Messaggero 2011-13 Gen-Mar

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Rivista di formazione e spiritualitĂ francescana

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Gennaio n° Marzo 2011


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Gennaio n° Marzo 2011

Intervista a don Sandro Vitalini

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MESSAGGERO

Alcune riflessioni sui primi tre comandamenti

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Comitato di Redazione

La volta della chiesa dell’Assunta

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Il nuovo programma di corsi e giornate di formazione al Convento del Bigorio per il 2011

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Per una vera libertà religiosa

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Alberto Lepori

Cinquant’anni anni di dialogo ecumenico per la Chiesa cattolica

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Gino Driussi

Il ritorno di Gesù e il giudizio di Dio fra Andrea Schnöller Motivazioni sanitarie in san Francesco d’Assisi Mario Corti

fra Callisto Caldelari (dir. responsabile) fra Ugo Orelli fra Edy Rossi-Pedruzzi fra Michele Ravetta Gino Driussi Alberto Lepori Claudio Cerfoglia (segretariato) E-Mail redazione@messaggero.ch

Hanno collaborato a questo numero Maurizio Agustoni Mario Corti fra Agostino Del-Pietro fra Andrea Schnöller don Sandro Vitalini

Redazione e Amministrazione

Maurizio Agustoni

Cristiani nel mondo

Rivista di cultura ed informazione religiosa fondata nel 1911 ed edita dai Frati Cappuccini della Svizzera Italiana - Lugano

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Convento dei Cappuccini Salita dei Frati 4 CH - 6900 Lugano Tel +41 (91) 922.60.32 Fax +41 (91) 922.60.37 Internet www.messaggero.ch E-Mail segreteria@messaggero.ch

Abbonamenti 2011 Per la Svizzera: ordinario CHF 30.sostenitore da CHF 50.CCP 65-901-8 Per l’Italia: ordinario E 20,00 sostenitore da E 40,00 Conto Corrente Postale 88948575 intestato Cerfoglia Claudio - Varese causale “abbonamento Messaggero” E-Mail amministrazione@messaggero.ch

Fotolito, stampa e spedizione

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Lettera della redazione Cari lettori,

se per due anni abbiamo scelto come tema di fondo i sacramenti, ed è stata una scelta felice perché i nostri articoli - di don Sandro Vitalini e padre Callisto Caldelari – sono stati raccolti in un libro dal titolo significativo “Ama e fa ciò che vuoi”, da quest’anno il tema generale è quello dei comandamenti. Qualcuno potrà anche arricciare il naso dicendo: “Cose vecchie”, ma noi cercheremo di trattarli secondo il “perfezionamento” portato da Gesù che - per sua stessa ammissione - è venuto a perfezionare la legge ebraica. Come e quando Gesù l’ha perfezionata? Basta aprire il vangelo e ricercare attentamente i rispettivi passi, specie nel discorso delle Beatitudini. Per questo numero vediamo il perfezionamento portato ai primi tre comandamenti: adorerai un solo Dio, non nominerai il nome di Dio invano, ricordati di santificare le feste.

Per il primo comandamento: un giorno un fariseo chiese a Gesù qual’era - secondo lui - il primo e più grande comandamento. Gesù rispose: - “Ama il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il comandamento più grande ed importante. Il secondo è ugualmente importante: ama il tuo prossimo come te stesso”. In che rapporto stanno questi due comandamenti con il primo precetto del Decalogo che - catechisticamente - dice “Adora il Signore Dio tuo”? La risposta è facile: Gesù ha preso il primo comando della legge e lo ha perfezionato cambiando il verbo: non “adora”, ma “ama”, e in questo primo ha condensato gli altri due comandamenti, il secondo e il terzo: perché chi ama non pronuncia invano il nome di Dio, chi ama rispetta quel giorno di riposo nel quale può rendere culto alla persona amata.

Per quanto riguarda il secondo che proibisce non solo di bestemmiare o pronunciare il nome di Dio, ma soprattutto di giurare il falso nel nome di Dio, il Maestro disse: “Non giurate mai: né per il cielo che è il trono di Dio, né per la terra che è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme che è la città del Signore. Non giurare nemmeno sulla tua testa, perché tu non hai neppure il potere di far diventare bianco o nero uno dei tuoi capelli. Semplicemente dite <sì> o <no>: tutto il resto viene dal maligno”. Per il terzo comandamento - quello del riposo festivo - abbiamo quel fatto e quella risposta chiara che Gesù diede ai farisei che brontolavano perché gli apostoli, innocentemente, avevano strofinato sulla mano qualche spiga per farne uscire il grano quasi maturo. I farisei ritenevano quel gesto un vero lavoro, vietato dunque in giorno festivo. Gesù, invece, con forza, affermò: “Il sabato è fatto per l’uomo, e non l’uomo per il sabato. Perciò - Lui - il Figlio dell’Uomo, è padrone anche del sabato”. Esposto ed introdotto il tema fondamentale, vi assicuriamo che rimangono le solite rubriche curate da persone volonterose che amano il Messaggero e la sua funzione formativa. Anche per rispettare il loro lavoro, ma soprattutto per diffondere la formazione cristiana vi raccomandiamo di procurarci nuovi abbonati: sarebbe il più bel regalo che potete farci per questo nuovo anno.

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Intervista a don Sandro Vitalini

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1. Che cos’è un comandamento? L’Antico Testamento non parla dei dieci comandamenti, ma delle “dieci parole” che devono orientare la vita del popolo di Dio. Il termine “parola” esprime meglio il sussurro di Dio che invita l’uomo e tutta la comunità a costruirsi nell’amore. È importante per noi togliere i veli dei racconti mitici per appurare quale sia la realtà che essi celano. Le tavole di pietra scolpite da Dio stesso, così come i fulmini e i tuoni e lo stesso monte Sinai – che davvero fa paura anche solo a guardarlo nella sua terrificante asprezza – sono il quadro di una tavolozza sulla quale il popolo d’Israele cerca di esprimere la propria volontà di conformarsi al progetto del suo creatore. Questo lo fa assimilando quegli ideali etici che già erano coltivati dalle altre popolazioni e che sono essenzialmente scolpiti non sulla pietra ma nel cuore dell’uomo. Il cosiddetto “decalogo” non può essere attribuito a Dio, così come suona, ma è il frutto di una meditazione, profonda anche se imperfetta, di uomini retti, illuminati dal Verbo, che si sforzano di esprimere la loro volontà di seguire insieme quei dettami che la loro coscienza indica. Si dovrà capire che i termini usati indicano una visione ancora approssimativa della dignità della persona: così la donna è vista come inferiore all’uomo, la schiavitù è pacificamente ammessa e la nozione stessa di Dio è assai ridotta, al punto che lo si immagina riposare dopo le fatiche della creazione. Le varie traduzioni e i vari catechismi hanno poi mutato il testo primitivo in modo sostanziale. Così il “non rapire” è diventato “non rubare”, il “non assassinare” è diventato “non ammazzare”, il “non adulterare” è persino diventato “non commettere atti impuri”. Stupisce e scandalizza il fatto che venti secoli di predicazione cristiana non siano bastati a farci capire che l’antica legge è infinitamente superata dal discorso di Gesù detto delle Beatitudini. Il colmo è che la rivelazione piena di Dio in Gesù fatta all’uomo sia stata considerata solo come una somma di consigli evangelici dati ad uomini particolarmente pii e ci si sia ancora limitati al vecchio decalogo, che richiede di non massacrare il nemico, ma nemmeno si sogna di esigere che lo amiamo e preghiamo per Lui. Il vecchio decalogo fa da paravento alla nostra sciagurata neghittosità. Abbiamo sbattuto in faccia la porta al Verbo incarnato!

Quando ci lasceremo penetrare dal suo messaggio? La domanda evoca anche la liberazione d’Israele dalla schiavitù egiziana. Dobbiamo ricordare che il nucleo storico è estremamente ridotto. Un gruppo di schiavi ebrei è riuscito, grazie a una bassa marea, ad attraversare il mare dei giunchi, sottraendosi al faraone. Ma non ha seguito la “via maris”, che era la via normale e più breve dall’Egitto alla Palestina. Non l’ha seguita perché era fortificata e le milizie egiziane avrebbero arrestato i fuggiaschi. Questi si sono allora addentrati nel deserto e, tra mille peripezie, sono giunti a Gerico, città allora sprovvista di mura di difesa, per occupare poi parzialmente la Palestina con una tensione nei confronti degli altri abitanti che non si è esaurita nemmeno al giorno d’oggi. Dai pochi elementi storici passiamo alla grandiosa epopea che, molti secoli dopo, è stata cantata e scritta su questo esodo (alla lettera: “fuori dalla strada”, proprio perché il manipolo di ebrei non seguì la strada, ma si avventurò nel deserto). La tesi soggiacente è questa: si vuole giustificare con un disegno divino la (parziale) occupazione della terra di Palestina da parte degli ebrei, quando questa terra era già abitata da altre popolazione giuntevi in precedenza. Un modesto evento è stato gonfiato e il grandioso esodo che ne è risultato è stato attribuito a Dio stesso. Tutti i popoli hanno una loro epopea (si pensi a Guglielmo Tell o alle acque del Piave che avrebbero debellato le truppe austriache) e la critica storica deve individuare il suo nucleo oggettivo. Una lettura beota del testo porta a immaginare una divinità filoisraeliana e assassina nei confronti degli egiziani. Purtroppo queste pagine hanno contribuito a deformare la concezione stessa di Dio, che sembra buono con dei predestinati e terribile con i loro nemici. Questa distorsione si prolunga fino ai giorni nostri: gli eserciti che si combattono ricevono benedizioni quasi che Dio li sostenesse. I crociati gridavano “Dio lo vuole” e anche i soldati tedeschi nell’ultima guerra proclamavano il “Gott mit Uns”. Quando arriveremo a percepire che “Dio è Padre di tutti, opera in tutti ed è presente in tutti” (Efesini 4,5)?


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2. Come mai Gesù riduce a due i comandamenti? Rispondo con una domanda: quando le Chiese cristiane prenderanno sul serio la rivelazione del Figlio di Dio? Il Nuovo Testamento ci rivela che Dio è amore. Si legga la prima lettera di Giovanni per convincersi. Grazie a Gesù noi sappiamo che Dio è trinità di persone che sono una cosa sola: una è per l’altra ed è l’altra, vivendo un’unità perfetta nella donazione totale. Questa è l’essenza dell’essere creatore. Noi siamo da lui voluti come sue creature, che riverberano nella loro persona questa divina comunione. L’io del singolo fiorisce solo nel tu, nella donazione totale. Tutta la nostra vita si realizza in questa assoluta apertura alla Trinità, che, come l’acqua viva di una sorgente, si comunica a noi per inondare il mondo. I due comandamenti che riassumono tutta la rivelazione biblica si sintetizzano anche loro nell’unico comandamento dell’amore del prossimo (si legga Romani 13,8 e il contesto, come pure Galati 5,14). È infatti nel servizio concreto del prossimo visibile, in particolare dell’affamato, del profugo, del malato, del carcerato (si veda Matteo 25,31-46), che si incontra il Dio invisibile. Il Dio invisibile è proprio questa Trinità che non ha assolutamente nulla ed è l’amore infinito. Mentre le varie religioni immaginano di rendere un culto alla divinità costruendole templi ricchissimi, i cristiani – se han-

no percepito la rivelazione di Gesù – gli costruiscono case, ospedali, scuole, gli scavano pozzi, gli tracciano strade. Lo servono cioè nell’uomo, aiutando così il creatore a rendere questa nostra terra un’aiuola fiorita, un giardino (paradiso in greco, eden in ebraico). È molto importante capire la fusione del comandamento dell’amore: amiamo Dio che non vediamo nel prossimo che vediamo (si legga 1 Giovanni 4,19-21). L’adorazione di Dio non avviene più in un tempio di marmi e di ori, ma in spirito e verità (Giovanni 4,24), mossi cioè dallo Spirito Santo (Romani 5,5), che ci porta a fare quella verità che ci permette di esperimentare e irradiare la luce di Dio (Giovanni 3,21). Ecco perché il cristianesimo non è tanto una religione tra le altre, ma la rivelazione del progetto del creatore su ogni singola creatura. Già prima dell’incarnazione le persone realizzavano questo progetto nell’amore di donazione. Con la rivelazione di Gesù sappiamo che questo amore viene dalla Trinità ed è la Trinità. Più noi assimiliamo questa verità-cardine e più relativizziamo tutto il resto, rendendoci conto che la nostra vita è sollecitata a realizzare la stessa perfezione del Padre (Matteo 5,48). Il comandamento non è un consiglio, ma l’esigenza fondamentale che l’uomo deve realizzare per essere felice e far felice ogni prossimo. Se nel mondo c’è tanto male e tanta sofferenza, adesso ne sappiamo il perché.

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Messaggio tematico

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3. Come si rapporta il secondo comandamento al primo? Nel testo ebraico il primo comandamento è molto esteso (si legga Esodo 20,2-6) e impone la monolatria. Gli ebrei pensavano che ogni popolo avesse la sua divinità da adorare. Solo all’epoca dei Profeti si arriva al monoteismo. Questo testo, che risente della situazione di un popolo che vive in mezzo ad altri popoli che venerano i loro dei, esige da Israele una fedeltà assoluta a IHWH e ne esclude ogni rappresentazione in opposizione ai culti degli altri popoli che si scolpivano le loro divinità. Il “Non pronuncerai il nome del Signore tuo Dio invano” proibisce lo spergiuro, la falsa testimonianza e l’uso magico del nome divino. Nella mentalità orientale d’allora chi chiamava in causa la divinità con il suo nome appropriato la costringeva a entrare in gioco a suo favore. Da qui sono nate le litanie, intese a centrare, tra i molti nomi, quello che colpisse la divinità invocata e la obbligasse a intervenire. Per non sbagliare e per indicare la sua venerazione per il suo Dio, IHWH, Israele non pronuncia mai (tranne che il sommo sacerdote una volta all’anno il tetragram-

ma divino nel Santo dei Santi) il Nome e lo sostituisce abitualmente con Adonai o altre indicazioni (per es. il Cielo, El Shaddhai). A Qumran gli scribi che copiavano i testi biblici si lavavano le mani ogni volta che si accingevano a scrivere l’impronunciabile tetragramma IHWH. Se si consente un’attualizzazione di queste arcaiche indicazioni, dobbiamo riconoscere che ci sarebbe molto da modificare nei nostri atteggiamenti. Sia l’ebraismo come l’islamismo escludono la rappresentazione della divinità. Come cristiani affermiamo che il Padre si è rivelato pienamente nell’Unigenito, nel Verbo incarnato (Giovanni 1,18). ma ogni tentativo di rappresentare il Creatore Redentore dovrebbe tener conto della sua infinita trascendenza. Si ricordi la maestà del volto della Sindone o lo splendore dell’icona di Rublev. Statue di gesso prodotte in serie, stampe oleografiche dozzinali sono un insulto a Dio e una negazione della fede e non possono che essere distrutte. Così anche l’ordine di non nominare il nome di Dio invano va preso molto più seriamente di quanto lo si faccia tutt’ora. Troppo spesso confondiamo il nostro cervello con la volta del cielo e osiamo dire “volontà di Dio” quello che è un nostro parere umano anche discutibile. Prima


di affermare “questa è la volontà di Dio” dobbiamo pregare, meditare, forse anche digiunare, consigliarci con il nostro confessore e valutare a fondo ciò che stiamo per dire. È delicatissimo e rischiosissimo affermare “questa è la volontà di Dio” a meno di avere l’incoscienza di quella madre superiora che modificava il “Pater” dicendo: “Sia fatta la mia volontà, come in cielo così in terra”.

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4. Il terzo comandamento ci impegna solo con atti di culto? Il cosiddetto terzo comandamento (la numerazione ebraica differisce dalla nostra) è illustrato ampiamente in Esodo 20,8-11 e Deuteronomio 5,12-15. A nessuno sfuggirà che il testo non richiama atti di culto, ma esige che il sabato sia santificato con il riposo da ogni lavoro, ad imitazione del Creatore che, nel settimo giorno, si riposa. Dobbiamo collocare il comandamento nel suo contesto. Il lavoro per gli Ebrei, e in particolare per i loro schiavi, era durissimo, andava da stella a stella e li portava a morire già verso i 40 anni. Il settimo giorno permetteva a tutti di ricuperare le forze, che si erano consunte nelle fatiche imposte dall’agricoltura e dall’allevamento. Con il riposo l’uomo intuiva che era il signore della creazione; con il lavoro prolungava e abbelliva l’opera del Creatore, con il riposo godeva dei suoi frutti. Per rispondere subito alla domanda posta, possiamo dire che tutta la vita dell’uomo è un culto reso al Creatore, sia nel momento del lavoro (coltiva la creazione) sia nel momento del riposo (gode dei suoi frutti). La sua vita di per sé è un ringraziamento continuo al Creatore, che lo associa attivamente alla sua opera divina. Non solo il lavoro, ma anche il riposo è un elemento fondamentale che rende Gloria al Padre. Spiace che nell’epoca rabbinica si sia precisato il riposo in minuziose prescrizioni sfioranti l’assurdo. Così ancora oggi i passi degli ebrei osservanti sono contati, si proibisce l’uso degli interruttori (i timer sono i benvenuti) e persino l’assunzione di un uovo fresco la domenica, perché la gallina l’ha “lavorato” di sabato! Cercando di trasporre in un’ottica evangelica queste intuizioni dobbiamo ammettere che il riposo – che ha un che di divino – è troppo negletto. C’è chi lavora troppo e chi non osserva nessun riposo, non pensando ai disoccupati di tutto il mondo condannati al riposo forzato! La sete del guadagno porta ad un’eliminazione progressiva del riposo domenicale. La legge prescriveva che il salario raddoppiasse per chi è co-

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stretto al lavoro la domenica (sui mezzi di trasporto, nelle centrali), ma a questo nessuno più pensa, ora che si vogliono aprire i negozi anche la domenica. Si arriverà all’eccesso incredibile (che già si attua in certi Paesi) di avere negozi aperti sempre, 24 ore su 24, con un ritmo di vita frenetico per l’economia e il commercio, così che la distensione per la persona e per la sua famiglia diventano un’utopia. Nel mentre l’uomo pensa d’aver costruito una torre che lo fa un Dio, capace di gestire le forze della natura e di produrre incredibili meraviglie tecniche, ecco che rotola dalla sua torre e si sente schiavo delle cose che ha prodotto. Quando riusciremo a capire che tutti siamo signori del lavoro e che tutti dobbiamo godere del riposo, della distensione, dello sport, delle vacanze? O saremo così sciocchi da lasciarci tutti schiavizzare dall’idolo mammona?


Alcune riflessioni sui primi tre comandamenti La ricerca di Dio

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In merito al primo comandamento s’inizia con una domanda: Chi é Dio? Domanda difficile!... Risposta quasi impossibile perché ognuno ha le sue idee, forse anche la sua esperienza di Dio. Tentiamo ugualmente di dire qualche cosa su di Lui; ma poiché riconosco che le mie parole sono inadeguate, prendo due esempi, due fatti narrati da grandi personaggi, uno del secolo scorso, l’altro del nostro secolo. “Dio!... Dio!... Dio!... Se lo vedessi!... Se lo sentissi!... Dov’è questo Dio?... Voi me lo domandate?... Voi?... E chi più di voi l’ha vicino?... Non ve lo sentite in cuore, che v’opprime, che vi agita, che non vi lascia stare e nello stesso tempo v’attira, vi fa presente una speranza di quiete, di consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo confessate, l’implorate? Oh certo!... Ho qui qualche cosa che m’opprime, che mi rode!... Ma Dio!... Se c’è questo Dio, se è quello che dicono, cosa vuole che faccia da me?...”. Avete riconosciuto i personaggi di questo dialogo? Se no, fate uno sforzo di memoria frugando tra i vostri ricordi scolastici e forse arriverete al capitolo XXIII dei “Promessi sposi”, in quella canonica di *** (come scrive Manzoni stesso) dove si trovano a confronto l’Innominato ed il Cardinal Federigo Borromeo. Notate il processo di conversione di quel “bandito, quel famoso...”, come lo chiama il cappellano crocifero nell’annunciarlo al “Monsignore Illustrissimo”. Prima lui, l’Innominato, nomina Dio per ben tre volte, poi desidera vederlo, sentirlo. Lo cerca: “Dov’è questo Dio?...”. Il Cardinale gli risponde che “questo Dio” è nel suo cuore, nel suo intimo. E in quel cuore lavora sodo: opprime, agita, non lascia stare, ma nello stesso tempo attira e “vi fa presente una speranza di quiete, di consolazione che sarà piena, immensa”. Ad una condizione però, che l’uomo lo cerchi facendo un viaggio nell’interno del proprio cuore, casa di Dio, per riconoscerlo, confessarlo, implorarlo. E poi il dialogo continua, partendo proprio da quel cuore che il “bandito” non riconosce ancora come abitazione del divino. Per lui è, al contrario, luogo demoniaco: “Ho l’inferno nel cuore!”. E alla proposta del Cardinale

che lo sollecita a dargli quella “buona nuova” che da tempo - quale pastore d’anime - attende, l’Innominato quasi stizzito replica: “Ditemi voi, se lo sapete, qual’è questa buona nuova che aspettate da par mio”. “Che Dio vi ha toccato il cuore, e vuol farvi suo”, rispose pacatamente il Cardinale. Credo che non ci sia bisogno di commenti: per Alessandro Manzoni, Dio è colui che vive nel più profondo di noi stessi anche se non lo riconosciamo. Ma basta un suono di campane (e di campane che suonano ce ne possono essere tante, non necessariamente solo quelle delle chiese), per risvegliare in noi il senso del divino e, guidati da questo senso, entrare nell’intimo e iniziare questa ricerca di Dio che si rivelerà subito. Allora, anche noi, come l’Innominato, potremo esclamare: “Dio veramente grande!... Dio veramente buono!...”. Sarei un ingenuo se credessi che il ritrovamento di Dio fosse così facile, ma voglio comunque indicare questa strada tracciata da Manzoni, perché - per giungere a Dio - quando si ha coscienza dei propri limiti e dei propri errori, si può passare anche da lì, dalla strada della conversione. Il secondo esempio - quello di un grande artista di oggi - lo tolgo dal “Decalogo di celluloide” di Krzysztof Kieslowski. Nel film sul primo comandamento il regista intesse questo dialogo tra il piccolo Pavel, figlio di un “adoratore” di computer, professore universitario e ateo, e la zia Irena. Il ragazzo è alle prese con le prime domande esistenziali; vuol sapere che cos’è la vita e comunica alla zia che: “il papà mi ha detto: si vive per facilitare la vita a quelli che verranno dopo di noi. Ha detto anche che non sempre ci si riesce”. La zia allora aggiunge anche la sua definizione sulla vita che, fondamentalmente, conferma quella del padre: “Vivere è la gioia di far qualcosa per gli altri... Poterli aiutare ad esistere... Vivere è un regalo...”. Il bimbo sembra cambiare discorso e chiede alla donna: “Dimmi zia, papà è tuo fratello, vero?” - “Certo, lo sai” risponde Irena: “Ma quello che vuoi chiedermi è perché siamo diversi?...” - Pavel annuisce: “Siamo stati educati in una famiglia cattolica - continua la zia - tuo padre era più piccolo di te quando ha scoperto che le cose si possono calcolare, misurare. Poi ha iniziato a pensarlo di ogni cosa, ed è rimasto di quest’idea. Certe volte non sarà del tutto convinto, ma non lo vuole ammettere. Certo appare più ragionevole il suo modo di vedere la vita, ma questo non significa che Dio non c’è, anche per tuo padre, capisci?”. Il ragazzo sinceramente afferma: “Non molto!”. E la zia: “Dio esiste. È molto semplice


Messaggio tematico se ci si crede”. E Pavel: “Tu ci credi?...” La zia risponde sommessamente: “Sì” - “Chi è? Lo sai?” insiste il bambino. Allora la donna stringe fra le sue braccia il nipotino e gli sussurra ad un orecchio: “Dimmi, che cosa senti?” - La risposta è precisa: “Ti voglio bene”. “Esatto - dice la zia - Dio è questo!” Credo che l’unico commento che possiamo fare a que-

sto stupendo gesto, più convincente di ogni definizione, è quello che, quasi duemila anni fa, fece l’apostolo Giovanni: Dio è amore e chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio in lui. Sì, chi rimane nell’amore, chi è capace di amare, anche se non è capace di credere, rimane in quel Dio che non confessa, ma sperimenta, e Dio rimane in lui.

Non bestemmiare... anzi non nominare invano

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Don Vitalini nella terza risposta ha già sviscerato il senso del secondo comandamento. Ma ora vorremmo tornare al suo significato come ci è stato trasmesso dal catechismo che non contraddice, ma completa quello che dice il nostro teologo. Il secondo comandamento proibisce la bestemmia. È vero che la sua dicitura è più blanda: “Non pronunziare, non usare, il nome di Dio invano”, ma quando si proibisce il poco, si proibisce soprattutto il molto. La bestemmia - dice il nuovo Catechismo della Chiesa Universale “consiste nel proferire contro Dio - interiormente o esteriormente - parole di odio, di rimprovero, di sfida”. È fondamentalmente il tentativo di accampare - da parte della creatura - delle pretese sul Creatore denigrando e umiliando il suo nome, in quanto lo stesso rappresenta la Sua Persona. Ecco perché nell’Antico Testamento il bestemmiatore era condannato alla lapidazione davanti a tutta la comunità; pena terribile, quasi a significare che chi aveva scagliato parole infangate, pesanti come pietre, contro Dio, doveva essere sommerso nel fango sotto una pioggia di pietre d’uguale spessore. Qualcuno potrà obbiettare che la bestemmia - in fondo - è un segno (negativo, ma sempre segno) di fede, perché chi non crede, non tira in ballo un essere che per lui non esiste. Purtroppo oggi si bestemmia ancora per tradizione o per maleducazione. È vero che la bestemmia è diminuita, ma ci sono parecchie persone (e non solo fra i poco istruiti, ma anche fra i professionisti in doppiopetto) che nei momenti di rabbia bestemmiano come i “turchi”. Perché come i turchi? Non lo so, so però che i musulmani non bestemmiano Allah; ed in ciò - noi cristiani - dovremmo imparare da loro. Ma il secondo comandamento è più esigente, non proibisce solo la bestemmia, ma anche l’uso “vano” del nome di Dio. Non ci da forse fastidio una persona che continua a ripetere senza tregua il nostro nome? Inoltre questo comandamento regola altre due moda-

lità - di per se positive - di “usare” il nome di Dio: la promessa e il giuramento. E cosa c’entrano le promesse con il secondo comandamento, mi chiederà qualcuno? C’entrano, se fatte nel nome del Signore: “Com’è vero Dio, ti prometto...” oppure: “Nel nome di Dio, ti assicuro che farò ... dirò ...” ecc. Piano con questo tipo di promesse, potrebbe essere un uso inconsiderato del nome divino, della Madonna e di qualche santo che ci è fin troppo familiare. Ma se fatte, impegnano l’onore, la fedeltà e l’autorità divina, perciò devono essere religiosamente mantenute per giustizia; sarebbe non-pio (la parola esatta “empio” mi sembra troppo forte) e ingiusto scomodare Dio nell’atto di promettere e dimenticarlo nel momento in cui bisogna mantenere le promesse fatte. E il giuramento che cosa c’entra con il secondo comandamento? Il giuramento è l’invocazione del nome di Dio come testimone della verità. Consiste dunque nell’avvalorare la parola umana con una garanzia superiore, ritenuta assolutamente fedele. Nel mondo antico il giuramento era particolarmente importante al momento della stipulazione di un patto, oppure in giudizio come protesta d’innocenza. Gesù però si pone contro il giuramento, o meglio contro la casistica farisaica riguardante la validità del giuramento, esigendo la fiducia nella parola umana che deve essere sincera e verace: “Non giurate, né per il cielo che è il trono di Dio, né per terra che è lo sgabello per i Suoi piedi, né per Gerusalemme che è la città del Gran Re. Sia invece il vostro parlare <sì> se è sì, <no> se è no: tutto il resto viene dal maligno” (Mt. 5,34-35). Quindi i giuramenti - che sono qualcosa di più del semplice <sì> o del <no> anche più deciso - vengono dal maligno e sono perciò proibiti ai cristiani? Non sembra che bisogna essere così drastici. Nel Vecchio Testamento

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si legge: “Continua a temere il Signore tuo Dio, lo onorerai e potrai fare giuramenti solo nel suo nome”; e S. Paolo ai Galati giura la verità sul nome del Signore (Gal. 1,20). Ecco perché la Chiesa ha interpretato che la parola di Gesù non si oppone al giuramento allorché viene fatto per un motivo grave e giusto. Ma avverte: “Il giura-

mento, ossia l’invocazione del nome di Dio a testimonianza della verità, non può essere prestato se non secondo verità, prudenza e giustizia”. Non possiamo però dimenticare che alla bestemmia si oppone in modo forte un’altra modalità - questa volta positiva – di rapportarsi a Dio: la preghiera, soprattutto se è di lode e non solo di richiesta.

La domenica giorno dell’uomo e la domenica giorno del Signore

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Don Vitalini dando una risposta in merito al terzo comandamento ha insistito sull’obbligo biblico del riposo. Obbligo oggi molto disatteso perché per molte persone la domenica è il giorno che, non avendo obblighi professionali, può essere riempito di altri impegni forse più stressanti ancora. In questo mio intervento, completando quello che dice il nostro bravissimo teologo, vorrei insistere innanzitutto su la Domenica giorno dell’uomo, rifacendomi a ciò che avevo già pubblicato sul libretto che trovate citato nella quarta di copertina e che potete sempre acquistare per completare la vostra formazione sui comandamenti. Ma cosa voglio dire quando affermo che la domenica deve essere il “giorno dell’uomo”? Una cosa molto semplice: che il giorno festivo deve avere una dimensione sociale. La domenica sarà giorno del Signore soltanto se diventa anche il giorno dell’uomo come individuo e come membro della società. Il bisogno di un giorno festivo, non soltanto religioso, è prima di tutto antropologico e sociologico. L’uomo ha bisogno di riposarsi, ma ha bisogno anche di ritrovarsi.


Messaggio tematico Di ritrovare se stesso, riservandosi dei momenti d’intimità e di spiritualità, e di ritrovarsi con gli altri, ricercando dei momenti di comunità e di socialità. Ecco perché la domenica dovrebbe essere il giorno in cui, dopo il riposo, l’uomo riannoda e rinsalda quei legami sociali che durante la settimana, spesso, sono sfilati perché ognuno se ne va per i fatti suoi. Prima di tutto i legami familiari: la domenica - si dice - dovremmo passarla tutti a casa, eccetto qualche eccezione che porta uno o più membri a tenersene forzatamente lontani. Ma questo essere a casa non significa evidentemente vivere, mangiare e dormire sotto lo stesso tetto; vuol dire coordinare la propria vita in modo che in famiglia ci siano dei momenti d’incontro particolarmente intensi. Uno di questi momenti potrebbe essere, per esempio, il pranzo o la cena, cioè il momento conviviale, con una tavola meglio preparata del solito ed un menù più succulento. A condizione però che non sia sempre e soltanto la mamma ad accudire a queste cose e a preparare i piatti migliori; la domenica il papà non lavora, i figli più grandicelli hanno magari già fatto il corso di cucina dettato dalla scuola e quindi potrebbero essere in grado di dare una mano per rendere il pranzo o la cena più appetitosi. Poi la domenica si esce; potrebbe essere idilliaco parlare d’una famiglia che esce tutta compatta: una gita in bicicletta, una scorribanda in automobile, comunque si esce. È bello poter uscire insieme, ma è più realistico pensare che ognuno esca per una meta propria e che questi fatti si chiamano divertimenti. Evidentemente nessuno dovrebbe imporre il proprio divertimento agli altri, però al ritorno, a casa, potrebbe essere l’occasione per scambiarsi le impressioni e le emozioni provate là dove ognuno è andato a ricaricarsi, a ritrovare la propria compagnia, a rivedere gli amici. Abbiamo detto che il terzo comandamento ci impegna a rispettare un giorno che non è nostro - o meglio - che non è solo nostro. Il sabato - per noi cristiani la domenica - è il giorno del Signore. Ma sarà tale se lo faremo diventare anche il giorno dell’uomo, perché Dio e l’uomo non sono due realtà indipendenti; l’uomo ha bisogno di Dio e Dio ha bisogno dell’uomo. Nella Bibbia (Genesi 2,3) si legge che Dio è geloso del Suo giorno, lo ha chiamato “Mio”; dentro questo “Mio” non vi è soltanto il senso del possesso, quanto una dimensione d’affetto. Forti di questa considerazione dobbiamo collocare anche il precetto della Chiesa che ci ricorda un modo particolare per rendere la domenica un giorno speciale: la partecipazione all’Eucarestia. In parole più semplici, l’andare a Messa. Per

ripassare questo precetto, per molti caduto in disuso (infatti, se nel Ticino l’appartenenza alla religione cattolica si colloca tra il 70 e l’80% della popolazione, la frequenza alla Messa domenicale non raggiunge certo il 20%) sono andato a riprendere un libro, che non oso definire vecchio perché ha uno spirito giovane, il “Catechismo olandese” uscito in Italia nel 1969 tra tante polemiche. Eppure quel libro ha delle pagine attuali, semplici, eloquenti. Rispetto al giorno del Signore, vi trovo scritto: “La domenica il cattolico riserva un’ora libera per la celebrazione Eucaristica come centro della domenica stessa. Questo valore è stato fissato in un precetto della Chiesa del quale molti riconosceranno con gratitudine chi li ha aiutati a compiere fedelmente quel gesto così naturale verso Dio. Un’ora la settimana non è gran cosa per chi crede che la sua vita, e la sua felicità, gli vengono da Dio. Il fatto che esista un precetto domenicale non significa necessariamente che non si possa andare a Messa per amore; il precetto, il comando, è spesso garanzia contro la propria negligenza, e rende liberi per compiere qualcosa in cui - di fatto - si trova pace. Però non dobbiamo misurare la fede di un altro in base alla sua frequenza della Chiesa. Quando, per un certo tempo, un cattolico non vede il valore della domenica e non la santifica, non ci è permesso esprimere giudizi sulla sincerità dei suoi sentimenti cristiani; può darsi - per esempio - che un giovane voglia sottrarsi ad un’abitudine e va allora a cercare il motivo autentico per andare a Messa e per qualche domenica non ci va. Ma può anche darsi che uno sia assente per mancanza di fiducia in Dio e di abbandono in Lui. I casi sono tanti - continua il “Catechismo olandese” il più delle volte l’avversione per gli altri che vanno in Chiesa è soltanto un pretesto, troppo spesso alla base di tutto sta la mancanza di umiltà. E che fare quando i figli sono ormai grandicelli ed a un certo momento non vogliono più andare a Messa la domenica? Fate loro osservare con calma che, pur non essendo fanatici, voi genitori prendete la cosa molto sul serio; nello stesso tempo non dimenticate che la fede in Cristo è assolutamente libera, non frutto di costrizione. Quando ci siano fratelli e sorelle minori si potrà chiedere ai maggiori di tenerne conto, nella maggior parte dei casi lo fanno volentieri.” Soprattutto ricordate loro gli impegni che si sono assunti quando hanno confermato il loro cristianesimo chiedendo il sacramento della confermazione.

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La volta della chiesa dell’Assunta

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Nel corso del mese di gennaio di quest’anno all’interno della chiesa dell’Assunta sono state smontate le impalcature che durante diversi mesi hanno permesso di accedere agevolmente alla volta della navata centrale e del presbiterio. Il restauro dell’arredo pittorico e degli stucchi del soffitto della chiesa principale del nostro Santuario è durato più di un anno. Durante questo tempo, una decina circa di restauratori hanno eseguito un minuzioso e accurato lavoro di pulizia e ripristino dei dipinti e degli altri elementi plastici che ornano la volta della chiesa. Il restauratore Andrea Meregalli ha partecipato attivamente a tutte le fasi di studio, di preparazione, di coordinamento e di esecuzione del complesso ed impegnativo intervento di restauro. A lui ci siamo rivolti per saperne di più.

Signor Meregalli quando sono iniziati e quanto sono durati gli studi in vista del restauro dell’interno della chiesa dell’Assunta? Le ricerche e le indagini preliminari alla messa a punto del progetto sono state effettuate in due tappe. La prima di carattere più generale è iniziata nell’autunno del 2003 e terminata nell’estate del 2004. La seconda tappa, dove sono state specificate maggiormente le procedure e le tecniche da utilizzare per il restauro dei vari elementi dell’apparato decorativo, è iniziata nell’autunno del 2007 e si è conclusa all’inizio dell’estate del 2008. È giusto affermare che il restauro della volta della navata e del presbiterio è il lavoro più impegnativo dell’intervento attualmente in corso? Sicuramente per la ricchezza e per l’estensione delle decorazioni è stato l’intervento che ha richiesto mag-


Messaggio dal Santuario giore impegno sia dal punto di vista tecnico che da quello fisico. Diverse sono state le difficoltà dovute alle tecniche di esecuzione dei vari decori, sommate ai restauri che si sono susseguiti nel tempo, ognuno con specifiche caratteristiche dovute principalmente ai materiali utilizzati. Non di meno dal punto di vista fisico c’è stato un grosso impegno, il lavoro sotto una volta crea un affaticamento costante in particolare per le braccia e la cervicale. Prima di questo intervento, quando si è lavorato l’ultima volta al soffitto della chiesa? Abbiamo trovato delle scritte sopra i capitelli della nave nuova che accertano l’esecuzione degli ultimi lavori di tinteggiatura tra il 1923 e il 1929 dai pittori Leoni Andrea di Minusio e Bernasconi “Bibo..”. A loro si devono la realizzazione del colore beige sugli stucchi e verde scuro nei fondi. Avete potuto stabilire in quante occasioni, nel corso di quattro secoli, l’arredo della volta è stato restaurato o modificato? Gli stucchi sono stati oggetto di restauri completi in almeno tre occasioni, ben distinguibili dalle stratigrafie rilevate durante le fasi di pulitura. La prima probabilmente nel corso del XVIII secolo, anche se mancano notizie precise in merito. La seconda, intorno alla metà dell’Ottocento, avviene in concomitanza con l’incameramento dei beni dell’intero complesso della Madonna del Sasso che nel 1848 passa in proprietà allo Stato; il rinnovo ed arricchimento dell’interno del Santuario coincide con l’entrata forzata dei Cappuccini alla Madonna del Sasso nel 1852, dopo la cacciata dal convento dei santi Rocco e Sebastiano in città. La terza è quella prima descritta tra gli anni 1923 e 1929. In occasione poi dei lavori di sistemazione dell’impianto elettrico e dell’illuminazione della chiesa sono stati eseguiti ulteriori limitati interventi di stuccature e ritocchi. I dipinti della nave nuova subiscono solo parziali e limitati interventi di ritocchi, mentre quelli della nave vecchia e del presbiterio sono completamente rifatti nell’Ottocento. Si conoscono i nomi degli artisti che hanno eseguito i dipinti e gli stucchi della volta? Per gli stucchi delle volte del presbiterio e della nave vecchia non si hanno notizie certe, si pensa che siano

stati realizzati da una bottega lombarda sulla fine del Cinquecento. Gli stucchi e i dipinti della nave nuova invece, per tecnica esecutiva e modi formali, rinviano agli stuccatori attivi con la bottega dei Gorla. Inoltre nella cappella dedicata a San Francesco, sulla lesena di sinistra, vi è la firma di Alessandro Gorla, scritta al contrario sul libro aperto che regge tra le mani S. Bonaventura. Nell’esecuzione dei vari elementi dell’arredo della volta sono state impiegate differenti tecniche, può illustrarci le più significative? Per gli stucchi non vi sono differenze sostanziali nella tecnica esecutiva, ma diverse nelle finiture. La doratura ad esempio è eseguita con foglie d’oro applicate con la tecnica a guazzo alla fine del Cinquecento, mentre con missione oleosa alla metà dell’Ottocento. I dipinti della nave nuova sono realizzati ad affresco

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con finiture a secco all’interno delle targhe, dove vi sono raffigurati gli episodi della vita della Madonna. Questa tecnica è molto resistente e le pitture si sono ben conservate negli anni. Altra tecnica, a tempera, è quella con cui sono state dipinte le decorazioni che fanno da fondi all’apparato in stucco delle vele. La poca resistenza di questa tecnica e il conseguente degrado sono sicuramente all’origine della tinteggiatura che già nel Settecento li ricopriva. Durante l’esecuzione dell’attuale intervento di restauro sono insorte difficoltà particolari? Le difficoltà maggiori si sono verificate nei fondi degli stucchi della nave nuova a causa dell’estremo degrado di parte dei dipinti murali che in alcune parti sono completamente scomparsi. Il problema, in questo caso, sta nel ricercare un giusto grado di integrazione pittorica delle parti mancanti, per ridare equilibrio all’insieme e nello stesso tempo non compromettere la componente di originalità che rappresenta uno dei valori maggiori di queste opere. Ci sono state anche delle scoperte significative? Il recupero dei dipinti nei fondi degli stucchi della nave nuova che si presentavano, prima del restauro, coperti dalle tinteggiature novecentesche verde scure. Anche se non possiamo parlare proprio di scoperta, poiché in fase di indagini preliminari si erano già trovate queste decorazioni, dal restauro sono emersi festoni, tendaggi, teste di putti e fondi bianchi trapuntati da un fitto sviluppo di motivi vegetali stilizzati, che integrano in modo coerente il decoro in stucco dell’inizio del Seicento. Altre sorprese più piccole ma non meno curiose sono state ad esempio le ridipinture eseguite per coprire le nudità di putti e angioletti che sono rappresentate nelle targhe della nave nuova. Queste abbiamo dovuto rimuoverle in quanto non si trattava di panneggi o braghe, ma di macchie di colore senza forma e senza riferimenti cromatici o estetici con il contesto. Ora che la volta può essere di nuovo ammirata dal basso nella sua interezza, possiamo affermare che con l’intervento di restauro essa ha riacquistato lo splendore originale? Lo “splendore originale” appartiene a un periodo sto-


Messaggio dal Santuario rico che non esiste più e che non è più possibile ricostruire. Quello che possiamo apprezzare noi oggi è un’opera che è nata tra Cinquecento e Seicento ma che è giunta a noi attraversando diverse epoche, ognuna con gusti e caratteristiche che hanno lasciato un segno indelebile sull’opera. L’opera quindi non può essere considerata semplicemente quello che l’artista ha generato, essa è il risultato delle vicende che ne hanno caratterizzata la vita. Cosi quello che noi possiamo ammirare oggi, non è solo l’apparato decorativo seicentesco “lo splendore originale”, ma l’opera con la sua vita e la sua storia, con gli apporti del Settecento, dell’Ottocento e del Novecento che per varie ragioni e condizioni siamo riusciti a conservare. Che consiglio già si sente di dare a chi – a lavori conclusi – si recherà nella chiesa dell’Assunta e ammirerà anche la volta restaurata? Il consiglio che posso dare è quello di prendersi il tempo per guardare con calma quest’opera, sia nelle scene dipinte sia nelle forme in stucco che li inquadrano e completano. Uno sguardo attento scoprirà particolari e dettagli sorprendenti, come ad esempio i paesaggi, le costruzioni, personaggi e costumi che caratterizzavano quell’epoca. L’artista, infatti, dipingeva la realtà che lo circondava, e attraverso le sue immagini noi possiamo rivivere quelle atmosfere e quelle condizioni di vita delle persone che ci hanno preceduto e che credevano profondamente nel significato delle loro opere che noi oggi possiamo ammirare. Intervista raccolta da frate Agostino Del-Pietro

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Il nuovo programma di corsi e giornate di formazione al Convento del Bigorio per il 2011


Messaggio dai Conventi

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Il programma dei corsi per il 2011 inizia con la seguente citazione di Hermann Hesse:

“Si ha l’impressione che al mondo non ci sia più niente di reale e di genuino, che non ci siano più umanità, bontà, verità. Eppure esse esistono e noi non vogliamo essere di quelli che le hanno dimenticate”.

Con queste parole il convento del Bigorio propone un ciclo di corsi che hanno come oggetto l’uomo e la sua spiritualità. Lo scopo è quello di imparare a riflettere per arrivare a comprendere meglio se stessi e gli altri. Il saperci ascoltare e il percepire i segnali misteriosi che illuminano la nostra vita sono gli elementi fondamentali che ci permettono di affrontare con più serenità il nostro cammino quotidiano.

Per riuscire a raggiungere questo obiettivo, il Convento organizza i seguenti corsi: - Giornate di silenzio nelle quali, a partire da spunti meditativi suggeriti da fra Roberto, ognuno di noi riesce a trovare i propri punti deboli e i propri punti di forza, partendo dai quali trarre nuova energia. (19 e 20 marzo e 5 e 6 novembre) -Sempre nel segno dell’introspezione e della meditazione saranno pure le giornate animate da fra Andrea Schnöller. (2 e 3 aprile, 29 e 30 ottobre e 3 e 4 dicembre). -Il rapporto tra corpo e spiritualità è il tema dell’incontro con fra Michele Ravetta che si terrà sabato 8 ottobre, a pochi giorni dalla ricorrenza della festa di S. Francesco. Il Santo di Assisi definiva il corpo “frate asino”: questo è lo spunto per una riflessione sulla percezione del corpo che, da un quasi totale annientamento di significato dell’epoca francescana medievale, arriva oggi ad un’esaltazione che rasenta la patologia. - Nei giorni precedenti la Pasqua si rinnova l’incontro con il prof. Mauro Vaccani che parlerà del misterioso viaggio di Cristo verso gli Inferi, ricordato nel Credo e ben conosciuto nella tradizione cristiana orientale. In prossimità del Natale, sempre con il prof. Vaccani verranno rivissute a livello interiore l’attesa che si scor-

ge nei fenomeni cosmici, quella che emerge dai miti, l’attesa storica del popolo ebraico e la nostra attesa di cristiani che ogni anno rivivono il mistero della nascita di Gesù. (17 e 18 dicembre). - P. Callisto sarà invece l’animatore dei corsi prematrimoniali del 21 e 22 maggio e del 17 e 18 settembre, mentre il 26 e 27 di novembre animerà un incontro sulle parabole di Gesù. Saranno giornate volte ad approfondire il messaggio cristiano e che sono destinate anche a chi non è credente ed ai dubbiosi. Per le iscrizioni a questi corsi con P. Callisto bisogna rivolgersi al Convento di Bellinzona al numero telefonico 091 820 08 80. - Proseguono anche quest’anno gli appuntamenti dedicati a chi vuole approfondire la propria conoscenza dell’arte dei primi secoli cristiani. Don Claudio Premoli, storico dell’arte, parlerà della decorazione a mosaico, dell’arte dell’avorio e delle miniature che hanno caratterizzato le forme artistiche di città quali Milano, Costantinopoli, Ravenna e Roma in quei secoli. (10 settembre e il 19 novembre). Il Convento del Bigorio rinnova l’invito a tutte le persone sensibili a questi argomenti a chiedere il programma dettagliato dei corsi del 2011, telefonando alla segreteria in orari d’ufficio al n° 091 943 12 22, o consultando il sito internet del Convento www.bigorio.ch

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Per una vera libertà religiosa

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Quando nel 64 d.C. la città di Roma fu devastata da un grande incendio, l’imperatore Nerone attribuì la responsabilità ai primi cristiani e ne ordinò la persecuzione. Da allora i diritti dei cristiani sono stati messi in discussione in luoghi e tempi diversi, con differenti livelli di intensità e brutalità. Persecuzioni condotte da appartenenti ad altre confessioni per affermare la loro fede (Iraq, India, Pakistan, ecc.) e persecuzioni volute per sradicare il pensiero religioso dalla società (Messico di Plutarco Calles, Albania di Enver Hoxha, Unione Sovietica, Rivoluzione francese, ecc.) Oggi la libertà religiosa dei cristiani è minacciata in modi molto diversi. Nell’Occidente si osserva una sempre maggiore insofferenza per il magistero della Chiesa, soprattutto quando quest’ultima interviene nel dibattito sulla vita e sulla famiglia. In Africa e in Asia sono sempre più frequenti dei brutali atti repressivi contro i cristiani. Lo scorso 10 gennaio Benedetto XVI ha dedicato alla libertà religiosa il suo tradizionale discorso di inizio anno agli ambasciatori presso la Santa Sede. In questa occasione il Santo Padre ha evidenziato l’esistenza di un Occidente a-cristiano e un Oriente anti-cristiano.

La nostra situazione, tutto sommato confortevole, di cattolici svizzeri, ci fa talvolta dimenticare che in questo scorcio di terzo millennio nel mondo il 75% delle violenze perpetrate per motivi religiosi sono patite dai cristiani. Questa grave situazione non riguarda solo i regimi dittatoriali, ma anche Paesi ai quali viene riconosciuta una dignità democratica, come l’India. La tutela delle tante minoranze cristiane diffuse in tutto il mondo, anche sull’onda di alcuni gravissimi massacri, sta però progressivamente guadagnando rilevanza nell’agenda politica internazionale. Lo scorso 27 gennaio il Consiglio d’Europa ha approvato a larga maggioranza una risoluzione di condanna nei confronti delle violenze contro i cristiani. Anche se il problema è ben lungi dall’essere risolto, ci sono quindi (timidi) segnali incoraggianti per la situazione dei cristiani nel mondo; tuttavia i rilevantissimi interessi economici occidentali in certi Paesi (Cina in primis) rendono talvolta troppo prudenti le reazioni contro la violazione dei diritti umani. Il ruolo del cristianesimo in Europa non cessa invece di destare inquietudine. A causa di un concetto deformato di laicità, si assiste a fenomeni sempre più preoccupanti di marginalizzazione del fattore religioso. La cultura religiosa a scuola, la presenza del cappellano negli ospedali, persino il segreto del confessionale o i crocefissi sulle cime delle montagne, diventano presenze ingombranti e intollerabili. In questi ambiti la reazione dei cristiani deve essere forte e chiara. Va in particolare ribadito il ruolo positivo del Cristianesimo per la nostra società. Lo Stato – proprio perché laico – non può che trarre beneficio dall’affermazione di valori, diritti e principi validi per tutti e indispensabili per lo sviluppo armonioso di una comunità. Questa visione positiva della laicità richiede però ai cristiani di testimoniare con impegno e coerenza il messaggio evangelico, nella sua totalità. Le radici cristiane dell’Europa non possono essere svilite e strumentalizzate come baluardo contro l’immigrazione islamica, i minareti o il burqa. Il cristianesimo non è un muro, ma un fiume che rompe gli argini dell’egoismo e abbraccia l’intera umanità. È questo cristianesimo a dover entrare nelle scuole, negli ospedali, nella vita di ognuno. È per questo Cristianesimo che dobbiamo esigere dignità e libertà. Maurizio Agustoni

Mons. Luigi Padovese, vescovo cappuccino, assassinato a Iskenderun nel 2010


L’uomo scopre la Pasqua Andate incontro alla gioia: Cristo è risorto, e l’uomo scopre, rinascendo in lui una eterna infanzia. È ormai compiuta l’opera dei sette giorni. All’alba della domenica, il tempo riprende il suo corso, ma tutto è trasformato. Ora abbiamo segni nuovi: il pane, seme della messe di Dio, e il vino, linfa della sua vigna. Vivete la memoria della Pasqua: Cristo è risorto, e l’uomo scopre, camminando con Lui la sua vera patria.

È ormai compiuta l’opera del Vivente, annunciata dall’antica promessa. Ora possiamo attingere da Lui l’acqua della vita. La mensa dell’amore ci attende, siamo chiamati al banchetto di Dio: giorni d’immensa gioia in cui la Pasqua ci viene offerta. Cantate oggi l’indicibile meraviglia: e l’uomo scopre, perdendosi in Lui, una vita nuova seminata nel suo cuore, che un giorno lo farà partecipe della stessa risurrezione.


Cristiani nel mondo

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Vescovi contro il populismo L’assemblea plenaria autunnale della CEMECE (Commissione episcopale dell’Unione Europea), svoltasi a Bruxelles da 24 al 26 novembre 2010, è stata consacrata al tema del “populismo”, e le preoccupazioni dei vescovi sono state riassunte in un comunicato comprendente tre punti: una valutazione, la preoccupazione per i cristiani, l’impegno. Nella valutazione i vescovi constatano che nei paesi dell’UE aumentano in modo significativo movimenti e tendenze dai caratteri populisti. Questo fenomeno è molto complesso: conosce diverse espressioni, da certe forme di regionalismo fino al nazionalismo e all’estremismo; riguarda la sinistra come la destra dagli schieramenti politici. Si constatano tuttavia similitudini evidenti: una presentazione semplificata dei problemi e della loro soluzione, la ricerca di capri espiatori, lo sfruttamento della distinzione tra “loro” e “noi”. Ciò rappresenta una sfida per i cristiani: i vescovi sono profondamente preoccupati dal fenomeno perché tende a dividere la società ed a distruggere la coesione sociale e la solidarietà, discrimina i più deboli nella società, le minoranze sono indicate come capro espiatorio, dà l’illusione di soluzioni semplici a problemi complessi. I vescovi ricordano che il populismo è direttamente opposto all’idea europea che trova origine nella solidarietà, e deplorano che persino alcuni cristiani siano tentati da tali tendenze: il populismo è fondamentalmente incompatibile con la vocazione universale della Chiesa. Fedeli alla loro vocazione, i vescovi continueranno a promuovere il dialogo interculturale in verità e fraternità, a incoraggiare i cristiani a proseguire nell’impegno civico e sociale al servizio del prossimo, ad aumentare gli sforzi per educare alla responsabilità. Coscienti dell’incertezza e dell’insicurezza del presente, fanno appello ai cristiani perché non si lascino coinvolgere dal populismo, ma che resistano alle sue proposte; il Vangelo chiama a ciò, come lo fece per le generazioni precedenti. Non si tratta di combattere una lotta culturale o ideologica, ma piuttosto di riaffermare princìpi che sono alla base di tutto: la dignità irrinunciabile di ogni essere umano, come persona amata e voluta da Dio, e il bene comune che chiede ancora e sempre di manifestare solidarietà e amore verso il prossimo. Prospettive cristiane e musulmane Si è svolto a Teheran, dal 9 all’11 novembre 2010, il VII Colloquio interreligioso organizzato dal Centro per il

dialogo dell’Organizzazione per la cultura e le relazioni islamiche e il Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, sul tema “Religione e società civile oggi: prospettive cristiane e musulmane”, sviluppato secondo la prospettiva filosofica e teologica, la prospettiva storico-legale, e l’attualità. Tra gli esperti della delegazione vaticana anche due noti studiosi italiani: il prof. Silvio Ferrari (Università statale di Milano) e il prof. Alessandro Ferrari (Università statale dell’Insubria, Como). Al termine dell’incontro i partecipanti hanno concordato il seguente comunicato stampa: “Credenti e comunità religiose, sulla base della loro fede in Dio, hanno un ruolo specifico da svolgere nella società, su un piano di parità con gli altri cittadini. La religione ha un’intrinseca dimensione sociale che lo Stato ha l’obbligo di rispettare; perciò, anche nell’interesse della società, la religione non può essere confinata nella sfera privata. I credenti sono chiamati a cooperare alla ricerca del bene comune, sulla base di una solida relazione tra fede e ragione. È necessario che cristiani e musulmani, come pure tutti i credenti e le persone di buona volontà, cooperino nel rispondere alle sfide odierne promovendo i valori morali, la giustizia, la pace, e difendendo la famiglia, l’ambiente e le risorse naturali. La fede, per la sua stessa natura, esige la libertà. Perciò la libertà religiosa, come diritto intrinseco alla dignità umana, deve essere sempre rispettata dagli individui, dagli agenti sociali e dallo Stato. Nell’applicazione di questo principio fondamentale dovrà essere preso in considerazione lo sfondo storico-culturale di ogni società che non sia in contraddizione con la dignità umana”. (da EREnews,Roma, ottobre-dicembre 2010). Chiese e risparmio energetico Gli edifici ec­clesiastici consumano grandi quan­tità di energia. In Svizzera quasi due terzi delle oltre 5mila chiese vengono riscaldate elettricamen­te. Le chiese sono quindi grandi consumatrici di energia: in base a un sondaggio di OEKU (l’associazione ecumenica Chiesa e ambiente), le varie comunità parrocchiali in Svizzera spendono tra i 5 e i 50 mila franchi all’anno per il riscaldamento, e la tendenza è all’aumento. In molti casi l’impianto di riscal­damento non è regolato in base all’effettivo utilizzo dell’edificio. Questi edifici vengono in genere usati una volta alla settimana e non dovrebbero essere riscaldati tutti i giorni, come ac­cade per le abitazioni. Troppo spesso gli ambien­ti all’ interno delle chiese sono mantenuti a temperature elevate per tutto l’inverno. Occorre quindi puntare


sull’efficienza energeti­ca, sul risanamento degli edifici e anche sull’utilizzo di energie rinnovabili. In tal senso, i buoni esempi sono sempre più numerosi. Da anni OEKU propone corsi per il risparmio energetico destinati ai sagrestani. Semplici accorgimenti, come la riduzione della temperatura nelle chiese, la chiusura di tutte le porte e finestre, o un riscaldamento basato sull’effettivo utilizzo degli immobili pos­sono portare a un risparmio fino a un terzo della spesa. Attualmente in varie Chiese cantonali è in discussione la creazione di fondi destinati a sostenere mi­sure di risparmio energetico. Dal 2010 le par­rocchie cattoliche argoviesi - per esempio - possono richiedere aiuti finanziari alla Chie­sa cantonale in caso di progetti di risanamento di immobili; esiste infatti un eco-fondo di un mi­lione di franchi destinato a soste­nere misure dirette o indirette di risparmio energetico, come la consulenza in ambito ener­getico, l’accompagnamento dei progetti di costruzione da parte di specialisti nel settore, la sostituzione dei dispositivi di gestione del riscaldamento o dei vecchi impianti con sistemi ecologici. Anche la Chiesa cattoli­ca della città di Lucerna, già nel 2006, ha istituito un fondo ecolo­gico dell’ammontare di un milione di franchi. Un deciso impegno a favore del risparmio energetico rappresenta anche un contributo a favore del clima e quindi alla tutela del creato (testo ridotto da “Voce evangelica”, dicembre 2010). Per i 50 anni del Concilio Lo scorso novembre circa 500 persone si sono riunite a Lione, in un incontro organizzato dal “Réseaux du

Parvis”, una rete nata nel 1999 che riunisce le realtà del cattolicesimo conciliare francese. Nel “messaggio di speranza”, a conclusione, vennero indicate le priorità per il futuro: “Non è più sufficiente preoccuparsi per l’avvenire della Chiesa”, ma occorre “dare la parola agli esclusi”, “lottare contro le ingiustizie e la violenza che derivano dall’evoluzione tecnologica e mercantilistica del mondo che rovina i valori costitutivi dell’umanità e mette in pericolo il Pia­neta”; il messaggio liberatore del Vangelo “non può più essere portato dall’autorità: è tem­po per tutti, uomini e donne, di esserne pienamente responsabili”. L’associazione del Parvis dispone di una rivista e di un sito internet e ha la capacità di aggregare nuovi gruppi. Una realtà simile è quella spagnola “Redes Cristianas”, mentre in Italia, le realtà di base del cattolicesimo conciliare sono ancora trop­ po frammentare e disperse, pur esistendo “Noi siamo Chiesa”, che aderisce al Movimento internazionale “We Are Church” (Imwac). A Lione si sono discussi gli aspetti operativi del “50 years Council project”, che ha l’obiettivo di coordi­nare in Europa e in Nord e Sud America tutte le reti e i movimenti che vogliono riflettere sul Vaticano II, in occasione del cinquantesimo anniversario del suo inizio e della sua conclusione (2012-2015), per pensare al futuro della Chiesa e alla testimonianza del Vangelo nel terzo mil­lennio. L’ipotesi, dopo iniziative gestite localmente, è di concludere con un incontro a Roma nel dicembre 2015. A questo scopo si aprirà un sito internet e si cercheranno o confer­meranno contatti con tutte le reti e i movimenti similari di tutto il mondo. Alberto Lepori

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Cinquant’anni anni di dialogo ecumenico per la Chiesa cattolica

L

Lo scorso 17 novembre a Roma è stato commemorato con un solenne atto pubblico il 50° anniversario della creazione del Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani, istituito il 5 giugno 1960 da Giovanni XXIII in vista del Concilio Vaticano II e denominato poi, dal 1988, Pontificio Consiglio. All’evento, presieduto dal presidente del dicastero, il cardinale svizzero Kurt Koch, sono intervenuti il presidente emerito, il cardinale Walter Kasper, l’arcivescovo anglicano di Canterbury Rowan Williams (a destra nella foto) e il metropolita ortodosso di Pergamo Ioannis Zizioulas (a sinistra nella foto), rappresentante del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli.

Impegno irreversibile L’atto commemorativo è stato volutamente fatto coincidere con l’assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, che si è tenuta dal 15 al 19 novembre sul tema “Verso una nuova tappa del dialogo ecumenico”. Nella sua prolusione, Koch ha ripercorso la storia del dialogo ecumenico dal Concilio Vaticano II in poi, auspicando che i cristiani possano essere uniti nel testimoniare il Vangelo nel mondo di oggi e sottolineando come la Chiesa cattolica sia impegnata “in modo irreversibile a percorrere la via della ricerca ecumenica”. Il primo frutto del cammino iniziato 50 anni fa, ha constatato, si raccoglie all’interno della stessa Chiesa cattolica: è il fatto che

l’ecumenismo “non è più una realtà estranea” alla vita delle parrocchie e delle diocesi. “Questo ecumenismo di vita ha un’importanza fondamentale - ha aggiunto - perché senza di esso tutti gli sforzi teologici volti a raggiungere un accordo duraturo su questioni di fede fondamentali tra le varie Chiese saranno vani”. I passi compiuti verso l’unità sono molti e incoraggianti, ma dopo tanti anni il nodo del problema continua ad essere lo stesso: la concezione della natura della Chiesa, l’ecclesiologia. A questo proposito, ha sottolineato il presule, “nonostante gli innegabili successi del dialogo ecumenico, ci troviamo, in un certo senso, al punto di partenza del Concilio Vaticano II. Il cardinale ha poi ammonito che “senza la ricerca dell’unità, la fede cristiana rinuncerebbe a se stessa” ed ha messo in luce difficoltà e progressi nelle relazioni tra Chiesa cattolica, Chiesa ortodossa e Comunità ecclesiali nate dalla Riforma. Koch ha constatato che esistono oggi due tendenze: da una parte c’è un ecumenismo che continua a ricercare l’unità visibile della Chiesa, dall’altra c’è un ecumenismo che ritiene sufficiente ciò che è già stato raggiunto. È allora necessario, ha affermato, dare nuovo slancio al movimento ecumenico, specie in un tempo contraddistinto dalla frammentazione ecclesiale, dal pluralismo e dal relativismo che guardano con sospetto ogni tentativo di raggiungere l’unità, una meta che la Chiesa deve invece perseguire con amorevole determinazione. Il cardinale non ha poi mancato di sottolineare quanto l’ecumenismo sia necessario alla missione, che viene ostacolata dalla divisione dei fedeli. La nuova evangelizzazione, ha concluso, può avere successo “solo se viene rivitalizzato l’obiettivo originario del movimento ecumenico, ovvero l’unità visibile dei cristiani”. Azione ad ampio raggio Da parte sua, Benedetto XVI, nel discorso rivolto il 18 novembre alla plenaria, ha definito “un atto che


Messaggio ecumenico costituì una pietra miliare per il cammino ecumenico della Chiesa cattolica” la decisione di Giovanni XXIII di istituire il Segretariato per l’unità dei cristiani. Il Papa ha sottolineato che in questi 50 anni “è stata percorsa molta strada”: “si è acquisita una conoscenza più vera e una stima più grande con le Chiese e le Comunità ecclesiali, superando pregiudizi sedimentati dalla storia; si è cresciuti nel dialogo teologico, ma anche in quello della carità; si sono sviluppate varie forme di collaborazione”. Tra queste ultime, ha citato “quelle per la difesa della vita, per la salvaguardia del creato e per combattere l’ingiustizia”, così come “importante e fruttuosa” è stata quella “nel campo delle traduzioni ecumeniche della Sacra Scrittura”. Il Pontefice ha poi ricordato come negli ultimi anni il dicastero vaticano si sia impegnato nel cosiddetto “Harvest Project”, per tracciare un primo bilancio dei traguardi conseguiti nei dialoghi teologici con le principali Comunità ecclesiali dal Concilio Vaticano II. Questo “prezioso lavoro”, ha indicato, “ha messo in evidenza sia le aree di convergenza, sia quelle in cui è necessario continuare ad approfondire la riflessione”. Per questo, il Papa ha esortato i presenti a continuare ad impegnarsi “nel promuovere una corretta ricezione dei risultati raggiunti e nel far conoscere con esattezza lo stato attuale della ricerca teologica a servizio del cammino verso l’unità”. Benedetto XVI ha quindi riconosciuto che al giorno d’oggi alcuni pensano che il cammino ecumenico, “specie in Occidente, abbia perso il suo slancio”. “Si avverte, allora, l’urgenza di ravvivare l’interesse ecumenico e di dare una nuova incisività ai dialoghi” e si presentano “sfide inedite”, come “le nuove interpretazioni antropologiche ed etiche, la formazione ecumenica delle nuove generazioni, l’ulteriore frammentazione dello scenario ecumenico”. In un simile contesto, “è essenziale prendere coscienza di tali cambiamenti e individuare le vie per procedere in maniera efficace alla luce della volontà del Signore: che siano tutti una sola cosa”. “Pur in presenza di nuove situazioni problematiche o di punti difficili per il dialogo, la meta del cammino ecumenico rimane immutata, come pure l’impegno fermo nel perseguirla”, ha dichiarato il Papa. Doppio movimento L’azione ecumenica, ha aggiunto Benedetto XVI, “ha un duplice movimento”. Il primo è rappresentato dalla “ricerca convinta, appassionata e tenace per trovare

tutta l’unità nella verità, per escogitare modelli di unità, per illuminare opposizioni e punti oscuri in ordine al raggiungimento dell’unità”, “nel necessario dialogo teologico, ma soprattutto nella preghiera e nella penitenza, in quell’ecumenismo spirituale che costituisce il cuore pulsante di tutto il cammino”, visto che “l’unità dei cristiani è e rimane preghiera, abita nella preghiera”. Il secondo è un “movimento operativo”, “che sorge dalla ferma consapevolezza che noi non sappiamo l’ora della realizzazione dell’unità tra tutti i discepoli di Cristo e non la possiamo conoscere, perché l’unità non la facciamo noi, la fa Dio”. “Viene dall’alto – ha ricordato il Papa – dall’unità del Padre con il Figlio, nel dialogo di amore che è lo Spirito Santo; è un prendere parte all’unità divina”. Ciò non deve tuttavia “far diminuire il nostro impegno”, ha segnalato “anzi, deve renderci sempre più attenti a cogliere i segni e i tempi del Signore, sapendo riconoscere con gratitudine quello che già ci unisce e lavorando perché si consolidi e cresca”.

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A che punto siamo? Al momento attuale è innegabile, come ha più volte riconosciuto lo stesso Benedetto XVI anche durante l’ultima Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio 2011), che, al di là delle indubbie buone intenzioni, l’ecumenismo stia attraversando un momento difficile. Con gli ortodossi, il nodo principale rimane quello del papato ed è proprio questo il tema che occupa attualmente la commissione teologica di dialogo tra le due Chiese e le divergenze appaiono difficilmente appianabili. Con gli anglicani e i protestanti, questioni etiche e morali hanno creato nuovi fossati, senza contare che l’ecclesiologia così diversa tra cattolici ed evangelici continua ad impedire dolorosamente, da parte cattolica, la condivisione della cena del Signore. E nemmeno la storica dichiarazione congiunta sulla giustificazione, firmata da cattolici e luterani il 31 ottobre 1999 ad Augusta, ha prodotto risultati concreti di riavvicinamento tra le due Chiese. A questo proposito, il pastore Fulvio Ferrario, docente alla Facoltà valdese di teologia di Roma, rileva come questa dichiarazione o – altro esempio – il promettente documento di Lima del 1982 su “Battesimo-Eucarestia-Ministero” si siano rivelati incapaci di favorire cambiamenti per quanto riguarda la comunione visibile tra le Chiese.

Gino Driussi


Il ritorno di Gesù e il giudizio di Dio

N

Nell’ultimo numero di Messaggero, in coincidenza con l’Avvento, ho trattato il tema dell’attesa. Ora ci troviamo tra Natale e Pasqua. Ma il tema dell’attesa continua ad essere attuale. Perché l’intera vita cristiana è attesa di Dio che viene. L’attesa, infatti, è un elemento costitutivo dell’esistere cristiano. «Chi è il cristiano?» – si chiedeva san Basilio. E risponde: «Il cristiano è colui che resta vigilante ogni giorno e ogni ora sapendo che il Signore viene». È su questo ritorno del Signore che il cristiano – come di continuo ripetono le Scritture – fonda la sua speranza. Dopo gli eventi pasquali, i discepoli di Gesù, pur camminando nella storia, tengono fissi i loro sguardi in cielo. Attendono il ritorno del Signore. Soprattutto agli inizi, erano profondamente persuasi che l’attesa sarebbe stata di breve durata. Di conseguenza, aspettavano con impazienza il glorioso evento. Esso avrebbe inaugurato definitivamente «i nuovi cieli e la nuova terra» (Ap 21-22). Per Paolo, «la notte è avanzata, il giorno vicino» (Rm 13,12). Anche Pietro attesta: «La fine di tutte le cose è ormai prossima» (1Pt 3,4). E Giovanni scrive: «È giunta l’ultima ora» (1Gv 2,18). È solo di fronte al continuo dilazionarsi di questo ritorno che ci si convinse che, forse, i tempi di Dio sono diversi dai nostri; che per Dio «un giorno è come mille anni» (2Pt 3,8); che i tempi di Dio sono i tempi della pazienza. Infatti «Dio è paziente con voi, perché vuole che nessuno di voi si perda e che tutti abbiate la possibilità di cambiar vita» (2Pt 3,9). Verrà nella gloria Nel Credo della Messa si recita: «Verrà nella gloria, per giudicare i vivi e i morti». Scrive a riguardo Enzo Bianchi: «Questo giorno del Signore è stato annunciato da tutti i profeti e Gesù più volte ha parlato della sua venuta nella gloria quale Figlio dell’Uomo, per porre fine a questo mondo e inaugurare un cielo nuovo e una terra nuova. Tutta la creazione geme e soffre come nelle doglie del parto aspettando la sua trasfigurazione e la manifestazione dei figli di Dio (cf. Rm 8,19ss.): la venuta del Signore sarà l’esaudimento di questa supplica, di questa invocazione che a sua volta risponde alla promessa del Signore: “Io vengo presto!” (Ap 22,20) e che si unisce alla voce di quanti nella storia hanno subito ingiustizia e violenza, misconoscimento e oppressione, e sono vissuti da poveri, afflitti, pacifici, inermi, affamati. Nella consapevolezza del compimento dei tempi ormai avvenuto in Cristo, la Chiesa si fa voce di questa attesa e, nel

tempo di Avvento, ripete con più forza e assiduità l’antica invocazione dei cristiani: Marana thà! Vieni Signore Gesù». Ho riportato per intero questo passaggio della riflessione di Enzo Bianchi, perché, a differenza di altri testi che parlano del ritorno del Signore, esso è molto solare e positivo: Il Signore ritorna per dare compimento all’in­tensa supplica che sale dall’umanità sofferente, ma anche da tutta la creazio­ne, che geme e soffre come nelle doglie del parto (Rm 8,19-30). Quando ci si riferisce al ritorno del Signore, però, i messaggi non sono sempre così solari e incoraggianti. Per avere una conferma, è sufficiente rifarsi agli splendidi affreschi della Cappella Sistina, dipinta da Michelangelo. Se agli inizi il ritorno del Signore era fortemente atteso, col passare del tempo esso incute più paura che entusiasmo. Al suo primo avvento, Cristo si rivela portatore dell’amore misericordioso di Dio. Al suo secondo avvento, si presenta nella veste del giudice. Sant’Agostino, nel suo Commento al Vangelo di Giovan­ni, scrive: «La prima volta Cristo è venuto umile ed occulto; e tanto più occulto quanto più umile. Ma i popoli, disprezzando nella loro superbia l’umiltà di Dio, misero in croce il loro Salvatore e ne fecero il loro giudice». Di conseguenza, «colui che è venuto la prima volta in modo occulto, in quanto è venuto nell’umiltà», verrà una seconda volta «in modo manifesto, nella sua gloria». Allora non tacerà. «Verrà nella sua terribile potenza e si mostrerà a tutti, anche a quelli che non credono in lui. Lo precederà il fuoco e sarà accompagnato da una potente tempesta (Sal 49,3). Quella tempesta dovrà spazzare via dall’aia la paglia, che adesso viene battuta, e il fuoco consumerà quanto la tempesta avrà portato via!». È – come si diceva – un discorso ricorrente. Ci viene proposto con insistenza, prima e dopo sant’Agostino, da tutta la letteratura omelietica, catechistica e spirituale cristiana. È fuori dubbio che le descrizioni, le fantasie e le immagini con cui si è accompagnato lungo il corso dei secoli l’annuncio evangelico della fine dei tempi e del ritorno glorioso del Signore, re e giudice dell’universo e della storia, hanno inciso profondamente sulla spiritualità cristiana e sulle sue forme di pietà. In parte, esse condizionano ancora oggi la visione che molti cristiani hanno di Dio. In molti casi, esse incidono in modo pesante sul rapporto che i credenti hanno con l’Altissimo, ma anche sul loro atteggiamento nei confronti della vita e della morte, di se stessi e degli altri, del mondo e del suo destino.


Primo solista: Tutto è compiuto! Morendo, Cristo, tu redimi l’oscura notte della morte e dai la vita agli uomini. Agnello ucciso della Pasqua: per te già brilla l’ora del riscatto, già ride, al compiersi di questa oscura notte del dolore, sereno l’astro del mattino: s’annuncia il grande Sabato. Eroe di Giuda! Tu vinci la battaglia morendo per amore: già regni vittorioso dall’alto della croce. Tutto è compiuto! Il linguaggio delle Scritture Con riferimento ai discorsi e alle immagini che accompagnano l’annuncio del ritorno di Gesù, il Cristo, occorre riconoscere che gli stessi scritti del Nuovo Testamento utilizzano un linguaggio ambiguo. A volte se ne parla in termini rassicuranti e di consolazione; altre volte, però, l’accento è posto su elementi che inducono incertezza, diffidenza e paura. L’elemento dominante e che maggiormente turba è quello del giudizio con cui Dio premia i giusti e condanna al fuoco eterno i malvagi. Oltre tutto, ciò che fa più specie è che tali immagini e annunci, il più delle volte, sono posti sulle stesse labbra di Gesù. Qui ci sarebbe molto da dire. Ma può essere sufficiente ricordare che esiste un genere letterario che si chiama parenesi. Si tratta di una forma oratoria e letteraria a carattere fortemente esortativo. Il suo scopo non è tanto quello di predire o descrivere eventi futuri, ma di svegliare gli addormentati, perché ognuno assuma i propri impegni e agisca con responsabilità nel qui e ora. L’altra cosa, a cui posso solo accennare, è che il ritorno del Signore è già iniziato. Esso è in divenire. Il suo inizio coincide con la morte di croce di Gesù e la sua risurrezione. Per questo, morendo, Gesù dice: «Tutto è compiuto!» (Gv 19,30). È sempre questo il motivo per cui, soprattutto nel vangelo di Giovanni, la morte di Gesù coincide con la sua glorificazione, dando principio all’effusione lo Spirito (Gv 7,39; 19,30). È lo Spirito di Dio che, per la sua infinità lealtà e pazienza, fa nuove tutte le cose. A questo Spirito, Gesù ha dato testimonianza, amando sino all’estremo (Gv 13,1). Nel riquadro sovrastante, riportiamo, in libera traduzione, i testi meditativi che accompagnano il Racconto della Passione secondo Giovanni musicato da Bach. Ciò che essi celebrano e proclamano è proprio questa splendida vittoria finale di Dio, del suo amore leale e della sua paziente attesa, su ogni forma di ignoranza

Il secondo solista riprende: Dimmi, o Dio fedele, che muori abbandonato appeso al legno: che mai significa per me: «Tutto è compiuto»? Vuoi dire che la morte ormai per sempre è stata vinta? Che siamo resi liberi perché tu soffi e muori? Che tutto si fa nuovo e il cielo accoglie gli uomini? O Cristo, Parola eterna stroncata dal dolore, più non rispondi ormai. Ma silenziosamente chini il capo: morendo, umanamente eterni il tuo eterno «Sì!». e di resistenza umana. Sono questi la terra nuova e i nuovi cieli a cui tutto aspira. Ed è verso questa pienezza che ci conduce colui che, crocifisso, è diventato rivelazione della Gloria di Dio e via che, seguita, porta all’incontro con Lui. Il giudizio finale è un giudizio di verità, che libera le coscienze dall’ignoranza e dalla loro caparbietà e, per questo, fa nuove tutte le cose. L’esperienza di Francesco Nel bellissimo libro di Éloi Leclerc su san Francesco, La sapienza di un povero, si possono leggere, poste in bocca a Francesco, le seguenti illuminanti parole: «Il Signore ha avuto pietà di me e mi ha rivelato che la più alta attività dell’uomo e la sua maturità consistono, anziché nella ricerca di un ideale, per quanto nobile e santo, nell’accettare con gioia la realtà, tutta la realtà, così come è. Ogni nostro turbamento e la nostra irritazione non possono che compromettere la capacità di amare nostra ed altrui. Dobbiamo imparare a considerare il male e la colpa come li considera Dio. Ed è proprio questa la cosa più difficile. Giacché, dove noi vediamo una colpa da condannare e da punire, Dio ci vede, innanzi tutto, uno stato di smarrimento da soccorrere. L’Onnipotente è anche il più dolce e il più paziente degli esseri. In Dio non v’è traccia, neppure minima, di risentimento. Quando la sua creatura gli si ribella e lo offende, essa non cessa di restare agli occhi suoi la sua creatura. Dio potrebbe annientarla, s’intende. Ma che gusto ne avrebbe Dio a distruggere l’opera sua, frutto di tanto amore? L’intero creato serba profonde radici nel cuore del suo Autore. Questi è del tutto disarmato in faccia alle sue creature, come una madre al cospetto del figlio. In ciò consiste il segreto di quella enorme pazienza divina che talvolta ci scandalizza». fra Andrea Schnöller

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Motivazioni sanitarie in san Francesco d’Assisi

E Nella primavera del 1206 un giovane ben vestito, mentre erra a cavallo per la campagna dell’Umbria, incontra un lebbroso marcio di piaghe. In uno slancio improvviso, superando ogni disgusto, egli scende da cavallo, lo abbraccia e lo bacia. Francesco d’Assisi ha finalmente trovato la sua strada: dall’incontro col lebbroso inizia la sua lezione di fede e di vita quale testimone di Dio e servo dei fratelli in povertà e letizia. Il bacio al lebbroso ha fatto entrare nella sua vita il tema della ripugnanza vinta, della carità per i sofferenti e per frate corpo, del soccorso ai più derelitti.

Egli aveva già sperimentato la malattia quando, prigioniero a Perugia, si era ammalato di febbri periodiche malariche che poi lo affliggeranno e lo accompagneranno ad intermittenza per tutta la vita (tutta la zona del lago Trasimeno e la Val di Chiana a partire da Cortona erano allora paludose e malarigene). Le lunghe peregrinazioni, i viaggi, le fatiche, le pratiche ascetiche, i digiuni periodici, le febbri ricorrenti, l’aspetto macilento obbligarono Francesco a ricorrere spesso alla medicina del suo tempo, specie negli ultimi anni di vita. Avendo, come visto, sperimentato personalmente la malattia e la sofferenza, non sorprende che in quest’uomo governato dall’amore, in “quest’uomo per gli altri” come l’ha definito fra Nazareno Fabretti, l’azione nel mondo contenesse molte “motivazioni sanitarie”. Fra queste citiamo il “richiamo alla necessità di accettare la malattia”, il “dilemma fra l’obbligo di alleviare le infermità e quello di sopportarle”, l’esigenza che “il sofferente doveva essere liberato dalla vergogna di trovarsi debilitato e bisognoso di soccorso”. Ma Francesco non ha mai cercato di umiliare il corpo. Il suo atteggiamento nei suoi confronti è però ambivalente: da un lato il corpo è la fonte e lo strumento del peccato: “Vi sono molti, i quali quando fan peccato o ricevono alcun torto, spesso incolpano il nemico o il prossimo. Ma non è così poiché ognuno ha in suo potere il nemico, cioè il corpo, per mezzo del quale pecca.” (Ammonizione n. 10). Ma esso è anche l’immagine materiale del Cristo: “Considera, uomo, in quale stato eccellente ti ha messo il Signore, poiché ti ha creato e formato ad immagine del suo figlio diletto secondo il corpo, e a sua somiglianza secondo lo spirito.” (Ammonizione n.5). Quindi bisogna porre il corpo a servizio dell’amore di Dio. Il corpo è in definitiva per Francesco, come tutte le creature, “frate corpo” e “nostre sorelle le malattie” sono occasioni indispensabili di salute. Ai medici Francesco preferisce il vero medico, il Cristo, anche se conosceva e rispettava le parole dell’Ecclesiaste: “L’Altissimo ha creato la medicina dalla terra e il saggio non la disprezzerà.”. Tutto questo si inseriva nell’ottica caritativa cristiana medioevale, in cui il concetto di cura aveva significati e valori trascendenti, che facevano di tale pratica non solo un’arte medica, terapeutica, ma anche un’opera di misericordia corporale e spirituale. L’immagine del Cristo “Salvatore e Medico” si ribaltava in quella del “povero Cristo” da sostenere, soccorrere e aiutare, secondo la Regola di san Benedetto che non era solo “ora et labora” ma anche “infirmorum cura ante omnia”, la cura dei malati viene prima di tutte le cose. Francesco dovette meditare a lungo tale regola


Messaggio amico quando sostò nel Sacro Speco di Subiaco, dove san Benedetto sei secoli prima aveva dato inizio al monachesimo occidentale e alla successiva evangelizzazione dell’Europa, anche se egli non condivideva la stabilità benedettina e introdusse perciò per i suoi frati la vagatio e l’andare in mezzo alla gente. Francesco capì che per il “povero malato” (pauper infirmus) non bisognava fare distinzione fra indigenza economica e necessità sanitarie e se ne ricordò al momento della fondazione dell’Ordine dei Frati Minori: l’antropologia francescana doveva essere basata sulla buona parola, sul conforto dell’amicizia, sulle pratiche di misericordia: al centro della visione del mondo stanno gli obiettivi della misericordia e della carità. Misericordia che Francesco prodigò a piene mani, come quando guarì il paralitico: evidente il parallelismo col fatto analogo del Vangelo (Bonaventura Berlinghieri ha dipinto tale prodigio nella chiesa di san Francesco a Pescia). Verso i lebbrosi Francesco non ha fatto solo il miracolo del famoso bacio. Il maggior prodigio fu di andare spesso a curarne molti altri al lazzaretto e di guarirne alcuni. Allora i lebbrosi erano i malati reietti inguaribili, affetti non dalla morte fisica ma dalla morte civile della segregazione e della emarginazione a vita (e si calcola che ai tempi di Francesco i lazzaretti fossero circa ventimila in tutta Europa). A quel tempo il giudizio terribile sulla presenza della malattia si basava sulla prova dell’anestesia, consistente nello infliggere un lungo spillone nelle parti piagate o maculate per saggiarne la sensibilità (che in caso di lebbra era ridotta o assente). In Francesco “lo spirito della guarigione” è dominato dalla compassione, non dal giudizio. Lo stato d’animo di compassione ha soverchiato in lui ogni senso di ribrezzo. In Francesco la compassione nel suo più profondo significato etimologico (dal latino cum patire, soffrire insieme) raggiunge la più alta e inimitabile espressione. Egli dettò nel suo Testamento le seguenti parole: “Mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse in mezzo a loro e usai con essi misericordia”. Era la misericordia la pratica curativa che sopperiva alla impossibilità di guarigione, realizzando così la vera fratellanza universale. Ma chi volesse intendere la vocazione francescana alla luce della sola compassione umana riceverebbe di essa una immagine riduttiva. L’amore del prossimo, fondamentale, è sempre subordinato da Francesco all’amore di Dio e alla sequela Christi, all’imitazione della vita di Gesù secondo il Vangelo. L’affetto per gli altri, specie per i deboli e gli ammalati, è una conseguenza di quell’amore: egli vuole affermare l’amore di Dio attra-

verso un servizio d’amore per il prossimo. A Francesco stavano a cuore i lebbrosi e le loro sofferenze, ma più ancora stava a cuore la salvezza delle loro anime: sa cioè che la lebbra dello spirito è molto più difficile da curare che quella del corpo. Egli sa che la malattia come ogni povertà o sventura indurisce il cuore di chi ne viene colpito; e solo la sua grande forza d’animo, la sua tenace volontà, la sua capacità di piegare la durezza del cuore altrui, gli permetteranno di aver ragione della malvagità e della protervia di alcuni lebbrosi così da riuscire a commuoverli fino alle lacrime. È stato scritto che dopo Francesco è più facile essere uomini; certo è più impegnativo e affascinante. Concludo con un pensiero di Luigi Santucci, un grande scrittore cattolico: “La venuta di Francesco nel mondo ha segnato un più amoroso modo di pensare all’uomo: vedere l’altro come un lebbroso che sta sulla strada, andargli incontro e abbracciarlo: perché le sue piaghe si chiudano e il suo volto torni a riflettere qualche letizia, anche se imperfetta”. Mario Corti

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Convento dei Cappuccini Salita dei Frati 4 CH - 6900 Lugano

Abbiamo letto... abbiamo visto...

GAB 6900 Lugano Caldelari P. Callisto

Kieslowski Krzysztof

La Bibbia del dì di festa. Pensieri familiari sui dieci comandamenti

Il Decalogo

Bellinzona (Ed. La Regione Ticino), CHF 15.(da richiedersi direttamente all’Istituto Bibliografico Ticinese – Comunità del S. Cuore) In questo libro, dedicato a chi crede nell’etica e a chi crede nella luce che la Parola di Dio porta sui comportamenti umani, l’autore ripropone in modo nuovo l’antica sapienza della Bibbia, facendo molta attenzione a presentare ognuna delle “dieci parole” come via di liberazione per l’uomo d’oggi.

Questo capolavoro cinematografico si compone di 10 film che hanno per tema ciascuno un comandamento vissuto o meglio trasgredito nell’età moderna. Ambientati negli ambienti borghesi della periferia di Varsavia, con l’intenzione di mostrare come il distacco da quella fede, che rende l’uomo “naturalmente” cristiano, porta alla trasgressione di questi comandamenti, a violare i fondamenti della nostra morale e a creare divisioni e dolori. Vederli ad uno ad uno è un forte e divertente ripasso della morale cristiana, consigliabile soprattutto a famiglia con adolescenti perché permettono delle profonde discussioni tra genitori e figli. Ma possono anche dare vita a costruttivi cineforum con la partecipazione di molte persone, soprattutto se animate da un teologo e da uno psicologo come abbiamo fatto anni fa al al centro “Spazio Aperto” di Bellinzona.


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