. 2563). Se il cuore è aperto a Dio, allora è possibile l’ascolto. Allora la parola può scendere come pioggia che irriga la terra screpolata (Ger 31,12), può scaturire dalla roccia come acqua zampillante che disseta (Sal 114,18). Ma se il cuore è chiuso all’ascolto, se non è la canna di bambù cava vuota dentro, o la valle di ricettività, la preghiera rimane una supplica senza risposta; non raggiunge il cielo di Dio, «più intimo a noi del nostro stesso intimo». Per comunicare con Dio e vivere alla sua presenza occorre, più che parlare, raggiungere questo intimo santuario del proprio essere, dove Dio è presente ed è possibile ascoltarlo (Mt 6,6). Qui, allora, la Parola celebrata può essere gustata in tutta la sua fragranza.

Pregare è scoprire il senso della vita Pregare è essere in ascolto. «Io ascolto sempre il Padre», dice Gesù (Gv 8,49). «Se il mio popolo mi ascoltasse!», è il lamento di Dio davanti a un popolo di dura cervice (Sal 81,14). Ma essere in ascolto significa anche sapersi porre degli interrogativi. È lasciarsi interrogare dalla vita ed è interrogarsi su ciò che, vivendo, incessantemente s’incontra e si sperimenta. Da dove vengo? Dove vado? Quale è il senso della vita? Che

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cosa è bene e che cosa è male? Quale è il mio posto nella vita? Che cosa si aspetta Dio da me? Come posso rendere piena e significativa la mia esistenza? Che cosa comporta essere se stessi? Chi sono io? Che cosa è la vita e che cosa è la morte? Quale è il senso recondito di ciò che viviamo? – Sono queste le domande che alimentano l’intelligenza del cuore; e sono queste le domande che, attese, nutrono la preghiera e la rendono un fatto vitale e significativo. «Il senso della vita, cioè il senso ultimo del mondo, possiamo chiamarlo Dio» dice Ludwig Wittgenstein. «E la preghiera è immergersi nel senso della vita». «Gloria Dei vivens homo!», affermava sant’Ireneo: «La gloria di Dio è l’uomo vivente!». L’arcivescovo Romero traduceva l’assioma di Ireneo, applicandolo al contesto sociale dell’America latina: «Gloria Dei vivens pauper!»: la preghiera che dà gloria a Dio è la preghiera che trasforma il cuore e illumina l’intelligenza dell’uomo, che affranca il povero dalla sua schiavitù e il ricco dalla tirannia del suo egoismo. Ma l’uomo che si affranca dalle proprie schiavitù, l’uomo che si conquista degli spazi di libertà e impara a vivere, è l’uomo che interroga la vita e interroga se stesso; e, interrogando, impara ad ascoltare e a comunicare con il senso delle cose. Purtroppo – affermava già padre Tillmann – nella nostra società contemporanea «l’io superficiale deve pensare a mille cose, mentre l’Io profondo – quello che nasce e si sviluppa in noi in virtù del silenzio che interroga e ascolta la vita – intristisce e muore».

Un insegnamento antico Quanto si è appena detto, costituisce un messaggio antico sulla preghiera. È soprattutto l’insegnamento dei profeti. La preghiera è ascolto di Dio che, nel passato, ha «parlato molte volte e in molti modi ai nostri padri per mezzo dei profeti» e, «in questi ultimi, ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,1). Ma – e ce lo ricordano proprio i profeti – Dio è anche colui che continua ad interpellarci attraverso quelle Sacre Scritture che sono le nostre reali situazioni di vita e dell’umanità. Sono note le invettive dei profeti contro tutte le forme di culto che non sono ascolto di Dio e della sua volontà nel qui e ora concreto dell’esistenza. Forse il testo più robusto e incisivo è quello riportato da Isaia nel primo capitolo del suo libro. Dice il Signore: «Cielo e terra, fate attenzione a quel che sto per dirvi. Ho cresciuto dei figli, ma essi si sono ribellati contro di me. Ogni bue riconosce il suo padrone e ogni asino chi gli dà da mangiare: Israele, mio popolo, non comprende, non mi riconosce come suo Signore. Guai a voi, gente malvagia, popolo carico di peccati, razza di delin-


quenti, figli corrotti. Avete abbandonato il Signore. Avete ripudiato il Santo d’Israele, gli avete girato le spalle!». Isaia prosegue invitandoci ad ascoltare «quel che il Signore sta per dirvi, ascoltate quel che il nostro Dio vuole insegnarvi». Ossia: «Non m’importa dei vostri numerosi sacrifici: voi mi offrite pecore e le parti grasse dei vostri montoni. Non so cosa farne del sangue di tori, di agnelli e di capretti. Quando venite a rendermi culto, chi vi ha chiesto tutte queste cose e la confusione che fate nel mio santuario? Le vostre offerte sono inutili. L’incenso che bruciate mi dà nausea. Non posso sopportare le feste della nuova luna, le assemblee e il giorno di sabato, perché sono accompagnati dai vostri peccati. Mi ripugnano le vostre celebrazioni: per me sono un peso e non riesco più a sopportarle. Quando alzate le mani per la preghiera, io guardo altrove. Anche se fate preghiere che durano a lungo, io non le ascolto, perché le vostre mani sono piene di sangue. Lavatevi, purificatevi, basta con i vostri crimini. È ora di smetterla di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia, aiutate gli op-

pressi, proteggete gli orfani e difendete le vedove. Ma sia chiaro – dice il Signore – anche se per i vostri peccati siete rossi come il fuoco, vi farò diventare bianchi come la neve e puri come la lana. Se mi darete ascolto, mangerete i frutti di questa terra». Come ho detto, è un testo chiarissimo, robusto, incisivo e forte. Ma è anche un testo aperto. Come sempre nei profeti, alla fine lascia spazio alla speranza: «Se mi darete ascolto, anche se per i vostri peccati siete rossi come il fuoco, io vi farò diventare bianchi come la neve e puri come la lana; mangerete i frutti di questa terra». Concludo con questa preghiera di uno yogin, che dimostra di aver capito meglio di quanto alle volte comprendiamo noi il senso genuino della preghiera che Gesù ci ha consegnato, e nella quale ci fa chiedere continuamente a Dio di poter fare, nel concreto delle nostre situazioni di vita, la sua volontà, cioè il bene, con perseveranza e generosità.

Che io non preghi per essere al riparo dai pericoli ma per poterli fronteggiare senza paura.

Che io non implori la sospensione del mio dolore ma il cuore per vincerlo.

Che io non cerchi alleati nel campo di battaglia della vita ma la mia propria forza interiore.

Che io non brami ansiosamente di venire salvato ma confidi nella pazienza per conquistarmi la libertà.

fra Andrea Schnöller


Messaggi dal mondo della chiesa

Appunti di vita ecclesiale Come è cambiata la famiglia svizzera Gli ultimi dati sull’evoluzione delle famiglie in Svizzera sono riportati nel rapporto statistico 2008 “Le famiglie in Svizzera” dell’Ufficio federale di statistica. Le economie domestiche sono più numerose e più piccole: il loro numero si è accresciuto di due terzi dal 1970 ad oggi, ma la maggior crescita è avvenuta nelle economie domestiche di una sola persona, mentre il numero di quelle con figli è rimasto pressoché costante, e più di metà della popolazione vive tuttora in un’economia domestica con figli. Il matrimonio ha luogo più tardi rispetto al passato, in media a 31 anni per gli uomini e a 29 per le donne, così come la nascita del primo figlio, in media a 30 anni per le donne. Complessivamente, oggi nasce la metà dei figli rispetto agli anni ‘60 (si contano circa 1,5 figli ogni donna rispetto ai 2,1 del 1970), ed aumentano le donne che non divengono madri. Tuttavia le inchieste indicano che il numero di figli desiderato è maggiore di quello delle nascite e lo scarto è importante presso le donne con un buon livello di formazione. Oggi divorziano tre volte più coppie rispetto al 1970 e il doppio di bambini è confrontato con il divorzio dei genitori: la maggior parte di essi ha tra 5 e 14 anni. La metà circa delle persone divorziate si sposa nuovamente, anche se il fenomeno è in diminuzione rispetto agli anni ‘90. Le madri esercitano un’attività lucrativa più sovente rispetto al passato: due terzi delle donne che vivono in coppia e con un figlio sotto i 7 anni sono sul mercato del lavoro, di solito a tempo parziale. Rispetto alle economie domestiche senza figli, le famiglie investono nettamente più tempo nel lavoro domestico e familiare, e questo onere non è ancora suddiviso in modo uguale tra uomini e donne. Otto donne su dieci con figli al di sotto dei 15 anni, infatti, risultano assumere di fatto la totalità dei compiti domestici e familiari. Sempre più donne lavorano fuori casa, e ai costi diretti dei figli si aggiunge un effetto indiretto: le ore consacrate alla presa a carico dei figli sono ore di cui i genitori non possono disporre per l’attività lucrativa. Così le famiglie con figli dispongono di un reddito minore rispetto alle economie domestiche senza, anche perché in Svizzera i costi per i figli sono particolarmente elevati. Un terzo delle economie domestiche con figli (il doppio rispetto a 10 anni fa) ricorre ad aiuti esterni per la custodia dei bambini. Nella metà circa delle famiglie la custodia è affidata in parte ai nonni, ma cresce la quota dei figli presi a carico fuori della cerchia familiare. Il ruolo sociale delle donne è importante non solo per la cura dei figli: circa un quarto delle persone oltre i 50 anni effettua lavori informali non remunerati al di fuori della propria economia domestica, e ciò corrisponde al 44% delle attività di volontariato esercitate in

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Svizzera. La cura alle persone anziane rappresenta una parte importante: circa l’80% delle prestazioni verso gli anziani sono erogate dalle famiglie. Una particolarità della Svizzera consiste nel fatto che una famiglia su tre è di nazionalità o di origine straniera; più precisamente, un quarto di esse sono famiglie immigrate, due terzi sono state fondate in Svizzera o sono famiglie binazionali. Numerose giovani donne straniere, senza autorizzazione di soggiorno, sono attive nei settori della presa a carico dei bambini, delle cure alle persone anziane e dei lavori domestici. Infine, le famiglie sono minacciate di povertà in una proporzione superiore alla media della popolazione. Ciò vale soprattutto per le famiglie monoparentali e le famiglie numerose. Già con il secondo figlio, il rischio di povertà supera quello medio. Complessivamente un quarto delle famiglie monoparentali e un quarto delle coppie con tre figli e più, vivono al di sotto della soglia della povertà. Dal 20% al 30% dei bambini che vivono in famiglie monoparentali dipendono dall’assistenza sociale: oggi per più di 70.000 minori bisogna attivare una prestazione assistenziale. (Questi dati sono stati ricavati dall’articolo di Matteo Ferrari, nel dossier sulla famiglia, pubblicato dal numero 22010 de “Il Dialogo”, mensile delle ACLI svizzere).

Novita’ tra protestanti in Svizzera Su mandato della Federazione delle Chiese evangeliche in Svizzera (FCES), Jorg Stolz, direttore dell’Osservatorio delle religioni dell’Università di Losanna, ha realizzato uno studio dal titolo “Il futuro dei riformati”. Si tratta di una ricerca che raccoglie e analizza dati, statistiche e dichiarazioni d’intenti, incrociandoli con le affermazioni ottenute intervistando responsabili ecclesiastici evangelici di tutta la Svizzera. Il materiale raccolto è stato messo in relazione con quelle che sono le previsioni di evoluzione, in generale, per l’insieme della società elvetica. Le tendenze sono piuttosto chiare: si prevede, per esempio, un cambiamento dei valori di base, un’ulteriore individualizzazione della società, per cui gli svizzeri si costruiranno la propria visione del mondo cercando le informazioni di cui hanno bisogno. Per le Chiese questo significa che sempre meno persone ascolteranno la loro voce. E i pochi che continueranno a farlo saranno soprattutto i membri più anziani e più poveri della società. Jorg Stolz descrive così il profilo del classico candidato all’abbandono della Chiesa riformata: “È giovane, di sesso maschile, istruito, tendenzialmente di sinistra e in una situazione di convivenza”. Chi corrisponde a questo profilo decide con ogni probabilità, a un certo punto, tra i 20 e i 40 anni, di abbandonare la propria Chiesa, “…a meno che non


gli sia stata trasmessa, dai genitori, in gioventù, una visione positiva dell’istituzione ecclesiastica”. I sociologi parlano di “megatrend” che definisce quella che è prevedibile come la Svizzera di domani, nella quale nel 2040 solo il 20 percento della popolazione elvetica sarà ancora riformata; oggi gli evangelici riformati costituiscono circa il 33 percento. Una speranza può venire alla Federazione delle Chiese protestanti svizzere (FCES), o meglio alle 26 Chiese cantonali, dalle oltre 300 “Chiese dell’immigrazione” già esistenti nella Confederazione e che raccolgono molti immigrati dei più diversi Paesi e confessioni evangeliche. Ad esse è stata dedicata un’inchiesta pubblicata recentemente dalla FCES. I due autori - Simon Rothlisberger, etnologo e responsabile del settore ‘migrazioni’, e Matthias D. Wuthrich, teologo dell’Università di Basilea, per la prima volta fanno luce sulle forme di organizzazione, il numero e i membri delle Chiese degli immigranti a livello nazionale. Per lo più sono comunità poco organizzate e poco strutturate, con un orientamento spesso di tipo pentecostale e carismatico o evangelicale-conservatore. Il fenomeno è largamente diffuso in tutta l’Europa occidentale, come evidenzia un testo di Philip Jenkins, pubblicato anche in italiano dalla EMI di Bologna (“Il Dio dell’Europa. Il cristianesimo e l’Islam in un continente che cambia”). Nel quarto capitolo, intitolato “Nuovi cristiani”, il professore statunitense scrive : “La descrizione del crollo del cristianesimo trascura la crescita delle Chiese degli immigrati tra gli africani, gli asiatici dell’est e i latinoamericani” (p.135). Per quanto riguarda la Svizzera, è noto che gli immigrati italiani, spagnoli, portoghesi, croati, ecc. hanno contribuito nel Novecento a dare il primato numerico, dopo il 1970, alla confessione cattolica, anche se l’integrazione non è stata facile e neppure ancora completa. Non è da escludere un “rafforzamento” del protestantesimo svizzero con questi contributi; è del resto quanto è già avvenuto in molte comunità in Italia, dove i “nuovi cristiani” sono ormai più numerosi che gli appartenenti alle Chiese protestanti “storiche” (valdesi, luterani ecc.). Lo studio del professor Jorg Stolz, intitolato “Die Zukunft der Reformierten” è pubblicato dal Theologischer Verlag Zürich (TVZ) .

Chiese e media Due recenti studi hanno analizzato come i media riferiscono delle religioni. Ciò che porta i media a interessarsi delle comunità religiose sono spesso fatti e avvenimenti per niente positivi; così l’islam e il cattolicesimo sono molto presenti, spesso però a motivo di avvenimenti negativi, tendenza confermata in questi ultimi mesi, sia per i musulmani (questione del burka) sia per i cattolici (casi di pedofilia). I pro-

testanti lamentano spesso il fatto di essere dimenticati dai media, ma in questo caso non è un male… Il primo studio, realizzato dalla ricercatrice Carmen Koch (“Wie Schweizer Medien über Religion berichten”, Communicatio Socialis, 4/2009), ha analizzato quando e perché i media parlano di religione. L’indagine è stata condotta nel 2008 su quotidiani e trasmissioni televisive e radiofoniche nelle regioni di Zurigo e di Losanna. La ricercatrice è giunta a un risultato chiaro: la maggior parte dei servizi è dedicata al cattolicesimo e all’islam. Il numero di servizi dedicati al protestantesimo è limitato (13% di 2800 servizi presi in esame). Molto spesso i servizi dedicati alla religione si occupano di aspetti negativi, in modo particolare quando si tratta di religioni non cristiane. Anche il cattolicesimo rientra tuttavia in questa categoria: un numero rilevante di servizi è dedicato infatti a casi di preti pedofili. Se si contano i servizi che parlano positivamente della religione, allora il protestantesimo risulta in testa (35,4%), davanti al cattolicesimo (33,4%), al buddismo (32,4%) e all’islam (30,5%). Del protestantesimo i media parlano raramente in maniera negativa (5% dei servizi analizzati), non così del cattolicesimo (12,7%). Questa classifica è guidata dall’islam, con il 22,1% dei servizi. Per la ricercatrice, è possibile che al protestantesimo manchi un leader, come il papa dei cattolici, che attiri l’attenzione; così qualche protestante ha auspicato la nomina di un “vescovo svizzero”, per questo ma anche per altri più seri motivi. La seconda ricerca, condotta da Guido Keel e Vincenz Wyss nel 2008 (“Journalistische Inszenierungstrategien zu religiösen Themen”, Communicatio Socialis, 4/2009), si basa su interviste a giornalisti che scrivono e realizzano servizi sulla religione. Gli autori hanno interpellato 35 giornalisti di 25 diverse redazioni di giornali, radio e TV nella Svizzera tedesca e Romanda. La maggior parte dei giornalisti intervistati sostengono che la religione offre scarsi motivi di interesse. “Il tema è noioso”, ha affermato un redattore di una televisione commerciale. E un altro redattore ha commentato: “Quando la Conferenza dei Vescovi svizzeri convoca una conferenza stampa per spiegare quali sono le direttive in vista dell’anno mariano o nell’ambito della pastorale giovanile, viene da chiedersi perché mai ci abbiano convocati”. Della religione è più facile parlare, ha aggiunto un altro redattore, se si può associare a sesso, violenza, educazione, scuola o politica. Questioni puramente religiose sono invece poco interessanti. I giornalisti intervistati ritengono che il fatto di legare i temi a determinate persone, meglio se conosciute, è importante per poter parlare di religione nei media. L’attenzione dei media è poi assicurata nel caso in cui attori religiosi infrangano i principi a cui dovrebbero attenersi (è il caso dei preti pedofili). Il fatto che la religione

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Messaggi dal mondo della chiesa

non abbia molta importanza per i media è dimostrato, secondo Keel e Wyss, anche dal fatto che solo le redazioni dei mezzi di informazione di servizio pubblico hanno dei redattori specializzati sull’argomento. Per assicurare una maggiore presenza della Chiesa cattolica nei media svizzeri, la Conferenza dei vescovi ha attuato una riorganizzazione del settore informazione, e quest’anno ha lanciato lo slogan “Più buone notizie”. Dal 1. aprile 2010 la Chiesa cattolica svizzera ha al servizio della comunicazione due nuovi giornalisti, uno quale segretario esecutivo della Commissione dei media, e una collaboratrice dell’incaricato all’informazione. I vescovi hanno così deciso di dare attuazione alle proposte per migliorare il servizio d’informazione della Conferenza episcopale. (Testo rielaborato da “Voce evangelica”, aprile 2010)

Protestanti italiani a Zurigo La Chiesa evangelica di lingua italiana di Zurigo è nata sul finire dell’Ottocento, tra gli operai italiani arrivati in città in cerca di lavoro. Da quella prima provvisoria comunità, ignorata dalla Chiesa riformata perché composta da lavoratori stagionali, ma sostenuta da un circolo di pietisti zurighesi, ha preso avvio una storia lunga oltre un secolo e che continua ancora oggi. Quella vicenda è stata ricostruita, con cura meticolosa, dall’attuale pastore della Chiesa di lingua italiana, Matthias Rusch. Il volume di Rusch, uscito presso il Theologischer Verlag di Zurigo, è una vera e propria miniera di informazioni, di nomi, di date, di episodi che contrassegnano il cammino di generazioni di credenti di lingua italiana (italiani, ma anche svizzeri, del Ticino e delle vallate meridionali dei Grigioni) che hanno vissuto e lavorato e pregato nella città della Limmat. Gli inizi della Chiesa di lingua italiana di Zurigo sono stati umili e difficili, e ci sono voluti cinquant’anni prima che la comunità trovasse una certa stabilità. È sul finire degli anni Trenta del secolo scorso che il primo pastore valdese di Zurigo, Alberto Fuhrmann, imprime alla Chiesa una svolta importante: stabiliti contatti franchi e cordiali con la Chiesa riformata zurighese, la Chiesa di lingua italiana si trasforma in breve da un gruppo chiuso in una comunità accogliente, attenta agli avvenimenti della città e ai bisogni del momento. E mentre la Casa d’Italia diviene la sede dei fascisti italiani, la Chiesa di lingua italiana si profila come un luogo di libertà, di circolazione di idee, di difesa degli ideali democratici. Vi approdano allora Franco Fortini e altri intellettuali antifascisti, e nella sua orbita gravita lo scrittore Ignazio Silone. Un’epoca irripetibile, una breve parentesi di straordinaria intensità, che produce nella Chiesa un’ulteriore maturazione. Ciò le permetterà di affrontare, con rinnovata

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energia, le sfide che si aprono nel dopoguerra. Passata la bufera del conflitto, riprende l’immigrazione dall’Italia. Mentre in un primo periodo erano arrivate soprattutto persone dal Nord, ora giungono in Svizzera anche molte persone provenienti dal Sud. La Chiesa di lingua italiana si mobilita, offre corsi di formazione per facilitare l’integrazione, trova alloggi e funge da “ufficio di collocamento” per migliaia di persone. Gli anni Sessanta e Settanta sono caratterizzati dall’inasprimento del clima sociale, dal rafforzarsi dello spirito xenofobo, dall’ostilità nei confronti degli stranieri. Si apre, nella Chiesa di lingua italiana, un vivace confronto sul tema dell’integrazione; sono anche gli anni dei legami e contatti tra protestanti italofoni di Lugano, Poschiavo, Vicosoprano, Basilea, Zurigo e altre località in tutta la Svizzera. La Chiesa risponde come può alle nuove sfide: alcuni suoi membri si impegnano anche in campo politico e sociale, assumono incarichi nelle associazioni per la difesa dei diritti dei lavoratori, si impegnano contro le iniziative antiforestieramento. La via battuta non è quella del ghetto e della chiusura identitaria, ma dell’integrazione nella società zurighese. A oltre cent’anni dalla nascita, la comunità zurighese di lingua italiana è guidata oggi, per la prima volta, da un pastore svizzero il quale ha dovuto imparare l’italiano per integrarsi tra i suoi parrocchiani. E contrariamente alle aspettative, la Chiesa non sta avviandosi verso la propria fine, ma registra sempre nuove adesioni di italiani e svizzeri, cattolici ed evangelici, in cerca di una patria spirituale.

Celebrare la creazione Le Chiese europee hanno deciso, all’assemblea ecumenica di Sibiu, di dedicare ogni anno un “tempo alla Creazione”: per le Chiese svizzere è stato scelto il periodo dal 1. settembre (per le Chiese ortodosse è questa la giornata della Creazione) al 4 di ottobre (festa di San Francesco d’Assisi), tempo che comprende anche la Festa federale del ringraziamento (Digiuno federale). La Comunità “Chiesa e Ambiente” (in tedesco OEKU), organizzazione ecumenica cui aderiscono più di 600 parrocchie e molti singoli cristiani, propone quest’anno come tema “La diversità, dono di Dio”, riferendosi a Genesi 1,12: “La terra produsse erba verde, ogni specie di piante con il proprio seme e ogni specie di alberi da frutta con il proprio seme. E Dio vide che era bello” (traduzione in lingua corrente). Il 2010 è stato anche proclamato “Anno internazionale della biodiversità”. Purtroppo la biodiversità è minacciata, specialmente per opera dell’uomo: riconciliarsi con la Creazione significa anche proteggere la biodiversità. Per informazioni e sussidi didattici: Oeku, casella postale 7449, 3001 Berna; info@oeku.ch; www.oeku.ch


Sacra rappresentazione Il cantico delle creature di San Francesco

Abbiamo tratto dalle fonti francescane e in particolare dai “Fioretti” quegli episodi che sintetizzano il significato spirituale profondo e il messaggio etico ancora attualissimo del Cantico.

proposto dalla

Comunità del Sacro Cuore di Bellinzona Cantoria di Giubiasco

Dalla profezia che annuncia a donna Pica, madre di Francesco, la nascita “al mondo di un sole, come fa questo talvolta di Gange” (come disse poi Dante), alla “leggenda delle rose” che narra come, dopo un incontro spirituale tra Francesco e Chiara, la neve si sciolse e la terra si coprì “di coloriti fiori ed erba” verde di speranza. O ancora la strofa detta “del perdono e della pace” è rappresentata da tre episodi. Il primo è quello che le fonti dicono essere all’origine stessa della strofa: una feroce lotta di potere tra il vescovo e il podestà di Assisi si risolse quando questi ascoltarono il canto di lode al Signore “per chi perdona per il tuo amore”. Il secondo narra della pace che Francesco ottenne tra il Lupo e i cittadini di Gubbio. Col terzo episodio siamo in Egitto, a Damietta, quando Francesco cercò di fermare la crociata e, assieme al Sultano, volle costruire la pace tra musulmani e cristiani.

l Cantico delle creature è una preghiera di lode all’Altissimo onnipotente e bon Signore ed è anche lo specchio dell’anima di Francesco. Lo ha composto negli ultimi anni della sua vita per testimoniare il suo amore per le creature del cielo e della terra e quale invito alla concordia e alla pace.

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Questa Sacra Rappresentazione ha per noi un valore catechistico: pregare per mezzo delle creature, o per il dono delle creature, vuol dire lasciarsi sensibilizzare sul valore e il rispetto del creato. Per questo la definiamo una Sacra Rappresentazione “ecologica”.

Quale invito a vivere spiritualmente questa Sacra Rappresentazione facciamo nostre le parole di un profondo conoscitore del Cantico delle creature, fra Giovanni Pozzi, che lo definì il canto di “un uomo che concepisce il dar lode e gloria a Dio come l’occupazione primaria del cristiano”. Il testo è di padre Callisto Caldelari. La versione musicale di Giuseppe Liberto. La direzione del coro è di Michele Tamagni. La regia è di Matteo Casoni.

Calendario autunno 2010 sabato venerdì sabato sabato domenica sabato domenica sabato

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settembre settembre settembre ottobre ottobre ottobre ottobre novembre

ore ore ore ore ore ore ore ore

20.30 20.30 20.30 16.00 17.00 20.30 17.00 20.30

Locarno Mendrisio Como Bellinzona Lugano Cavergno Claro Faido

Chiostro del Santuario della Madonna del Sasso Chiesa dei cappuccini Chiesa di Sant’Agata Chiesa del Sacro Cuore (giornata francescana) Chiesa Salita dei frati Chiesa parrocchiale Chiesa parrocchiale Chiesa parrocchiale

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Messaggio ecumenico

Rilanciare il dialogo con protestanti ed anglicani opinione generale che, nel suo approccio all’ecumenismo, Papa Benedetto XVI tenda a privilegiare il dialogo con gli ortodossi, a scapito di quello con le Chiese della Riforma. Tuttavia, forse per correggere un po’ il tiro, dal 10 al 12 febbraio scorsi si è tenuto a Roma, presso la sede del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, un simposio di tre giorni per fare il punto sul dialogo ecumenico della Chiesa cattolica con luterani, anglicani, riformati e metodisti. A costituire la base dei lavori è stato il libro del cardinale Walter Kasper, presidente del dicastero vaticano per l’unione dei cristiani, sulla “raccolta dei frutti” di 40 anni di dialoghi bilaterali con questi partner e del quale abbiamo già parlato in questa rubrica (per il momento è uscito solo in inglese, lo scorso anno a Londra, con il titolo “Harvesting the Fruits. Basic Aspects of Christian Faith in Ecumenical Dialogue”). Molto interessanti le conclusioni alle quali è giunto il convegno. I partecipanti, pur parlando “onestamente anche dei limiti della diversità e del ruolo della gerarchia delle verità”, hanno ribadito la necessità di una testimonianza cristiana comune ad ogni livello e hanno individuato nel “vivere il dialogo ecumenico come uno scambio di doni” un nuovo promettente approccio. Al contempo –si legge in un comunicato – sono state avanzate “proposte concrete volte a promuovere la ricerca dell’unità”. In particolare, si è proposto di stilare una Dichiarazione comune su ciò che si è conseguito insieme ecumenicamente. Tale dichiarazione, prosegue la nota, “potrebbe prendere la forma di un’affermazione comune della nostra fede battesimale, comprendente un commento al Credo apostolico e al Padre Nostro”. I partecipanti al simposio hanno riconosciuto che “la capacità di organizzare simili incontri è una potenzialità caratteri-

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stica di Roma, sottolineando in tal modo l’ampio servizio che il ministero petrino può offrire all’ecumenismo”.

Il nodo del “subsistit” Ai lavori ha dato grande risalto la Radio Vaticana, dalla quale riprendiamo alcune interviste ai partecipanti. Partendo dal forte dibattito che persiste intorno al termine conciliare “subsistit in”, laddove la Lumen Gentium afferma che la Chiesa di Gesù Cristo “sussiste nella Chiesa cattolica”, il cardinale Kasper ha così risposto a chi vede l’ecumenismo piuttosto come un ritorno alla Chiesa di Roma : “Noi non vogliamo parlare di un ritorno alla Chiesa di Roma ma di una piena comunione con la Chiesa di Roma: questa è un’altra cosa. C’era un grande disagio su questo documento ma se si legge questo “subsistit in” nel contesto dei documenti del Concilio, soprattutto della Costituzione sulla Chiesa al numero 8, si vede che ci sono due punti. Un punto è che la piena realizzazione della Chiesa di Cristo è soltanto nella Chiesa cattolica, ma l’altro punto è che ci sono elementi importanti di ecclesialità anche fuori dalla Chiesa cattolica, in quanto la Chiesa di Cristo è presente in modo operante anche fuori dalla Chiesa cattolica. Si devono vedere i due punti, non soltanto uno”. Da parte sua, il teologo metodista Geoffrey Wainwright, co-presidente della Commissione internazionale congiunta per il dialogo cattolico-metodista, si è detto favorevole a un ministero universale che unisca i cristiani: “Abbiamo scoperto quanto effettivamente abbiamo in comune negli aspetti fondamentali della fede cristiana. Per esempio, il metodismo è stato storicamente un movimento missionario e quindi noi comprendiamo questo aspetto apostolico della Chiesa cattolica. Tra le maggiori diffi-

coltà, vi sono alcune delle questioni storiche tradizionali che riguardano l’eucaristia o il ministero sacerdotale. Il problema più difficile è la questione del papato, il ministero petrino. Ovviamente, per la maggior parte dei protestanti ci sono delle difficoltà per quanto riguarda l’affermazione dell’infallibilità e dell’autorità del Papa. Per me una delle cose più promettenti è che si possa accettare tutto questo. Perché non vedo cos’altro possa tenere uniti i cristiani, essendoci una grande varietà in tutto il mondo, con una crescita della fede in Africa e in Asia. Abbiamo bisogno di un ministero universale che ci unisca. Una delle cose migliori che ho visto nei rapporti ecumenici è stata l’enciclica di Papa Giovanni Paolo II ‘Ut unum sint’, che era aperta nel cercare nuove vie con cui il ministero tradizionale del Vescovo di Roma potesse essere esercitato nelle varie circostanze. E penso che dobbiamo concentrarci su questo. Come ho detto, storicamente è molto difficile, ma penso che, guardando al futuro, sia una delle cose più promettenti cui possiamo guardare insieme”.

L’accordo sulla giustificazione Kathryn Johnson, vice-segretaria generale per gli affari ecumenici della Federazione luterana mondiale, si è soffermata sul decimo anniversario della dichiarazione congiunta tra cattolici e luterani sulla giustificazione, celebrato lo scorso anno: ”Dieci anni non sono un gran lasso di tempo, visto alla luce dei 500 anni della divisione . Quindi, non credo che possa essere considerato sorprendente che ancora ci interroghiamo sul significato di questo documento. Abbiamo detto che in questo punto cruciale noi non troviamo nulla da condannare, né gli uni né gli altri! Noi luterani stiamo ancora cercando di assimilare tutto questo: sicuramente tra di noi si possono


sentire sermoni o ascoltare lezioni di catechismo e di teologia che non hanno accolto appieno il fatto che ora non ripetiamo più queste condanne. Ecco, questa è una delle cose che stiamo facendo: stiamo ancora assimilando tutto ciò e preghiamo per trovare la via per affrontare questi nuovi rapporti. Oggi stiamo facendo tre cose, credo, nell’ambito del nostro dialogo. Stiamo continuando questo processo di accoglienza: studiosi della Bibbia stanno lavorando insieme con i metodisti e i riformati per accogliere il messaggio della giustificazione ed inserirlo in un contesto biblico improntato all’ecumenismo. Inoltre stiamo lavorando insieme sul significato ecumenico del 500.mo anniversario della Riforma di Lutero, che cadrà nel 2017, e infine nel nostro nuovo dialogo stiamo affrontando i temi del battesimo e della crescita nella comunione. Non si tratta, principalmente, di un dialogo sul battesimo ma è un dialogo che prende molto sul serio il vicende-

vole riconoscimento del rispettivo battesimo affinché da esso possiamo trarre conseguenze per una crescita nella comunione che possiamo condividere appunto su questa base”. A rappresentare la Chiesa anglicana, Tom Wright, vescovo di Durham, il quale ha evidenziato le sfide che devono affrontare le singole Chiese al loro interno: “Penso che ci siano molte difficoltà nella vita di tutte le Chiese di oggi perché, come tutti sappiamo, c’è stata una sorta di frammentazione che alcune persone chiamano “post-modernismo”, per cui ognuno dice tutto e il contrario di tutto. La domanda quindi è: chi parla con autorità a nome della Chiesa? E questo accade non solo all’interno dell’anglicanesimo. Ci sono voci diverse e noi dobbiamo tentare di capire se queste voci sono compatibili l’una con l’altra. In un certo senso, ogni Chiesa è una sorta di movimento ecumenico in miniatura: ha la sua ala destra, la sua ala sinistra, i tradizionalisti, i radi-

cali, comunque li si vogliano chiamare. Ovviamente, la Comunione anglicana si è trovata a lavare i suoi panni sporchi in pubblico negli ultimi anni e questo, sfortunatamente, per molte ragioni. Questo significa che altre Chiese, guardando a noi, dicano: “quando parliamo con gli anglicani, non siamo sicuri con chi stiamo parlando!”. Tutto quello che possiamo dire come anglicani in questo momento è che abbiamo dei cosiddetti “strumenti” di comunione come l’arcivescovo di Canterbury, la Conferenza di Lambeth, l’incontro dei Primati, l’Anglican Consultative Council, che hanno mantenuto una linea costante su alcune questioni chiave; quindi, se si parla dall’interno di quel vasto consenso si può rivendicare il diritto di parlare per la Comunione anglicana, anche se qualunque cosa tu dica, sai che qualcuno dietro l’angolo dirà che quella non è la sua visione”. Gino Driussi

Il Papa nella chiesa luterana di Roma Significativa visita, nel pomeriggio dello scorso 14 marzo, di Benedetto XVI nella Christuskirche, la chiesa evangelica luterana di Roma, poco più di 25 anni dopo quella, storica, di Giovanni Paolo II. Il Papa ha partecipato al culto, che si è svolto in tedesco e nel corso del quale vi sono state due predicazioni, quella del pastore locale Jens-Martin Kruse e quella di Benedetto XVI (vedi foto). Il Papa, parlando a braccio, ha detto tra l’altro: “Oggi ascoltiamo molte lamentele sul fatto che l’ecumenismo sarebbe giunto a un punto di stallo; tuttavia penso che dovremmo anzitutto essere grati che vi sia già tanta unità. È bello che oggi, domenica Laetare, noi possiamo pregare insieme, intonare gli stessi inni, ascoltare la stessa parola di Dio, insieme spiegarla e cercare di capirla; che noi guardiamo all’unico Cristo che vediamo e al quale vogliamo appartenere, e che, in questo modo, già rendiamo testimonianza che Egli è l’Unico, colui che ci ha chiamati tutti e al quale, nel più profondo, noi tutti apparteniamo (...). Naturalmente non ci dobbiamo accontentare di ciò, anche se dobbiamo essere pieni di gratitudine per questa comunanza. Tuttavia, il fatto che in cose essenziali, nella celebrazione della santa Eucaristia non possiamo bere allo stesso calice, non possiamo stare intorno allo stesso altare, ci deve riempire di tristezza perché portiamo questa colpa, perché offuschiamo questa testimonianza”.

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Messaggi dalle adiacenze

La rivista «Fogli»

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on è forse inutile ricordare al lettore di questa rubrica dedicata alla Biblioteca Salita dei Frati che i compiti dell’omonima Associazione, fondata nel 1976 con lo scopo di “promuovere lo studio e la ricerca nelle scienze religiose e nelle scienze umane” (Statuto, art. 1), si possono così sintetizzare: curare l’apertura al pubblico della Biblioteca dei Cappuccini di Lugano, accrescendone il patrimonio bibliografico secondo criteri disciplinari e tematici coerentemente perseguiti così da conferirle una sua specifica fisionomia nel contesto bibliotecario ticinese (vedi «Messaggero», gennaio-marzo 2008, p. 29, e lugliosettembre 2009, p. 30), e promuovere un’attività culturale pubblica con tre generi di iniziative: conferenze e convegni di studio su tematiche di cultura religiosa (in particolare biblica e francescana), filosofica, storica, letteraria e bibliografica; esposizioni di materiale librario ed iconico, con particolare attenzione al ‘libro d’artista’; pubblicazioni di una rivista, «Fogli», di censimenti e studi sui fondi della biblioteca e di atti di convegni organizzati. Vogliamo soffermarci, in questa nota, sulla rivista «Fogli», regolarmente pubblicata con ritmo annuale: testimonianza persuasiva delle scelte di politica culturale e bibliotecaria perseguite dall’Associazione sull’arco di un trentennio. La rivista nasce nel 1981, a cinque anni dalla fondazione dell’Associazione e ad un anno dall’apertura della biblioteca al pubblico (27 ottobre 1980): con questa iniziativa si voleva innanzi tutto informare sull’attività dell’Associazione, che stava vivendo la sua fase iniziale alla ricerca di una propria identità, sia in ordine ai criteri da seguire nella gestione e nell’accrescimento della biblioteca che i Cappuccini avevano affidato alle sue cure, sia in ordine ai temi da proporre nelle conferenze e negli incontri di studio organizzati fin dall’inizio, nella convinzione che la biblioteca dovesse essere anche un centro culturale. Ma, accanto a questo compito informativo, che attribuiva a «Fogli» anche la funzione di un ‘bollettino’ destinato ai membri dell’Associazione, la rivista fu subito impostata anche secondo altre finalità e intenzioni: segnalare e descrivere fondi e singole opere della Biblioteca Salita dei Frati, raccogliere dati sulle biblioteche e gli archivi d’interesse pubblico della Svizzera italiana, promuovere un dibattito sulla politica bibliotecaria che stava nascendo in quegli anni, presentare le più importanti istituzioni culturali della Svizzera italiana, raccogliere schede descrittive delle ricerche di scienze umane in corso nella Svizzera italiana. Fu questa l’impostazione voluta dal primo presidente dell’Associazione, Fabio Soldini, che continua a coordinare il gruppo redazionale di «Fogli», di cui fanno parte attualmente Mila Contestabile, Fernando Lepori e Giancarlo Reggi. Negli ultimi anni la rivista, rimanendo fondamentalmente

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fedele alle scelte iniziali quanto ai temi e alle intenzioni di fondo, ha indubbiamente elevato il proprio livello, ospitando contributi di migliore qualità: più impegnativi per metodo e originalità, pensati e redatti per un pubblico non specialistico ma con i criteri dello scritto scientifico (con rigore metodologico e, fra l’altro, indicazione delle fonti e della bibliografia che consentono quei riscontri e quegli approfondimenti che molti lettori possono desiderare). Con questo la rivista ha confermato e rafforzato il proprio ruolo e la propria posizione originale fra le riviste culturali che si pubblicano oggi nella Svizzera italiana. Non è un caso che, anche per sottolineare questa volontà innovativa, dal 2005, quando fra l’altro è stata scelta una nuova veste grafica, al sottotitolo volutamente dimesso dei primi anni Informazioni dell’Associazione Biblioteca Salita dei Frati sia stato sostituito il più confacente Rivista dell’Associazione Biblioteca Salita dei Frati. È stata anche meglio definita e precisata l’articolazione della rivista. Ogni numero comprende cinque sezioni: nella prima (Contributi) sono contenuti i vari saggi su temi di storia dell’editoria, su problemi bibliografici, su fondi librari importanti della Svizzera italiana e così via; la seconda (Rara et curiosa) ospita segnalazioni e descrizioni di opere di particolare interesse o rarità bibliografica e culturale possedute dalla biblioteca; segue la sezione In biblioteca, dove si legge abitualmente un ricco resoconto di Alessandro Soldini, responsabile del porticato, sull’attività espositiva; la penultima sezione è la Cronaca sociale, dove sono pubblicati la Relazione del Comitato sull’ultimo anno sociale e i conti, per documentare l’attività svolta dall’Associazione e


la situazione finanziaria; chiude la rivista la sezione Nuove accessioni, dove sono elencate, suddivise per discipline, tutte le opere entrate in biblioteca nell’ultimo anno civile perché acquistate dall’Associazione per decisione della Commissione per gli acquisti librari (che segue in modo rigoroso criteri basati su un’accurata indagine delle opere che si pubblicano negli àmbiti che interessano e su una precisa conoscenza del volume che si decide di acquistare), come

pure parte delle opere donate alla biblioteca. Quest’ultima sezione, nella sua apparente aridità, ci risulta sia consultata con interesse tra l’altro da molti bibliotecari e offre al lettore attento informazioni preziose sull’attività della biblioteca e sui criteri seguiti per l’accrescimento dei fondi librari. Al lettore del «Messaggero» potrà forse ad esempio interessare che, nell’ultimo quinquennio (2005-2009), in biblioteca sono entrati poco meno di 150 opere su Francesco d’Assisi e il francescanesimo e oltre 400 opere di agiografia e spiritualità. La rivista è consultabile, da quando viene pubblicata con stampa digitale (cioè dal 2002), nel sito della biblioteca (www.bibliotecafratilu-gano.ch): qui sono disponibili, a cura di Aldo Abächerli, anche due utilissimi indici (tematico e degli autori) di tutti gli scritti apparsi su «Fogli» dal primo all’ultimo numero. Concludiamo questa nota ricordando sinteticamente che lo scorso mese di aprile è puntualmente uscito il numero 31 di «Fogli». Il primo articolo della sezione Contributi, di Ottavio Besomi, si sofferma sugli studi di italianistica (filologia e critica letteraria) che hanno caratterizzato il panorama culturale della Svizzera italiana nell’ultimo ventennio del secolo scorso. Il secondo contributo documenta, con ricchezza di particolari indicativi del clima storico del tempo, attraverso una ricerca originale di Fabrizio Mena, la messa all’Indice (1840) di uno dei più significativi libri dell’Ottocento ticinese: la Svizzera italiana di Stefano Franscini, “autore liberale in tutto e anticattolico”. Al Fondo Bodoni della Biblioteca cantonale di Lugano è dedicato il terzo contributo, di Paola Costantini: l’autrice ricostruisce la vicenda che portò a Lugano 455 pezzi (libri, opuscoli, fogli volanti) stampati da Giovanni Battista Bodoni e collezionati da Richard Hall, un intellettuale (acquafortista e scultore) di origine ungherese stabilitosi ad Ascona nel 1938. I Rara et curiosa sono quest’anno due. Marina Bernasconi Reusser illustra un pregevole e curioso manoscritto miscellaneo di fine Seicento conservato nel convento di Bigorio e confezionato da frate Tommaso da Scareglia, contenente un trattato di morale ed uno sull’arte di costruire gli orologi solari. Luciana Pedroia descrive l’esemplare conservato nella Biblioteca Salita dei Frati della Idea bibliothecae universalis di Pierre Blanchot (1643): si tratta della prima bibliografia delle bibliografie, pregevole anche per la sua rarità perché sopravvissuta in pochissime copie. Fernando Lepori

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Abbiamo letto... abbiamo visto... Convento dei Cappuccini Salita dei Frati 4 CH - 6900 Lugano

GAB 6900 Lugano

Mick E. L. Unzione degli infermi. Per capire il sacramento Padova, Messaggero, 2008

Presentiamo questo agile libretto che ha servito per qualche articolo del presente numero. Le sue pagine offrono in sintesi la visione dei sacramenti nata dal concilio Vaticano II, in particolare l’importanza dell’Unzione degli infermi, con chiarificazioni e distinzioni indispensabili per non ridurre questo gesto-sacro ad una “estrema unzione”, nome e prassi purtroppo ancora comuni. Può servire non solo per cappellani d’ospedale, ma anche per medici ed infermieri cattolici, soprattutto per parroci e catechisti che vogliono approfondire i sette sacramenti e sottolineare questo che tra i sette è forse il meno conosciuto.

Borghi E. Dieci parole per essere umani Assisi, Cittadella Editrice, 2010

Si tratta di un piccolo libretto per presentare le “Dieci parole” più importanti per ogni uomo: le più famose del monoteismo giudeo cristiano. Giustamente l’autore – il noto presidente dell’Associazione Biblica della Svizzera Italiana e coordinatore della formazione biblica della nostra diocesi – scrive che “Il Decalogo aiuta donne e uomini ad essere più liberi da sè e per gli altri, cioè ad essere più umani”. Questo scopo dice da solo che vale la pena di leggere queste pagine. Il libretto fa parte di una collana curata dalla Cittadella e detta “L’asina di Balaam”, che in modo sistematico e continuativo, intende offrire a coloro che ricercano Dio con cuore puro e sincero un aiuto per la meditazione della Parola, per approfondimento teologico e per la verifica della quotidiana speranza suscitata dalla fede. Questa associazione ha prodotto dei libretti di formazione spirituale scritti dai maggiori esponenti del cattolicesimo italiano. Per citarne alcuni: Carlo Maria Martini, Celebriamo la fede in famiglia; Bruno Maggioni, L’incessante ricerca; Enzo Bianchi, Può la morte tradire la vita?


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