Messaggero 2011-15 Lug-Set

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Trimestrale di formazione e spiritualitĂ francescana

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Luglio n° Settembre 2011


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Luglio n° Settembre 2011

Intervista a don Sandro Vitalini

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Alcune riflessioni

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Attentati in Norvegia: colpa del multiculturalismo?

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La vita di Maria

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Francescanesimo secolare

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Alberto Lepori

Kingston 2011: “Solo la pace è giusta”

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La prigione: luogo di incontro con l’uomo ferito fra Michele Ravetta

fra Callisto Caldelari (dir. responsabile) fra Ugo Orelli fra Edy Rossi-Pedruzzi fra Michele Ravetta Maurizio Agustoni Gino Driussi Alberto Lepori E-Mail redazione@messaggero.ch

Hanno collaborato a questo numero fra Agostino Del-Pietro Cinzia Patriarca Rovelli fra Andrea Schnöller don Sandro Vitalini

Redazione e Amministrazione Convento dei Cappuccini Salita dei Frati 4 CH - 6900 Lugano Tel +41 (91) 922.60.32 Fax +41 (91) 922.60.37 Internet www.messaggero.ch E-Mail segreteria@messaggero.ch

Abbonamenti 2011

Gino Driussi

Signore, dammi il buon umore fra Andrea Schnöller

Rivista fondata nel 1911 ed edita dai Frati Cappuccini della Svizzera Italiana - Lugano

Comitato Editoriale

Maurizio Agustoni

Cristiani nel mondo

MESSAGGERO

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ordinario CHF 30.sostenitore da CHF 50.CCP 65-901-8 IBAN CH4109000000650009018 Non si accettano abbonamenti con destinazione fuori dalla Svizzera

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Fotolito, stampa e spedizione RPrint - Locarno


Lettera della redazione

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Come i nostri lettori avranno constatato, stiamo continuando a presentare i dieci comandamenti. Qualcuno potrà obbiettare: perché insistere sul Decalogo, che ce lo hanno fatto memorizzare già da bambini, anche se non lo capivamo ancora? Proprio perché il Decalogo non è “cosa” da bambini. Sui banchi delle elementari lo si studia, magari durante la catechesi parrocchiale lo si riprende, ma poi – come tutte le cose da bambini – si dimentica. E soprattutto non gli si da importanza e non lo si assume come norma di vita. I frutti di questa noncuranza li notiamo in maniera sfacciata: il prolificare di divi e dive; la mancanza di rispetto per le cose e i giorni che dovrebbero essere sacri; la crescita della violenza e delle uccisioni nonché dei suicidi; il rubare a man bassa e l’ingannare senza scrupoli; il coltivare desideri smodati, ecc. Un ripasso dei comandamenti non fa male, anzi! Perché il loro studio, sotto la guida di maestri spirituali, può condurci a scoprire chi è veramente quel Dio che ce li ha donati e chi siamo noi; due scoperte meravigliose!

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In questo numero continua anche la descrizione dei restauri della Madonna del Sasso, restauri che – una volta terminati – renderanno questa chiesa un gioiello. Abbiamo anche un articolo sui recenti luttuosi fatti capitati in Norvegia; tentativo di riportare avvenimenti recenti per ricavarne degli insegnamenti. L’Ordine Francescano Secolare presenta la sua spiritualità e le sue attività. Sono sempre molto apprezzate le rubriche sulla vita della Chiesa e sull’ecumenismo. Fra Michele ci parla della sua preziosa attività quale cappellano delle carceri, introducendoci in un ambiente troppo sconosciuto. Questa varietà di temi e titoli conferma lo scopo della nostra rivista che è quello di essere un mezzo di formazione cristiana nell’interpretazione data al messaggio evangelico da Francesco d’Assisi. A tutti i collaboratori, un grazie sincero per i loro contributi. A tutti i lettori, buona lettura.

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Intervista a don Sandro Vitalini

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Il comandamento che proibisce di rubare, riguarda solo i furti che una persona può fare o ha anche una dimensione sociale? Ovvero, la dimensione sociale del furto. Devo precisare che il comandamento è elaborato nell’ambito di una comunità ancora barbara e primitiva. Viene proibito il “rapimento”, mentre il semplice furto, come lo intendiamo noi, non solo è ammesso, ma glorificato, se con esso si spogliano surrettiziamente i nemici. Così gli israeliti, dietro ordine di Mosé, spogliano con astuzia gli egiziani delle loro ricchezze (Esodo 12, 35-36) e il Libro della Sapienza li loda per questa “occulta compensazione” (10, 17). Si noti l’esiguità di questo comandamento, che sarà approfondito solo dalla rivelazione del Figlio di Dio, che ci indica in ogni prossimo un fratello da amare e servire. Solo una comunità divinizzata percepisce che ogni uomo è un fratello e che pertanto va rispettato nella integrità della sua persona e di quanto possiede. Più ci si imbarbarisce e più si diviene ladri e assassini senza nemmeno accorgersene. Più cresce il rispetto per ciascuno e più l’uomo è degno del suo nome.

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Ho sentito dire che se una persona non ha di che mangiare e non può comperarsi del cibo, anche se lo rubasse, non commetterebbe peccato, ma prenderebbe quello che ha diritto per vivere. E’ valida questa teoria? Ovvero, chi ha fame non pecca se mangia ciò che trova. Questo pensiero appare chiaramente illustrato in San Tommaso. La persona umana ha diritto alla vita, all’educazione, al nutrimento. Colui che non ha mezzi economici si trova in una situazione squilibrata e foriera di morte. Se ha fame ha diritto di nutrirsi là dove trova qualcosa che gli permetta di sostentarsi e non incorre in alcun colpa. Questo principio è stato poco sottolineato dalla tradizione per timore che si “incoraggiassero” i furti. Ma bisogna proclamarlo con forza: chi ha fame ha diritto di nutrirsi. Si tratta di un principio gravido di conseguenze: i popoli affamati hanno diritto di condividere i nostri beni, perché sono anche di loro proprietà; si è calcolato che se si distribuissero le ricchezze terrene in modo equilibrato, ad ogni persona toccherebbero 7 milioni di franchi! Basta questa cifra a svelarci lo spaventoso abisso che divide le moltitudini di affamati da una piccola casta di super-ricchi che nuotano nell’oro. Si capisca finalmente che la con-

divisione non è un atto di benevolenza, ma di stretta giustizia. Andrebbe regolato universalmente da leggi che assicurino il minimo vitale a tutti e a ciascuno.

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Nel non rubare entra anche l’obbligo di pagare le imposte? Di devolvere dei soldi in beneficenza? Ovvero, sull’obbligo di pagare le imposte e di far beneficienza. Lo Stato moderno si regge sulle imposte versate dai cittadini e dalle varie industrie. E’ pertanto un obbligo grave pagare le imposte in modo corretto, senza occultazioni di capitali. E’ però un altrettanto grave obbligo morale per lo Stato spendere oculatamente ciò che incassa. Tutti abbiamo la responsabilità di sostenere lo Stato, ma anche di controllarlo, perché ogni dilapidazione di capitali sia evitata. Uno Stato ladro incita i cittadini ad esser ladri e così si finisce in totale rovina. Di nostro non possediamo nulla e siamo soltanto amministratori del danaro che il Creatore ci affida da ben gestire. E’ doveroso provvedere alla famiglia, pagare le tasse, aiutare in tutti i modi i più poveri, vicini e lontani, adoperandoci perché si crei quella giustizia distributiva che faccia sì che tutti abbiano il necessario e vivano in concreta fraternità, secondo il principio della seconda Lettera ai Corinzi: “Chi aveva raccolto molto non abbondò e chi aveva raccolto poco non ebbe di meno” (8, 15). I problemi dell’umanità non possono risolversi che nella concreta attuazione del principio che siamo un solo villaggio, siamo una sola famiglia.


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Questo comandamento nei catechismi scolastici lo si spiega dicendo che proibisce di dire bugie. È questo il suo vero senso? Gli antichi ebrei avevano grande dimestichezza con la bugia, che ritenevano una interessante astuzia. Il patriarca Giacobbe è maestro in questo campo (Genesi 27), anche se poi sarà vittima a sua volta di atrocissimi inganni. Il comandamento all’origine vuole colpire la falsa testimonianza nei processi, che può portare alla morte dell’innocente (1 Re 21,8-16). Solo con la rivelazione di Gesù si arriva a percepire che l’uomo, prescindendo anche da solenni giuramenti, deve saper dire “sì” o “no”, in stretta aderenza alla verità (Matteo 5,37; Giacomo 5,12). Questa esigenza evangelica, che promana dalla comunione alla verità suprema che è Dio, è tanto importante quanto disattesa. Lo stesso codice di diritto canonico prevede per determinate situazioni dei giuramenti solenni, smentendo in modo pacchiano la parola di Gesù che proibisce ogni forma di giuramento (Matteo 5,33-36). Ecco perché si tende ancora oggi a rifarsi al più blando decalogo dell’Antico Testamento senza volersi impegnare nell’attuazione del discorso delle Beatitudini, che appare superiore alle nostre forze. Ma coloro che sono chiamati alla perfezione del Padre (Matteo 5, 48) hanno il diritto di annacquare in modo così scandaloso la Parola del Verbo incarnato?

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Siamo sempre obbligati a dire a tutti e tutta la verità? Non ci sono delle eccezioni? Evidentemente no. Tutti conosciamo l’importanza del segreto professionale (per un medico, per un prete) e ci rendiamo conto che ci sono dei limiti insorpassabili in ciò che comunichiamo agli altri. Mi permetto di insistere sulla virtù della discrezione, del rispetto della privatezza del prossimo. Da bambino avevo sentito nelle prediche che il segreto della confessione mai era stato tradito ed anzi difeso fino al martirio. Mi pare però di dover constatare leggerezze inammissibili anche in questo campo delicatissimo. Se qualche confratello mi legge, gli ricordo di essere una tomba nell’ambito del suo ministero e chiedo ai penitenti che si sentissero in qualche modo traditi di farsi avanti per denunciare gli abusi. Viviamo in un’epoca in cui il pettegolezzo, le ciance, i “segreti confidati solo alla persona di fiducia” procurano danni enormi. Dio è “la sottile voce del silenzio” (1 Re 19,12); si dice che occorrono 10 anni per imparare ad ascoltare e che ne occorrano 20 per imparare a tacere. E noi a che punto siamo?

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Messaggio tematico

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In questo comandamento entrano anche gli obblighi di chi è preposto ai mezzi di comunicazione? Ed anche di chi li usa? Chi segue in televisione il telegiornale italiano su RAI 3 e poi su Rete 4 si sarà accorto di come la presentazione dello stesso fatto di attualità avviene con una prospettiva rovesciata. Mi è capitato (poche volte) di poter controllare una notizia apparsa sulla stampa, accertandomi che era falsa. La distorsione della verità è così sistematica e macroscopica che forse chi la opera nemmeno più se ne accorge. Per ragioni di propaganda elettorale, di economia, di interessi privati si mente spudoratamente. Che cosa possiamo fare? Quando appuriamo una falsità e la possiamo documentare, denunciamo il falsario. Cerchiamo però sempre di avere un occhio critico su tutto. Le ditte che vendono i loro prodotti a 3,95 o a 9’950 franchi non cercano forse subdolamente di ingannarci? Non ho mai sentito di un prodotto offerto a 4,05 o a 10’050 franchi! Siamo presi per cretini potenzialmente interessanti e l’inganno ci avvolge come spire di serpente. Sappiamo ancora pensare con la nostra testa? Le ditte che non ci assediano con la loro ammaliante pubblicità falliscono. Chissà se anche noi abbiamo mandato il nostro cervello all’ammasso e accettiamo che gli altri decidano al nostro posto?


Alcune riflessioni Alla parola “rubare” si contrappone la parola “dare”

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Il titolo di questo approfondimento non ci esorta alla restituzione, cosa obbligatoria per chi ha rubato, ma ad un gesto più generoso, alla elargizione verso chi ha meno di noi. Per il cristiano non basta restituire il maltolto: è indispensabile elargire almeno il superfluo. L’imperativo resta il seguente: dobbiamo dare una parte di ciò che possediamo. L’entità del dono può variare: da un bicchiere d’acqua fresca che già non resterà senza premio - come dice il Vangelo di Matteo -, fino alla metà dei propri beni - come ci esorta il Vangelo di Luca - e, in situazione di grazia traboccante, al donare tutto quello che hai, la tua vita. Non ci ha forse detto Gesù che dobbiamo amare il prossimo come noi stessi? Anzi, come lui ha amato noi, dando la vita? Il dare quindi non conosce limiti. Ma attenzione! Certi cristiani ritengono che bisognerebbe dare tutto per essere uguali agli uomini più poveri e a Cristo. Questo sentimento nasconde un pericolo, perciò - quasi sempre - di fatto viene giustamente respinto come irrealizzabile dal buon senso e dal senso di responsabilità per la famiglia, con il risultato che non si fa nulla. Ecco perché - a mio modesto avviso - ha maggior valore la convinzione di dover dare qualcosa e subito. E’ proprio ciò che Gesù descrive, immediatamente dopo aver definito il comandamento dell’amore, in quella stupenda parabola del “Buon samaritano”. Quell’uomo, non solo si ferma a sollevare dalla strada e dalla pozza di sangue in cui è immerso uno per lui straniero, ma gli fascia le ferite, lo carica sulla sua cavalcatura, lo porta all’albergo, paga per lui, passa la notte insieme per scrutare se ha ancora bisogno di qualcosa e avverte l’albergatore di continuare ad assisterlo, non avendo paura di fare altre spese, perché al suo ritorno l’avrebbe ripagato. Se non è stabilito quanto dobbiamo dare, la morale cristiana stabilisce in che modo dobbiamo dare? Per fortuna non ha leggi su questa modalità, ma lascia tutto alla nostra fantasia ed alla nostra generosità. Oggi ci sono diversi modi per donare agli altri quello che giustamente possono pretendere da noi perché per noi è “il superfluo o il non necessario”. Ci sono le collette, esiste nella Chiesa svizzera il Sacrificio Quaresimale, ci sono un’infinità di richieste che ci raggiungono settimanalmente attraverso la posta, ci sono

bisogni nascosti che discretamente ci sollecitano, ma ci sono anche degli sfacciati che allungano la mano senza avere un effettivo bisogno. Ecco perché alla nostra fantasia ed alla nostra generosità va unita anche la nostra prudenza. Al dare può essere applicata la parola di Cristo: “siate prudenti come serpenti” per non lasciarvi abbindolare, ma “siate semplici come colombe”, per essere generosi senza essere supercritici. Questo dare diventa difficile, se non impossibile, a coloro che sono smodatamente attaccati alle proprie ricchezze e le usano in modo egoistico. Ecco perché nel Vangelo, da una parte ci sono i poveri che sono dichiarati beati e dall’altra ci sono i ricchi che vengono condannati.

Più aggressiva della parola di Cristo è quella del suo apostolo Giacomo che, scrivendo contro i ricchi, usa queste terribili espressioni: “E ora voi ricchi piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano, le vostre ricchezze sono imputridite, le vostre vesti sono state divorate dalle tarme, il vostro oro ed il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si eleverà a testimonianza contro di voi e divorerà le vostri carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni; ecco, il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida, e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore degli eserciti. Avete gozzovigliato sulla terra e vi siete saziati di piaceri, vi siete ingrassati per il giorno della strage,

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avete condannato ed ucciso il giusto ed egli non può opporre resistenza”. E San Giovanni Crisostomo, definito la “bocca d’oro” per la forza della sua predicazione, ci ricorda: “Non condividere con i poveri i propri beni è denudarli, è togliere loro la vita, non sono nostri i beni che possediamo, sono dei poveri. Siano anzitutto adempiuti gli obblighi di giustizia perché non si offra come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia. E un altro Gregorio, vescovo di Roma, ci ricorda: che “Quando doniamo ai poveri le cose indispensabili non facciamo loro delle elargizioni personali, ma rendiamo loro ciò che è loro, più che compiere un atto di carità adempiamo un dovere di giustizia”. Non basta donare cose materiali, è più importante donare amore. L’amore per i poveri, la predilezione per coloro che sono nel bisogno, l’affetto per chi soffre, l’attenzione per chi è nel pericolo, sono tutti atteggiamenti che contrastano un mondo di menzogne, di soprusi e di furti, e dimostrano che esiste ancora lo Spirito di Cristo sulla terra, che esistono ancora degli uomini di buona volontà che sospinti, non da una fede che pensano di non avere, ma da una sensibilità che allarga il loro cuore, sono capaci di essere per gli altri e non soltanto per se stessi. Nei vecchi catechismi si descrivevano alcune modalità di aiuto per i bisognosi sotto due titoletti significativi: “Le opere di misericordia spirituali” e “Le opere di misericordia corporali”. Forse vale la pena di rileggere quali sono queste opere di misericordia. Quelle spirituali consistono nell’istruire, consigliare, consolare, confortare, perdonare, sopportare con pazienza. Le opere di misericordia corporali consistono, invece, nel dar da mangiare a chi ha fame, nell’ospitare i senza tetto, nel vestire chi ha bisogno di indumenti, nel visitare gli ammalati e i prigionieri e nel seppellire i morti. Tutto ciò che possiamo dire riguardo al dare sarebbe incompleto se dimenticassimo il primo e l’ultimo dono che possiamo fare agli altri: la nostra vita che non vuol dire, unicamente, morire per gli altri. L’unica cosa che veramente basta ai nostri fratelli siamo noi stessi. Voler bene agli altri, esistere per gli altri, suscita nell’uomo delle grandi vocazioni che lo portano a battere sentieri di bontà, non solo sul proprio territorio nazionale, ma in paesi e continenti molto lontani. Ma ogni volontario che va in un paese in via di sviluppo deve avere dietro di sé altre persone dalla cui bontà

è stato messo in moto e necessita che queste persone continuino a sorreggerlo moralmente ed economicamente per svolgere nel modo migliore la sua missione. Vorrei concludere con un pensiero pratico che spesso suggerisco agli sposi che mi chiedono di benedire le loro nozze: se volete continuare con il cuore pieno di felicità nascosta, ma sincera; se volete vivere nella pace e nella tranquillità della vostra coscienza, due sono gli atteggiamenti che dovete privilegiare. Il primo riguarda Dio: sappiate raccogliervi in un momento di preghiera ogni sera, ringraziando il Signore di avervi fatto incontrare e di darvi la gioia di vivere insieme. Il secondo atteggiamento riguarda il prossimo: stabilite fra voi un’attività, un ente a cui devolvere quegli aiuti finanziari che deciderete insieme. Siate generosi ma non seguite la tecnica dell’annaffiatoio dando a tutti le briciole che cadono dalla vostra tavola, ma fate delle scelte, e se è possibile coinvolgetevi nell’attività dell’ente che avete scelto; se non potete farlo direttamente e personalmente interessatevi di quello che fanno coloro che sostenete col vostro denaro. Soprattutto prendete in considerazione una adozione a distanza che vi impegna mensilmente a versare qualcosa per il vostro figlio adottivo, ma esigete di tenere i contatti con lui tramite l’ente adottante. Per questo ho raccolto alcuni indirizzi di questi enti da offrire anche a te amico lettore, se interessato. Se questo consiglio è utile per una giovane coppia, quanto lo sarà ancora di più per una famigliola? E mi piace ricordare quello che avveniva nella mia famiglia quando papà e mamma, ogni tanto, ci riunivano per decidere a chi doveva essere dato un aiuto straordinario. Ed allora si parlava del bambino adottato a distanza, della zia suora che curava i negretti, del seminarista povero che era sostenuto nei suoi studi, di un uomo di colore che era stato profugo nei nostri paesi e col quale, un anno, si erano condivise le feste natalizie, di un certo Padre Mattia che, quando ritornava dalle missioni, veniva a casa nostra a raccontarci ciò che aveva potuto realizzare con le offerte che i buoni gli elargivano. Questi momenti di programmazione familiare dell’aiuto mi sono rimasti impressi come uno dei più bei ricordi della mia infanzia, e per questo voglio donare a voi questo ricordo, perché lo possiate trasformare in una vostra personale e gratificante esperienza.


Messaggio tematico La calunnia è un venticello

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Questo titolo – applicato ad un approfondimento sull’ottavo comandamento - mi ricorda un episodio che si legge nella vita di S. Filippo Neri. Una nobile romana andò dal Santo confessando che aveva l’abitudine di parlar male delle sue amiche. Il Santo ascoltò pazientemente la confessione e, quando venne il momento di darle la penitenza, gli ingiunse questa strana azione: “Signora, vada e prenda una gallina, la spenni e poi giri per la città di Roma seminando al vento quelle penne. Quando avrà fatto questo giro torni da me”. La signora sapeva che Filippo era un burlone e cercò di schernirsi pensando che, suggerendole quell’atto, il

Santo scherzasse. Ma il confessore insistette e la donna ubbidì. Quando ritornò per dire a Filippo che la missione era compiuta, il Santo ingiunse alla signora di continuare la penitenza andando a raccogliere le penne che aveva sparso per le strade della città. La donna rispose: “Impossibile, il vento le avrà portate via”. Ed il Santo: “Anche le sue parole malefiche, una volta che sono state sparse, non possono più essere riprese e corrette, ma continueranno ad informare malamente e in modo menzognero altre persone”. La donna capì la lezione, ed io spero che l’abbia capita anche tu, mio caro lettore! C’è un altro detto popolare più forte, più tragico, che vorrei ricordare in merito: “Uccide più la lingua che la spada”. Ed è vero; quante volte una calunnia, una maldicenza, feriscono ed uccidono l’umore, la stima,

la vita stessa di una persona? Quante volte un articolo su un giornale, una notizia alla radio o alla televisione - non sufficientemente controllate - determinano un grave danno per un ente, per un’istituzione? E non sempre la ritrattazione, espressa dagli stessi mezzi di comunicazione qualche giorno dopo, riesce a riabilitare completamente chi è stato ingiustamente attaccato. Per completare questo approfondimento, vorrei servirmi del discusso, ma a mio modo di vedere ancora attuale, “Catechismo Olandese”. Quel testo, sempre molto sintetico, ma altrettanto incisivo, ha un capitoletto intitolato “Le chiacchiere: dire del bene e dire del male”. In quel capitolo leggo: “Il chiacchierare costituisce il sottofondo di tutto il nostro parlare umano. Chiacchierare è dire cosa senza importanza, seduti tranquillamente in compagnia. E’ lo sfondo melodico della nostra esistenza. Chiacchierando impariamo a conoscerci senza accorgerci, in tutta semplicità. Chi discorre continuamente, senza mai lasciare la parola all’altro, distrugge qualcosa. Ci sono casalinghe che schiacciano la loro famiglia sotto valanghe di chiacchiere. Permettere a qualcuno di esprimersi, di rivelarsi, incoraggiandolo con la nostra attenzione può diffondere la felicità”. Sul versante contrario alla chiacchiera, anzi alla stessa parola, sta il silenzio; ed anche il silenzio è un mezzo di comunicazione. Dice, nello stesso capitolo, lo stesso catechismo: “Un’arma molto, ma molto affilata, è il silenzio: ignorare qualcuno, ucciderlo tacendo, può essere un peccato grave oppure segno di uno stato patologico, farlo abitualmente con una persona con la quale si convive, sotto lo stesso tetto, nella stessa comunità”. E sullo sparlare avverte: “Sparlare di qualcuno è particolarmente grave. Si distrugge qualcosa cui tutti teniamo straordinariamente ed a cui abbiamo diritto, vale a dire un po’ di stima da parte degli altri, una buona reputazione”. E noi sentiamo subito quando si sparla sul nostro conto. Coloro che abitualmente ci sono più vicini si irrigidiscono, gli si legge negli occhi la diffidenza. Se si tratta di cose vere, ciò si chiama maldicenza, perché il male recato diventa spesso irreparabile. Se si tratta invece di cose inventate, questa è la calunnia, abbiamo un’ingiustizia particolarmente grave. Benefico è invece il comportamento opposto col quale

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Messaggio tematico montare la testa quasi ci fosse possibile scoprire, battendo queste strade, il segreto ultimo della nostra esistenza.

si mettono in rilievo le qualità del prossimo, così facendo si arricchiscono gli ascoltatori e la persona di cui si parla. “Dir bene” è un atto creativo, ed equivale a “benedire”, cioè dir bene di una persona a Dio. Terminiamo con una breve parola su tutti quei mezzi con i quali si cerca di scrutare verità nascoste: la chiaroveggenza, la telepatia, la previsione di avvenimenti futuri, l’interpretazione di influssi astrali (astrologia), la chiromanzia, ecc. Questa enumerazione mette insieme un piccolo campionario di realtà molto diverse fra loro. Esse però hanno questo in comune: si sottraggono totalmente, o in parte, al potere della scienza. Formano un campo di esperienze prescientifiche suscitando nell’uomo il sospetto che la creazione - e con essa anche la nostra percezione - sia più ricca di quanto possiamo controllare. Frattanto possono suscitare in noi il senso del misterioso, proprio come se la cortina che nasconde il mistero della vita venisse appena scostata. L’amore della verità - di cui parliamo in questo approfondimento - ci vieta di negare, per paura e a priori, l’esistenza di questi campi d’esplorazione senza che ci preoccupiamo di studiarli; ma d’altra parte, quello stesso amore, ci avverte di non lasciarci

La fede cristiana ha un messaggio chiaro: “Dio nulla ci ha rivelato di più grande del suo Figlio Gesù Cristo, il quale ci ha insegnato la strada della verità e dell’amore”. Non i misteri crepuscolari ci indicano la via della vita, ma il segreto nascosto in realtà comuni, come la bontà e l’amore, misteri che non impallidiscono all’alba e non svaniscono al sole meridiano. Che cosa mai ci procurerà il contatto più vero con la nostra esistenza? Non un trucco qualsiasi che dovrebbe portarci alla conoscenza di un destino precedentemente fissato, ma la responsabilità alla quale il Creatore chiama la nostra libertà. Gesù non è un mago; certo i suoi segni rivelano forze meravigliose, ma il suo segno per eccellenza è l’impegno della Sua vita. Egli non è misterioso, ma pieno di mistero, e i segni del Suo potere in mezzo a noi, i sacramenti, non sono sguardi furtivi e misteriosi lanciati in un altro mondo, ma sono incontri con Lui nella fede; non sono magici contatti automatici, ma un appello all’intimo più segreto dell’uomo, a tutta la pienezza della sua vita. “Ancora una volta - insiste il “Catechismo Olandese” - tutto ciò non intende escludere che esistano fenomeni paranormali e che questi possono aiutare a decifrare molti enigmi della creazione”. Ma nessun uomo potrà trovare mezzo alcuno, che sostituirà quel grandioso mezzo che Dio ci ha dato per giungere fino a Lui: la dedizione e l’amore dell’uomo libero, animato dalla Sua grazia. Questo per i credenti; per i non credenti non ci sarà mezzo più atto per essere credibili che vivere nella verità e nel servizio. Due atteggiamenti che esprimono la stessa prospettiva suggerita dal vangelo quando esorta tutti a vivere nell’amore.


Attentati in Norvegia: colpa del multiculturalismo? Messaggio ???

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Il tranquillo Regno di Norvegia, grande dieci volte la Svizzera, ma con poco più della metà degli abitanti, è stato scosso il 22 luglio da una tragedia impensabile per quelle latitudini. Un potente ordigno ha squarciato il centro di Oslo, dove sorgono anche gli edifici governativi, mentre sull’isola di Utoya quasi settanta giovani riuniti per un meeting del Partito dei lavoratori (il primo partito del Paese) sono stati falcidiati a colpi d’arma da fuoco. Per ora la responsabilità della strage sembra ricadere sulle sole spalle di Anders Behring Breivik, 32enne norvegese imbevuto di ideologia nazista e antiislamica. Breivik, sulla cui salute mentale dovranno pronunciarsi gli specialisti, ha rivendicato i suoi crimini con la necessità di “liberare” la Norvegia dalle forze favorevoli all’immigrazione straniera. Alcuni commentatori hanno quindi collegato questo gesto al modello di “società aperta” voluto dal governo socialdemocratico norvegese e al clima di tensione che ne sarebbe derivato. La Norvegia, secondo criteri internazionalmente riconosciuti (istruzione, speranza di vita, reddito pro-capite, ecc.), è considerato lo Stato con il più alto indice di sviluppo umano al mondo ed è in ogni caso uno dei più ricchi. L’immigrazione straniera, in larga misura di fede musulmana, costituisce un fenomeno di una certa rilevanza, soprattutto nella capitale Oslo. L’idea che il multiculturalismo possa esasperare le tensioni sociali e condurre alla violenza è piuttosto diffusa. Il 16 ottobre 2010 la Cancelliera tedesca Angela Merkel ha lapidariamente dichiarato che il multiculturalismo in Germania si è rivelato un fallimento. Negli scorsi mesi in Svizzera sono state lanciate tre iniziative popolari per introdurre dei contingenti all’immigrazione. Senza negare i problemi legati all’integrazione di alcuni gruppi etnici, mi sembra sbagliato dare per scontato che una persona proveniente da una cultura diversa determini necessariamente una negatività per la comunità che la accoglie. Lo stesso Cristianesimo, nella storia, ha positivamente “contaminato” molte culture lontane, adattandosi talvolta alle particolarità locali. Oggi, la nostra prospettiva è mutata poiché, diversamente dal passato, non siamo più esportatori di

cultura (e di religione), ma (nostro malgrado) importatori. Benedetto XVI, nella sua enciclica Caritas in veritatae, ha indicato la necessità di trovare un equilibrio che consenta di “salvaguardare le esigenze e i diritti delle persone e delle famiglie emigrate e, al tempo stesso, quelli delle società di approdo degli stessi emigrati” (n. 62). Questo approccio non implica quindi di accettare supinamente e acriticamente qualsiasi aspetto di qualsiasi cultura. La poligamia, la mutilazione genitale femminile, la lapidazione – per prendere degli esempi estremi – contraddicono in modo flagrante i presupposti della nostra civiltà e non possono essere tollerati. Al migrante si può pertanto imporre di rinunciare a un po’ delle sue specificità, senza per questo essere considerati xenofobi. Nel contempo, non si può poi escludere a priori che una cultura straniera possa apportare contributi positivi per lo sviluppo della nostra società. Si tratta di un percorso non semplice, che richiede chiarezza e determinazione da entrambe le parti. Con queste premesse non c’è

pertanto motivo di ritenere che la convivenza pacifica tra più culture sia impossibile o sia possibile solo a costo di tensioni e di violenze. Il fatto che vi siano dei pazzi criminali disposti a uccidere per impedire la pluralità di culture non può giustificare un approccio più restrittivo in materia di accoglienza. Uno Stato fiero e libero non può piegarsi al ricatto della follia e della violenza. Maurizio Agustoni

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La vita di Maria

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Nell’ultimo numero di Messaggero abbiamo iniziato la descrizione e il commento di otto medaglioni affrescati, raffiguranti altrettante scene della vita della Beata Vergine Maria, opera della rinomata bottega bellinzonese dei Gorla, che ornano la nave seicentesca della chiesa principale del nostro Santuario. Vale la pena rammentare che i primi quattro medaglioni, di cui ci siamo già occupati, raffigurano scene della vita della Madonna legate ai suoi genitori, alla sua nascita e alla sua giovinezza, delle quali non abbiamo testimonianze nella Bibbia. Per parlarne abbiamo quindi dovuto fare ricorso alla letteratura apocrifa. Le altre quattro scene, che ci apprestiamo a descrivere, e che il visitatore può ammirare procedendo dal fondo della chiesa verso l’altare maggiore volgendo lo sguardo al lato sinistro della volta, sono tutte strettamente connesse con la vita, oltre che di Maria, anche di Gesù e hanno uno o più chiari testi di riferimento nel Nuovo Testamento.

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Veniamo quindi al primo di questi quattro medaglioni. Vi è raffigurato uno degli episodi più importanti della Storia della salvezza: la cosiddetta Annunciazione. Il fatto viene narrato dall’evangelista Luca nel primo capitolo del suo Vangelo: … l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: “Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te”. A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: “Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù… Allora Maria disse: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. E l’angelo si allontanò da lei. (1, 26-31, 38) Partendo dalla data del Natale di nostro Signore Gesù Cristo, 25 dicembre, la solennità dell’Annunciazione viene celebrata dalla Chiesa nove mesi prima, il 25 marzo. Anche la struttura del nostro Sacro Monte sottolinea in modo concreto l’importanza dell’episodio dell’Annunciazione. Infatti, la chiesa che apre il cammino di chi sale a piedi verso la basilica della Madonna del Sasso è dedicata proprio a questo episodio evangelico, primo anche dei cinque misteri gaudiosi che vengono contemplati nella recita del Rosario.


Messaggio dal Santuario Al momento dell’Annunciazione l’angelo Gabriele dice anche alla vergine Maria: Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile. (1, 36)

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Questo annuncio angelico ci serve per introdurre il commento al secondo medaglione presente sul lato sinistro della volta della nostra chiesa. In esso è infatti raffigurata la scena della cosiddetta Visitazione. Dopo aver appreso dall’angelo che la sua anziana parente era in stato interessante, Maria decide di farle visita. L’evangelista Luca descrive così la vicenda: In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”. (1, 39-45)

La Chiesa festeggia questo avvenimento alla fine di un mese par ticolarmente dedicato alla venerazione della Madre di nostro Signore, il 31 maggio. Anche la seconda cappella posta sul cammino di chi sale a piedi al nostro Sacro Monte presenta con delle pregiate statue in terracotta il familiare abbraccio tra Maria ed Elisabetta. Così pure nella recita del Rosario questo episodio viene proposto alla contemplazione del fedele come secondo mistero gaudioso.

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Il terzo medaglione di questa serie raffigura uno degli episodi evangelici più noti e rilevanti. Da molto tempo ormai l’importanza di questo avvenimento biblico ha valicato i confini della sola religione cristiana, ed ha assunto valore a livello universale: la Natività di Gesù, il Natale. Tranne l’evangelista Marco, tutti gli altri ne parlano, in modo più o meno dettagliato. La narrazione più ricca di particolari è, anche in questo caso, quella dovuta alla penna di Luca. Diversi personaggi ed elementi che arricchiscono la scena della Natività, a noi tutti così familiare, sono tipici ed esclusivi del terzo Evangelista, il quale scrive: Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta. Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio.

C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro: “Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia”. E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama”. Appena gli angeli si furono allontanati da loro, verso il cielo, i pastori dicevano l’un l’altro: “Andiamo dunque fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere”. Andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. (2, 4-16) Anche la mano dell’artista che ha riprodotto la scena nel medaglione della nostra chiesa ha saputo ritrarre con delicata raffinatezza molti dei particolari contenuti nel racconto lucano. Chi sale a piedi per la via della valle al nostro Santuario, a metà del suo cammino, incontra una cappella con la rappresentazione plastica dell’evento di Betlemme, terzo dei misteri gaudiosi del Rosario.


Messaggio dal Santuario

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L’ultimo degli otto medaglioni dedicati a vicende della vita della Beata Vergine Maria raffigura una circostanza meno evidenziata rispetto agli ultimi tre episodi descritti: la circoncisione del bambino Gesù. Solo l’evangelista Luca ne scrive in modo sintetico nel suo Vangelo. Dopo aver narrato con ricchezza di dettagli gli avvenimenti legati alla nascita del Bambino, la visita dei pastori, il loro rientro al domicilio, il quarto evangelista aggiunge questa notizia al suo racconto: Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo. (2, 21) In sintonia con questa importante prassi della tradizione ebraica, la circoncisione di Gesù viene ricordata anche liturgicamente da un gran numero di cristiani l’ultimo giorno dell’ottava di Natale, per il nostro calendario il 1° gennaio. Nella Chiesa di rito latino, dopo la riforma liturgica del Concilio Vaticano II, il ricordo non porta però più il titolo ufficiale In circumcisione domini, perché il 1° gennaio è ora dedicato alla solennità di Maria Santissima, la Madre di Dio.

I Vangeli e la letteratura apocrifa contengono evidentemente anche altri episodi della vita della Beata Vergine Maria, oltre a quelli raffigurati negli otto medaglioni della volta della nostra basilica. Alcuni di essi sono comunque riprodotti con tecniche diverse sulle pareti del nostro Santuario. Tra gli episodi più significativi possiamo ricordare: la Fuga in Egitto, nella preziosa pala del Bramantino, il trasporto del Cristo al sepolcro, nel famoso quadro del Ciseri, il transito della Vergine Maria in un dipinto di autore ignoto e, per finire, l’assunzione della Madonna in cielo, affrescata, da mani ignote, nella volta che sovrasta l’altar maggiore.

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Francescanesimo secolare

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Riporto su queste pagine del Messaggero gli interventi preparati per il corso di formazione che ho dettato ai Fratelli e Sorelle dell’Ordine Francescano della Svizzera Italiana. A chi è stato presente potranno servire come ripasso; a chi non ha potuto partecipare, come completamento della sua formazione francescana; a chi non conosce il francescanesimo come introduzione a quelli che sono i capisaldi della spiritualità del Santo di Assisi. Ecco il secondo tema trattato.

La fraternità francescana S. Francesco per vivere la fraternità e consigliarla agli altri, s’ispirò innanzitutto alla Parola di Dio. Al Vecchio Testamento: non sappiamo quanto lo conoscesse, ma certamente era a conoscenza del grande dono che Dio aveva fatto al Popolo Ebreo, chiamandolo il “Suo Popolo” e obbligandolo, come tale, a comportarsi da figlio verso di Lui, da fratello verso gli altri uomini. Nell’elezione, nell’alleanza, nella paternità di Dio, stanno le radici profonde della fratellanza umana. Ma Francesco s’ispirò soprattutto al Nuovo Testamento: il Vangelo era la sua regola, quindi il modo di vita. La sua fratellanza aveva radici principalmente nella Parola di Gesù: * Amatevi fratelli come io ho amato voi … (Giov. 15, 9-17 Discorso dell’ultima cena). * Se il mio fratello pecca … (Fratellanza come fonte di perdono). * Prima togli la trave dal tuo occhio … (Fratellanza nel giudizio). * Nessuno è maestro tra voi (Lavanda dei piedi e fratellanza nel discepolato). Oltre al Vangelo Francesco s’ispirò alle comunità degli Atti (4, 12-15) nelle quali vi era una certa vita in comune, e nelle comunità apostoliche dove i membri si chiamavano fratelli e sorelle (I Cor. 16, 13-23).

Come tradusse concretamente Francesco questa fratellanza? – Prendendo il Vangelo come norma di vita. – Non volendo una regola; basta il Vangelo. – Non volle case (conventi), per sé non volle cariche. – Fu aperto a tutti senza distinzione di persone, anche ai briganti di Montecasale che i frati avevano ricacciato nel bosco, il Santo comandò di andare da loro ed invitarli fraternamente alla mensa comune. Date queste premesse, chi s’ispira alla spiritualità francescana deve avvertire in modo chiaro il bisogno di una forte testimonianza fraterna oggi: 1. Il mondo diventa sempre più piccolo, con il pericolo della dominazione tecnica ed economica che esaspera le differenze. Noi dobbiamo contrapporre ciò che spinge all’uguaglianza: la fraternità. 2. Nella Chiesa dopo il Concilio Vaticano II si è capito, ma purtroppo non completamente attuato, il bisogno di uno spirito di comunione fraterna. Spirito che dobbiamo tradurre in una testimonianza da offrire alla Chiesa come concreta possibilità. 3. Francesco è amato e stimato non solo perché è povero, ma forse di più perché è fraterno, ed i suoi seguaci lo sono per lo stesso motivo, di ciò dobbiamo essere fortemente convinti. 4. S. Francesco è amato anche dai cristiani non cattolici. La fraternità è dunque un aiuto all’ecumenismo. La nostra legislazione principale, la Regola, è quasi ossessiva nel citare e prescrivere la fraternità: – Il nome delle nostre istituzioni, grandi e piccole, é uno solo: Fraternità . – Alcune citazioni: nella Regola art. 13 si dice che la nostra fraternità viene da Cristo, Primogenito di molti fratelli . _ All’art. 14 si esorta a costruire un mondo più fraterno ed evangelico . _ All’art. 18 circa le altre creature animate e inanimate, si esorta a “passare dalla tentazione di sfruttamento, al francescano concetto di fratellanza universale”. Dalle Costituzioni, che sono letteralmente intrise dello spirito di fraternità, citerei solo l’art. 18,2 dove si dice che gli appartenenti all’Ordine secolare: devono approfondire i fondamenti della fraternità universale e creare ovunque spirito di accoglienza e atmosfera di fratellanza.


Messaggio dall’O.F.S. Pellegrinaggio ad Assisi

Il nostro spirito di fraternità cerca di evitare due scogli: il primo quello dell’archeologismo, cioè di ricopiare a tutti i costi quel tipo di fraternità proprio della primissima era cristiana. Non è riprendendo le forme che si sviluppa la fraternità evangelica, ma vivendone lo spirito nei tempi e luoghi dove la Provvidenza ci ha collocati. Il secondo scoglio è quello della chiusura dentro sentimenti più umani che cristiani. Certi movimenti (anche contrari al cristianesimo, vedi i Massoni) usano la parola ”fratello”. Altri la applicano a coloro che pensano ed anche parlano come loro, escludendo chi ha idee diverse. Come abbiamo visto la fraternità evangelica di Francesco non aveva queste limitazioni, ma attingendo sempre al Vangelo estendeva lo spirito fraterna a tutti gli uomini ed anche alle cose inanimate, come il sole la luna, il fuoco, l’acqua, la stessa morte.

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Il giorno della partenza tanto atteso è arrivato! Ad accogliere i pellegrini alle fermate del pullman ci sono suor Carla Pia Rossi, l’organizzatrice e fra Michele Ravetta nostro assistente spirituale. Da anni ci preparano questi cinque intensi giorni curando accuratamente ogni particolare. Per il percorso spirituale e francescano di quest’anno fra Michele ha scelto un tema singolare: “Il perdono che guarisce”. Nelle sue omelie ci ha infatti portato a riflettere e a meditare questo importante aspetto che incontriamo spesso nella nostra vita quotidiana.

Mercoledì 1 giugno dopo le soste d’obbligo giungiamo ad Assisi in perfetto orario accolti da una festante suor Edvige della Domus Laetitiae; prendiamo possesso delle camere e dopo cena ci ritroviamo in cappella per la nostra prima Santa Messa ad Assisi.

Giovedì 2 giugno come da anni, abbiamo riservato per la Messa la cappella alla tomba di San Francesco di primo mattino. Segue la visita guidata alle Basiliche Inferiore e Superiore del Santo. Quindi ci rechiamo alla Basilica di S. Maria degli Angeli ed alla Porziuncola. Nel pomeriggio visitiamo Rivotorto, luogo di dimora di S. Francesco e dei suoi primi discepoli. La sera assistiamo alla sacra rappresentazione del Cantico di S. Francesco del gruppo teatro della Comunità del Sacro Cuore di Bellinzona nella chiesa di Santa Maria Maggiore in piazza del Vescovado.

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Venerdì 3 giugno partiamo alla volta di Passignano sul Trasimeno: da qui imbarco sul battello che ci traghetta all’Isola Maggiore, luogo incantevole ed incontaminato dove S. Francesco si ritirava in preghiera e digiuno per il periodo della Quaresima. Sabato 4 giugno visitiamo Spoleto con il supporto di una guida locale che ci illustra i particolari importanti della città e la relazione con S. Francesco. La celebre lettera autografa del Santo a frate Leone è conservata e visibile nella cattedrale. Nel pomeriggio proseguiamo per Narni con visita della chiesa di San Francesco costruita dopo la morte del Santo proprio nel luogo dove egli aveva dimorato. Il nostro pellegrinaggio volge al termine: quest’anno il gruppo era particolarmente omogeneo e composto da belle persone che in pochi giorni hanno creato un clima di amicizia e di affetto e che sicuramente, come la sottoscritta, porteranno nel cuore questa bella esperienza francescana. Cynzia Patriarca Rovelli

Domenica 5 giugno ci ritrova stanchi ma felici di poter visitare durante la strada del rientro il Santuario della Verna, luogo molto caro a S. Francesco dove si ritirava in preghiera e dove ricevette le stigmate. Nel santuario si possono ammirare le famose terrecotte policrome invetriate della famiglia Della Robbia e numerose reliquie del Santo.


Messaggio dall’O.F.S. Giornata delle Famiglie Francescane La Commissione Interfrancescana della Svizzera Italiana si è riunita nella scorsa primavera e, viste le precarie condizioni di salute di alcuni suoi membri e la rinuncia di altri a farne parte, ha deciso di prendersi una pausa di riflessione. Ciò nonostante, in collaborazione con l’Ordine Francescano della Svizzera Italiana, si è voluto organizzare l’annuale incontro della Famiglie Francescane della Svizzera Italiana. Lo spunto per ritrovarsi ci è stato offerto dalle Clarisse Francescane, le quali festeggiano quest’anno gli 800 anni di fondazione dell’Ordine di Santa Chiara d’Assisi. La felice ricorrenza ci offre l’occasione per condividere con la famiglia delle Clarisse, temporaneamente residenti nel Monastero S. Giuseppe di Lugano, una giornata di riflessione e di preghiera per conoscere meglio l’Ordine delle Clarisse, le quali ci accolgono con questo scritto:

“Carissimi, è con gioia che vogliamo accogliere nella nostra casa, le famiglie francescane presenti in Ticino per vivere insieme un momento fraterno di preghiera e di conoscenza in questo anno giubilare che ricorda l’VIII Centenario degli inizi del nostro Ordine. Nato dal carisma di Francesco che Chiara chiama “beatissimo padre nostro, fondatore, piantatore e cooperatore nostro nel servizio di Cristo”, l’Ordine di Santa Chiara è una forma di vita contemplativa: là dove Francesco e i suoi frati ricevono dal Signore l’invito ad andare a riparare la Chiesa, Chiara e le sue Sorelle stanno come segno di una Chiesa restaurata, testimoni silenziose e povere dell’opera dello Spirito Santo, luogo e presenza della misericordia del Signore per tutti e per ciascun fratello. La nostra fraternità desidera far conoscere all’uomo dei nostri tempi, spesso confuso e smarrito dalla fatica e dal dolore del cammino della vita, la grande avventura di santa Chiara d’Assisi e della sua comunità, del dono del suo carisma ancor oggi vivo e presente nel mondo e nella Chiesa di Dio. Un carisma per tutti che nella diversità e molteplicità delle diverse vocazioni vuole annunciare e testimoniare la salvezza e la bellezza che il Signore Gesù è venuto a portare al nostro mondo spesso pieno di paura e di incertezze.”

Tema della giornata: 800 anni di fondazione dell’Ordine delle Clarisse La figura di S. Chiara di Assisi e il suo carisma oggi Sabato 1 ottobre 2011, Monastero San Giuseppe - Lugano Ore 10.00: Santa Messa Al termine incontro con suor Chiara Myriam, superiora della Comunità Ore 12.00: Pranzo presso il salone di ”Casa Florida” Al termine incontro con fra Martino Dotta, co-responsabile del “Tavolino Magico” Ore 14.30: Incontro con la Comunità delle Clarisse Ore 16.30: Vespri del Triduo in preparazione alla festa di San Francesco, presieduti da fra Martino Dotta

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Cristiani nel mondo

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La Chiesa brasiliana per i lavoratori La Pastorale Operaia (PO) è stata fondata nel 1970, in piena dittatura militare, quando le organizzazioni rappresentative dei lavoratori erano costrette alla clandestinità. Fortemente influenzata dalla Teologia della Liberazione che era presente nell’intero continente latino americano, la PO ha naturalmente costituito, grazie all’organizzazione di incontri a “carattere religioso”, il solo spazio disponibile per questi movimenti clandestini. Presente anche nelle Comunità Ecclesiali di Base (CEB), che durante il regime militare sostenevano il popolo contro la repressione, la PO ha svolto un importante lavoro di mobilizzazione dei movimenti popolari. Con la fine nel 1988 della dittatura e l’inizio degli anni 90 che ha visto il Partito dei Lavoratori, il sindacato CUT e gli altri movimenti popolari diventare punti di riferimento in un contesto di forte critica al sistema capitalistico, il ruolo della PO si è trasformato in un impegno a favore delle vittime della crisi, specialmente per permettere di rivendicare i loro diritti. Avendo come base di riflessione “una nuova cultura del lavoro”, la PO si è data due priorità: “Sviluppare attività per aiutare i lavoratori disoccupati a creare esperienze di economia solidale” e “lottare urgentemente per il riconoscimento dei diritti storici dei lavoratori, in particolare di fronte al progetto di legge sulla flessibilità del lavoro”. Presenza delle religioni all’ONU Oltre 200 Organizzazioni non Governative (ONG) a carattere religioso hanno uno statuto riconosciuto di ONG consultivi generale e sono presenti nelle varie istituzioni delle Nazioni Unite a testimoniare una evoluzione recente a favore delle religioni nella società. Tra esse Pax Romana, associazione internazionale cattolica di intellettuali e studenti, che raggruppa federazioni nazionali e locali in tutto il mondo. Pax Romana ha lo statuto di ONG consultivo dell’ONU dal 1949 e fa parte della Conferenza delle Organizzazioni non governative con statuto consultivo (CONGO), dove è stata vicepresidente negli anni 2004-2006; si impegna specialmente per il dialogo interculturale e interreligioso. Anche organismi di altre religioni (di mussulmani, buddisti, induisti ecc.) sono attivi nei consessi mondiali; un ruolo particolarmente importante vi svolge il Consiglio ecumenico delle Chiese (che rappresenta 349 comunità e oltre 560 milioni di cristiani), presente

all’ONU fin dal 1946 nella Commissione delle Chiese per gli affari internazionali (CEAI), impegnata nella difesa dei diritti umani e nel sostenere le Chiese in difficoltà, influendo nelle decisioni politiche a livello mondiale. La Chiesa verde in Canada In presenza di una società sempre più consumista, i cristiani canadesi sentono il bisogno di impegnarsi sempre più nella protezione del creato, anche a livello parrocchiale. Ciò ha dato origine ad un programma del Centro ecumenico canadese, denominato “Chiesa verde”, allo scopo di sostenere le comunità cristiane nel rispetto dell’ambiente e nella diffusione di una spiritualità cristiana più “vicina alla creazione”. Il programma è iniziato nel 2006 e comprende momenti di riflessione, di preghiera e di azione concrete: così la parrocchia di San Martino della città di Laval ha promosso una “battaglia dell’acqua” contro l’acqua in bottiglia e ha messo a disposizione, presso la chiesa, posteggi per le biciclette. Alle comunità particolarmente attive e originali nella lotta contro l’inquinamento, viene conferito il certificato di “parrocchia verde”. Anche il clero partecipa direttamente, utilizzando per la liturgia un vino prodotto localmente, in luogo del vino californiano meno caro, ma più inquinante a causa del trasporto. Il futuro della stampa cattolica Lo scorso gennaio si è svolta ad Annecy (Savoia francese) la 15ma Giornata di studio della stampa cattolica, presenti 200 editori, giornalisti e osservatori di Francia, Belgio, Svizzera, Canada e Vaticano, sul tema “Il ruolo della stampa cattolica nella società e nella Chiesa”. I cambiamenti nella stampa e in generale nei media, impongono anche agli editori cattolici di adeguarsi: l’invito per il futuro è di diventare una “stampa alternativa”, cioè indipendente dalle istituzioni (Chiesa compresa) e dal denaro, in contrasto con il conformismo dominante ed a servizio di una libera opinione pubblica. Ciò potrà realizzarsi solo col sostegno generoso dei lettori, in prima fila i cattolici che ritengono fondamentale la presenza di media che diffondono una visione evangelica per il bene dell’umanità.


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Proposta: “grandi testi” Una cultura delle religioni, offerta a tutti i giovani, si manifesta sempre più necessaria nella odierna società pluriculturale e plurireligiosa, come base per una pacifica convivenza e per una integrazione tollerante. Tra le recenti iniziative è da segnalare quella delle autorità scolastiche di Ginevra, un cantone particolarmente geloso della laicità, che hanno introdotto un nuovo programma, destinato agli adolescenti dai 12 ai 15 anni, costituito da “Grandi Testi” religiosi, politici, filosofici e giuridici; tra essi figurano anche pagine della Bibbia, del Corano e di altri libri delle religioni mondiali. Inoltre autori, come Calvino, Montesquieu, Voltaire e Rousseau permetteranno ai giovani di affrontare i temi della convivenza sociale e dei diritti umani. Gli insegnanti hanno anche a disposizione, ogni anno, un “calendario interreligioso”, edito da ENBIRO, che copre il periodo da settembre per i successivi sedici mesi. Quest’anno è dedicato all’acqua e al fuoco, due simboli del divino presenti in molte grandi religioni: con raffigurazioni e testi esplicativi, vengono presentate le diverse dimensioni simboliche e gli usi rituali di questi

due elementi fondamentali della natura. Infine sono brevemente descritte oltre 100 feste religiose e civili, e un poster riccamente illustrato presenta diverse divinità dell’acqua e del fuoco, scelte tra le religioni antiche polinesiane e precolombiane, come azteche e maya. Un premio a difesa delle donne Il Premio Caritas 2011 è stato attribuito ad una militante filippina, Cecilia Flores-Oebanda (al centro nella foto), per l’impegno a favore di giovani e donne vittime del traffico di esseri umani, dello sfruttamento sessuale e di altre forme di violenza. La somma di franchi 10’000 sarà utilizzata dalla fondazione Visayan Forum per un aiuto concreto alle vittime e per svolgere anche un lavoro di prevenzione sociale e politico, impedendo forme di schiavitù e sfruttamento. Attiva da oltre 20 anni, operando in più di 20 città, la premiata ha aiutato oltre 40’000 ragazzi e giovani, dando loro la possibilità di un futuro migliore. Alberto Lepori


Kingston 2011: “Solo la pace è giusta”

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“Gloria a Dio e pace sulla terra”: è stato il tema della Convocazione ecumenica internazionale sulla pace svoltasi a Kingston (capitale della Giamaica) dal 17 al 25 maggio di quest’anno, promossa dal Consiglio Ecumenico delle Chiese (CEC) e conclusasi con un messaggio finale. Il testo invita a rifiutare la guerra a favore della “pace giusta” e afferma che “con la collaborazione delle altre fedi, abbiamo riconosciuto che la pace è il valore cardine di tutte le religioni e che la promessa di pace si estende a tutti i popoli a prescindere da quali siano la loro tradizione e il loro impegno. Attraverso un intenso dialogo interreligioso intravvediamo una base comune in tutte le religioni”.

La Convocazione, che purtroppo ha avuto pochissima eco in Svizzera e men che meno in Ticino, ha rappresentato l’appuntamento conclusivo e il cardine del Decennio per sconfiggere la violenza, lanciato dal CEC nel 2001. Ha coinvolto un migliaio di partecipanti provenienti da Chiese, organismi ecumenici e associazioni per la nonviolenza di tutte le parti del mondo (un centinaio le nazioni rappresentate). La Chiesa cattolica, non essendo – come è noto – membro del CEC , non è stata pienamente implicata in questo tipo di confronto corale, ma è stata comunque presente a Kingston con una delegazione ufficiale di cinque persone, guidata dal vescovo di Verapaz (Guatemala) Rodolfo Valenzuela Núñez. Vi hanno inoltre partecipato a pieno titolo esponenti di Pax Christi e di altri organismi cattolici impegnati per la pace. Il Papa non ha inviato nessun messaggio, tuttavia al Regina Coeli del 22 maggio Benedetto XVI ha brevemente ricordato la Convocazione in corso a Kingston e ha invitato a pregare per essa. Quanto alla Svizzera, era presente con due delegati ufficiali della Federazione delle Chiese evangeliche e con diversi altri partecipanti.

Quattro tematiche Sono state quattro le tematiche principali al centro dell’attenzione dei partecipanti alla Convocazione ecumenica di Kingston, la più grande mai organizzata sul tema della pace: pace nella società, pace con la terra, pace nell’economia e pace tra i popoli. Nei vari “workshop”, che si sono svolti in un’atmosfera di profonda condivisione e comunione, creando così le condizioni necessarie affinché i partecipanti potessero porre le basi per un dialogo sincero e proficuo, sono emersi diversi approcci relativi alla risoluzione delle problematiche che, secondo il vescovo Ivan Abrahams della Chiesa metodista del Sudafrica, “hanno tutti il loro merito, l’uno non esclude l’altro. Infatti sono tutti indissolubilmente legati e persino nella diversità si può parlare con una sola voce”. Proprio per l’opportunità che ha dato a persone di diverse denominazioni cristiane di mettere a confronto il proprio punto di vista e di dialogare con gli altri, tutti hanno unanimemente riconosciuto che la Convocazione è stata una pietra miliare nel cammino verso la pace. La Convocazione è stata aperta da tre relazioni introduttive. Il metropolita Hilarion, presidente del Dipartimento per gli affari ecclesiastici esterni del Patriarcato di Mosca, si è detto molto preoccupato per la sorte dei cristiani vittime di persecuzioni (perfino in Europa). Il “ministro degli esteri” ortodosso russo ha concluso il suo intervento chiedendo: “Che cosa stiamo facendo noi, come cristiani, per proteggere i nostri fratelli e le nostre sorelle nella fede che sono sottoposti ogni giorno a umiliazioni, minacce e discriminazioni a motivo dell’intolleranza religiosa?”. Da parte sua, la teologa luterana tedesca Margot Kässmann ha sostenuto che “non vi è guerra giusta, ma solo pace giusta, e che una Chiesa che non si impegni per la pace, la giustizia e la salvaguardia del creato non è Chiesa”. In questa luce, ha proseguito la pastora, le Chiese devono compiere scelte operative a favore della pace e contro la guerra, opponendosi, ad esempio, alla corsa agli armamenti. Nel terzo intervento, il teologo quacchero e pacifista Paul Oestreicher ha voluto ricordare che “nel momento in cui le Chiese hanno stretto alleanza con il potere, esse hanno in realtà contraddetto il Vangelo e - ha aggiunto - come è stato possibile rendere inammissibile la schiavitù, così si potrà rendere culturalmente inammissibile la guerra”.


Messaggio ecumenico Preghiera per la pace Il messaggio del Patriarca Bartolomeo “Affrontiamo circostanze radicalmente nuove che richiedono da parte di tutti un impegno altrettanto radicale in favore della pace”. Lo si legge nel messaggio inviato all’assemblea di Kingston dal Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I. Nel testo, il presule ortodosso lancia un accorato appello affinché si rifiuti sempre “la violenza e la guerra”. “Se conflitti umani sono inevitabili – scrive il Patriarca - non altrettanto lo sono le guerre e la violenza. Se la ricerca della pace ha sempre costituito una sfida, la situazione in cui ci troviamo attualmente è senza precedenti. La ricerca della pace esige un cambiamento di rotta radicale” e richiede “conversione, impegno e coraggio”. Il Patriarca si sofferma anche sulla responsabilità delle Chiese cristiane chiamate ad operare concretamente per la costruzione della pace “in un mondo sempre più complesso e violento”. Alle Chiese è chiesto oggi di “superare le semplici condanne retoriche della violenza, dell’oppressione e dell’ingiustizia per esprimere posizioni etiche attraverso azioni che contribuiscono a costruire una cultura della pace”. “Questa responsabilità è fondata sulla bontà intrinseca di ogni essere umano creato ad immagine di Dio e sulla bontà intrinseca di tutto ciò che è stato creato da Dio”. “Per la Chiesa, la pace e la sua costruzione – conclude Bartolomeo - costituiscono un elemento essenziale della sua vita e della sua missione nel mondo”. Nel suo messaggio, il Patriarca propone ai cristiani un esame di coscienza: “molti dei nostri sforzi a favore della pace sono vani perche non siamo disposti a rinunciare al nostro desiderio di consumo esasperato e al nostro orgoglio nazionalistico. Ecco perché per instaurare la pace è essenziale prendere consapevolezza delle conseguenze delle nostre azioni sugli altri – in particolare sui poveri – e sull’ambiente. Non ci può essere pace senza giustizia”. Gino Driussi

Nell’ambito della Convocazione di Kingston, le Chiese dei Caraibi hanno invitato le Chiese cristiane di tutto il mondo ad unirsi spiritualmente ad esse, la domenica 22 maggio 2011, proponendo la seguente preghiera per la pace. Dio della pace, a cui nulla è impossibile, creatore, redentore, vivificatore: ancora una volta veniamo a Te per implorare la tua misericordia e il tuo perdono. Dacci di poter ricominciare di nuovo e aiutaci a dare un’opportunità alla pace in questo mondo. Sì, vogliamo dare alla pace una possibilità, perché abbiamo mancato tante occasioni, abbiamo impedito tante iniziative e siamo stati a guardare, quando il bene veniva sopraffatto, invece di vincere il male con il bene. Perdonaci, Signore. Dona nobis pacem. Ti preghiamo, donaci la pace. Mentre chiediamo il tuo perdono, vorremmo che questo stesso istante diventasse un tempo di pace, in cui rinnovare il nostro impegno di artigiani di pace e di giustizia. Ti rendiamo grazie per il Decennio per superare la violenza, per il lavoro svolto per accrescere la nostra coscienza e il nostro desiderio di pace. Al tempo stesso confessiamo che c’è molto di più da fare se vogliamo davvero dare alla pace una possibilità. Dona nobis pacem. Ti preghiamo, donaci la pace. Attraverso il tuo Spirito, ti chiediamo di consacrare alla pace i nostri cuori e le nostre menti e di far sì che le nostre vite stesse siano il punto di partenza della pace, qui ed ora. Aiutaci a cooperare con Te, dando alla pace una possibilità, creando un mondo in cui la pace sia il nostro ethos e la nostra essenza. Donaci la pace, ti preghiamo. Donaci saggezza e coraggio: saggezza per discernere ciò che porta alla pace, e coraggio per essere fedeli e obbedienti a Te. Dona nobis pacem. Ti preghiamo, donaci la pace.

International Ecumenical Peace Convocation Kingston | Jamaica | 2011

Dio della pace, a cui nulla è impossibile, facci strumenti della tua pace alla Convocazione internazionale ecumenica per la pace e in ogni luogo, così che possiamo compiere la tua volontà, e dare così alla pace una possibilità. Nel nome del Principe della pace, Gesù Cristo, nostro Signore e Salvatore. Amen.

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Signore, dammi il buon umore

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Desidero parlarvi del risveglio. Non del risveglio alla pienezza della vita o alla vita eterna, ma del nostro risveglio quotidiano, al sorgere del nuovo giorno. L’ora del risveglio è determinante in rapporto alla qualità delle nostre giornate. Lasciato a se stesso, il risveglio ha il potere di decidere di tutto ciò che facciamo, incontriamo e celebriamo nel corso di una giornata, in positivo o in negativo. Thomas More italianizzato in Tommaso Moro, umanista, scrittore e politico inglese, venerato come santo dalla Chiesa cattolica e da quella anglicana – chiedeva ogni mattino a Dio, appena si svegliava, il buon umore. La sua preghiera, che è passata alla storia, recita:

Signore, donami una buona digestione e anche qualcosa da digerire. Donami la salute del corpo e il buon umore necessario per mantenerla. Donami, Signore, un’anima semplice che sappia far tesoro di tutto ciò che è buono e non si spaventi alla vista del male ma piuttosto trovi sempre il modo di rimetter le cose a posto. Dammi un’anima che non conosca la noia, i brontolamenti, i sospiri, i lamenti, e non permettere che mi crucci eccessivamente per quella cosa troppo ingombrante che si chiama «io». Dammi, Signore, il senso del buon umore. Concedimi la grazia di comprendere uno scherzo, per scoprire nella vita un pò di gioia e farne parte anche agli altri. Amen.

I nostri risvegli, purtroppo, sono quelli che sono. Non si lasciano determinare in anticipo e non corrispondono sempre a quelli che sono i nostri desideri e gli auguri che ci facciamo. A volte sono solari e leggeri. Dopo il riposo della notte ci sentiamo tonificati, carichi di energia, pieni di voglia di entrare nel nuovo giorno e pronti ad affrontare di buon grado i nostri impegni. La vita ci sorride e tutto ciò che ci attende nel nuovo giorno ci appare bello, pieno di senso e degno di essere vissuto intensamente. Ma capita anche l’esatto contrario: risvegli pesanti e tormentati, in cui, anche se il sole si è da tempo alzato e brilla già alto nel cielo, ci sentiamo avvolti nell’oscurità e nella nebbia, spompati e privi di energia, incapaci di dare un senso e una prospettiva a quelli che sono le nostre quotidiane occupazioni di vita. E’ fuori dubbio che molto dipende anche da noi, dalle nostre abitudini mentali e comportamenti. Se siamo inclini a nutrire pensieri e sentimenti negativi, se abbiamo la tendenza a svalutare tutto ciò che facciamo, se gli altri sono per noi un peso piuttosto che una presenza cercata e amata, non c’è da stupirsi che il risveglio risulti pesante e noioso, piuttosto che sereno, desiderato e felice. Ma esiste tutta una gamma di altre motivazioni che rendono belli o difficili i nostri risvegli. E non sempre dipende da noi, dalle nostre buone o cattive predisposizioni. Per quanto ci proponiamo di amare la vita e ci comportiamo di conseguenza, i nostri risvegli sono ciò che sono, a volte sereni e gioiosi, altre volte pesanti e oscuri. Ciò che intendo sottolineare, però, è che tutti possiamo fare qualcosa per rendere belle e feconde le nostre giornate. Tra le molte cose che possiamo fare, c’è appunto quella di chiedere a Dio il buon umore, così da accostarci con uno sguardo positivo a tutto ciò che ci attende nel nuovo giorno. E’ del tutto evidente, però, che non basta chiedere. Chi chiede deve anche essere pronto ad accogliere. Perché si può chiedere e rimanere chiusi, ancorati sulle proprie posizioni. Spesso noi ci comportiamo così. Chiediamo, ma non facciamo nulla per essere aperti e accoglienti. Rimaniamo saldamenti ancorati alle nostre abitudini mentali, ai nostri giudizi negativi su noi stessi, su ciò che facciamo e viviamo, sugli altri e sulla vita in genere. Che ne siamo consapevoli o no, questo succede spesso, per cui chiediamo, ma poi non facciamo nulla per uscire dalla nostra rassegnata passività e rendere attiva la nostra richiesta. Certamente, non tutto quello che chiediamo a Dio è


Dieci minuti per te destinato a realizzarsi nella nostra vita. Gesù stesso, al momento della Passione, chiese a Dio: «Se è possibile allontana da me questo calice di dolore». Ma poiché sapeva che la volontà di Dio passa anche attraverso momenti di difficoltà e di oscurità che siamo chiamati ad affrontare con la forza della fede, subito aggiunge: «Non la mia, ma la tua volontà sia fatta». A proposito, mi viene da citare altri due aforismi di Tommaso Moro: «Se l’onore fosse redditizio, tutti sarebbero onorevoli» e: «Non tutto quel che è utile è giusto». Intanto, sono molteplici le attenzioni e gli atteggiamenti che possiamo coltivare per rendere felici i nostri risvegli o, comunque, per imparare ad entrare da persone felici nel nuovo giorno. Alcune indicazioni sono classiche: non mangiare eccessivamente o cibi troppo pesanti la sera, prima di coricarsi; addormentarsi coltivando pensieri positivi; riconciliarsi con il mondo e con se stessi prima di chiudere gli occhi e consegnarci al sonno. Tutte queste cose sono utili, raccomandabili e sicuramente efficaci, anche se non hanno quel carattere assoluto che toglie ogni potere agli incubi e agli assalti della notte. Ritengo invece di grandissima importanza ed efficacia l’abitudine molto semplice, ma che possiamo fare interamente nostra, di augurarci il buon giorno appena svegli. Lo facciamo spontaneamente agli altri. Perché non a noi? Augurarci il buon giorno richiede, evidentemente, un po’ di tempo. Non può essere un augurio buttato là in qualche maniera. Dedicare del tempo a se stessi, poi, è tutt’altro che narcisismo. Dovremmo farlo ogni giorno. Se il risveglio è solare, gustiamo l’energia e il senso della vita che è in noi. Quando il risveglio è pesante, in genere occorre uno spazio di tempo maggiore, per superare i coinvolgimenti negativi e stare veramente con noi stes-

si così come siamo e ci sentiamo in quel momento. In effetti, l’atteggiamento non è diverso da quello che assumiamo di fronte a un bambino impaurito e spaventato o che fa i capricci perché si sente disatteso e abbandonato. Ci sediamo accanto a lui, lo prendiamo in braccio e, senza dire nulla, lo rassicuriamo, offrendogli la nostra presenza. Modalità molto semplici di stare con noi stessi sono quelle di sederci e di ascoltare il nostro respiro che entra ed esce, oppure il nostro corpo, il suo stato e le sue sensazioni. Perché, sia che ascoltiamo il respiro, sia che ascoltiamo il corpo, siamo con noi stessi. Questa vicinanza tenera, tranquilla e silenziosa è qualcosa che ci fa bene, sdrammatizza, c’incoraggia e ci ricrea. C’è anche la possibilità di praticare il mantra, ripetendo sul fluire della respirazione, con gentilezza e comprensione per noi stessi e per la situazione in cui ci troviamo, una parola e un nome che dischiudono la mente e il cuore su orizzonti positivi di vita. Sono pratiche che possono sembrare infantili e banali, ma sono significative e importanti. Se non siamo capaci di attenzione, sollecitudine, delicatezza e amore noi confronti di noi stessi, è possibile amare gli altri e Dio e, soprattutto accogliere il loro amore e la loro sollecitudine per noi? Forse, la modalità più efficace di darci il buon giorno è quella di accostarci direttamente, con attenzione, silenzio e delicatezza, al disagio e alla sofferenza che sono in noi. Questa modalità, tuttavia, richiede una certa preparazione, perché, se non siamo più che svegli e attenti, è facile lasciarci risucchiare dai nostri stati d’animo e pensieri negativi, facendo, con il supporto del silenzio, il loro gioco. Per questo s’insiste molto, quando si suggerisce questo tipo di accompagnamento, sul fatto di tenere la spina dorsale perfettamente eretta e allineata, perché la spina dorsale eretta e allineata dice presenza e consapevolezza e, insieme, alimenta l’equilibrio e un sano senso di coraggio, sicurezza e fortezza. fra Andrea Schnöller

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La prigione: luogo di incontro con l’uomo ferito Durante la sanguinosa battaglia tra Perugia ed Assisi, avvenuta nel 1202, venne catturato anche Francesco di Assisi. Nella prigione perugina vi rimase oltre un anno, dove iniziarono le sue malattie, in particolare agli occhi, a causa dell’oscurità e delle condizioni di detenzione pessime. Se da una parte il corpo progressivamente si ammalava, l’animo guariva dalla volontà di diventare cavaliere per gli uomini, per diventarlo del gran Re.

Q

Quando si parla di reclusione a seguito di un arresto o condanna da espiare, i termini più comuni sono: galera, prigione, gattabuia, penitenziario, istituto di pena, “andare al fresco”, “finire dentro”.

Per una comprensione di termini, andiamo a spiegare la terminologia: - Galera: era una nave a remi usata fino al XVII secolo, dove i condannati dovevano remare a seguito della condanna ricevuta e da espiare; - Prigione: dal latino prehensionem, indica l’azione di catturare con l’intenzione di mettere in un recinto o rinchiudere nelle sbarre del circo. - Carcere: dal latino carcer, si riferisce ad un luogo ristretto dove si condanna e punisce. Interessante notare che in ebraico carcere, carcar, indica la tumulazione, la sepoltura. Spesso il carcere era sottoterra. - Gattabuia: secondo alcuni deriva dal vocabolo greco katagheìon, che significa sotterraneo (ghé, infatti, è la terra). Dal greco si sarebbero poi formate espressioni gergali dello stesso significato come catoia, catuia e catugia, ottenute incrociando “sotterraneo” con l’aggettivo “buio”. Dopo questi chiarimenti etimologici, eccomi a condividere con il lettore la mia esperienza di cappellano delle strutture carcerarie del Cantone. E’ doveroso infatti usare il termine al plurale poiché sul nostro territorio abbiamo quattro strutture carcerarie: La Farera (carcere giudiziario preventivo), La Stampa (carcere penale), Lo Stampino (sezione aperta del carcere penale), queste tre sedi sono sul piano della Stampa a Cadro ed Il Naravazz di Taverne Torricella (carcere aperto).

L’art. 75§1 del Codice penale svizzero sancisce che: “l’esecuzione della pena deve promuovere il comportamento sociale del detenuto, in particolare la sua capacità a vivere esente da pena. Essa deve corrispondere per quanto possibile alle condizioni generali di vita, garantire assistenza al detenuto, ovviare alle conseguenze nocive della privazione della libertà e tenere conto adeguatamente della protezione della collettività, del personale incaricato dell’esecuzione e degli altri detenuti.”. Raccolgo il prezioso testimone di cappellano carcerario lasciatomi dal confratello padre Vincenzo Ossola, che ha svolto con passione per oltre 40 anni questo servizio di assistenza ai detenuti. I Cappuccini sono infatti maggiormente portati per questo servizio di cappellania, più che l’amministrazione delle Parrocchie, anche se i nostri frati parroci si distinguono per volenterosa disponibilità di servizio alla Diocesi. Così come per gli ospedali, le carceri sono ambienti privilegiati per l’incontro con l’uomo ferito, anche se il carcere non è un luogo di cura come lo è un ospedale, ma la dimensione dell’incontro (e dello scontro, talvolta) è fortemente caratterizzante. Il detenuto è un uomo ferito, talvolta dal suo stesso delitto, ma certamente per la situazione che vive in prigione, la lontananza da casa, lo spettro dell’espulsione, matrimoni o relazioni


Messaggio amico che finiscono bruscamente… Credo pure che il carcere non sia più il luogo dell’annientamento della persona, della tortura, dell’umiliazione, della punizione così come la storia ce lo ha tramandato ma, sicuramente, la privazione della libertà è una condanna molto spesso insopportabile. Il frate Cappuccino porta dietro le sbarre un messaggio di solidarietà che non comporta giudizio di sorta. Il detenuto, in quanto tale, è già stato condannato dalla società per mezzo dell’autorità preposta, quindi non sta al cappellano giudicare il condannato ma incontrare l’uomo che gli sta di fronte. La celebrazione domenicale della Messa ed i colloqui regolari e settimanali costituiscono l’approccio diretto tra la popolazione carceraria ed il cappellano. Non voglio tralasciare il fatto che entrando in carcere incontro anche il personale amministrativo e gli agenti di custodia, che costituiscono i miei più stretti collaboratori! Malgrado le diversità religiose presenti al Penitenziario di Stato, l’unica forma di assistenza religiosa pensata e costituita dal Consiglio di Stato è il cappellano di confessione cattolica. Anche il pastore protestante e un imam vengono all’interno della struttura di detenzione ma non in modo regolare e con un margine di manovra limitato. Se il Penitenziario è il luogo dove il detenuto sconta la condanna, quindi alla Stampa, alla Farera la detenzione assume tonalità molto differenti. Si tratta di un carcere preventivo, quindi il recluso attende di sapere quale sarà il suo destino: scarcerazione, processo, condanna, espulsione. Proprio alla Farera l’intensità dei colloqui richiede attenzione, ascolto, conforto. La persona si trova in un attimo dalla libertà alla detenzione, dal domicilio alla prigione. Uomini e donne, alcuni rei, altri presunti innocenti, devono lottare contro un senso di disorientamento umano e spirituale. Lì il cappellano interviene puntualmente non appena il detenuto, informato della presenza dell’assistente spirituale, redige la domanda di visita. E’ doveroso dare merito alla normativa interna che presenta la figura del cappellano al momento delle pratiche di reclusione. Da questi primi mesi di servizio, posso constatare che il sentimento predominante è la solitudine (un’ora d’aria al giorno e visite limitate), l’inquietudine (che ne sarà di me? della mia famiglia? del mio lavoro?), l’incertezza del futuro dovuta all’inchiesta giudiziaria (quando sarò libero?). Al di là del crimine commesso (quando quest’ultimo è confermato e giudicato) o la presunta innocenza (vale il motto latino in dubio pro reo: questa frase, tratta dal Digesto giustinianeo indica che è meglio che il giudice, quando non v’è certezza di col-

pevolezza, accetti il rischio di assolvere un colpevole piuttosto che condannare un innocente), vi è sempre una persona, con una sua storia, un suo vissuto, un suo presente che al momento è difficile da accettare. Nessuno di noi andrebbe fiero di essere stato in prigione o di avere un parente recluso. Il carcere è attorniato da un alone di diffidenza, ma troppo spesso si dimentica la dimensione della sofferenza psichica e morale dell’essere incarcerati. Il cappellano ha libero accesso all’incontro con ogni detenuto, in ogni momento della giornata: uomo o donna, alla Farera che alla Stampa, così pure nelle celle di rigore o del settore chiuso di coloro che hanno commesso atti di pedofilia. Con ogni persona non si deve mancare alla costruzione di un dialogo rispettoso ed attento. Alla Messa domenicale vengono regolarmente persone di altre confessioni religiose, oppure agnostici o atei, ma sono proprio quest’ultimi a non mancare mai all’appuntamento liturgico. Tanti di loro pregano nelle loro celle, chiedono immagini sacre, rosari, Bibbie, poiché almeno da Dio non si sentono giudicati ma accettati. A coloro che non possono partecipare a causa del tipo di reclusione o delitto o perché malati o in cella di rigore, porto la comunione ed il conforto del Vangelo letto in assemblea. La chiesa del Penitenziario è straordinariamente grande e bella: un grosso altare in pietra ci ricorda la solidità di Cristo nell’esperienza ferita dell’uomo; le vetrate istoriate ispirano al fedele ad affidarsi al Dio della luce e del conforto, una grossa croce dorata in presbiterio attira la fatica dell’uomo e la trasforma in coraggio ad andare avanti. Una via Crucis realizzata su rame dai detenuti, simboleggia il percorso che ognuno di noi, libero o detenuto, è invitato a percorrere: per Crucem ad lucem, passando dalla Croce si arriva alla luce, dono del Risorto. Il Vescovo Pier Giacomo, affidandomi questo prezioso incarico pastorale, mi raccomandò la tenerezza e la delicatezza verso i carcerati. Faccio mia questa raccomandazione e, dietro le sbarre, cerco di portare ogni volta la pace ed il bene tanto cari al cuore di s. Francesco e di Dio. fra Michele Ravetta cappellano delle strutture carcerarie del Cantone Ticino

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Convento dei Cappuccini Salita dei Frati 4 CH - 6900 Lugano

Abbiamo letto... abbiamo visto...

GAB 6900 Lugano Per completare il discorso che stiamo facendo sui Dieci Comandamenti abbiamo spesso segnalato i libretti, agili ma profondi, di Anselm Grün. Ma chi è costui? Anselm Grün, monaco benedettino tedesco, nasce a Junkershausen il 14 gennaio 1945. Nel 1964 entra come novizio presso l’abbazia di Münsterschwarzach e studia filosofia e teologia all’abbazia di Sant’Ottilia e a Roma. La tesi di dottorato in teologia era incentrata sulla figura di Karl Rahner. A partire dal 1974 a Norimberga studia anche economia. Nel 1976 pubblica il primo libro (“Reinheit des Herzens” o “Purezza di cuore”) a cui sono seguiti circa duecento libri, che nell’insieme hanno venduto circa 14 milioni di copie. Dal 1977 dirige il centro di spiritualità annesso all’abbazia di Münsterschwarzach nei pressi di Würzburg in Germania. Scrittore, conferenziere e terapeuta, è oggi uno dei più apprezzati maestri di spiritualità, le cui opere sono tradotte nelle principali lingue. Scrivendo sulle “Dieci parole come cammino spirituale”, come lui definisce il Decalogo, ci ricorda che “I Dieci Comandamenti” sono un dono di Dio agli uomini, uno specchio nel quale vedere riflessi la nostra persona e il nostro stato interiore, oltre che una segnaletica universale per la società civile.


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