Gotthard + Annihilator + Sepultura + Battle beast
Anno 2 01/2017
s r e l a e H l a t e M “vedendo tutti i disastri che la religione causa, mi tengo alla larga“
Hammer Highlights
GRAVE DIGGER 28
I CURATORI DEL METALLO Ed ecco arrivato il primo numero di questo secondo anno di “vita digitale” per Metal Hammer. Per dare il via a questi dodici mesi pieni di energia e novità siamo andati sul classico, con i Grave Digger e il loro nuovo ‘Healed By Metal’, ultimo capitolo discografico di una lunga carriera colma di successi e hit indimenticabili.
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SEPULTURA
KREATOR
GREEN DAY
Un tocco di violenza in questo numero lo danno i Sepultura. La storica band brasiliana è arrrivata al quattordicesimo album da studio più in forma che mai. ‘Machine Messiah’ è una denuncia nei confronti dei nostri tempi, un qualcosa da cui non si può sfuggire. Giuseppe Cassatella ne ha parlato con lo storico chitarrista Andreas Kisser, che ci spiega cosa sta dietro a questa aggressiva uscita discografica.
Rimaniamo, dopo i Sepultura, nel lato violento del metallo con una band simbolo del Thrash. Questo gennaio 2017 ha visto i Kreator, storico gruppo teutonico autore di classici del genere, rilasciare il nuovo ‘Gods Of Violence’ e Metal Hammer non poteva fare a meno di indagare sui retroscena di quest’ultima fatica. Andrea Schwarz ne ha discusso con il chitarrista finlandese Sami Yli-Sirniö.
Quest’ultimo spazio di highlight è dedicato a un gruppo che col Metal con c’entra affatto. Si tratta dei Green Day, band punk-rock (anche se sono spesso etichettati come punk-pop) che ogni volta che arriva nel nostro paese si guadagna un incredibile bagno di folla. È proprio della recente data bolognese che vi diamo un resoconto attraverso le parole e le foto di Roberto Villani.
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Hammer Editoriale
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The Sign Of The hammer “Oh, hai visto cosa è successo in Inghilterra? Allora chiudete anche voi?” Ebbene sì, anche il sottoscritto in tempi non sospetti si è sentito rivolgere il quesito dei quesiti da personaggi inebetiti, con la stessa preoccupazione e la stessa sincerità di chi sa l’ex della quale si è ancora innamorati, in crisi con l’attuale fidanzato “Ci hai litigato? Ma come mi dispiace!!!”. Peccato che, come ho avuto modo di dire allora e sottolineare oggi, al netto del fatto che la crisi Team Rock pare essere rientrata e la pubblicazione dei vari Classic Rock, Metal Hammer UK mai sospesa, la cosa non ci ha mai toccato. Fondamentalmente perché Metal Hammer Italia con i cugini britannici non ha mai avuto nulla a che fare, non godendo quindi nei tempi di vacche grasse degli indubbi benefici che un colosso simile alle spalle avrebbe potuto portarci ma neppure venendo colpiti oggi dalla loro crisi (ci basta la nostra, verrebbe da dire…), ma soprattutto perché alla luce dei fatti qui non c’è nulla da chiudere. Metal Hammer Italia, e devo renderne atto a Stefano Giorgianni e a chi
con lui ci ha creduto, oggi è una bella realtà web, che ottimi consensi sta ricevendo sia nel suo esperimento online, sia nella sua versione metalhammer.it, ma serrande da abbassare non ne abbiamo proprio. Cuore in pace, quindi, a gufi e affini, l’ex amata non si è lasciata con il fidanzato ma ci ha fatto pace e ora stanno “festeggiando” come meglio non potrebbero. Ed è qui che voglio rilanciare, gettando l’amo per quello che potrebbe essere solo un progetto un po’ folle e quindi rimanere tale, oppure tramutarsi in realtà, proprio come è stata la versione online di Metal Hammer: Ci chiedete Metal Hammer cartaceo (e incredibilmente siete davvero tanti a farlo!)? Bene, Metal Hammmer potrebbe ritornare cartaceo. Certamente non in edicola come ci si potrebbe aspettare (l’editoria avevamo detto che era morta e sicuramente non è
resuscitata oggi) ma potremmo attivare una esclusiva versione “on-demand” destinata ai “feticisti” della carta, con la rivista stampata e consegnata direttamente a casa “su ordinazione”. Certo, al momento è solo un’idea balzana, ma chissà che tra qualche mese…. Voi ovviamente diteci la vostra in merito, i nostri contatti ce li avete! E intanto in attesa di capire la fattibilità di questo progetto, su carta torniamo per davvero, ma solo come partner, a supportare l’amico Enzo Rizzi nel suo nuovo, ambizioso progetto: quello di dare vita con la neonata etichetta Heavy Comics, ad una miniserie di fumetti con protagonista il suo serial killer di rockstar Heavy Bone. Il primo numero, con copertina firmata dallo spagnolo Rafa Garres (“Lobo”, “Wolverine) è in uscita ad aprile e vi assicuro che è una bomba. Per questo Metal Hammer vuole darvi la possibilità di “godervela” pure voi, partecipando a un concorso organizzato ad hoc con, in palio, non solo una copia del fumetto ma anche una strepitosa tavola originale firmata Enzo Rizzi. Come fare a vincerla? Andate sul sito www. metalhammer.it e scopritelo da voi! Buona fortuna e buona lettura! Fabio Magliano
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news RECENSIONI LIVE REPORT
articoli Rubriche Podcast
TALES FROM BEYOND Gotthard 6
Hammer Core
Metal Rubriche
Bring Out The Thrash
Hammer Relics
‘Silver’ è il nuovo disco della celebre band hard & heavy svizzera
Black Star Riders 8
DIRETTORE RESPONSABILE Paolo Taricco
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Ricky Warwick torna con ‘Heavy Fire’ dei suoi Black Star Riders
ProgSpective
Lo storico gruppo inglese si afferma in maniera prepotente con l’album omonimo
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REDAZIONE
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Battle Beast
The Library
Abbiamo parlato con la carismatica Noora Louhimo del nuovo full-length
Xandria
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14 Ritorno in grande spolvero
Vanexa 16
Annihilator
Killcode confessa ai nostri microfoni su ‘The Answer’
Stay Brutal
As Lions 22
Dario Cattaneo dario.cattaneo@metalhammer.it
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20 La band di New York si
FOTOGRAFI Alice Ferrero alice.ferrero@metalhammer.it Roberto Villani roberto.villani@metalhammer.it
Essere figli di Bruce Dickinson non è un peso, parola di Austin
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Billy Sheehan 24 Il genio del basso ci racconta un po’ della sua vita e del suo strumento
Emanuela Giurano NEWS EDITOR Blagoja Belchevski
Recensioni
Shiraz Lane 26
Andrea Schwarz andrea.schwarz@metalhammer.it
Andrea Lami andrea.lami@metalhammer.it
Circle Of Burden
‘Too Heavy To Fly’ è la nuova fatica dello storico gruppo heavy ligure
Alessandra Mazzarella alessandra.mazzarella@metalhammer.it
Angela Volpe angela.volpe@metalhammer.it
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per il gruppo symphonic power tedesco
VICEDIRETTORE EDITORIALE Fabio Magliano fabio.magliano@metalhammer.it CAPOREDATTORE Stefano Giorgianni steve.giorgianni@metalhammer.it
Tygers Of Pan Tang 10
DIRETTORE EDITORIALE Alex Ventriglia alex.ventriglia@metalhammer.it
GRAFICA Stefano Giorgianni
I giovani finlandesi si propongono come una delle più interessanti nuove realtà
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PROGETTO GRAFICO Doc Art - Iano Nicolò
Bring Metal To The Horses 40
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Live Report EMp PERsistence 2017 48
HANNO COLLABORATO Giuseppe Felice Cassatella, Francesco Ceccamea, Alex Manco, Trevor, Mara Cappelletto, Alessandro Bosio PUBBLICITÀ adv@metalhammer.it WEBMASTER Gianluca Limbi info@gianlucalimbi.com IN COPERTINA Grave Digger Photo Courtesy of Napalm Rec.
Sicuramente i Gotthard hanno avuto la loro dose di successi ma anche di tragedie durante la loro carriera. Nonostante tutto pero’, da festeggiare in casa della band svizzera pare esserci molto e il nuovo, ‘argentato’, album e' qui per dimostrarcelo. Il bassista Marc Lynn ci invita quindi a celebrare le nozze d’argento dei Gotthard insieme con lui…
Looking Back di Dario Cattaneo
Venticinque anni … un traguardo ragguardevole, ma anche un’occasione per ripensare ai successi e i fallimenti di una carriera che probabilmente dura da più di metà della propria vita. Marc Lynn non è però tipo da farsi prendere da nostalgia o rimorsi e guardando indietro - vede solo motivi di cui essere fieri. “Stiamo vivendo i nostri traguardi con molto orgoglio”. Ci conferma subito, a inizio intervista. “Quando cominci una storia con un gruppo non sai mai quanto durerà… un po’ perché non conosci il business, e poi non sai se la tua proposta piacerà o meno. Ti butti nel vuoto, diciamo. Noi, dopo 25 anni, ci troviamo però là dove volevamo arrivare, ed abbiam capito che era tempo di trarre delle conclusioni su quanto fatto. Volevamo onorare questo anniversario ripercorrendo un po’ tutta la nostra carriera, non solo le cose belle, ma anche quelle brutte. Lo abbiamo fatto con questo album, e la sensazione che proviamo di più ora è proprio l’orgoglio”. Parole rilassate e sincere, che rivestono il nuovo ‘Silver’ dell’importante compito di essere il degno riassunto di una carriera così lunga. Un
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compito che l’album porta avanti a testa alta, partendo dal significativo titolo e dal singolare artwork. “Copertina e titolo sono venuti fuori assieme…” ci dice Lynn. “Fino alla conclusione delle registrazioni non avevamo un titolo definitivo. Si discuteva su tante possibili scelte, e sono stato io, pensando all’anniversario che stavamo per compiere, a proporre ‘Silver Wedding’.
Matrimonio di venticinque anni. La proposta ha interessato tutti, ma la parola matrimonio è stata poi scartata. Così è rimasto solo ‘Silver’. Con questo corto titolo ci siamo confrontati con il grafico, e lui ha reinterpretato la parola argento slegandola dal concetto di nozze e ricollegandola alla musica. L’argento è anche un metallo, un metallo
nobile, e cosa c’è di meglio per riassumere la carriera di una band rock&metal come i Gotthard? Abbiamo unito tutti questi concetti, creando una bella rappresentazione della nostra musica e dei nostri venticinque anni di carriera”. Dall’artwork si passa rapidamente a parlare del disco in sè. “Questa copertina è in effetti diversa da quella di ‘Bang’, più chiassosa e fumettistica”. Ragiona con noi il bassista. “E’ un artwork è più serio, più elegante… e anche più old style, cosa che rappresenta perfettamente la musica qui racchiusa. Musicalmente, ‘Silver’ si differenzia da ‘Bang!’, penso l’avrete notato. Era giusto che la copertina mostrasse anch’essa tale differenza”. Lo esortiamo a continuare sull’argomento, cercando di scoprire il suo parere sulle differenze tra due lavori temporalmente così vicini. “Direi che ’Silver’ sia un album piuttosto vintage…”, ragiona lui. “Soprattutto se lo pensiamo rapportato a ‘Bang!’. Abbiamo ricercato attivamente suoni, soluzioni e una produzione che suonassero in maniera più classica, mantenendo però il nostro approccio moderno. Non tutte le canzoni iniziano col classico riff portante come potresti immaginarti da un album rock… qualcuna
inizia ad esempio con la tastiera, qualcuna ha un arpeggio magari inaspettato, e c’è qualche brano che inizia addirittura con il coro! Abbiamo cercato di rimanere attuali da quel punto di vista”. Tutte queste decisioni apparentemente a tavolino sulla direzione musicale del nuovo album secondo Marc si giustificano considerando l’importante ruolo di ‘Silver’ nella discografia dei Nostri. “Questo è il terzo album che registriamo con Nic”. Ci dice. “Il primo album diceva: ‘abbiamo un nuovo cantante, ascoltatelo tutti’. Il secondo album dimostrava che il cantante era quello giusto. Il terzo lavoro deve invece rappresentare i Gotthard. Deve essere la foto più vera della band, ora che non ci sono più dubbi su Nic”. Sentendo parlare di ‘primo’, ‘secondo’ e ‘terzo’ album, risulta chiaro come Lynn tenda a considerare la parte di carriera successiva l’incidente occorso a Steve Lee come un vero nuovo inizio, quasi una carriera separata. A quel punto, chiediamo lui se vuole paragonare ‘Silver’, terzo lavoro di questa parte di carriera, con ‘G.’, l’acclamato terzo disco con Steve alla voce. La risposta che ci dà è molto precisa. “’G.’ e ‘Silver’ sono album diversi, ma il loro percorso è simile”. Il tono così convinto ci
prende quasi in contropiede. “Più che simile, la strada che ha portato a questi album è direi parallela…”, ci spiega meglio. “‘Firebirth’ e ‘Gotthard’ hanno avuto motivazioni simili: partiva tutto dalla voglia di mettersi in gioco. Con Steve, formando la band, avevamo buoni brani e volevamo farli sentire al mondo. Dimostravamo qualcosa a noi stessi, e con ‘Firebirth’ è stata la stessa cosa: dovevamo dimostrare di poter dare nuova vita alla band anche senza Steve. ‘Dial Hard’ è simile a ‘Bang!’. Questi due album esplorano il sound in una direzione precisa, rendendolo più heavy. Sia su ‘G.’ che su ‘Silver’ abbiamo poi cercato di tornare alle nostre origini, per rappresentare al meglio la nostra personalità. ‘G.’ recuperava quindi importanti radici blues che nel duro ‘Dial Hard’ si erano perse, e ‘Silver’ esplora influenze bluesy e settantiane che su ‘Bang!’ non avevano trovato posto. I cammini che hanno portato a questi album sono paralleli, ma l’esperienza, la band e noi stessi come scrittori siamo molto cambiati”. A questo punto viene logico chiedersi se il modo di lavorare sia rimasto lo stesso, ma in parte Marc ci ha già risposto: i membri dei Gotthard sono
“Smettere di avere passione per suonare… non riesco a immaginarlo. Ecco, dovesse succedere, lì l’unica soluzione è smettere subito.” cambiati molto, come compositori e come persone. “Il modo di lavorare è diverso da allora: in sala prove ora non componiamo più. Ognuno scrive a casa sua, e non canzoni finite. Si lavora a idee, che vengono proposte agli altri. Poi ci si mette in studio tutti insieme per dare il via ad un processo creativo comunitario. Capita alle volte di arrivare con qualcosa di più finalizzato, come un intero brano, ma non rimane mai ciò che era in partenza. Viene stravolto in maniera costruttiva, raccogliendo i feedback di tutti. Il team compositivo principale è però sempre costituito da Leo, Freddy e Nic. Loro si trovano tutti i giorni quando si lavora a un nuovo album, magari io e Henna invece portiamo solo qualche idea più specifica, tipo per un coro o per un riff. Mi piace questo modo di lavorare, anche se ci troviamo meno di prima, credo che sia anche più democratico: abbiamo tutti libertà di parola, e non ci pestiamo i piedi mai!”. Prima di chiudere l’intervista, per fare un ultimo punto fermo sui venticinque anni di carriera, abbiamo pensato di mettere Marc davanti a una domanda scomoda, chiedendogli quando per la prima volta si è reso conto di come i Gotthard fossero famosi e importanti per i fans. L’inaspettata risposta esplora argomenti che ci aspettavamo il musicista avesse dolore a toccare. “La prima volta che ho avuto la sensazione di aver raggiunto successo con i Gotthard è stato
subito dopo la morte di Steve. E’ brutto dirlo, ma dopo questa tragedia ho capito quanto contassimo per i fan. Email, messaggi sul sito… le espressioni di cordoglio ci arrivarono da ovunque. Negli States ne parlarono tanto, non solo sulle radio dedicate, addirittura i telegiornali dedicarono dei servizi. In quel momento ho realizzato che avevamo lasciato il segno, che avevamo toccato tanti cuori. Non è stato un momento felice, ma mi ha permesso di dare una dimensione alla nostra carriera”. Nonostante la tragedia, forse fu proprio la consapevolezza di quanto la band contasse per i fan a convincere Marc, ma anche gli altri, a non chiudere lì la carriera. “Ho realizzato che la mia passione aveva portato a quello, e che non potevo spegnere questa mia passione”. Spiega. “Smettere di avere passione per suonare… non riesco a immaginarlo. Ecco, dovesse succedere, lì l’unica soluzione è smettere subito. Suonare è ciò che mi fa contento, ciò che mi fa vivere bene la mia vita. Per fare contento chi ti guarda, i nostri fan, bisogna in primis essere felici noi. Non si può donare felicità se non la provi tu per primo. Io posso dire ancora oggi che non vado in tour per fare soldi, vado in tour perché è una parte irrinunciabile della vita che mi sono scelto. Mi pesa? Per nulla, è la soddisfazione più grande che posso avere”.
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Prosegue senza intoppi la carriera dei Black Star Riders, giunti ormai al terzo album. La band capitanata da Ricky Warwick e spesso definita come ‘i nuovi Thin Lizzy’ per via membri appartenenti all’ultima lineup della famosa band irlandese, non manca il centro nemmeno questa volta producendo un altro ottimo platter di adrenalinico R’n’R. “’Heavy Fire’ è una metafora della vita attuale. Noi tutti siamo costantemente sotto il bombardamento pesante da parte dei social, dei media, delle news. Informazioni false e mendaci, che ci vengono urlate, buttate addosso come i colpi di un mitragliatore”. Comincia così la nostra intervista a Ricky Warwick, leader e fondatore dei Black Star Rider, allorché esordiamo chiedendogli delucidazioni sul titolo del nuovo album e sulla sua umoristica copertina. “Cospirazioni. Scie chimiche. Furto dei dati. Sono cose di cui si sente parlare tutti i giorni. Non c’è tregua, è un vero e proprio bombardamento a tappeto. Credo che tutti noi cerchiamo al giorno d’oggi un riparo, un sentiero che porti un po’ di serenità e che ci faccia vivere attutendo il rumore del bombardamento mediatico che c’è la fuori”. Una risposta sincera e onesta che ci fa capire come dalle parole dell’artista potremmo scoprire molte cose interessanti sulla musica dei Black Star Rider e sui messaggi di cui essa si fa portavoce. La cornice della chiacchierata è quella di
un vuoto Rock’n’Roll, locale della zona Milano Centrale, dove noi e Warwick siamo seduti su robuste seggiole di legno, intenti a discutere appunto del nuovo album targato BSR, ‘Heavy Fire’. “Il mondo è così controllato dai media al giorno d’oggi che non ci si può proprio riparare...” continua Ricky, sempre parlando del concetto che
sta dietro la canzone che dà il titolo all’album. “Ci sono guerre, ci sono governi che mentono ai cittadini e ci sono anche invalicabili differenze tra i potenti e i bisognosi. Tutto questo esiste, ma è in realtà solo nutrimento per chi ne deve parlare, che ci bombarda di conseguenza di informazioni di parte o modificate. Il
quadro generale che mi faccio è che le persone che potrebbero fare qualcosa di buono vengono sempre messe da parte… mentre i folli e gli egoisti finiscono per avere in mano le leve del potere. E’ questa mia visione che si cela dietro il titolo dell’album”. Le parole di Warwick tradiscono di sicuro un forte scoraggiamento nei confronti della società attuale, ma capiamo anche che questi pensieri non impediscono al cantante di portare avanti le proprie convinzioni, esprimendole grazie a una musica tra l’altro sempre più compatta e ‘a fuoco’. L’artista sembra infatti essere assolutamente convinto della qualità di questo suo nuovo lavoro, e così il discorso scivola lentamente verso questo argomento. “Credo che ‘Heavy Fire’ sia un album migliore degli altri proprio perché è più uniforme”. Ci conferma infatti. “Sono ormai quattro anni che suoniamo insieme con questo monicker. C’è un idea chiara di ciò che vogliamo fare e di come fare a farlo, e tutto funziona al meglio. C’è alchimia, affiatamento, quindi ‘Heavy Fire’ non può che essere il nostro disco
UNDER FIRE! di Dario Cattaneo 8 METALHAMMER.IT
migliore, non trovi?”. Difficile contraddirlo. Il disco è in effetti veramente solido, e secondo Ricky non teme per nulla il paragone col precedente ‘The Killer Instinct’, che pure ha raccolto ottimi consensi. “Sono veramente sicuro di questo materiale. Anche se l’album precedente ha avuto buoni riscontri, non ho sentito alcuna pressione nel realizzare ‘Heavy Fire’”. Ci dice infatti. “Il punto è che siamo tutti convinti delle canzoni incluse. Niente è stato inserito solo per far numero. Avevamo almeno venti canzoni pronte, e le dieci che sono state inserite erano quelle che ci convincevano di più. Non c’è alcun filler su quest’album, perché avrei dovuto temere il confronto col disco precedente?”. Per Ricky, comporre musica rock non sembra quindi essere una faccenda di competizione o confronti. Come specifica poi, la chiave per continuare a fare buona musica in modo onesto è sempre quello di amare ciò che si sta facendo. “Poi tu mi chiedi come faccia-
mo a fare musica ‘nuova’ in campo hard rock, dove così tanto è stato scritto…” Ci risponde infatti al riguardo, rigirandoci la nostra perfida domanda. “Ma non credo sia impossibile per noi accettare una simile sfida. La concorrenza in campo musicale ci sarà sempre… ma non è che la presenza di altre band mi renda più difficile scrivere le mie canzoni. Io compongo musica all’interno di un certo genere, e se la gente mostra di apprezzarla vuol dire che l’avrà trovata convincente e che incontrava i suoi gusti. Non credo che ci serva altro per sapere che stiamo facendo bene”. Molto pragmatico il gentile cantante. Presi dalla conversazione, cerchiamo poi di approfondire un po’ il suo profilo personale, per capire qualcosa in più su di lui. Gli chiediamo quindi della musica che ascolta di più ultimamente. “Beh, io ascolto di tutto. Davvero. Cerco di tenere la mente aperta a più generi musicali. Mi piacciono anche correnti lontane dal rock, come la motown o la musica soul…”, alla nostra alzata d’occhi, Ricky risponde placidamente. “Si, hai ragione, in molti si stupiscono nel sapere che ascolto la motown… ma ti dirò che è l’influenza principale di una canzone come ‘Testify Or Say Goobye’. Si sente bene, se la ascolti con attenzione. Questo tipo di atteggiamento mentale così aperto è importante per me come compositore. Sono infatti convinto che l’apertura mentale negli ascolti si rifletta fortemente su quella in
Ci sono guerre, ci sono governi che mentono ai cittadini e ci sono anche invalicabili differenze tra i potenti e i bisognosi.
scrittura”. Con il tempo a nostra disposizione che si assottiglia, cerchiamo di indagare sulla vita da tour in una band come i BSR, scoprendo anche qui un lato assolutamente inaspettato di Ricky. Per lui infatti, la chiave per divertirsi in tour e mantenere serenità nella vita normale è quella di tenere separati i due aspetti. “Ma cosa è una vita ‘normale’?” Mi chiede, criticando bonariamente la mia scelta di parole nella domanda. “Beh, posso dirti che, quando sono a casa e non in tour, faccio anche io una vita che si può definire… normale. Mi alzo alle sei del mattino, faccio
colazione con i miei figli, li accompagno a scuola, li vado a riprendere… Cose che fanno tutti. Semplicemente, non sono una rockstar sempre. A casa, lontano dal palco, sono un papà e un marito, un uomo che ama le persone con le quali condivide la propria vita. Certo non posso esserci sempre - come ben sai all’interno di un anno potrei essere in giro per il mondo per anche più di duecento giorni - ma quando sono a casa il resto non esiste e cerco di far sì che quel tempo sia di qualità. Non cerco distrazioni: sono solo un padre e un uomo di famiglia quando sono a casa, e ho dei momenti in cui posso essere al 100% una rockstar. Non sovrappongo i due aspetti, è così che bilancio le mie due vite. Quando sono a casa non mi capita di uscire per trascinarmi in studio senza aver pranzato con la mia famiglia, per poi magari tornare al pomeriggio tardi stanco ed addormentarmi sul divano senza dedicarmi a loro. Faccio semplicemente modo che non succeda… Ho la fortuna di avere una moglie comprensiva, che capisce le mie necessità ed è così che la facciamo funzionare, tutto qua”. Gli chiediamo quindi se in questo modo riesce a non avere rimorsi per la scelta di una vita strana come quella on the road, che alle volte può essere un po’ stancante. “Beh, il R’n’R è di sicuro ancora la mia più grande passione. Al di là del fatto che i BSR vivono di questo, è comunque la cosa che mi fa battere il cuore di più. Sono oramai tanti anni che faccio musica a livello professionale e ogni giorno mi ritengo una persona fortunata di poterlo fare. Non ho nessun tipo di rimorso per aver scelto questa vita. Nel R’n’R difficilmente ci si guarda indietro”.
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Una band leggendaria che non smette mai di stupire, complice il brillantissimo stato di forma compositivo che le permette di realizzare fantastici album uno dietro l’altro, come testimonia anche il nuovissimo, omonimo ‘Tygers Of Pan Tang’, un disco che sta letteralmente elettrizzando fans e critica!
Call of The Wild di Alex Ventriglia
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orse sorprendendo un po’ tutti (ma poi neanche tanto, vista la caratura storica della band), il nuovo album ‘Tygers Of Pan Tang’ ha ottenuto sia un ottimo riscontro di vendite che una risposta della critica direi entusiastica. Soprattutto nella sempre complicata Inghilterra, Patria spesso non benevola nei confronti dei propri figli… Chi scrive ha ritrovato molto della grande accoglienza ricevuta con ‘Animal Instinct’,full-length album con il quale nel 2008 si presentò al mondo il nostro Iacopo Meille, formidabile frontman fiorentino che dei Tygers Of Pan Tang è il fiore all’occhiello, il quale replica così: “Registrare un disco sperando nel consenso del pubblico è sempre una scelta rischiosa. Sapevo che questo disco rappresentava quello che sono oggi i Tygers Of Pan Tang. È un disco in cui
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tutti noi ci riconosciamo. E credo che questo sia arrivato anche alle orecchie dei tanti che ci hanno ascoltato e che hanno recensito il disco: hanno colto l’energia!” Un album che ha dentro distillate tutte le grandi peculiarità dei Tygers Of Pan Tang più classici, dal singolo ‘Only The Brave’, anthem di pura scuola britannica, a
brani del ca- libro di ‘I Got The Music In Me’, a mio avviso il manifesto assoluto del disco, il mio pezzo preferito, che per attitudine e vigore mi ricorda ‘Let The Music Do The Talking’, brano di punta del Joe Perry solista. Che, tra l’altro, è una cover di
un brano della Kiki Dee Band, cavallo di battaglia datato 1974 interpretato da questa fascinosa frontgirl inglese piuttosto in voga agli inizi dei Seventies. Iacopo: “Ognuno di noi ha il suo brano preferito: ‘Only The Brave’ è la canzone che pensavamo fin da subito dovesse
aprire il disco. Le mie preferite sono ‘Never Give In’ e ‘The Devil You Know’: entrambe hanno tutte le caratteristiche di un classico dei Tygers e, al tempo stesso, esprimono tutta la personalità di questa formazione.” Alla conversazione si aggiunge Robb Weir, chitarrista storico e
membro fondatore del gruppo originario di Whitley Bay: “La disco music degli anni ’70 è una mia vecchia passione! Kiki Dee è stata un’eroina di quel periodo e ‘I Got The Music In Me’ è stato uno dei miei pezzi preferiti. Confesso che ci ho messo un bel po’ a convincere il resto della band a registrare la nostra versione… Però io sono un tipo tenace, e poi avevo in mente l’arrangiamento giusto fin dal primo minuto!” Però, quello che è subito estremamente evidente dentro il nuovo, omonimo album dei Tygers Of Pan Tang, è il suo taglio “bluesy” che si respira al suo interno, ci son persino delle virate soul. E qui, inutile girarci attorno, credo che ne sia lo stesso Iacopo l’artefice principale, l’ispiratore numero uno, data la sua formazione musicale e un amore dichiarato per determinati artisti e stili, e ne chiediamo appunto conferma: “Ognuno di noi nella band ha gusti e fonti di ispirazione diverse. Quando però si
tratta di scrivere o interpretare un brano dei Tygers, tutto diventa chiaro. Certo, nella cover di Kiki Dee, l’idea di darle un taglio più blues è mia, ma nel caso di ‘Glad Rags’ è tutta farina di Craig (Ellis, ndr.), il nostro batterista che ha un innato gusto pop e soul! Quello che continua a stupirmi nella band è la capacità che abbiamo di lasciare che ognuno di noi si senta a proprio agio e libero di esprimersi, per raggiungere il meglio per ogni canzone.” ‘Tygers Of Pan Tang’ è una release discografica che ha preso in contropiede anche gli stessi responsabili della Mighty Music, quasi come non se l’aspettassero una freschezza compositiva del genere, come sottolinea l’entusiasta Robb: “Era dai tempi della MCA che non trovavo un’etichetta così attiva e vicina alla band! Ci hanno lasciati completamente liberi di registrare come volevamo. Sono stati loro a suggerire Soren Andersen per mixare il disco e Harry Hess per il mastering. Se questo disco suona così bene è
merito anche della nuova label! E questo è solo l’inizio di una collaborazione che mi immagino sarà lunga…” Non credo sarà difficile, il sodalizio promette grandi cose, specie quando l’ispirazione è a tali livelli di eccellenza. Un’ispirazione che ha sempre un occhio di riguardo verso lo storico passato della band… Spiega Iacopo: “Quando sono entrato nella band, per me è stato fondamentale che fossimo tutti d’accordo per recuperare lo spirito del passato. ‘Tygers Of Pan Tang’ è, al tempo stesso, la fine e l’inizio di un percorso ancora da scrivere.” Un’altra solida certezza, l’impeto live di questa immarcescibile formazione, ripartita alla grande con una tournée che culminerà con tre date in Italia (il 30 marzo al Traffic di Roma, il 31 all’Exenzia Rock Club di Prato e l’1 di aprile al Circolo Colony di Brescia). Robb: “Siamo una rock band e dobbiamo suonare dal vivo. Il tour inglese è andato benissimo e ci ha permesso di suonare alcuni dei nuovi pezzi. È stato stimolan-
te trovare un equilibrio tra i vecchi classici e le nuove canzoni, senza dimenticare il repertorio di ‘Animal Instinct’ e ‘Ambush’…” A recuperare lo spirito del passato sono anche intervenute le Sessions relative ai loro antichi classici, che ha visto la band risuonare e ripubblicare negli anni ‘The Wild Cat Sessions’ (2010), ‘The Spellbound Sessions’ (2011) e, infine, l’ultimo ‘The Crazy Night Sessions’, uscito nel 2014. Stando alla cronologia, ora toccherebbe a ‘The Cage’… Robb, divertito più che mai… “Eh già, non ci resta che trovare il tempo di registrarlo!!! Per queste ‘Sessions’ dobbiamo scegliere le canzoni giuste e restituir loro quel tocco più aggressivo che ho sempre pensato mancasse al disco e che i Tygers di
oggi sono invece capaci di dare…” Poi Iacopo: “Se penso a quei lavori, per ‘Spellbound’ confesso che ero un po’ nervoso, ma ancora oggi, quando lo riascolto, sono molto soddisfatto. Con ‘Crazy Nights’ abbiamo esaudito il sogno di Robb di ri-registrare alcuni dei suoi brani preferiti di sempre, e rimarrà nella nostra memoria come la prima registrazione di questa formazione con Michael McCrystal (chitarra, Nda). Quanto a ‘Wild Cat’, ringrazio io Robb per avermi dato tutta la libertà di essere me stesso, senza alcun remora.” Pubblicazioni che hanno un grandissimo valore intrinseco, testimonianza forte che il fascino della NWOBHM resta immutato nel tempo. Robb Weir, tra gli assoluti
La disco music degli anni ’70 E’una mia vecchia passione! Kiki Dee E’stata un’eroina di quel periodo e ‘I Got The Music In Me’ e’ stato uno dei miei pezzi preferiti.
pionieri di quella storica epopea metallica, risponde così: “Le mode vanno e vengono, ma la NWOBHM ha dimostrato di non essere un fenomeno passeggero. È hard rock, ma suonato ad un volume più alto e senza troppi fronzoli. È un piacere vedere che ancora oggi gruppi come noi o i Diamond Head stanno vivendo una seconda giovinezza…” Fortuna nostra, aggiungerei io, che sono ancora in circolazione questi autentici eroi di una generazione metallica che ha lasciato un segno indelebile negli appassionati di tutto il mondo.
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Guardando Noora Louhimo esibirsi con i Battle Beast è impossibile non accorgersi di quanto sia diversa dallo stereotipo di frontwoman a cui siamo abituati: non solo per lo stile ruggente del suo cantato, ma soprattutto per l’atteggiamento che porta sul palco: aggressiva, ma non sguaiata, non seduce il pubblico con mise da red carpet hollywoodiano e pose plastiche, ma preferisce manipolarlo e sottometterlo trasmettendo la sua incredibile forza, sfruttando un fascino terribile, degno di una vera arpia. Abbiamo avuto la possibilità di scambiare quattro chiacchiere
con Noora mentre si dirigeva in sala prove. La prima, ovvia domanda che le rivolgiamo riguarda il nuovo album, ‘Bringer Of Pain’, il primo lavoro dei Battle Beast dalla separazione con il mastermind Anton Kabanen. “Dovete credermi quando dico che, per la prima volta, ci siamo sentiti liberi e sollevati. Tutti hanno contribuito alla realizzazione del nuovo album, tutti ci hanno messo il loro estro creativo e artistico ed è stato bellissimo. Sono infinitamente grata ai miei compagni per la loro presenza e il loro contributo. Questo è un periodo in cui abbiamo
tutti i nervi a fior di pelle, perché siamo in attesa dei primi pareri della critica e aspettare è davvero logorante, ma quel poco feedback che abbiamo ricevuto era molto positivo e ne siamo contenti”. Con l’uscita di Anton Kabanen dalla band, la reazione della critica nei confronti dei Battle Beast non è stata propriamente positiva: i più davano la band per spacciata senza Kabanen a tirarne i fili. Noora è assolutamente consapevole della situazione: “Fin dall’inizio sapevamo che convincere la critica senza Anton sarebbe stata un’impresa titanica, ma la gente deve
capire che i Battle Beast non sono una sola persona, sono una band, e non basta un elemento a determinare il nostro valore. Sì, per portare avanti i lavori del nuovo album ci sono voluti nervi d’acciaio perché la pressione da parte di pubblico e critici era enorme, ma alla fine operare in questo modo ci ha portati a un risultato migliore, quindi grazie a tutti per l’ansia che ci avete messo addosso! Ora ascoltatevi questo album, stronzi che non siete altro!” conclude Noora ridacchiando. È forse Noora a beneficiare più di tutti dell’assenza di Anton,
Metal Hammer ha avuto il piacere di fare com pagnia a Noora Louhimo, la potente voce dei Battle Bea st, durante il suo viaggio in treno verso la sala pro ve, discutendo del nuovo album della band.
e l a M i v r a F a i t n Pro di Alessandra Mazzarella
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“Fin dall’inizio sapevamo che convincere la critica senza Anton sarebbe stata un’impresa titanica, ma la gente deve capire che i Battle Beast non sono una sola persona, sono una band, e non basta un elemento a determinare il nostro valore.”
avendo ora la possibilità di dimostrare le sue capacità di cantante al di là di quelle dei suoi fenomenali polmoni: “Con questo album ho avuto finalmente l’opportunità di far sapere a tutti che sono una cantante qualificata a tutto tondo; non sono brava solo a strillare come un’aquila, so fare molte cose con la mia voce e so adattarmi a ciò che ogni canzone richiede. Il compito del cantante è quello di tirare fuori tutte le possibili sfumature per rendere al massimo l’atmosfera che si vuole costruire, è un po’ come dipingere con la voce. Ti faccio l’esempio di ‘Beyond The Burning Skies’: è una canzone luminosa e piena di speranza (Noora ha una predilezione per le sinestesie, ndr) e non potevo semplicemente gridarla, aveva bisogno di essere interpretata in un certo modo, con dolcezza e forza. Da questa canzone si può avere un’idea abbastanza chiara di cosa riesco a fare”. Il focus del discorso si sposta poi sulla realizzazione del video del primo singolo del nuovo album, ‘King For A Day’: “Girare questo video è stato pazzesco” racconta
Noora “Abbiamo fatto un casting completamente aperto e, a parte i ruoli attivi, tutti coloro che volevano partecipare come pubblico nella scena del concerto dovevano semplicemente presentarsi, ed è venuta veramente tanta gente. Camminavi in mezzo a loro e li sentivi dire cose come ‘Oh Dio, questo è il più bel giorno della mia vita’. Sono stati a ballare la stessa canzone per cinque ore. Cinque ore, ti dico! E più il tempo passava, più volevano ascoltarla. Se questo non dimostra che ‘King For A Day’ è un’ottima canzone non credo ci sia altro modo di provarlo!”. La fermata di Noora è ormai vicina quando le chiediamo l’ultima, tristissima, classica domanda che ogni donna nel metal si sente fare: come si vive in un mondo di uomini? “Ma sai che ti dico? Che questo non è per niente un mondo di uomini, è il mondo di tutti, indipendentemente dal sesso a cui apparteniamo. Finché fai buona musica quando sali su quel palco, al pubblico non interessa chi tu sia: ciò che importa è la qualità del nostro lavoro, e niente di più”.
Guarda qui il video di ‘Familiar Hell’, pezzo estratto da ‘Bringer Of Pain’ METALHAMMER.IT 13
‘Non tutte le ciambelle escono col buco’… scritto così, all’inizio di un intervista, il famoso adagio di origine popolare può sembrare una banalità, ma è anche vero che questi detti racchiudono spesso una certa verità. Parlando con Steve Wussow, bassista degli Xandria, scopriamo infatti che la sembra pensare più o meno così sul penultimo album della band, ‘Sacrificium’, allorchè gli chiediamo come siano andate le cose dalla pubblicazione di quel lavoro fino al recente ‘Theater Of Dimensions’. “Sai… non voglio parlare male di ‘Sacrificium’. Amo ancora le canzoni di quell’album”, comincia il bassista tedesco. “Però è vero che l’intero lavoro ci ha generato molto stress, cosa che forse lo ha privato dell’emozionalità che volevamo dargli. Il fatto è che, Quando i brani erano grossomodo pronti e mancavano quattro settimane a entrare in studio, Manuela (Kraller, ex cantante, ndr) ci ha comunicato che non avrebbe continuato. È stato un duro colpo, e ci siamo rivolti al nostro produttore per un rimpiazzo. Fu lui a suggerirci Dianne. Lei ha dovuto prepararsi in
meno di quattro settimane per la registrazione di un album che non conosceva, e nel frattempo effettuare le prove con la band perché subito dopo le registrazioni saremmo partiti per un tour. Puoi capire come l’ambiente e il modo in cui si è lavorato non sia stati dei più sereni. A pensarci a posteriori, ‘Sacrificium’ è stato un album proprio difficile. È venuto bene per la qualità delle canzoni, ma è innegabile che quello nuovo abbia una marcia in più”. Il giudizio su ‘Theater Of Dimensions’ è infatti ben diverso. “Questa volta le cose hanno girato in un’altra maniera. L’emozionalità, il sentimento che volevamo nelle canzoni, siamo riusciti a trasmetterlo. Ci avviciniamo di più al clima di ‘India’, di ‘Seventh Veil’, album su cui la band adorò davvero lavorare. ‘Theater’ è più potente, più sinfonico, più melodico… abbiamo avuto modo di lavorare come volevamo”. A parte per il clima più rilassato col quale la band ha lavorato, differenza principale col predecessore sembra essere proprio il ruolo e la figura della nuova singer, la brava
Dianne. “Ci siamo accorti in fretta che era la cantante giusta…”. Racconta Wussow, parlando di lei. “Non avendo potuto contribuire molto su ‘Sacrificium’, abbiamo pensato di farla lavorare sull’EP che uscì l’anno scorso: ‘Fire & Ashes”. Conteneva tre canzoni nuove, inedite, sulle quali lei lavorò e scrisse i testi, adattandoli al proprio stile vocale. Capimmo subito che quei brani erano più personali, e che lei poteva veramente dare qualcosa in più alla band anche in termini di composizione”. Un asso nella manica in più, quindi, anche se il modo in cui la band lavora a nuove composizioni non sembra essere cambiato. “In generale il modus operandi è lo stesso”. Ci conferma infatti. “È sempre Marco Heubaum a comporre tutto. Ma ognuno di noi può contribuire suonando le proprie parti al meglio, facendo proposte e introducendo cambiamenti anche significativi. Ma serve tempo per quello… più ci lavoriamo assieme, più le idee nascono. Se si deve registrare in fretta, la canzone rimane pressocchè invariata rispetto come è stata composta”.
Forti quindi di un album in cui credono davvero e che rappresenta una bella rivincita sullo stress che ha caratterizzato le registrazioni di ‘Sacrificium’, gli Xandria si sono tolti anche altre soddisfazioni. Come quella di scrivere un brano di forte accusa sociale. “’We Are Murderes (We All)’ è un titolo forte e provocatorio”. Ci spiega il bassista. “Non trattiamo spesso temi così critici, anche se qualche canzone come ‘Nightfall’ approcciava problemi attuali, ma volevamo ora. Per capire a cosa ci riferiamo col titolo, basta guardare i notiziari. Terrorismo, guerre, carestie causati dai potenti… a sentire queste cose sembra di essere in una favola distopica, ma è la realtà. Il titolo duro è volto a dare una scossa, siamo tutti assassini se facciamo finta che tutto ciò non esiste, non solo gli esecutori materiali di questi atti. Non vogliamo dire alla gente cosa fare o pretendere di risolvere i problemi del mondo con una canzone, diciamo però come la pensiamo su questi temi, e un brano come quello ci sembrava il modo giusto di esprimere il nostro pensiero”.
‘Theater Of Dimension ’ rappresenta un buon riscatto per i te deschi Xandria! Ce lo racconta Stev e Wussow.
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Stronger than ever di Dario Cattaneo
Con ‘Too Heavy To Fly’ tornano in carreggiata i liguri Vanexa, band storica nel panorama metal tricolore. A presentarci il nuovo disco e' il membro fondatore del gruppo, Sergio Pagnacco.
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FIghting for the Faith di Fabio Magliano
22 anni. Una vita. E’ quanto i liguri Vanexa, uno dei pionieri del metal tricolore con una storia che ha radici sul finire degli anni Settanta, hanno impiegato per dare un successore a ‘Against The Sun’, disco uscito nel 1994 che vedeva alla voce un giovanissimo Roberto Tiranti. Da allora qualche raccolta, un live ma nulla di più. Almeno sino ad oggi, quando il duo storico composto dal bassita Sergio Pagnacco e dal batterista Silvano Bottari hanno stretto i ranghi, hanno arruolato tre nuovi compagni di battaglia e insieme hanno dato alla luce ‘Too Heavy To Fly’, lavoro che sta riscuotendo ottimi consensi, grazie ad un sound che da un lato va a pescare a piene mani nella tradizione metal ottantiana e dall’altra strizza l’occhio ad un heavy rock più diretto e raffinato “E’ un disco che abbiamo visssuto divertendoci moltisismo, pontendo contare su una formazione composta da ottime persone, sia a livello musicale che umano – inizia a raccontare entusiasta Sergio Pagnacco - Insieme ci troviamo, suoniamo ma soprattutto ci divertiamo ed in questo clima i pezzi sono nati in maniera spontanea. E’ un disco onesto, fatto di
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canzoni che ci piacciono, dirette... Ad oggi ha avuto dei consensi che non ci aspettavamo, tanto che è arrivato nei primi posti in classifica nelle piattaforme digitali e questo ci ha fatto capire come il nostro nuovo sound non piacesse solo a noi ma anche all’acoltatore esterno. Il metallaro degli anni Ottanta è stato colpito ed è stato sedotto da queste canzoni e le sente dav-
vero tanto rock; l’ascoltatore più giovane nonostante tutto lo ha amato e di conseguenza è andato a riscoprirsi i Vanexa dei primi dischi. Lo abbiamo vissuto quindi con una bella atmosfera, e questo ci è piaciuto molto, tanto che vorremmo continuare la nostra storia in questa direzione”. Prima di arrivare alla realizzazione di ‘Too Heavy To Fly’,
però, la band è dovuta passare attraverso un rimodellamento della formazione originale, con l’inserimento di tre nuovi membri ad affiancare lo storico duo Pagnacco/Bottari “Con il cambio di formazione abbiamo oggi due chitarristi bravissimi che si integrano molto bene – spiega il bassista - Artan Selishta è un chitarrista molto tecnico come Pier Gonella, però ha un gusto e un background estremamente differente. Artan arriva da Durazzo con la prima ondata di albanesi tanti anni fa, ed ha tante storie da raccontare con la sua chitarra perchè ha vissuto delle situazioni davvero molto rock. Pier è un chitarrista metal, che essendo anche più aggressivo a livello musicale di Artan si integra molto bene con lui. Quindi tutte le parti più melodiche e i suoni più raffinati sono di Artan, mentre le parti più dure, più spontanee e se vogliamo anche più sporche sono di Pier. Ranfa, il cantante, per conto mio ha usato un buon collante perchè ha trovato delle melodie e dei testi che hanno fatto si che il sound venisse completato in maniera anche più raffinata del solito. Forse prima suonavamo più di istinto e adesso siamo un po’ più posati, però la matrice è sempre la stessa, perchè la base ritmica è quella storica, i suoni possono essere un
er volare p i t n a s e p o p p o “ "Essere tr nte tu a t s o n o n e h c e r sta a significa camen“ ie c i d e r c i u c in faccia qualcosa scirai ad iu r n o n e h c ià g i a te, a priori s ica” avere una gratif po’ più moderni ma la base di partenza è sempre quella anni Ottanta”. Addentrandoci nell’album, ci imbattiamo subito nella canzone che da il titolo al lavoro, primo singolo estratto nonché pezzo che ben fotografa il nuovo corso della band ligure “La title track è stata una delle prime canzoni a essere composta -spiega Sergio - E’ nata in cantina come nella classica tradizione Vanexa, con l’obiettivo di poterci rappresentare a pieno e allo stesso tempo affascinare sia chi ascolta metal sia chi è più legato a sonorità maggiormente rock. Il testo è azzeccato e il titolo pure, perché è dedicato a tutti quelli che sono nel mondo del metal...Essere troppo pesanti per volare sta a significare che nonostante tu faccia qualcosa in cui credi ciecamente, a priori sai già che non riuscirai ad avere una gratifica soprattutto economica per quello che stai facendo, ma nonostante questo tu continui a perseverare per far si che qualcosa di tuo alla fine esca fuori. Quindi come negli anni Ottanta non abbiamo fatto qualcosa sprando, pensando, presumendo di riuscire ad arrivare da qualche parte, ma abbiamo fatto qualcosa che sentivamo fortemente nostro.” Un tema, quello dell’illusione, che ritorna anche in ‘It’s Illusion’, anche se presto viene chiaro come questo sia l’autentico leit motiv dell’intero lavoro “Il disco è
dedicato a tutti coloro che fanno parte di questo mondo, ai musicisti, ai giornalisti, agli al videomaker, allo speaker radiofonico, agli addetti ai lavori...che essendo in Italia ci mettono cuore e passione ma alla fine la loro fatica non viene ripagata come dovrebbe essere. Noi suoniamo unicamente per la passione di farlo e per il nostro amore per la musica, senza avere la pretesa di avere qualcosa in cambio. Questo è ‘Too Heavy To Fly’, un disco che vuole essere il più spontaneo possibile, per sottolineare qualcosa che nel mondo del metal italiano c’è ma che magari qualcuno mistifica oppure cerca di nascondere per far si che non venga troppo alla luce. Le band italiane heavy metal effettivamente suonano metal solo per il gusto di farlo e per la passione che hanno, nulla di più” ‘Kiss The Dark’, invece, lascia trasparire il lato più emotivo e melodico del disco “In ogni nostro disco, come nella classica tradizione heavy, abbiamo sempre inserito la ballata. ‘Kiss The Dark’ è una storia d’amore molto dark, perché il bacio al quale si riferisce è quello dato dall’amante alla propria amata morta, l’ultimo bacio prima dell’eterna sepoltura. Il testo si sposava bene alla nostra visione più melodica della musica e lo abbiamo sposato in modo direi molto efficace” In ‘The Traveller’, infine,
fa la sua comparsata un ospite d’eccezione come Ken Hensley degli Uriah Heep “Una leggenda per noi che siamo cresciuti con la musica degli Uriah Heep nelle orecchie – si affretta a sottolineare il bassista - lo abbiamo sempre considerato un grande musicista e un grande compositore, Ranfa ci ha suonato più volte insieme e in una di queste gli ha proposto di partecipare al nostro progetto e lui ha immediatamente accettato. Abbiamo pensato di creare questo brano che potesse essere più vicino al suo sound, perché nel pezzo usa l’hammond anni ‘70, però nonostante questo lo sento come un brano moderno”. Difficile, però, riuscire a individuare l’autentico highlight del lavoro “Quello che c’è di strano in questo album è che io posso parlare con cento persone e cento persone indicano un brano diverso quale il migliore del disco – chiude Pagnacco - E’ un album con una forte matrice Vanexa, ma in questi anni siamo maturati, ognuno ha sviluppato il proprio stile e questo si sente nel disco. Io posso essere più legato a ‘Paradox’ o alla title track, però nel tempo abbiamo avuto riscontri anche opposti, e questo mi piace perché se avessimo dovuto scegliere un’hit dell’album molto probabilmente non l’avremmo azzeccata, quindi possiamo dire di avere centrato l’obiettivo.”
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Mentre i fratelli Cavalera portano in giro per il mondo i datatissimi pezzi dell’album piuì amato dagli antropologi del globo terraqueo, Andreas Kisser tira dritto per la sua strada, sfornando dei lavori che, tra alti e bassi, continuano a tener vivo l’interesse nei confronti dei Sepultura. Rilassato e ciarliero, il chitarrista ci ha raccontato vita, morte e miracoli del nuovo messia.
Figli di un Dio Macchina
di Giuseppe Cassatella
S
ono molto felice di Messiah Machine” esordisce il leader dei Sepultura “è differente da tutto quello pubblicato sinora. Il fatto che questo sia il secondo lavoro prodotto con la stessa line up, con Eloy Casagrande alla batteria, sicuramente ci ha giovato. Abbiamo remato tutti nella stessa direzione, dandoci una mano gli uni con gli altri. Inoltre, un grande aiuto ce l’ha fornito il nostro produttore, Jens Bogren, perché è stato in grado di capire al volo cosa volevamo da lui. È sempre attento ai particolari, una vera miniera di spunti.” Effettivamente ciò che salta subito all’orecchio è come quest’album suoni fottutamente Sepultura, pur mostrando qualcosa di diverso rispetto al passato. Ce lo conferma lo stesso Kisser “è stato un processo naturale, libero da ogni costrizione. Il disco parte con una canzone melodica, contiene un brano strumentale, ci sono degli elementi dannatamente heavy e violenti. Volevamo un
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album vario, ci siamo messi alla prova e alla fine siamo riusciti nell’impresa”. Se la musica è variegata, i brani sono uniti da un comune denominatore, anche se “non si può parlare di vero e proprio concept album. La nostra civiltà è schiava delle macchine, del Messiah Machine del titolo. Computer,
smartphone, GPS, google glass: ormai i robot non sono più un semplice aiuto, ci condizionano fortemente”. Se il rapporto uomo-tecnologia è il “core” delle liriche, all’occhio critico dei carioca non sfuggono le altre storture che attanagliano la collettività “religione,
inquinamento, innalzamento delle temperature, sono gli altri temi toccati” però, alla fine si torna sempre al nocciolo della questione “molti di questi mali sono la diretta conseguenza dell’iper-tecnologizzazione.” Condiziona tutti, quindi anche gli
artisti? È possibile oggi essere un musicista senza essere sottomessi al giogo dei computer? “Sì, lo è. Certo anche chi fa musica entra in contatto inevitabilmente con la tecnologia, però c’è tanta roba acustica suonata per le strade oppure nelle culture tribali. Nel nostro caso le canzoni sono il frutto del lavoro di una
squadra di uomini, non siamo artisti pop che scrivono la singola canzone con l’ausilio dei computer, riuscendo a tiarar fuori cose che non sarebbero altrimenti possibili” ribadisce poi “per noi è invece una sfida riuscire a superare i nostri limiti senza l’ausilio delle macchine. Sì, è possibile farne uno uso consapevole, sono solo degli strumenti a cui ricorrere in studio, ma non devono diventare il tuo padrone.” I musicisti, soprattutto quelli metal, hanno puntato il dito contro questo fenomeno già da anni, basti pensare a Dio che cantava ‘computerize god, it’s the new religion’, eppure dal 1992, anno di pubblicazione di Dehumanaizer dei Black Sabbath, le cose non paiono migliorate, anzi “sono peggiorate. Ricordo quel disco, ma oggi la realtà è ben peggiore. Le persone tendono a non cercare più il confronto, preferiscono attaccare. Non vogliono capire perché il prossimo la pensa in una certa maniera o si veste in
La nostra civiltA' E' schiava delle macchine, del Messiah Machine
Guarda qui il video di ‘Phantom Self’ brani che ho buttato giù, ma ha avuto una gestazione lunga, perché mano mano aggiungevo o ritoccavo qualcosa.” Non può mancare un momento dedicato alla bella copertina disegnata da Camille Jean Verdelaire D. Dela Rosa “ho trovato questa immagine su internet mentre cercavo qualcosa da usare, evitando quegli artisti che operano di solito in ambito metal. Avevo il titolo Machine Messiah ben in mente, così quando mi sono imbattuto in questo dipinto chiamato Deus Ex Machina, l’ho trovato perfetto per il concept dell’album. È grandioso, è molto colorato e ricco di particolari.” Una delle differenze principali col capitolo discografico
un determinato modo. Preferiscono combattere, nascondendo la propria faccia dietro un monitor, più che comprendere e accettare.” Si torna a parlare di musica, col particolare brano d’apertura, la title track, forse la canzone più lenta dell’intero lotto “considero questo pezzo come una lunga intro, messa là per far crescere l’attesa e le aspettative sul resto del disco. Anche perché di lì a poco parte quello che è il prodotto più vario dei Sepultura.” Gli faccio notare che il disco continua con ‘I Am The Enemy’, un brano che è classicamente Sepultura, scelto anche per il primo video estratto da MM “è vero, i riff, le ritmiche, il cantato riportano tutto al nostro sound, per questo l’abbiamo utilizzato. Non si tratta, però, del primo singolo, che sarà ‘Phantom Self’, perciò abbiamo montato un filmato molto semplice accompagnato dai testi.” Quel ‘Phantom Self’ che è effettivamente ben più rappresentativo dello stile dei brasileros attuali “parte con i tradizionali ritmi del Maracatu, poi subentra la mia chitarra con un
precedente è la produzione, non più affidata a Ross Robinson, che aveva contributo anche al grandioso sound di ‘Roots’ “per il precedente album avevamo deciso registrare fuori dal Brasile, cosa non che facevamo da anni, per questo siamo andati ai Venice Studios in California. Questa volta abbiamo optato per una soluzione differente, così siamo tornati in Europa, dove mancavamo dalle session di ‘Chaos Ad’. Molti nostri amici, come Moonspell, Kreator, Opeth, Angra hanno lavorato con Jens, dandoci delle ottime referenze. Voleva-
mo cambiare ambiente per avere nuove influenze, e la Svezia in questo senso è stata perfetta. I Fascination Street sono veramente all’avanguardia”. Proprio tra le quattro mura degli studios scandinavi sono stati girati dei video-diari, in uno di questi appare il boss della Nuclear Blast che si dice entusiasta di avere nel proprio rooster i brasiliani, a quanto pare il sentimento è reciproco: “è un’etichetta fantastica! È metal al 100% ed è sopravvissuta a tutti i cambiamenti del mercato musicale. Sanno sempre cosa fare, conoscono la nostra storia e la rispettano. Fanno di tutto per promuovere i nostri album, siamo veramente contenti!” La promozione di
sound molto pesante. I violini che senti sono stati suonati dai tunisini della Myriad Orchestra, ce li ha consigliati Jens, che in passato ha lavorato con loro. Questa collaborazione ci ha permesso di sviluppare soluzioni differenti, infatti, credo che sia uno dei pezzi più completi della nostra carriera.” Il testo, invece, “trae ispirazione da un’intervista, che ho letto tempo fa, in cui un medico raccontava di questo suo paziente che dopo un incidente stradale ha sviluppato una nuova personalità, resettando completamente la prima. Trovo impressionante che alcuni avvenimenti possano far incrementare una nuova identità, come se dentro di noi sino a quel momento avesse albergato un fantasma in attesa di venire allo scoperto”. ‘Phantom Self’ si gioca la palma di brano più atipico di MM con ‘Sworn Oath’ “è una canzone molto oscura, con un feeling epico. Abbiamo voluto coinvolgere i nostri amici tunisini in questo che considero un omaggio al metal, perché contiene tutti gli elementi che contraddistinguono questo genere: pesantezza, grandi line di basso, violenza, parti di chitarra elaborate, solos ecc. È uno dei primi
una album non può prescindere dall’attività live, in particolare il quartetto girerà l’Europa in compagnia dei Kreator e gli USA con Testament e Prong “siamo contenti di poter viaggiare con delle leggende, sarà il nostro primo tour con i Kreator e con i Testament, anche se abbiamo già suonato con loro in alcune occasioni. Con i Prong siamo stati in tournée nel 94, c’erano anche i Pantera. Sarà molto divertente!” Tanta strada già percorsa e tanta ancora da fare “è la mia vita. Sono un privilegiato perché faccio quello che amo, e posso continuare a farlo ancora per tanto tempo, come accade ai Rolling Stones. Non cambierei questa condizione per nulla al mondo!”
Curiosita': L'artwork di 'messiah machine' La copertina di Messiah Machine è un’opera della poliedrica artista filippina Camille Jean Verdelaire D. Dela Rosa. Figlia d’arte, suo padre è il defunto pittore Ibarra Y. Dela Rosa, è diventata celebre per le sue opere che riscrivono in chiave macabra il surrealismo. Ha iniziato a dipingere all’indomani della morte del genitore, cercando di rivisitarne lo stile. A soli 16 anni la sua prima personale! Tutte le opere sono visionabili sul suo sito.
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I newyorkesi KillCode sono stati per noi l’autentica rivelazione. Visti all’opera per la prima volta in coda ad uno dei concerti francesi dei Twisted Sister, i cinque statunitensi ci hanno subito conquistato con uno di quegli show carichi di feeling e di attitudine e con un sound sporco che affonda le radici nell’hard rock stradaiolo andandosi poi via via imbastardendosi con il southern, il metal e il blues. Un sound che il gruppo, formato dal cantante Tom Morrissey, dai chitarristi Chas e D.C Gonzales, dal bassista Erric Bonesmith e dal batterista Rob Noxious è sbocciato nell’ultimo lavoro ‘The Answer’ che segue di tre anni l’omonimo debut album della band. “Il gruppo è nato da un’iniziativa di Chas e Tom - attacca a raccontare il bassista Erric Bonesmith - i quali avevano intenzione di costruire insieme qualcosa di nuovo. Hanno tirato giù qualche idea e Chas mi ha chiamato per suonare il basso; inutile dire che ho accettato con entusiasmo perchè quello che
mi hanno fatto ascoltare era eccezionale. Per trovare un batterista abbiamo ascoltato oltre 50 musicisti provenienti da tutti gli Stati Uniti ed alla fine la scelta è caduta su Rob Noxius, mentre il secondo chitarrista, D.C Gonzales, si è uni-
to a noi nel 2013”. Il passo successivo è stato l’entrata in studio e anche qui il percorso è stato graduale “Abbiamo iniziato realizzando due EP, ‘To Die For’ e ‘Taking It All’ - spiega il cantante Tom Morrissey - quindi nel 2013 abbiamo pubblicato il nostro disco di debutto ‘Killcode’. Recentemente abbiamo finito di registrare il nostro nuovo lavoro, ‘The Answer’, prodotto dal chitarrista dei Life Of Agony’ Joey Z, introdotto da una serie di video diretti da David Swajeski. Inutile dire che siamo tutti entusiasti del lavoro
che abbiamo fatto”. Un lavoro fondato su quell’hard rock viscerale che da sempre è stato marchio distintivo della band newyorkese “La cosa bella della musica, è che è universale - prosegue Erric - Puoi prendere dieci persone, da dieci Paesi differenti, che parlano dieci lingue diverse, sparare i Judas Priest a palla e vedrai subito le corna levarsi al vento e le loro teste fare headbangin’. A noi piacerebbe, con la nostra musica, riuscire ad arrivare in modo così diretto a quante più persone possibili. Per farlo non c’è bisogno di troppi fronzoli, basta un hard rock grezzo e onesto come il nostro. Nelle canzoni dei KillCode puoi trovarci di tutto, echi Southern, passaggi Heavy Metal classico, Blues...non abbiamo mai avuto paura di suonare quello che sentivamo nostro. Per questo i KillCode suonano come cinque ragazzi cresciuti con Alice Cooper e Black Sabbath nelle orecchie, ma anche Lynyrd Skynyrd e Slayer, Beastie Boys e Bad Brains”. Tutti elementi che emergono limpidamente nel nuovo disco ‘The Answer’ “Il disco che ci vede crescere e maturare come band - prosegue Erric - L’album di debutto rappresenta molto per noi e siamo ancora orgogliosi di quel disco. Venivamo da due EP realizzati a budget zero, e entrare per la prima volta in studio per realizzare un disco che catturasse a pieno la nostra visione della
Alla scoperta dell’hard rock band di New York scoperta di spalla ai Twisted Sister e fresca autrice dell’ottimo 'The Answer’
d n a g n i k c Ki Screaming
di Fabio Magliano Foto di Alice Ferrero
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musica era stato fantastico. ‘The Answer’ ci porta ad un livello superiore. Per la prima volta abbiamo avuto la possibilità di incidere in studio con il nostro fratello DC Gonzales e la sua chitarra ci ha aiutato in modo determinante nel rimarcare
ancora di più la nostra identità musicale” quindi chiude il batterista Rob Noxius “Per la prima volta, poi, ci siamo trovati a lavorare con Joey Z e la sua mano in questo disco ha fatto la differenza. Per me, in particolare, è stato magico, perchè ha dato alla batteria un sound esplosivo, e penso sia riuscito a catturare quell’energia e quell’attitudine che abbiamo sempre tirato fuori sul palco”. Addentrandoci nel nuovo disco ci si imbatte in ‘Put It Off’, uno degli highlight del disco “...un pezzo nel quale abbiamo incastrato differenti sfumature e molte emozioni - spiega D.C più di quante abbiano trovato posto negli altri brani del disco. E’ un pezzo intenso, che ci ha emozionato molto al momento di inciderlo e che mi rende orgoglioso ogni volta che lo suono”. Tutto il disco, comunque, lascia emergere differenti sfumature che lo rendono decisamente interessante “Abbiamo cercato di riversare diversi stati d’animo in questo disco - spiega Tom personalmente la mia canzone preferita cambia di giorno in giorno, dipende dal mio stato d’animo, dal momento... In questo momento sento molto mia ‘Own It’, il pezzo che abbiamo realizzato con Chris Wyse, già nei The Cult e ora con Owl e Ace Frehley, ma adoro anche ‘Kicking And Screaming’, per la quale rilasceremo a breve un nuovo video”. E ‘The Answer’ è stato presentato in anteprima con un
mastodontico tour che ha visto i KillCode aprire nientemeno che ai Twisted Sister nel farewell tour “Suonare con loro ogni sera è stata una lezione immensa – afferma Tom – ci hanno insegnato a non fare prigionieri e a suonare ogni sera come se fosse il nostro ultimo show. Di questa esperienza porterò sempre con me il ricordo del concerto tenuto in Messico davanti a 50.000 persone che cantavano con me le mie canzoni, ma anche i due bis richiesti al Bang Your Head Festival in Germania sono stati una grande soddisfazione”. Gli fa eco Rob Noxious “I Twisted Sister ti insegnano che quando pensi di stare lavorando tanto, in quel momento devi realizzare che non sarà mai abbastanza. Non devi mai arrenderti e devi spingere su quello che sai fare meglio. Ho ancora i brividi se penso alle tre o quattro volte che Jay Jay ci ha raggiunto sul palco per suonare con noi ‘ You Can’t Stop Rock & Roll’, saremo sempre loro grati per averci permesso di suonare a Città del Messico...poi personalmente ho avuto l’onore di suonare la batteria di Mike Portnoy in South Dakota e non penso siano in tanti ad avere avuto la possibilità di farlo… Tutto il tour è stato comunque un concentrato di emozioni e ricordi intenso, anche se il pensiero va allo show di Monterey: vederli dire “goodnight” ai loro fan per l’ultima volta non è stato affatto semplice...”
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le. niversa u è e h c i usica, è , da dieci Paes m a ll e d e bella person iverse, i d c e u La cosa ie g d n i li endere no diec i subito a la r r d a e Puoi pr p v e nti, ch a palla e teste fare differe Judas P riest le loro i e e o r t a n r e lv spa evarsi a l a n nesmith r o o B c i le c -E r r gin’. n a b d a e h
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nd, re una nuova ba a er v o n n a ' o u p , oggi Austin Dickinson a it Il modern rock da il m a l fi i cu e ions nell i britannici As L moso del metal. fa ' iu p ce u r B l figlio de
e g A h s fi l Se
di Andrea Schwarz
È indubbio che essere negli As Lions non sia facile, l’attenzione del pubblico e dei media ricade indubbiamente sulle ‘nobili’ origini del cantante, tale Austin Dickinson che rischia di rovinare quanto di buono pubblicato come band. E la pressione non deve essere semplice da gestire: “Ad essere onesti era qualcosa per il quale ero preparato fin dall’inizio, semplicemente lo ignoro così come lo fanno tutti gli altri all’interno della band. A volte su questa cosa ci scherziamo su anche noi, ci chiediamo ‘chi è il figlio di?’ e punto il dito su Will (Homer, chitarra) così fa le interviste! I media fanno a gara a dire ‘il figlio di Bruce Dickinson’ ma più noi ci prestiamo caso, più il tutto diventa maggiormente relativo. Ognuno deve imparare a fare da solo e questo ne è un esempio lampante.” Tutto vero ma è tremenda-
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mente difficile farsi accettare come band autonoma con un proprio cammino indipendente: “Abbiamo cominciato nel 2014...o forse era il 2015, Will (Homer, chitarra), Conor (O’Keefe, chitarra) ed io eravamo precedentemente in una band chiamata Rise To Remain che purtroppo si sciolse, è stato in quel momento che abbiamo realizzato che volevamo continuare a suonare insieme formando una nuova band. La musica è assolutamente il nostro vivere, non avevamo altra scelta! Cominciammo così a scrivere delle nuove canzoni sviluppandole fino a quando non fossimo stati totalmente soddisfatti….abbiamo ‘assoldato’ un bassista ed un batterista...e via a suonare!” E fu così che hanno prodotto sia l’ep che l’album ‘Selfish Age’ con David Bendeth e Kane Churko, un team che certamente li avrà
aiutati a plasmare il loro sound: “David l’ho conosciuto per caso, mi ha scritto un giorno su Twitter e dopo un pò ci siamo ritrovati nel suo studio in New Jersey. È stato incredibile lavorare laggiù, il suo studio sembrava fosse diventato il nostro camping...seriamente devo ammettere che ci ha insegnato come comporre e suonare musica con il cuore. Con Kane invece siamo quasi coetanei ed è l’opposto di David, una persona molto entusiasta che vive e respire musica. Con lui abbiamo sperimentato parecchio, divertendoci altrettanto, penso che si possa notare su disco. Il tratto che li accomuna è che sono un gruppo di ragazzi che amano la musica, è stato bello lavorare con loro. Sperimentare con Kane è stato entusiasmante perché ci ha aiutato a capire fino a dove potevamo arrivare.
Anche se in alcuni frangenti le soluzioni che avevamo provato non ci sono sembrate adatte, ci ha aiutato a rifinire il nostro modo di essere musicisti.” La band sta cominciando a riscuotere un buon successo, soprattutto negli USA grazie anche al tour di supporto a Sixx A.M. e Shinedown, chissà Austin Dickinson & Co. pensino se sia stato più difficile lavorare a questo album come una band sconosciuta oppure al prossimo: “Lavorare a questo disco come una band sconosciuta è stata una delle cose migliori che avessimo potuto fare, la ragione è semplice: non avevamo niente da provare e soprattutto niente da perdere. Potevamo fare realmente tutto ciò che ci passava per la mente, questa è stata parte integrante del divertimento nel realizzare ‘Selfish Age’ nonché parte del suo segreto.”
Presenta
Il serial killer delle Rockstar
Ad Aprile In tutte le Fumetterie! Sex Drugs and ! ! ! l l o R Rock n La nuova miniserie
Se vivete per il rock e per il metal non potete lasciarvi sfuggire "heavy bone", e se la musica del diavolo non e' nelle vostre priorita', lo diventera' dopo la lettura di questo fumetto Storie: Enzo Rizzi Disegni: gero grassi & Nathan Ramirez Cover #1: Rafa Garres
info: metalsound@libero.it facebook: Enzo Rizzi (Heavv Bone)
Viaggio nella vita artistica di un musicista che ha dimostrato che con passione e dedizione E' possibile inventare nuovi modi di suonare, di sviluppare uno strumento affascinante come il basso elettrico. A voi, Mr Billy Sheehan!
n a h e e h S y l l i B
Bass Genius
A volte certe cose capitano per caso, a volte le cose più inaspettate sono le più belle, altre volte ancora certe cose le si desiderano talmente tanto che quando accadono lo stupore e l’incredulità si mischiano ad una gioia interiore che è qualcosa che difficilmente la si può spiegare a parole. Le si vive e basta. Ed a tanti di noi/voi sarà capitato di trovarsi in una di queste circostanze, nella vita di tutti i giorni. Ed incontrare Mr Sheehan, praticamente ‘sotto casa’, ha un sapore particolare per chi come il sottoscritto è cresciuto vedendo nel musicista di Buffalo un modello artistico da guardare con ammirazione, sia come bassista capace di sviluppare un modo ed un suono inconfondibile che lo annovera certamente tra i migliori bassisti che la storia del basso elettrico abbia partorito, sia come musicista in grado di scrivere musiche di assoluto valore con Talas, Mr Big, David Lee Roth, The Winery Dogs solo per citare alcuni nomi tra i più famosi ai quali Mr Sheehan ha prestato il suo estro creativo. E non da ultimo lo troviamo girovagare per il mondo
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da solo, unitamente ad un amplificatore ed il suo inseparabile basso elettrico calca palchi molto piccoli ed angusti, proprio lui abituato invece ad esibirsi in grandi arene “Girare il mondo, suonare ed esibirsi in piccoli club come questo ha per me un valore inestimabile. Certo, oggigiorno con le moderne tecnologie potrei stare comodamente seduto nello studio di casa mia, filmare le mie performance e metterle in rete raggiungendo con un solo click migliaia di persone. Ma cre-
dimi, non è la stessa cosa e mai lo sarà. E, soprattutto, abbiamo una fortuna che nessuno ci potrà mai togliere: suonare dal vivo. Amo questo tipo di situazioni, puoi
di Andrea Schwarz Foto di Alessandro Bosio
scaricare il video ma nessuna moderna tecnologia per quanto avanzata ed all’avanguardia potrà mai sostituire il piacere di trovarti su un palco, proporre la tua musica a diretto contatto con chi da quella musica è affascinato. È veramente bello andare in giro per il mondo suonando in piccoli contesti dove puoi concretamente incontrare le persone, faccia a faccia. Personalmente nella mia carriera ho fatto moltissime clinics, alcune volte in posti come questo, in altre in situazioni più grandi ed è per lo più fatta da un musicista per musicisti. Mi interessa in particolar modo l’aspetto didattico di tutto questo: condividere le mie conoscenze cercando di mostrare loro come lo faccio visto che magari a casa o in studio cercano di riproporre le mie tecniche: perché non mostrargliele dal vivo? Purtroppo alcuni musicisti sono riusciti a rovinare l’aspetto didattico relativo alle clinic, alle volte si sono proposti musicisti che non avevano fatto nessun disco o suonato per niente dal vivo, perché allora far tutto questo? Per autoincensarsi celebrando chi o che cosa? Io voglio
"Amo questo
strumento
altrimenti
non sarei qui" portare on stage la mia esperienza di cinquant’anni ai musicisti giovani o più attempati che si avvicinano a me, trasmettere il mio sapere in maniera spontanea e naturale.” Continuo a pensare che musicisti del suo spessore con una carriera costellata di successi possa in qualche modo trovarsi non a proprio agio in situazioni dove il palco è composto da quattro assi senza quasi lo spazio per montare una batteria “Mi piace veramente tanto il contatto con la gente, esibirsi su palchi piccoli come quello di questa sera non rappresenta e mai ha rappresentato un problema. Anzi, quando cominciai mi trovai a suonare su palchi ancora più piccoli, nei locali non c’era neanche una stanzetta dove cambiarsi. Era ed è naturale trovarsi così a contatto
come se fosse una chitarra, altri quasi come un contrabbasso….io cerco di rimanere nel mezzo. Amo questo strumento altrimenti non sarei qui, preferisco pensare al basso come un semplice strumento di accompagnamento ma a volte tendo ad unire queste due caratteristiche, bisogna ammettere che il basso e la chitarra sono strumenti simili, hanno le stesse note no? L’evoluzione del basso è stata qualcosa di impressionante se pensiamo appunto che non ha neanche settant’anni di vita, ci sono centinaia di musicisti che lo interpretano ognuno a modo loro, ci sono tantissimi stili diversi. In ogni genere musicale si ha un utilizzo diverso ma proprio questo lo rende unico, affascinante, con un cammino in parte tutto da scrivere.” Normalmente, forse perché assuefatti ai tanti guitar heroes, si è soliti prestare moltissima attenzione a come anche i bassisti siano capaci di utilizzare la mano sinistra, o
con il pubblico con il quale scambi due chiacchiere bevendoti una birra prima e dopo esser salito sul palco. Nelle band dove suono non c’è mai stata una linea di demarcazione tra la band ed il nostro pubblico. Anche adesso certo viviamo forzatamente circondati da personale della sicurezza, abbiamo delle belle dressing room, il backstage ma tutto ciò non mi impedisce alla fine del concerto di star fuori dal tour bus o in situazioni analoghe che mi permettono di entrare in contatto con il pubblico. Realmente, senza ipocrisia loro sono la cosa più importante per noi, ogni cosa che possediamo a livello materiale o in senso lato lo dobbiamo a loro, a loro soltanto. Può essere che qualcun altro faccia queste cose per altri motivi, io lo faccio perché mi piace. Quanto è bello il contatto con il pubblico?” Nel suo essere musicista Sheehan cerca di trasmettere qualcosa, le sue tecniche, spunti per altri musicisti che come lui si sono appassionati ad uno strumento che ha una storia relativamente recente essendo stato brevettato da Leo Fender nel 1952, una storia giovane non comparabile con quella ad esempio del violino, un percorso storico la cui evoluzione è ancora in parte da scrivere “È una storia affascinante quella del basso elettrico, uno strumento che può ancora evolversi tanto. Ci sono musicisti che lo suonano
comunque la mano che gli permette di andare su e giù dal manico a suon di scale ipertecniche dimenticandosi che l’altra mano, quella che dolcemente o brutalmente tocca le corde sia forse il reale motore che guida tutto il resto: “La mano destra, o sinistra se tu sei mancino, è la parte più importante, è quella che ti fa suonare, che ti fa fermare, in una parola: quel particolare che ti permette di suonare. Certo, entrambe le mani sono correlate, è fisiologico e logico che sia così ma ciò non toglie che senza la mano destra tutto il resto non sia possibile. Non faccio caso a queste cose quando vedo qualche altro musicista che suona perché tutto deve essere armonico, una cosa conseguenza dell’altra: prendi ad esempio un pianista, con una mano detta il tempo, con l’altra la melodia…le metti insieme e comincia la magia.”
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I finlandesi Shiraz Lane sono senza alcun dubbio tra le band più interessanti usciti sulla nuova scena hard rock scandinava. Già apprezzati in studio, hanno confermato il loro valore anche in chiave live, riscaldando a dovere il pubblico anche nel recente tour europeo dei Lordi. Un’occasione ottima per approfondirne la conoscenza e addentrarci a fondo nell’universo Shiraz Lane. L’occasione è la data ad Dagda di Borgo Priolo (PV), al locale ci accolgono il cantante Hannes ed il chitarrista Miki pronti e vogliosi di fare due chiacchiere. Dopo i convenevoli andiamo subito a familiarizzare chiedendo loro se quando sono venuti in Italia, hanno avuto tempo per visitare qualche città “si abbiamo avuto un po’ di tempo e siamo andati a Milano a visitare il Duomo, che è splendido, sia a livello architettonico e penso che sia molto antico” ci dice Miki. Viene spontaneo domandar loro se conoscono gli Steelheart? Mike, il cantante è venuto recentemente in Italia ed un amico l’ha portato a visitare il Duomo. Dopo la visita Mike ha preso una chitarra ed ha iniziato a suonare nella piazza davanti.
“quello di suonare in una chiesa è sempre stato uno dei miei sogni -afferma Hannes- spero di realizzarlo prima o poi”. Dopo due chiacchiere introduttive andiamo a conoscere meglio la band per sapere che “tutto è partito nel 2010 io -il microfono è saldamente in mano a Hannes- ed Ana, il batterista avevamo voglia di mettere su una band, quindi
abbiamo cercato gli altri membri. Non sapevo bene che musica sarei andato a fare, ne ascolto ed amo molta. Abbiamo trovato Miki grazie ad un annuncio su internet, prima c’era un altro chitarrista, per la verità due prima di Jani e c’era un altro bassista. Abbiamo provato con i musicisti ma abbiamo dovuto
cambiare la line-up perché non ci sentivamo a nostro agio. Jani è entrato nella band due settimane prima della prima esibizione e lì c’era ancora il nostro primo bassista. E’ stato con noi per quattro anni ma non andavamo completamente d’accordo… eravamo come quattro con-
tro uno quando bisogna essere tutti e cinque d’accordo per poter andare avanti. Ha quindi lasciato la band nel 2014 ed è lì che abbiamo cercato e trovato Joel il nostro attuale bassista. Con lui abbiamo partecipato all’Hard Rock Rising vincendolo. Quando Joel è entrato nella band ci è sembrato che tutto stesse per andare per il verso giusto, lui era il quinto pezzo del puzzle.
Adesso eravamo cinque ragazzi con la stessa voglia e gli stessi desideri” viene spontaneo chiedere se questo è il loro unico lavoro “attualmente è la nostra unica occupazione, ogni tanto facciamo qualche altro lavoretto, ma ci stiamo dedicando completamente alla musica. La situazione in Finlandia è come da voi in Italia” gli ho accennato come funziona “e tutti dobbiamo pagare le bollette. Ci vuole tempo per arrivare a quel livello che ti permette di mantenerti con la musica. Ci siamo dati una scadenza di un paio di anni per vedere cosa riusciamo a fare. Stiamo facendo musica, registrando, andando in tour. Questo è il nostro piano A, non abbiamo un piano B. questi siamo noi, questa è la nostra vita, questo è quello per il quale viviamo” Cambiando un pochino discorso gli chiedo il significato del nome della band “per noi significa il viaggio della vita. Crediamo che nella vita non sia importante la destinazione, perché tutti sappiamo che dobbiamo morire, quindi l’importante è il viaggio. Dobbiamo divertirci perché la vita è bella. Abbiamo una media
Metal Hammer incontra i finlandesi shiraz lane dopo il sorprendente disco d'esordio!
di Andrea Lami Foto di Alice Ferrero
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di ottant’anni di vita, dobbiamo star bene ogni secondo della nostra vita. Non c’è nulla di garantito, devi lavorare per guadagnarti le cose che ti piacciono. Devi fare quello che ti piace. Ti piace fare musica, fallo. Ti piace scrivere libri. fallo. Ti piace lavorare al McDonalds, fallo. Il significato vero del nome sarebbe ‘strada di vita.’” Torniamo a parlare del loro disco di esordio, inciso per la Frontiers “ci piace molto il lavoro che ha fatto la nostra etichetta, ci hanno lasciato la libertà per fare quello che preferiamo. Non ci hanno suggerito di fare una cosa piuttosto che un’altra. Siamo molto soddisfatti ed onorati di lavorare con loro anche perché loro lavorano con band di prima grandezza come Journey Whitesnake Def Leppard e mille altri come gli Steelheard di cui parlavamo prima. Sto aspettando il nuovo album. Sarebbe bella una quarta edizione del FRF con Steelheart e noi, visto che voglio conoscere Mike” nell’edizione scorsa avete incontrato qualche musicista o fan particolare “abbiamo incontrato molti grandi musicisti affermati e c’erano anche i nostri amici The Treatment, una grande band, belle persone con cui far festa dopo il concerto. Sono venuti al nostro hotel ed abbiamo fatto festa insieme” band che anche noi conosciamo bene avendoli visti più volte in tour. Spostiamo un attimo il discorso sulla musica che vi ha ispirato, che ascoltate e che componete “noi ascoltiamo un po’ di tutto, ci piace ascolta-
re tutti i generi musicali, non solo quello che noi stessi proponiamo. Se noi ascoltassimo solo hard rock, credo che diventeremmo noiosi. Cosa che non vogliamo essere. Noi vogliamo essere dinamici e vogliamo esprimere diverse emozioni, un po’ come guardare tanti colori differenti. Si, è proprio come se un pittore usasse un colore solo, sarebbe molto noioso. Noi vogliamo fare un viaggio emozionale, proprio come l’ottovolante, su e giù” invece per quanto riguarda la composizione “le canzoni nascono in molti modi, dipende.
"Stiamo facendo musica, registrando, andando in tour. Questo è il nostro piano A, non abbiamo un piano B. questi siamo noi, questa e' la nostra vita, questo e' quello per il quale viviamo" Qualche volta ho una melodia, altre volte un riff ma la cosa comune è che ci lavoriamo tutti insieme. A dire la verità la cosa che ci capita di fare più volte è una jam tutti insieme in maniera naturale anche perché noi ci conosciamo bene e sappiamo le direzioni da prendere, poi riascoltiamo quello che abbiamo fatto, togliamo le parti poco interessanti e lavoriamo sulle altre” Hannes continua a raccontarci che “è difficile scegliere cosa preferiamo tra comporre le canzoni o andare in tour. Ci piacciono entrambe le situazioni anche perché senza una non esisterebbe l’altra. Non riesco a sceglierne una. A casa sei solo con te stesso e con la band a comporre, mentre quando sei in tour ci sono le vibrazioni ed il feedback che il pubblico ti da” Attualmente state lavorando a nuovo materiale “anche quando siamo in tour
lavoriamo a qualcosa di nuovo. Io ho il mio smartphone sul quale registro le idee che mi vengono, nel tourbus abbiamo due chitarre acustiche con le quali jammiamo durante gli spostamenti. Per esempio questa sera dovremmo fare 2.008 km per arrivare in Dublino e quindi avremmo molto tempo.” Visto che Hannes continua ad avere il monopolio del microfono gli faccio notare la somiglianza della sua voce con quella di Justin Hawkins cantante-chitarrista dei The Darkness “io amo la musica dei The Darkness. La prima volta che io ho cantato è stata nel 2009, ancora prima della nascita degli Shiraz Lane. In pratica ho sempre fatto a modo mio, ho anche avuto alcuni vocal coach ma non mi sono trovato bene e la cosa è finita lì. Adesso, quando tornerò in Finlandia, andrò a lezione da Mr. Lordi. Penso che lui possa
essere la persona giusta per me, anche perché io ho bisogno di un vocal coach. Ma ho bisogno di qualcuno che mi capisca e con il quale nasca un certo feeling” l’ultima domanda la pongo a Miki che è stato attento ed ha partecipato solo confermando a gesti le cose dette dal suo cantante chiedendogli dei suoi gusti musicali “io amo Mark Knopfler dei Dire Straits perché ha un modo unico di suonare. Molto personale. Riconoscibile. A mio parere Knopfler ha fatto così tanto in maniera così semplice” in questo momento torna Hannas a confermare l’idea di Miki aggiungendo “i Dire Straits piacciono molto anche a me, c’è una canzone che si chiama ‘Telegraph Road’ che è proprio come dicevamo prima, una sorta di ottovolante con una parte di piano davvero splendida.”
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osofia: nel 'Terrorismo, alcol, droga e fil Italia la condividere con Metal Hammer ltendahl sua visione della vita, Chris Bo tarci i trova anche il tempo di raccon dei suoi retroscena del diciottesimo album Grave Digger.
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COVER STOR
Healed by metal Trentasette anni di carriera, diciassette album pubblicati, un esercito di fan sparsi per tutto il globo. Signore e signori, vi presentiamo i Grave Digger, uno dei capisaldi della scena tedesca, ferventi predicatori del Verbo metallico di stampo più classico. È il frontman della band, Chris Boltendahl, a raccontarci la genesi del loro ultimo capitolo discografico: “La storia che sta dietro a questo album comincia due anni fa, durante un nostro concerto a Mosca. Partecipammo a questo festival all’aperto, una cosa lunga, dieci ore di metal a nastro, un gran casino per tutto il giorno. La location era un anfiteatro che si trovava accanto a un ospedale; mi ricordo che stavo nel backstage con il
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nostro tour manager. Gli dico: ‘Mi dispiace per i pazienti che oltre ad essere ricoverati devono sorbirsi tutto questo macello, saranno diventati tutti sordi!’. Lui si gira, mi fissa e mi fa: ‘Guardala dal lato positivo: adesso potranno essere curati dal metal!’. Questa sua risposta mi piacque talmente tanto che mi ha ispirato subito la linea melodica per ‘Healed By Metal’. Mi sono incontrato col resto della band in sala prove e abbiamo fatto qualcosa che non facevamo dai tempi di ‘Tunes Of War’: sederci vicini e scrivere tutti insieme. Penso che questa sinergia, questa forte collaborazione tra noi, abbia reso i brani del nuovo album incredibilmente adatti ad essere suonati dal vivo. È stato bello
di Alessandra Mazzarella
ripetere oggi un’esperienza di vent’anni fa, ci ha fatti sentire da dio”. Il titolo del nuovo album, ‘Healed By Metal’, vuole promuovere gli effetti salvifici e benefici che la musica ha sulle persone. Chris crede profondamente nell’azione sanatrice del metal: “È un dato di fatto. Per quanto sembri un triste cliché, “Healed By Metal” non è soltanto una frase fatta che potrebbe uscire dalla bocca di qualunque defender; credo che una delle funzioni del metal sia proprio quella di migliorare la qualità della vita delle persone. Quando ero un ragazzino non facevo altro che litigare con i miei genitori per come portavo i capelli e per i vestiti che indossavo. Andavo nella mia stanza, mi chiudevo dentro, mettevo
su un po’ di Kiss o di Judas Priest e mi sentivo subito meglio. Io sono fermamente convinto che il metal possa guarire le persone, sia a livello fisico, sia a livello psicologico, per questo mi impegno ad offrire al mondo questa medicina portentosa”. Purtroppo, sin dalla nascita del metal, i dissidenti non sono mai mancati, e ancora oggi gli estimatori del genere vengono guardati con sospetto: “Il metal ha un’influenza molto forte sulle persone. Se te ne innamori da giovane, finisci per amarlo tutta la vita. Quando qualche genitore preoccupato viene a chiedermi che accidenti ci trovo nel metal io rispondo che, alla fin fine, è una musica calma e pacifica. Sì, certo, è più reboante e rumorosa del pop ma basta andare a un qualunque festival per rendersi conto di come in realtà il metal ci renda tutti sereni e pacifici. Penso che Wacken, che è uno degli eventi più importanti del nostro business, sia un esempio lampante che avvalora la mia teoria. La gente non litiga, non c’è guerra, non c’è discordia, solo una marea di persone che si godono dell’ottima musica insieme. Io ho un bambino di dieci anni e nonostante sia ancora piccolo è già un grande fan della musica heavy. A scuola il suo insegnante di musica gli ha chiesto perché ascoltasse certe cose e lui ha risposto che il metal è ciò che lo fa stare bene, che lo rende felice e non gli importa cosa va di moda o cosa piace ai suoi amici, lui continuerà ad ascoltare quello che preferisce” commenta Chris con una punta di orgoglio. Ma ci tiene a precisare una cosa: “Non ho influenzato mio figlio in alcun modo, non direttamente almeno, lo giuro. Lui ha visto con i suoi occhi quanto il metal sia importante per me e come mi fa sentire e ha scelto di fare lo stesso percorso”. Durante i primi anni della band in molti hanno puntato il dito contro i contenuti militaristici che i Grave Digger sfruttavano per scrivere i loro testi; al giorno d’oggi ci sono band che sui testi a base di storie di guerra hanno costruito un’immensa fortuna, e Chris non sa da cosa derivi questa disparità: “Non ne ho la più pallida idea, davvero. Noi scrivevamo di storia, con riferimenti al Medioevo e
discografia dei Grave Digger Scelti dalla redazione pt.2 Tunes Of War
‘Tunes Of War’ è il settimo album dei Grave Digger e il primo della loro trilogia medievale. Pubblicato nell’estate del 1996, il fulcro di questo concept è la lotta degli scozzesi per l’indipendenza dall’Inghilterra vista attraverso figure ed episodi storici salienti: William Wallace, uno dei più famosi leader della guerra d’indipendenza scozzese, Maria Stuarda, sovrana di Scozia, e Giacomo sesto e primo, re di Scozia e unificatore del Regno Unito. Il lasso di tempo coperto da ‘Tunes Of War’ va dall’undicesimo secolo, epoca delle lotte tra clan, al diciottesimo, tempo della rivolta giacobina.
Knights Of The Cross
‘Knights Of The Cross’ è il secondo capitolo della trilogia medievale dei Grave Digger. Come si può facilmente intuire dal titolo, l’album ruota intorno alle Crociate e ad alcuni dei personaggi più influenti del periodo che corre tra il dodicesimo e e il quattordicesimo secolo, con un focus particolare sulle figure di re Riccardo I, detto Cuordileone, Rashid ad-Din Sinan, celeberrimo comandante degli Assassini, e sui Templari. Di questi ultimi vengono narrate luci e ombre, ascesa e declino, dalle accuse di eresia all’esecuzione capitale di Jacques de Molay, ultimo Gran Maestro dell’Ordine e protagonista di numerose leggende.
lla band “Mi sono incontrato col resto de cosa che al qu o tt fa o am bi ab e e ov pr la sa in r’: a W Of es un ‘T di pi m te i da o m va ce fa n no .” e em si in i tt tu re ve ri sc e i in vic i rc de se METALHAMMER.IT 29
“credo che una delle funzioni del metal sia proprio quella di migliorare “ e. on rs pe lle de ta vi a ll de à lit a la qu ad eventi legati alla Scozia e sì, ci hanno puntato il dito contro parecchie volte. Non abbiamo mai menzionato apertamente guerre specifiche della storia contemporanea, men che meno la Seconda Guerra Mondiale. Non nascondo però che qualche spunto lo abbiamo sfruttato, come è stato fatto per questo nuovo album: c’è una canzone, ‘When Night Falls’ che parla di due innamorati prigionieri in un campo di concentramento, dove finiranno per morire entrambi. L’attenzione non deve spostarsi sul contesto però, la storia è incentrata sui due giovani e su come l’amore non possa essere scalfito né dalla morte né dalle peggiori avversità. È una canzone triste ma credo contenga un messaggio
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estremamente positivo”. Se si parla di guerra e musica il confronto ideologico con i Sabaton è inevitabile: “Ci saranno sicuramente ragioni di mercato che rendono i Sabaton più appetibili di noi. Che devo dire? Va bene così. Tutti quanti lavoriamo tantissimo sulla nostra musica ed è bello quando si ottiene un gran successo. I ragazzi dei Sabaton sono dei gran lavoratori e sono sempre in giro, li ammiro per questo perché io non riuscirei a stare in tour quanto ci stanno loro, ho una famiglia con cui voglio passare del tempo e non me lo lascerò sottrarre da certi impegni; mio figlio è la mia priorità, voglio esserci sempre per lui e stare al suo fianco. D’altro canto mi sento di dire che i Grave
Digger sono in giro da qualche anno in più dei Sabaton, vedremo a che punto saranno quando arriveranno ad avere sulle spalle gli stessi decenni che abbiamo noi!”. I Grave Digger vengono spesso etichettati come ‘concept band’, vista l’ingente quantità di concept album da loro pubblicati ben prima che cimentarsi con simili lavori diventasse uno step quasi obbligatorio per moltissimi artisti. Chiediamo dunque a Chris i titoli di qualche concept album, al di fuori di quelli che portano la sua firma, che abbiano un posto speciale nella sua collezione: “Così a bruciapelo farei i nomi di ‘Operation: Mindcrime’ e ‘The Wall’, sono due concept album grandiosi. La storia d’amore dei Grave Digger con
discografia dei Grave Digger Scelti dalla redazione pt.2 Excalibur
A concludere la trilogia medievale dei Grave Digger, troviamo ‘Excalibur’, album pubblicato nel settembre del 1999. Le storie raccontate sono quelle di Re Artù e i suoi mitici cavalieri della tavola rotonda e delle loro avventure al crocevia tra la realtà e la leggenda. Per i cori di ‘Excalibur’ i Grave Digger si sono avvalsi di ospiti stellari: Piet Sielck (Iron Savior), Hansi Kürsch (Blind Guardian) e Hacky Hackmann, corista di alto calibro che ha prestato la sua voce negli album di Blind Guardian, Gamma Ray, Hammerfall, Helloween, Iced Earth, Rage e Saxon.
Rheingold
‘Rheingold’, undicesimo album in studio dei Grave Digger, è basato sul primo dei quattro cicli del dramma musicale ‘L’Anello Del Nibelungo’ di Richard Wagner. I testi delle canzoni di ‘Rheingold’ sono perlopiù traduzioni e parafrasi del lavoro di Wagner e, anche melodicamente parlando, i riferimenti sono molteplici: il più palese è sicuramente quello contenuto nell’introduzione di ‘Dragon’, nel quale viene ripreso il tema de ‘Lo Squillo Di Sigfrido’.
questo genere di prodotto risale ai tempi di ‘Tunes Of War’: quell’album vendette così tanto che l’etichetta ci supplicò di scrivere un altro concept, quindi tirammo fuori ‘Knights Of The Cross’; ne vollero un altro e quindi ce ne uscimmo con ‘Excalibur’ e così via, finché non mi sono scocciato di scrivere album monotematici. Adesso sono molto contento di scrivere canzoni senza dover rispettare un tema fisso, così posso mettere in musica tutto quello che mi passa per la testa e mi diverto tantissimo. Sono libero, libero come un uccellino!”. Chris è l’unico membro originale dei Grave Digger ad essere rimasto fino ai
il e ch to in nv co te en am rm fe no so “Io metal possa guarire le persone, sia ico, a livello fisico, sia a livello psicolog per questo mi impegno ad offrire al ” mondo questa medicina portentosa METALHAMMER.IT 31
giorni nostri: “È una bella sensazione, sono l’ultimo rimasto e ho vissuto tutta la storia dei Grave Digger in prima persona, senza interruzioni di sorta. In questa fase della band c’è un’atmosfera piacevole, un fantastico spirito di gruppo. Siamo vecchi, abbiamo imparato quello che c’era da imparare e ci trattiamo a vicenda col massimo rispetto”. E parlando di come ciò che ha imparato nel corso degli anni influisca sul suo modo di vivere, Chris condivide la filosofia con cui affronta questi tempi così carichi di paura e diffidenza: “La vita è troppo breve per passarla a lamentarsi. Non posso starmene tutto il tempo a rim-
i Grave Digger sono in giro da qualche anno in più dei Sabaton, vedremo a che punto saranno quando arriveranno ad avere sulle spalle gli stessi decenni che abbiamo noi! brottarmi per gli attacchi terroristici e tutte le altre cose terrificanti che vediamo in televisione. Voglio andare ai mercatini di Natale, voglio prendere l’aereo, voglio girare il mondo. Certo, ormai devo convivere con una certa percentuale di paura che ha messo le radici nella mia testa, ma tutta la bellezza e le esperienze meravigliose che ci aspettano fuori da casa nostra valgono la pena di correre qualche rischio. Purtroppo se il tuo destino è quello di morire in un attacco terroristico non potrai fare niente per evitarlo, c’è una forza più grande di qualunque cosa dietro ad ogni evento che segna la nostra vita. Cerco di godermi quello che viene; se vivi con il terrore dell’ineluttabile finisci per non uscire più di casa, e questo è inaccettabile. Se dovesse succedere a me, di morire su un aereo, su un treno, in un mercatino, me ne andrei senza un singolo rimpianto. Sono Chris Bolten-
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dahl dei Grave Digger, ho avuto una vita piena di successi e soddisfazioni e se la mia vita deve finire in quel modo, pace, va bene così. Sono una persona in pace col proprio passato, contenta del presente e con un’immensa fiducia nel futuro”. Con trentasei anni di carriera alle spalle, viene spontaneo chiedere a Chris se abbia qualche rimpianto, o qualche traguardo prefissato e non raggiunto, ma lui ci serve un’altra dose di positività: “Se si continua a pretendere sempre di più si finisce col non raggiungere nessun obiettivo e stagnare nell’insoddisfazione più totale. Ho suonato a Wacken, ho girato il mondo, ho pubblicato diciotto album, ci sono schiere di persone che adorano me e la band, non pretendo altro, sono fin troppo contento così. È inutile guardare ciò che hanno gli altri, i numeri delle vendite di album, merchandising e biglietti di concerti, porta solo a vivere male un’esperienza che
non è concessa quasi a nessuno. E che i Sabaton facciano pure centinaia di migliaia di presenze ai loro concerti, buon per loro e va bene così. Io ho avuto tutto quello che potevo desiderare e anche di più!”. Nel 2000, in nome della sua attitudine positiva e di uno stile di vita votato all’assorbimento di tutto ciò che il mondo ha da offrire, Chris ha deciso di perdere un paio di vizi che lo ostacolavano in maniera non indifferente: “Dare un taglio netto ad alcol e erba è stata una delle migliori decisioni della mia vita. È vero che tutti i miei più grandi successi dal punto di vista musicale sono stati scritti sotto l’influenza di qualche sostanza psicotropa ma fare a meno di questa robaccia mi fa stare meglio. Sono più lucido, più attento, più pronto a cogliere tutto ciò che l’esistenza ha di bello da offrirmi. Gli ultimi diciassette anni, passati senza bere e fumare, sono stati i migliori della mia vita”.
STORY di Andrea Schwarz Thrash Metal, una parola ed un genere musicale che per il sottoscritto come per tantissime altre persone sparse per il globo ha rappresentato parte dei sogni musicali giovanili ma che ancora oggi, pur non essendo un genere considerato ‘alla moda’, ha un fascino tutto suo, particolare, quasi magnetico. Solitamente quando si pensa al thrash è inevitabile pensare ai grandi ensemble che ne hanno segnato il proprio percorso creativo soprattutto negli anni ottanta quando contendeva lo scettro ad altri generi come il glam ad esempio (si ricordano ancora oggi le divisioni nei vari gruppi giovanili tra i cosiddetti thrashers ed i glamsters ma questa è una storia che, semmai, racconteremo in un altro contesto). Dicevamo che è facile pensare a bands come Metallica, Megadeth, Exodus, Testament, Anthrax nel momento in cui ci si avvicina
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a queste sonorità ma per quanto sia necessario avere dei massimi di eccellenza rappresentati appunto dalle bands sopra citate, al tempo stesso un movimento è caratterizzato da tantissime altre bands che intorno a quelle consolidate realtà musicali hanno saputo costruire qualcosa di valido senza raggiungerne i picchi creativi. Spesso e volentieri affinché possano affermarsi le cosiddette eccellenze, è quasi d’obbligo che altre bands più ‘operaie’ e derivative dicano la loro dando lustro ad un movimento che in alcuni frangenti prende anche una piega per così dire culturale. A tal proposito quindi vengono in mente gruppi come i Laaz Rockit, i Defiance, i Vio-lence di Rob Flynn che rivedremo anni dopo nei Machine Head, i Forbidden, i Sacred Reich, gli Heathen e moltissimi altri. Di queste ed altre bands se ne sono perse le tracce, solamente i Sacred Reich sono riusciti dopo alcuni split
seguiti ad altrettante reunion a suonare ancora nel 2017 (a tal proposito ricordiamo una toccante e spettacolare esibizione lo scorso luglio 2016 al Fosch Fest), i Forbidden hanno provato con alterne fortune fino al 2010 con il loro ultimo studio album ‘Omega Wave’ ma non sono bastati dischi al di sopra della media ed una voce assolutamente fantastica di Russ Anderson a farli sopravvivere in un music business a dir poco cannibalesco. Nella schiera sopra citata abbiamo incluso anche gli Heathen di Lee Altus e David White. Si formano nel lontano 1984 per opera del chitarrista Lee Altus ed il drummer Carl Sacco, anche senza un bassista (nelle cui fila arrivò per un breve periodo Jim Sanguinetti prima di andare a
formare i Mordred, rimpiazzato da Doug Piercy) suonano un’inedita gig nell’aprile del 1985, due anni prima che venisse alla luce il loro debut album ‘Breaking The Silence’. Il vocalist di quel periodo, Sam Kress, si dimostrò più un valido songwriter piuttosto che un buon cantante e quindi la storia fu segnata: fu rimpiazzato verso fine 1985 da David Godfrey dei Blind Illusion seguita a distanza di pochi mesi dal bassista Eric Wong. Sistemata così la line up cominciarono la solita trafila che miriade di bands di quell’epoca avevano da seguire: suonare, suonare, suonare cercando una propria amalgama ed identità fino a registrare il loro debutto nel 1987 con Roadrunner, un disco dove su ritmiche marcatamente thrash
intarsiano alcune splendide melodie vocali come avviene ad esempio nella speedy e trionfante ‘Death By Hanging’. Altre tracce degne di nota sono la lunga suite ‘Open The Grave’, il brano più heavy dell’intero lotto mentre ‘Pray For Death’ è un altro stupendo esempio di speedy/ thrash con all’interno una forte critica per le spese militari (consideriamo che l’album venne realizzato verso la fine della cosiddetta Guerra Fredda) e la religione vista come ‘sistema organizzato’. Fu un album veramente ben riuscito al quale purtroppo seguì la dipartita di Carl Sacco (rimpiazzato da Darren Minter) prima di imbarcarsi nel loro primo Us tour del 1988 dopo il quale Godfrey lasciò la band: al suo posto arrivò un ‘certo’ David Wayne (Metal Church) ma la sua avventura con gli Heathen durò purtroppo pochissimo prima che Godfrey tornasse alla ‘casa madre’. Fu così che il gruppo pianificò il prossimo full lenght durante il 1990, album che non vide la luce per problemi economici ma il cui materiale, ad eccezione del brano ‘Nothing You Can See’ venne realizzato l’anno successivo con ‘Victims Of Deception’ (1991), uno di quei dischi thrash che ancora oggi brillano per intensità e potenza nonostante lo stile non si possa dire fosse totalmente originale. Fin dall’opener ‘Hypnotized’ con il suo intro semi-acustico e la sua irruenza è un classico del thrash bay area, la voce di Godfrey spicca nelle sue alte tonalità mentre è un continuo rincorrersi tra fulminanti chitarre ed una possente cavalcata di batteria, a seguire ‘Opiate The Masses’ dal killer riff, una frustrata che dimostra il grande talento
di Lee Altus. La produzione migliora sensibilmente andando a posizionarsi sullo standard del genere, è un cd che mischia intricati riff con melodie vocali pulite assolutamente al top: se siete amanti del thrash non potrete
Titans nell’agosto del 2001 con la seguente line up: David White (sempre Godfrey ma con altro nome), Lee Altus, Ira Black, Mike ‘Yaz’ Jastremski, Darren Minter, reunion che portò a registrare alcune cover per un intero album intitolato
prescindere dal suo ascolto. Purtroppo i riscontri di vendite non furono assolutamente degne di nota, si era nel pieno dell’era grunge e quindi l’attenzione dei media e del pubblico era rivolto verso altri lidi, situazione che
obbligò la Roadrunner a scaricarli per rincorrere le mode del momento. Fu così che la band si sciolse, Lee Altus / Darren Minter e Doug Piercy emigrarono in Germania dove i primi due si unirono ai Die Krupps mentre Piercy cominciò una carriera come pilota di macchine da corsa. Dopo anni di oblio gli Heathen si riformarono per suonare al Thrash Of the
semplicemente ‘Recovered’ unitamente ad alcune versioni demo di songs dell’epoca di ‘Victims Of Deception’. Il loro trademark fatto di high-speed thrash metal unite ad alcune interessantissime armonizzazioni strumentali della coppia d’asce Lee Altus - Ira Black è nuovamente presente anche se non si tratta di un vero e proprio come back, questo lo si avrà nel successivo ‘The Evolution Of Chaos’ pubblicato nel 2010. Ancora una volta il trademark della band rimane inalterato, anzi il risultato è ampiamente superiore a quanto fatto in passato grazie ad una produzione che ne esalta le caratteristiche
peculiari. Certo non un lavoro originale ma la classe del songwriting di Altus rimane assolutamente di prim’ordine, a coadiuvare il suo estro Kragen Lum dei Prototype: entrambi li troviamo oggi negli Exodus (Lum al posto di Gary Holt in sede live). Gli Heathen ci propongono un’altra gemma thrash, un salto nel passato grazie ad un esplosivo mix di vocals aggressive e pulite unite ad uno spettacolare lavoro di chitarre che pochi altri nel loro genere si possono permettere. ‘Dying Season’, ‘Control by Chaos’, ‘Bloodkult’ e ‘Silent Nothingness’ (una ballad malinconica dal vago sapore a là ‘Fade To Black’ / ‘One) i brani migliori del lotto che fanno sobbalzare tutti gli amanti dello speed/ thrash metal, un autentico must. E poi? E poi ancora anni di oblio nei quali Altus si è concentrato sugli Exodus senza dimenticarsi degli Heathen che oggi si trovano ad avere un contratto con Nuclear Blast ed un nuovo album previsto in uscita nei prossimi mesi. Un’altra ghiotta occasione per rispolverare una risicata discografia frutto di una carriera molto travagliata, frutto di problemi di stabilità interna e di un mercato discografico che non fa sconti a nessuno. Chissà che oggi, forti del contratto con una delle etichette migliori dell’intero panorama metal, possano deliziare le orecchie ed i palati di tanti headbangers incalliti che non aspettano altro che ascoltare del buon, sano thrash, senza se e senza ma. Ai posteri l’ardua sentenza, per ora rituffiamoci nel passato per scoprire chi è riuscito, lontano dai riflettori, a produrre della musica che non ha ancora il suo grande fascino.
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I Kreator tornano a calcare le scene con un album tellurico, intenso, dinamico dal titolo ‘Gods Of Violence’ dopo ben cinque anni dal precedente ‘Phantom Antichrist’ e che vede la band tedesca ancora una volta sugli scudi, mai doma e lungi dal lasciare lo scettro nell’Olimpo dei grandi del thrash metal alle nuove generazioni di thrashers.
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a z n e l o i V a l l e Gli Dei d di Andre Schwarz
Cronaca di una tranquilla serata in attesa di una band che ha appena sfornato un nuovo disco in attesa di essere dato in pasto ai propri fans. Prendo il pc e mi collego con Skype, fuori fa un freddo becco, non oso immaginare quanto freddo possa fare in Germania da dove il mio interlocutore di turno mi chiamerà. Fortuna che Skype (così come i telefoni e tutti gli ausili che oggi abbiamo in dote dalla tecnologia) non ci fanno pervenire le condizioni climatiche delle persone con le quali ci mettiamo in contatto, considerando che siamo in pieno inverno direi che mi è andata abbastanza bene. Mi aspetto dall’altro capo colui che dei Kreator fin dagli inizi è stato il mastermind, colui che ha da sempre catalizzato l’attenzione di fans e media: Herr Mille Petrozza. Sarà per via della sua modalità gentile di rapportar-
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si, sarà per via delle sue origini italiane (lo so, parlo io che ho il cognome tedesco…..) ma mi aspetto di sentire il suo timbro di voce ed invece…..a rispondere è una voce più sottile che però sprizza entusiasmo da ogni parola che proferisce a dispetto delle sue origini finlandesi: Mr Sami Yli-Sanlo, con la band dal lontano 2001. Ed è grazie alla sua simpatia contagiosa che non c’è stata nessuna incertezza ed, anzi, ha dato un entusiasmo diverso alla nostra conversazione. Ogni tanto è bello trovarsi di fronte a cose inaspettate, sarà lui a condurci nel fantastico mondo dei Kreator, autori di un buonissimo ‘Gods Of Violence’ dove viene fuori un suono molto old style che riporta alla mente il thrash metal degli anni ottanta, a ben cinque anni di distanza dal precedente ‘Phantom Antichrist’, un tempo
davvero infinito nel mondo della musica, un tempo nel quale possono succedere tantissime cose con il rischio che in così tanto tempo il pubblico si possa dimenticare di te. Ma questo non è il caso dei Kreator: “In tutto questo periodo grazie al successo del disco precedente abbiamo suonato tantissimo in giro, abbiamo fatto un po di date che ci hanno portato in giro per il mondo, non abbiamo mai suonato tanto grazie ad un disco: 2 tour negli USA, 3 in Europa per non parlare delle date in Giappone, Asia, Sud America. È stato incredibile! Diciamo che non siamo stati con le mani in mano anche se non siamo la classica band che quando è in tour riesce a comporre o comunque ad abbozzare alcune idee che possano servire nel momento in cui si torni a casa. Noi invece ‘funzioniamo’
Curiosita’: La Dura vita del musicista
Normalmente la gente crede che essere un musicista sia una situazione agiata ma a volte essere in studio è come essere un leone in gabbia oppure essere on the road può risultare noioso: chissà come la vivono loro: “Io mi diverto quando sono in studio, certo è un momento a volte un po’ stressante ma anche gratificante. Essere in tour effettivamente può essere ripetitivo e noioso ma dipende da te la gestione del tempo. Quando ero più giovane devo ammettere che mi divertivo maggiormente ma non che oggi non lo sia più.”
esattamente al contrario, in tour ci concentriamo su quell’aspetto lasciando che le idee vengano fuori mentre siamo nella tranquillità del nostro studio. Forse la prima volta che ci siamo trovati in studio per pensare a quello che è diventato ‘Gods Of Violence’ è stato sul finire del 2014, ad Essen dove ci troviamo adesso per preparare le imminenti date del tour.” Un girovagare continuo grazie ad un album apprezzatissimo forse ogni più rosea aspettativa; “Solitamente è difficile poter prevedere come possa essere accolto un tuo nuovo disco, come musicista spendiamo tutto noi stessi nella sua stesura e realizzazione. Poi una volta che il cd è fuori sei un po’ fuori da queste dinamiche che realmente sfuggono al tuo controllo, non puoi far altro che attendere sperando che la gente apprezzi quello che hai appena creato.
Forse siamo stati fortunati, non saprei ma effettivamente ci ha permesso di poter girovagare moltissimo, speriamo che possa essere così anche oggi. Incrociamo le dita!” ‘Gods Of Violence’ non sarà certo un disco rivoluzionario nella loro discografia ma è stato realizzato tremendamente bene, solitamente si tende a paragonare l’ultimo nato con quanto fatto in precedenza dimenticando che ogni singolo album non è altro che una fotografia di un particolare momento nella vita di qualsiasi band, i Kreator certo non fanno eccezione: “Certamente ‘Gods Of Violence’ è il frutto di un grande momento creativo, ci siamo scambiati tantissime idee così come non immagini neanche quante cose siano state scartate oppure messe da parte a causa di questa grande mole di materiale creato.
frutto di ‘Gods Of Violence’ E’ il eativo...E’ un grande momento cr minciato come se avessimo rico terrotti da dove ci eravamo in o. con il precedente disc METALHAMMER.IT 37
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Abbiamo anche registrato 2 / 3 brani in più che non sono finiti su disco ma che credo che prima o poi realizzeremo. Come avrai notato abbiamo lavorato ancora una volta con Jens Bogren presso i suoi studi in Norvegia, fondamentalmente è come se avessimo ricominciato da dove ci eravamo interrotti con il precedente disco. E non penso che potesse essere diversamente, quando conosci colui che ti accompagnerà in fase di produzione non potrai far altro che migliorare, non devi più passare del tempo (fisiologico) per conoscersi, parti già avvantaggiato da quel punto di vista.” Probabilmente un produttore come Jens Bogren è colui che meglio di ogni altro sia in grado di enfatizzare e mettere in risalto le caratteristiche peculiari dei Kreator: “Assolutamente, il lavoro di un buon produttore è proprio quello di evidenziare le peculiarità di ogni gruppo
ed in questo Bogren è veramente bravo, non ne avevamo dubbi anche per esperienza pregressa. Per questo è un professionista ricercatissimo, ultimamente ha lavorato con Sepultura che trovo molto bello, sta lavorando con i Dimmu Borgir….generalmente registra le tracce di batteria in uno studio poco fuori Stoccolma riuscendo ad ottenere un suono molto aggressivo grazie alla caratteristica acustica di questo studio, il resto lo segue in un altro studio vicinissimo a casa sua: è talmente vicino che può considerarlo il proprio home studio. Ci sono un sacco di chitarre di ogni tipo in ogni angolo, la strumentazione è un giusto mix tra vintage e modernismo sfrenato. Puoi utilizzare Gibson degli anni settanta e compressori degli anni sessanta….incredibile, credimi. Lui sa come utilizzare tutto quel ben di Dio, è un mago nel gestire tutta
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a, cerco di suonare Io sono un chitarrist l brano richiede quello che il pathos de che secondo me oppure aggiungo quello un pezzo. E’ difficile andrebbe aggiunto in nostre influenze che da dirsi, penso che le il thrash metal richiamano alla mente sempre fatto parte siano qualcosa che ha integrante del sound. -Sami Yli-Sirniö
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la strumentazione, nella fase di mixaggio e di masterizzazione ha pochi eguali.” Dal punto di vista del suono e del mixaggio quindi i Kreator si sono avvalsi del migliore in circolazione in questo periodo, non sorprende nessuno la qualità intrinseche di ‘Gods Of Violence’ mentre stupisce la collaborazione dei nostrani Fleshgod Apocalypse nel curare le parti orchestrali dell’intro ‘Apocalypticon’: “Fin dagli inizi avevamo pensato di introdurre l’album con un segmento strumentale e combinazione il titolo era già definito prima che iniziasse la collaborazione con i Fleshgod Apocalypse, è stato un segno del destino. Le partiture orchestrali sono state concepite per il brano da subito ma avevamo bisogno di dargli un taglio più maligno, quasi sinistro, quel tocco che avesse il sapore magniloquente di ‘Star Wars’: Jens ha pensato che i Fleshgod Apocalypse potessero essere gli unici che
potessero aiutarci in questo, gli abbiamo mandato delle versioni demo con un abbozzo di melodia e dopo un paio di settimane ci hanno girato le loro idee facendoci una grande impressione. Forse la versione che senti su disco è la prima che ci hanno inviato, talmente grande è il loro talento. È stato così che sono nate le piccole parti orchestrali presenti anche in ‘World War Now’ e ‘Lion With Eagle Wings’. Siamo soddisfattissimi del loro genio creativo!” Le piccole parti orchestrali che sono state distribui-
te in questi ed altri brani donano una luce diversa al sound generale, quasi come se questo aspetto avesse potuto essere sviluppato in passato dando un’altra dimensione ad una band che avrebbe meritato maggiori riscontri di pubblico: “Per farlo devi avere le capacità altrimenti faresti un buco nell’acqua, potrei lavorarci su anche io ma non sarebbe la stessa cosa. Se trovi le persone giuste con cui provare l’esperimento, allora sì che ne vale la pena e noi siamo stati abbastanza fortunati da trovare musicisti in grado di aiutarci in tal senso. Non ci siamo ancora mai incontrati di persona, la
rete e la nuove tecnologie ci hanno aiutato ma non vedo l’ora di poterli incontrare di persona!” Parlando di nuove tecnologie, sono passati trent’anni da quando i cosiddetti videoclip aiutavano una band ad emergere, oggi anche la band più sconosciuta ne gira uno nel salotto di casa. I Kreator sono di un’altra pasta e ad oggi hanno estratto il video per la title track e per ‘Satan Is Real’, un altro lo stanno girando per formare una trilogia; “Non possiamo parlare di concept album ma abbiamo voluto far qualcosa di diverso nel realizzare i video, giusto per rendere maggiormente interessante il tutto per il nostro pubblico. Diciamo che abbiamo voluto
Curiosita’: l’influenza di Sami Yli-Sirniö La band è originaria della Ruhr, zona della Germania molto industrializzata e grigia, chissà quanto questo possa aver influenzato il sound della band: “Il posto dove sei nato e dove vivi influenza certamente la musica che componi, non può e non potrà mai essere differente. Per me il caso è diverso perché sono finlandese ma probabilmente i posti da dove vengono gli altri membri della band avrà avuto un certo peso nell’economia del sound.” legarli insieme da una storia comune, cioè l’evoluzione di un demone collegato alla mitologia greca che nasce come avviene in ‘Gods Of Violence’, cresce prendendo possesso delle sue facoltà in ‘Satan Is Real’ mentre in ‘Totalitarian Terror’ questo demone viene descritto nella sua forma adulta. Come vedi è un concept che lega i video visivamente, con questo non vuol dire che i Kreator siano diventati satanisti ehe ehe!” Proprio così, i video hanno una loro forma compiuta per un album che vede un gruppo conscio dei propri mezzi forse più di quanto non lo siano stati in passato, producendo un un sound coeso, un buonissimo mix tra parti di chitarra ispirate dal thrash metal anni ‘80 unite ad una produzione moderna ed accattivante grazie al lavoro di Jens Bogren: “Uhm, è sempre difficile per me come musicista riuscire a confutare quello che dici, sono coinvolto in questo processo di composizione ed incisione che mi diventa difficile essere obiettivo. Io sono un chitarrista, cerco di suonare quello che il pathos del brano richiede oppure aggiungo quello che secondo me andrebbe aggiunto in un pezzo. È difficile da dirsi, penso che le nostre influenze che richiamano alla mente il thrash metal siano qualcosa che ha sempre fatto parte integrante del sound. Mi auguro che di volta in volta si riesca a farlo sempre meglio attualizzando il nostro suono senza snaturarlo.” Non sempre è facile riuscire nell’intento ma Petrozza & Co. ci sono riusciti, dimostrando una grande maturità compositiva. E trattando nei loro testi tematiche mai scontate o banali come la religione: “Personalmente posso dirti che quando ero bambino i miei genitori mi mandarono in una scuola cattolica, quegli ambienti dove prima dei pasti o di qualsiasi attività devi alzarti in piedi a pregare. Questo è stato il mio background ma crescendo mi sono un po allontanato da quegli ambienti, forse negli anni settanta credere in una religione poteva avere un suo senso. Ora, vedendo tutti i disastri che la religione causa, mi tengo ancora di più alla larga anche se è un argomento che senza dubbio ci affascina. Forse credo nella magia…..quella che si crea con la musica!”
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Never Give Up
di Andre Schwarz
Ennesima intervista di una giornata molto piena passata a rispondere alle mille domande che giornalisti di tutto il mondo si sono ‘divertiti’ a fare al buon Jeff Waters in occasione della pubblicazione dell’ultima release intitolata ‘Triple Threat’, un clima rilassato che Waters giustifica come “quando fai qualcosa che ti piace e che ti aiuta a pagare le bollette, non risulta faticoso e quindi affronti tutto con uno spirito positivo”. Solitamente nelle foto sessions e nei video sembra avere sempre un piglio ‘se mi fanno arrabbiare vedete come vi sistemo’ ma al telefono questa impavida impressione svanisce come neve al sole fin dal tono della voce, rilassato e loquace. E credete, non sempre capita. Anzi. Ma quando capita, ringraziamo ed approfittiamo dell’occasione
parlando immediatamente del nuovo arrivato in casa Annihilator che farà felici i loro fans trovandosi di fronte a versioni acustiche di alcuni loro classici, una registrazione live dell’esibizione al Bang Your Head Festival del 2016 ed un behind the scenes proprio ripreso dallo stesso festival. “Tutto è cominciato a dicembre del 2015 quando la nostra etichetta discografica mi chiese di poter pubblicare una serie di DVD live ed inizialmente la mia non fu una reazione molto entusiastica perchè non avevo materiale a disposizione, non volevo fare qualcosa di noioso andando a riprendere qualcosa che avevo in archivio giusto per togliermi il pensiero. In maniera molto seria la UDR ha messo sul piatto una seria proposta economica, il che succede molto raramente nel music business attuale, ed allora abbiamo cominciato a studiare come poter mettere insieme delle idee che potessero realmente rendere giustizia al progetto originario. Allora è saltata fuori l’idea di un triplo dvd, il primo appunto live, poi si
è aggiunta l’ipotesi di registrare un piccolo documentario che potesse in qualche modo stuzzicare la curiosità del nostro affezionatissimo pubblico sulla nostra realtà lontano dai riflettori mentre per il terzo dvd si è pensato di prendere alcune delle nostre ballad e canzoni più melodiche proponendo un’insolita quanto inusuale versione: acustica. Ho chiesto ad alcuni amici musicisti di darmi una mano, ecco che sono venuti in soccorso amici come Marc LaFrance e Pat Robillar, quest’ultimo fondamentalmente è un chitarrista rock/blues. E questo è stato un bene perché siamo 5 musicisti che arrivano da esperienze diverse così come lo è il nostro background ma proprio per questo sono convinto che sia stato un bene per la buona riuscita delle sessioni acustiche.” L’esperimento è alquanto interessante, ascoltare brani come ‘Stonewall’ o ‘Snake In The Grass’ è un toccasana, un modo per ridare lustro a canzoni che possiamo considerare come ‘classici’. Donandole nuova vita nella convinzione che una buona canzone è tale
una buona canzone è una buona canzone e non è importante il modo in cui la suoni.
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L’ispirazione per la realizzazione di questi brani acustici ci è venuta guardando un bonus cd di ‘A Different Kind Of Truth’ dei Van Halen quando emoziona in versione elettrica come in quella acustica: “In linea di massima sono d’accordo, anzi devo ammettere che dalle mie parti ci sono anche tanti artisti che si divertono con risultati eccelsi a riprodurre classiche heavy metal ballads in versione country, una buona canzone è una buona canzone e non è importante il modo in cui le suoni. Ci sono ovviamente anche delle eccezioni a questo, ad esempio se prendo un brano come ‘Imperiled Eyes’ non credo che verrebbe bene in versione acustica. Diciamo che il 95% delle volte l’esperimento può riuscire ehe ehe!” I brani acustici qui presentati luccicano di vita nuova, salta all’occhio il ghigno felice di Mr Waters alla fine del suo assolo su ‘Fantastic Things’, segno della soddisfazione nell’aver eseguito egregiamente la canzone stessa le cui riprese sono state eseguite totalmente live: “Devo ammettere che ricordo quel momento che racchiudeva una forte tensione emotiva che mi faceva pensare ‘pfiuuu,
sono una band che sul finire degli anni 80 / inizio anni 90 produssero autentiche perle che si scontrarono purtroppo con un mercato discografico che scopri improvvisamente il grunge. Anche la loro etichetta discografica dell’epoca tentò di convincere Waters ad adeguare il sound della band ricevendo un secco rifiuto. Certamente un momento di svolta fondamentale nel loro percorso che li portò ad essere scaricati, ricominciando da zero con l’album ‘King Of The Kill’: “È stato un momentaccio, è svilente quando ti chiedono di cambiare nome e sound del gruppo dovendo scopiazzare Biohazard / Sepultura / Pantera oppure tutti i gruppi grunge che impazzavano in quel momento….tutto il contrario di quello che do-
finalmente sono riuscito a suonare il pezzo perfettamente senza dover registrare tutto da capo’ ehe ehe! L’ispirazione per la realizzazione di questi brani acustici ci è venuta guardando un bonus cd di ‘A Different Kind Of Truth’ dei Van Halen dove David Lee Roth ed Eddie Van Halen in maniera del tutto rilassata e naturale interpretarono alcuni loro classici dove era palpabile il clima rilassato, invece nel nostro caso nel 95% dei casi abbiamo dovuto mantenere altissima la concentrazione con una grande la tensione nervosa. La maggior parte dei brani sono stati eseguiti e registrati in un paio di volte ma abbiamo penato in 2 casi particolari andando ad inciderle una decina di volte: sono stato io quello che ha sbagliato maggiormente, aha aha!” Guardando la prestazione al Bang Your Head Festival i volti sono molto più rilassati riuscendo a trasmettere energia al pubblico presente. Nonostante una carriera pluriennale la scaletta del set acustico è prettamente incentrata sui primi dischi: “Non è stata una scelta fatta a tavolino, probabilmente i brani scelti erano quelli che meglio potevano essere realizzati in quella maniera. Effettivamente andiamo fino a ‘Refreshing The Demon’ con ‘Holding On’, hai ragione.” Annihilator
vrebbe essere l’heavy metal: essere fedeli a se stessi, suonare quello che ti piace senza seguire le mode. Non è successo solamente a noi ma a moltissimi altri gruppi, mi vengono in mente ad esempio i Vio-lence di Rob Flynn perché la sua creatura successiva sono stati i Machine Head con i quali ha intrapreso un’altra strada artistica. Prova a sentire il modo di cantare i brani così come il sound in generale, i Machine Head non avevano niente di cui spartire con il passato. Io ho intrapreso una strada diversa, ho seguito il mio istinto ed il mio background fatto di tonnellate di ascolti di Judas Priest, Van Halen, Scorpions, Black Sabbath ed Ozzy Osbourne così come Exciter ed i primi vagiti thrash metal degli Exodus e
Metallica. Per me non è stato difficile rimanere fedele alle mie radici, ti stupirà ma anche Scorpions ed Ozzy Osbourne componevano ballads ed io ho seguito l’esempio in brani come ‘Crystal Ann’, non me ne sono mai vergognato. E ne troverai altre nella nostra produzione. Allo stesso modo se voglio suonare un pezzo più thrashy lo faccio senza problemi, fa tutto parte del mio bagaglio cultural/musicale e non riesco ad allontanarmi dalle mie radici. Mi piace dire che suono heavy metal per questi motivi e perchè è uno stile che incorpora al suo interno differenti sfaccettature e stili diversi come jazz, blues, classica. Tutto in una parola: heavy metal!”
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di Fabio Magliano
Pietre miliari del metal ignobilmente stroncate al momento della loro pubblicazione, band accolte come i nuovi messia e scomparse nel giro di qualche anno... tra conferme e smentite, previsioni confermate ed altre disilluse, un viaggio negli archivi di Metal Hammer per vedere come la nostra rivista accolse lavori oggi considerati “storici” al momento della loro uscita. In questo numero abbiamo deciso di andare a riesumare una recensione nata dall’indiscusso genio di Luca Signorelli, che nel settembre del 1995 con il suo inconfondibile stile, aveva accolto in estasi ‘Negatron’, ottavo album dei canadesi Voivod. In quell’occasione il voto fu “sospeso” anche se, tra sbavazzate e urla di godimento, emerse abbastanza chiaramente l’opinione di Luca su questo incredibile lavoro.
Metal Hammer - Nr 9 - SETTEMBRE 1995 Voivod Negatron (Ipnothic) Scena: La stanzetta imbottita di qualche ospedale psichiatrico. In un angolo, trattenuto da una bella camicia di forza color viola mughetto, c’è Luca Signorelli. Dallo sguardo allucinato, dai muggiti inverecondi, dagli incontrollabili tremiti che lo sconquassano e dal copioso torrente di bava che gli esce dalla bocca, intuiamo che è relativamente tranquillo: SIGNORELLI: ARRRRGGGHHHHHH! UAAAAARGGGGGGGG! IAAAAARRRRRRGGGGGGHHH! EAAAARRRRRRGGGGG! OOOOOOOHHHRRRRRGGGG! Da una porta entra La Voce Della Ragione. E’ vestita di bianco e assomiglia tanto a Pera. VOCE DELLA RAGIONE: Allora, Luca, com’è questo benedetto nuovo disco dei Voivod? SIGNORELLI (entusiasta, schizzando bava da tutti i lati): UUUUUAAAAAARRRRHHHH! YAAAARGGGGGGG! EAAAAARRRGGGG! AAAAAAAAAHHHHHH! AAAAGAGAGAGA! BAU! BAU! VOCE DELLA RAGIONE (Imbavagliando Signorelli): Siamo alle solite. Esce un disco dei Voivod e tu, al di la di faziose prese di posizione e ridicoli entusiasmi, non riesci ad esprimere un concetto chiaro e comprensibile. Questa volta ti aiuterò io. Iniziamo intanto dicendo che ‘Negatron’ è il disco molto più duro della media a cui ci hanno
abituato i Voivod di recente... SIGNORELLI: (...) VOCE DELLA RAGIONE: ... che il cambio di formazione non ha danneggiato il Voivod-sound e che la band sembra avere abbandonato ogni residuo tentativo di diventare i “Rush del 2000”, in favore di un approccio più selvaggio ai loro soliti temi. E parlando di questi temi... SIGNORELLI: (...) VOCE DELLA RAGIONE: ... non si può non notare come la leggendaria paranoia di dischi come ‘Killing Technology’ e ‘Dimension Hatross’... SIGNORELLI: (...) VOCE DELLA RAGIONE: ... sia tornata rampante: adesso i Voivod ci parlano di cospirazioni cosmiche, di umani rapiti dagli alieni in cambio di tecnologia, di bio-televisioni, di terrificanti esperimenti genetici per creare super razze, insomma, tutto l’immaginario horror-fantascientifico che tanto ossessiona Michel Langevin e soci, e che negli ultimi dischi sembrava smorzato. Ora il gioco ritorna pesante... SIGNORELLI: (...) VOCE DELLA RAGIONE: ...e pesantissima ritorna la musica, in una spirale di cupa grandezza che spinge il trio canadese (con il nuovo can-
tante-bassista), verso nuovi abissi di terrore. ìProject X’, ‘Nanoman’, e ‘Bio-TV’ sono indimenticabili, veri classici istantanei, e anche il resto non scherza. In un pezzo ha anche collaborato Jim Foetus! Il gruppo ha purtroppo perso il suo contratto con la major MCA... SIGNORELLI (in lacrime): (...) VOCE DELLA RAGIONE: ...ma ha distribuzione Wilde Records e soprattutto la loro prima tournèe italiana a Novembre dovrebbe finalmente dare loro il meritato trionfo. Ma adesso io mi chiedo: perchè mai i lettori di MH dovrebbero comprarsi ‘Negatron’ invece dell’ultimo disco dei White Zombie o, che so, dei Morbid Angel? SIGNORELLI (sfondando la camicia di forza con i muscoli pettorali): UAUAUAUAUA!!! ARRRGGGGAAAAARRRRAAAAARRRAAAA!!!! TE LO FACCIO VEDERE IO PERCHE’, SOTTOSPECIE DI MACACO VESTITO DI BIANCO! TU E I TUOI MORBID ANGEL DEL !@%&!#!!! (gli mette le mani addosso) Il sipario cala mentre Signorelli sta usando la Voce della Ragione come mazza da golf. (Non mettiamo il voto perchè tanto lo avete capito)
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di Andrea Schwarz
‘Pronto? Senti, perché non facciamo un pezzo sugli Emerson - Lake - Palmer?’ La risposta è un si secco, sicuro che però cela un interrogativo non di poco conto per chi come il sottoscritto deve portare avanti nella pratica l’idea: e adesso cosa si può dire di un gruppo che ha scritto pagine indelebili di musica prog? Cose nuove, interessanti che ad ogni prog rock fan non risulti essere stantio, di già letto e metabolizzato con l’ascolto di autentici capolavori come ‘Tarkus’? L’occasione per poter parlare di uno dei più innovativi e conosciuti ensemble che il mondo del prog abbia mai avuto è la ripubblicazione dei primi tre albums e la realizzazione di una nuova antologia dopo la tragica scomparsa di Keith Emerson lo scorso 10 marzo 2016 e di Greg Lake lo scorso 7 dicembre, sempre nell’anno domini 2016. Due perdite che non verrano mai colmate del tutto, per il loro valore artistico e per le idee all’avanguardia che tanti musicisti odierni hanno nel loro modo di suonare e di interpretare uno strumento come la tastiera o il basso riuscendo a trovare nuove
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modalità espressive che in effetti al di fuori del prog nel rock in generale non trova gli stessi sorprendenti risultati (ad eccezione del jazz, ma questa è un’altra storia). ELP, questo il diminutivo che ormai si è soliti chiamare la band, sono stati tra i primi ad intro-
durre una assoluta novità in fatto di line up: il terzetto, cosa che ha amplificato in maniera esponenziale la genialità ed il talento che ognuno dei membri del gruppo aveva nel proprio DNA, generando al tempo stesso della musica che in pochi sono riusciti ad eguagliare. Tutti musicisti,
bisogna ricordare, che arrivavano da un precedente (ed in alcuni casi, illustre) passato: Greg Lake proveniva dai King Crimson, Carl Palmert dagli Atomic Rooster mentre Keith Emerson dai The Nice. Niente male come pedigree, non c’è
che dire. Forse il loro merito è stato quello di portare agli estremi, in mezzo ad una tecnologia non avanzatissima dei primissimi anni settanta (è sempre bene inquadrare il contesto storico nel quale questi musicisti hanno operato), un genere musicale che all’epoca era ancora definito pop music e che solo successivamente fu
‘etichettato’ come progressive music. E non è un fattore di poco conto, tutto al contrario. “Brain Salad Surgery” è stato certamente il loro album più popolare e conosciuto, non solo iconograficamente grazie ad una stupenda ed imitata copertina ma anche e soprattutto grazie ad uno stile maestoso ed assolutamente grandioso. Oppure prendiamo la già citata “Tarkus”, la suite che ha letteralmente inventato un nuovo stile attorno a tessiture jazzy e dimostrando tutte le ambizioni che di cui il terzetto era capace di essere ‘portavoce’. Certo, la loro discografia non si è limitata a 3 o 4 dischi nei primi anni settanta ma ha ‘colorato’ anche gli anni ottanta quando Cozy Powell rimpiazzò Palmer fondando così gli Emerson Lake - Powell dimostrando freschezza compositiva, possiamo prendere ad esempio “Pictures At An Exhibition” dove i nostri hanno prodotto il loro lavoro più provocante, fiero ed intenso influenzato da tendenze classicheggianti oppure “Welcome Back My
Friends To The Show That Never Ends”, un live triplo dove l’esecuzione dei brani lascia ancora oggi a bocca aperta. Ma torniamo al motivo per il quale ci troviamo oggi a parlare di ELP. Il primo album intitolato semplicemente ‘Emerson, Lake & Palmer’, originaria-
mente pubblicato nel 1970 sarà disponibile in una versione da 2 cd, il primo comprendente la versione originale mentre il secondo contiene una versione stereo mix effettuata da Steven Wilson con alcune succose bonus tracks. E’ un album oscuro e per certi versi misterioso, uno dei migliori albums usciti nel 1970, ‘Take A Peeble’ è un brano alquanto lungo dove l’estro ed il talento di Greg Lake saltano all’orecchio fin dal primo ascolto, ‘The Three Fates’ invece mette in risalto le qualità di Keith Emerson con incredibili intarsi di piano ed un organo da chiesa, ‘The Barbarian’ con le sue chitarre aggressive come erano soliti usare all’epoca i King Crimson o i Triumvirat. In ultimo ‘Tank’ dimostra l’amore di Palmer per Buddy Rich, ‘Knife Edge’ invece rivela al suo interno ancora delle reminescenze degli Atomic Rooster. Sicuramente uno degli album di debutto migliori di sempre che ancora oggi, a distanza di ben 46 anni dalla sua uscita può dire la sua, affascinare forse oggi più di allora. Poi abbiamo il secondo Lp, un disco come ‘Tarkus’ meriterebbe intere pagine grazie al suo valore musical/ artistico, trovando nuovi territori artistici alla forma del power trio in un mondo
musicale dove lo stile dei Cream (anche loro altro grande power trio dell’epoca) era ancora preminente
anche se si sciolsero 3 anni prima. Rispetto al precedente debutto, ‘Tarkus’ si muove su territori diversi, la title track è una suite divisa in sette momenti, probabilmente ad oggi il loro brano più riuscito e più conosciuto. Gli arrangiamenti sono maestosi e sinuosi al tempo stesso, le tastiere di Emerson colorano la musica a dispetto di un drumming asciutto ma superlativo di Palmer al quale fanno da contraltare le linee di basso di un ispirato Lake, la cui voce marchia a fuoco con alcune parti vocali innovative e coraggiose. I restanti brani, la cosiddetta seconda parte, non hanno la stessa inten-
sità e magniloquenza di ‘Tarkus’ ma al tempo stesso sarebbe
troppo facile relegarli a semplici ‘filler’. ‘Jeremy Bender’ rifiuta la pomposità della title track dimostrandosi brano irriverente, ‘The Only Way/Infinite Space’ ha al suo interno delle interessanti rivisitazioni classiche suonate con i synth di Emerson mentre ‘A Time And Place’ ha un taglio maggiormente aggressi-
vo che ricorda in alcuni frangenti la magniloquenza della title track così come la conclusiva ‘Are You Ready Eddy’ è forse il pezzo più ‘fuori regime’ dell’intero lotto con le sue reminescenze alla The Who / Cream. Insomma, togliendo una seconda parte a tratti altalenante, ‘Tarkus’ è un album da
gustarsi per intero almeno una volta nella vita, godendo dei suoi quasi quaranta minuti di durata. Ed i fans del prog rock non possono far finta di niente, questa è una pagina di storia del genere che ha indubbiamente influenzato orde di progsters in tutto il mondo dal 1971 in poi. Sempre nello stesso anno il terzetto faceva uscire un altro album, il terzo della saga, quel ‘Picture At An Exhibition’
di cui si faceva cenno qualche riga più in alto. Registrato live alla Newcastle City Hall il 21 marzo 1971, ci troviamo di fronte ad una reinterpretazione in chiave prog rock dell’omonima composizione pianistica risalente al 1874 del compositore russo Modest Mussorgsky inframezzate da brani originali della band, questo cd contiene assoli di moog ed organo, linee di basso complesse e veloci, ricercate parti di batteria dove a farla da padrone è la figura di Emerson come dimostra il brano ‘Blues Variation’ mentre in ‘The Sage’ risalta la voce profonda e mistica di Greg Lake. Forse non è il primo album al quale bisognerebbe avvicinarsi per poter apprezzare l’estro ed il talento dei ELP (meglio il già citato ‘Tarkus’ o ‘Brain Salad Surgery’ piuttosto che ‘Trilogy’) ma probabilmente questo è uno dei migliori 20 prog rock albums di tutti i tempi. A concludere un’antologia di ben 39 brani che vanno a coprire la loro carriera dal 1970 fino al 1998, una specie di summa di una carriera lunga ed importante, impreziosita da tanti riconoscimenti, primo fra tutti essere ancora qui oggi a parlare di canzoni che sono state incise ben oltre quarant’anni fa e che mantengono ancora oggi il loro grande fascino nonostante in qualche frangente la produzione possa risultare un pò datata. Alla fine, per come abbiamo cominciato la nostra disamina di una band seminale come ELP, ci auguriamo di cuore che, pur non avendo l’ambizione di aver scritto cose nuove ed inedite, almeno queste righe possano aver acceso quel sacro fuoco della curiosità che accompagna ogni audiofilo che voglia prestare il proprio orecchio ad una discografia che ha segnato in maniera indelebile ed inevitabile il corso storico del prog rock. Quel prog rock che deve togliersi da dosso quell’aurea elitaria ed autoreferenziale che ogni tanto fa capolino tra i cultori (e musicisti) di un genere che invece grazie al suo linguaggio universale e senza tempo ci fa apprezzare ancora oggi dischi concepiti e suonati quando in tanti di noi non eravamo ancora nati o muovevamo i loro primi passi.
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LIVE REPORT - LIVE REPORT - LIVE REPORT -
di Roberto Villani
@UNIPOL ARENA (BO) 13 gennaio 2017
Un vero e proprio bagno di folla, valutato intorno alle tredicimila presenze, ha tributato il trionfo dei Green Day all’Unipol Arena di Casalecchio di Reno, dopo i sold out di Torino e Firenze e prima di quello conclusivo al Forum di Asago, confermandosi sicuramente come una tra le piu’ potenti ed influenti rock band attualmente sulle scene, pur battendo i palcoscenici di tutto il mondo da oltre trent’anni.
Da punk band, a fautori di un mainstream rock orecchiabile da urlare a squarciagola, ma mai banale e fuori luogo, passando da seguaci devoti del Lennon piu’ impegnato e politicizzato di ‘Working Class Hero’, i Green Day hanno sfoderato uno show che per oltre due ore, ha scatenato il delirio all’interno dell’Arena bolognese. L’appendice politica che aveva indotto il terzetto di Berkley a scrivere ‘American Idiot’ contro Bush Jr, prosegue con le accese rimostranze nei confronti di Donald Trump , contro cui la band americana si schiera apertamente , ma che stavolta non ha prodotto nuove canzoni a tema, almeno per il momento.
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- LIVE REPORT - LIVE REPORT - LIVE REPORT
Guidati dal folletto ed indiavolato Billy Joe Armstrong, autore di una prova maiuscola da vero animale da palcoscenico quale e’, lo show ha avuto il suo punto debole nelle troppe pause che il talentuoso vocalist e buon chitarrista, si prendeva tra un brano e l’altro , spezzando di fatto o ad arte un ritmo concerto ad altissima intensita’ , tra dialoghi col pubblico e ragazzini grondanti di emozione, invitati dall’istrionico Billy Joe a suonare con la band sul palco dell’Unipol Aena.
Ovviamente la parte piu’ suggestiva e trascinante del concerto e’ ad appannaggio dei successi clamorosi di qualche tempo fa , dall’iniziale ‘Know Your Enemy’ , a ‘ Minority ‘ e ‘Holiday’, passando dal ‘Boulevard Of Broken Dreams’ fino alla pazzesca ‘She’ e all’evergreen ‘Basket Case’ , oltre alla gia’ citata ‘American Idiot’ .
Spazio , ovviamente, anche ai brani del nuovo ‘Revolution Radio’, album di buon successo mondiale, che esprime una buona dose di continuita’ col passato, attraverso brani collaudati quali ‘Bang Bang’ e ‘Still Breathing’ , per chi scrive la migliore del lotto tra le nuove canzoni proposte in questo tour. Non mancano i consueti omaggi ai grandi eroi del nostro e loro passato e puntualmente arrivano accenni ai Rolling Stones di ‘( I can’t get no ) Satisfaction e ai Beatles di ‘Hey Jude’ , con una parentesi tanto inaspettata , quanto azzeccata di ‘Careless Whisper’ del compianto George Michael, musicalmente lontano anni luce dai Green Day, ma doverosamente rispettato come deve essere. Tutto sommato un’altra grande prova dal vivo di questa importante e conclamata rock ed ex punk band , che continua imperterrita a macinare sold out ovunque metta piede, lasciandomi una stravagante quanto inattuabile e fantascientifica considerazione finale dopo l’ennesimo trionfo , che è quella di vedere i Ramones che suonano sul palco dei Queen. Oggi lo stanno facendo loro . Arrivederci alla prossima estate quando torneranno in Italia per due super concerti a Monza e Lucca con i ‘mitici’ ed imperdibili Rancid come graditi ospiti.
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LIVE REPORT - LIVE REPORT - LIVE REPORT -
di Emanuela Giurano
Sbarca al Live Club di Trezzo il Persistence Tour grazie a Hub Music Factory, e lo fa con una line up impressionante, non solo per il valore degli storici Suicidal Tendencies cui spetta il compito di chiudere con in botto la serata, ma per la qualità delle band incastrate in scaletta, ognuna delle quali giunge a declinare il verbo dell’hardcore in ogni sua forma.
A scaldare gli animi spetta a Down To Nothing, Burn e Mizery, ma è con i Walls Of Jericho che il mini festival decolla realmente.
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Nonostante i 30 minuti a disposizione, il combo di Detroit aggredisce sin dalle prime note il palco, con Candace Kucsulain autentica regina della scena e i brani estratti dall’ultimo ‘No One Can Save You From Yourself’ a farla da padroni, con le nuove ‘Fight The Good Fight’, ‘Regn Supreme’ e ‘Forver Mutant’ che fanno la loro sporca figura anche in chiave live.
Rapido cambio di palco e tocca ai Municipal Waste, band che, a differenza di quella che li ha preceduti, strizza maggiormente l’occhio al thrash. La scaletta pesca in tutta la produzione del gruppo statunitense, si parte con ‘Mind Eraser’ per passare attraverso le varie ‘Idiot Check’, ‘The Inebriator’, ‘Sadistic Magician’, ‘I Want To Kill The President’... sino ad arrivare alla conclusiva ‘Bord To Party’, pezzi feroci, sparati a mille su una batteria di smaccata estrazione punk, nessun compromesso, solo voglia di fare casino e di trasformare il Live in un malatissimo party.
Sul quale si avventano come falchi gli Agnostic Front di Vinnie Stigma e di Roger Miret, trasformando i 45 minuti a loro disposizione in una autentica carneficina. Se ancora oggi gli AF sono considerati padri dell’hardcore un motivo ci sarà, ed è da ricercare nell’immutata voglia di fare male senza guardare in faccia nessuno, non lesinando sudore, non lasciando spazio a inutili fronzoli e attaccando tutto e tutti nel tempo a loro disposizione, sputando in faccia la loro rabbia tra pezzi nuovi e classici riscoperti incredibilmente attuali.
A chiudere in grande stile la serata, gli attesissimi Suicidal Tendencies, con Mr. Dave Lombardo dietro le pelli e Mike Muir solito animale da palcoscenico nonostante l’età lo costringa a qualche pausa rigeneratrice. Si inizia con ‘You Can’t Bring Me Down’ ed il pogo esplode ai piedi del palco, tra inni urlati al cielo e una manciata di pezzi, da ‘How Will I Laugh Tomorrow’ a ‘Pledge Your Allegiance’, da ‘Possessed To Skate’ a ‘Cyco Vision’ che negli anni non hanno mai perso la loro carica primordiale.
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FREDDIE MERCURY È VIVO
Raccontare il mito. Questo è il duro, e oneroso, compito che si pone il collega Luca Garrò con ‘Freddie Mercury’, il suo ultimo libro uscito per Hoepli nella collana La Storia del Rock - I Protagonisti, che ha visto già uscire biografie (o, come le definirei, racconti di genio e vita) di personaggi come Jimi Hendrix, Jim Morrison e John Lennon. Il passo verso una leggenda come Freddie Mercury sembrava quasi obbligato, dopo i nomi succitati, e affrontare un personaggio di tale caratura non deve essere stato facile per Garrò, giornalista di grande esperienza nel
settore rock, acquisita collaborando con diverse testate fra cui Rolling Stone, Jam, Rockstar, Rocksound, Onstage e Classic Rock, oltre a essere uno dei fondatori del fu Outune.net. La domanda che vi sorgerà spontanea è: ma questo libro cos’ha di differente da tutti gli altri sul compianto cantante dei Queen (fra cui alcune uscite ufficiali)? A questo è abbastanza semplice rispondere. Come tutti i libri della collana Hoepli, l’opera risulta leggera, scorrevole, di facile lettura, ma non per questo di bassa qualità o scontata. È questo probabilmente il punto di forza di ‘Freddie Mercury’, una biografia accurata che non si prende troppo sul serio, che esplora alcuni tratti poco indagati della personalità e delle passioni dell’artista, facendo risaltare soprattutto il lato intimo dell’uomo più che dell’amato vocalist. Questo è ciò che spesso si perde in alcune opere che idolatrano la facciata e trascurano l’anima della persona in oggetto, e in questo è bravo Garrò, soprattutto attraverso delle
di Stefano Giorgianni
schede di approfondimento che spezzano la narrazione principale, a non fermarsi sulla soglia esterna, regalando degli interessanti spunti riguardo a canzoni, episodi e inaspettati contatti. Fra questi sono da ricordare una sorta di mini-guida turistica della Londra di Freddie (con all’interno un accenno alla dibattuta questione della sepoltura), l’immancabile inserto del rapporto con Mary Austin, il design del logo dei Queen, sul movimento punk (probabilmente il più
affascinante), sulle collaborazioni mancate con altri big della musica (fra cui l’emersa ‘There Must Be More To Life Than This’ con Michael Jackson nella compilation ‘Queen Forever’) e chiudo l’elenco con la scheda su Freddie e l’Italia, per non svelarle proprio tutte. In conclusione, ‘Freddie Mercury’ è un libro che i fan dei Queen e del cantante non si saranno di certo fatti sfuggire, ma anche gli amanti della musica in toto non devono far mancare nella loro collezione.
Dettagli della pubblicazione: Titolo completo: Freddie Mercury Autore: Luca Garrò Collana: La Storia del Rock - I Protagonisti Pagine: 176 ISBN 978-8820376758 Prezzo: 16,90 Euro
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Il ritorno dei SAMAEL di Stefano Giorgianni Sono passati solo pochi giorni dall’annuncio dell’uscita del nuovo album dei Samael, notizia che ha reso euforici i molti fan della band svizzera sparsi per l’intero globo. Da grande ammiratore del gruppo di Michael “Vorph” Locher non so cosa aspettarmi dal suo genio e dalla sua sregolatezza. Che possano i nostri tornare alla magniloquenza black di ‘Ceremony Of Opposites’ o che proseguano la strada, anche se mitigata, dell’elettronica espressa in tutta la sua potenza in album come il capolavoro ‘Reign Of Light’ (uno dei top del primo lustro del nuovo Millennio) e, soprattutto, nel progetto astrale ‘Era One’? Difficile a dirsi. Certo è che con ‘Solar Soul’, album non proprio eccezionale, ‘Above’, un flashback stilistico non indifferente, e
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nell’ultimo, buono ‘Lux Mundi, i saliscendi e le alternanza di genere sono state numerose, anche se non così drastiche, si è trattato più di sfumature che di
punti di breakdown. Pensare però un ritorno del malefico Vorphalack, figura che Vorph ricopriva nei primi album dei Samael, pare impossibile, ma non improbabile. Dai Samael ci si aspetta sempre l’effetto Zener (perdonerete tutti questi riferimenti all’elettronica, ma non trovo maniera più adatta di descrivere la carriera degli svizzeri), uno sconvolgimento dei sensi, uno shock (in negativo o positivo) che possa mandare in tilt la capacità di giudizio di noi umili scribacchini. Questo è ciò che ho provato quando ho sentito
‘Reign Of Light’, album col quale ho iniziato a venerare, letteralmente, la band di Sion, per poi andare a scavare alle origini delle loro trasformazioni, dei loro mutamenti sonori e scoprire che le contaminazioni nel black (che fino a quel momento reputavo impossibili, a scanso di orripilanti esperimenti) sono possibili e applicabili, che anche il genere più astruso può essere violato in maniera plausibile. E dov’è che i Samael hanno probabilmente trovato la quadratura del loro stile? Per quel che mi riguarda è stato il già citato progetto ‘Era One’ a far capire agli svizzeri quale fosse il limite fino al quale si potevano spingere. L’elettronica applicata servilmente in quel disco, abbastanza snobbato da parte della critica (forse anche dal pubblico, tranne che dai fan della band), ha
sancito un passaggio fondamentale nella discografia del gruppo, ha permesso a Vorph e Xy di entrare e uscire da una dimensione alternativa, sapendo che nessun pregiudizio poteva essere cucito a un disco che non aveva a che fare col metal in senso stretto. Lo spazio indefinito in cui ci si trovava a fluttuare in tracce come ‘Universal Soul’, ‘Sound Of Galaxies’, ‘Voyage’, ‘Above As Below’, ma anche in brevi intermezzi come ‘Beyond’ e ‘Home’, ricordava l’affresco filosofico - fantascientifico del capolavoro cinematografico ‘Solaris’ di Andrej Tarkovskij, o del romanzo omonimo di Stanisław Lem, un’incertezza esistenziale che separava il corpo dall’anima e donava un senso di beatitudine immateriale. In una sola parola, pace. Recuperiamolo in attesa di questo nuovo capitolo discografico dei Samael.
l a t u r B Stay di Trevor Tra le tante interessanti realtà nostrane, ci sono due band, uscite di recente con il loro debut album, da subito entrambe si sono fatte notare, suscitando curiosità da parte degli addetti ai lavori, passando attraverso ottime recensioni. In questa puntata incontriamo i Path Of Sorrow! Di recente siete usciti con il nuovo album, siete soddisfatti? M) Pienamente, senza ombra di dubbio. Anzi, ad esser onesti, non pensavamo nemmeno di poter riscuotere così tanto successo suonando in giro e tramite le recensioni che settimanalmente riceviamo da webzine ecc.. Ovviamente, personalmente non potevamo non esserlo, ma quando vedi che
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chi ti ascolta ci “sballa”, qualsiasi possibile dubbio sparisce. Come molti scrivono/dicono “un debutto col botto”, e ci sentiamo pienamente d’accordo con questa affermazione! Com’è ovvio che sia però, a distanza di un anno circa dalle registrazioni, possiamo dire che magari avremmo potuto cambiare un passaggio, o un testo, o magari qualcosa dell’artwork (lavoro impeccabile di Emanuele Lombardi), ma sono modifiche che non consideriamo fondamentali e che comunque non avrebbero ne tolto ne aggiunto qualità (scusate la piccola presunzione) del nostro album. Anni fa, realizzare un disco rappresentava arrivare in vetta, siete convinti sia la
stessa cosa oggi? A) Purtroppo no. Al giorno d’oggi è fin troppo “facile” poter registrare un album, vuoi la crescita numerica delle band e degli studi di registrazione (con più o meno qualità), del fatto che se non lo fai sei tagliato fuori o non considerato ecc Per noi è stato UN punto d’arrivo, non “IL”. Dopo, se non ti fai conoscere, non suoni in giro ecc non ti rimangono che dei bei “sottobicchieri”, ed anche costosi oltretutto. Ora è tutto più veloce, anche troppo forse, e ci sono molte band, quindi bisogna trovare il modo per emergere da questo oceano musicale. E molti pensano che basti fare un cd (di qualsiasi qualità) per poter esser considerati, ma se non c’è sintonia nella band, ognuno pensa a fare il suo invece che suonare in funzione del brano
(fatto magari in 15 minuti, passatemi questa provocazione), l’artwork fatto con paint ecc, è palese che non servi a nulla ma anzi sia controproducente. Quanto è stata dura lavorare sul disco, quanto tempo impiegato in sala prove? D) Dunque, metà album è stato scritto dalla vecchia formazione (tra il 2012 ed il 2014), mentre il resto e l’arrangiamento dei vecchi pezzi fino a poco prima dell’ingresso negli studi di Fabio Palombi (Blackwave Studio). Il più, paradossalmente, è stato l’arrangiamento dei vecchi brani, in quanto avevano un mood che non si voleva snaturare con l’ingresso di altri membri (2 chitarre e la batteria, con relativi gusti musicali diversi) i brani
nuovi son già pensati e suonati con una mentalità ed un sound diverso (e se si ascolta il disco si possono intuire quali sono). Terminate le registrazioni, ci siamo chiusi in sala a suonare da cima a fondo il disco fino alla data del Release Party di Ottobre (senza suonare una nota di qualsiasi altro brano nuovo), perché volevamo portare uno show degno di questo nome e per amalgamare sempre di più il nostro sound. Cosa pensate dell’alternative metal? R) Forse io sono il meno adatto a rispondere a questa domanda perchè sono quello più “Old School”, ma tutto sommato l’alternative è la naturale evoluzione di un certo sound. Ci sono molte band valide in Italia che escono dagli schemi e propongono qualcosa di “nuovo” a quel trito e ritrito che abbiamo sentito per anni. Noi personalmente abbiamo cercato la nostra visione di un genere musicale nato e cresciuto nella Svezia degli anni 90, ma ci rendiamo conto che i suoni da proporre ormai devono essere moderni. Siamo sempre dell’idea che ci siano solo 2 tipi di musica, quella buona e quella cattiva, quindi bisogna sempre valorizzare chi vuole evolversi con “gusto”.
Credete che l’underground italiano sia sempre molto vivo? J) Assolutamente si, e sempre in continua crescita. Ormai tra i social media e i vari festiva esteri, i musicisti italiani hanno capito cosa bisogna fare e quanto bisogna impegnarsi per avere risultati dentro e fuori dal nostro paese. Questo ha fatto si che, nella maggior parte dei casi , il livelllo qualitativo di chi vuole fare le cose seriamente si sia alzato tantissimo, e non solo nella cura delle composizioni, ma anche nella proposta live e di immagine (cosa che una volta si dava per scontato). Ogni volta che suoniamo “fuori casa” ci rendiamo conto che conosciamo almeno la metà delle band che ci troviamo ad affiancare e fortunatamente sono quasi tutte di buon livello (alcune realmente eccezionali). Tempo fa ai gruppi italici (underground ovviamente) mancava la professionalità: ora che quel gradino è stato raggiunto, possiamo dire la nostra anche fuori dal nostro paese, e provare ad abbattere quel muro di diffidenza che contraddistingue soprattutto le Label estere. Spero che il prossimo step sia quello di apprezzare anche in patria quello che di buono/ottimo
abbiamo “sotto casa”, andando a vedere più concerti e comprando più dischi, ma sopratutto sostenendo i ragazzi che faticano per dare al nostro METAL il futuro che merita. Quali sono stati i vostri punti di riferimento, le band che vi hanno influenzato maggiormente? D) I Path Of Sorrow nascono con un animo Thrash/ Death. Le nostre influenze più evidenti sono comunque quelle del movimento Swedish Death Metal capitanato da i primi In Fames e Dark
Tranquillity, ma paghiamo pegno anche a At The Gates e Hypocrisy, senza dimenticare tutte quelle reminiscenze che vengono prepotentemente fuori quando spingiamo sull’acceleratore e fanno ricordare i Kreator (senza contare poi le proprie influenze personali). La nostra musica rimane figlia degli anni 90, ma nonostante l’entrata in formazione
di 2 nuovi chitarristi ed un nuovo batterista abbia aggiunto quella ricercatezza melodica di cui necessitava il nostro sound, rimaniamo sempre fedeli a questa visione di musica fatta di riff ed emozioni, oscure, cattive ed epiche. Siete convinti anche voi del fatto che, per un musicista la cosa più ambita è salire sul palco? A) Noi siamo stra-convinti di questo, siamo musicisti e suoniamo per divertirci. Non c’è cosa più divertente ed emozionante che salire su un palco dove la gente ti aspetta e ti sostiene, dove dai e ricevi una forza incredibile per chi non l’ha mai provata. Abbiamo avuto la fortuna di salire su molti palchi e di avere di fronte molti tipi di pubblico, questo ci ha fatto capire che non importa quante persone hai davanti, se riesci a coinvolgerle con la tua musica, tutta la fatica spesa per arrivare fin li sarà ricompensata. Il sogno di ogni band è quello di suonare su un palco con migliaia di persone che cantano o pogano sulle le tue canzoni, e noi crediamo alla realizzazione dei sogni! Perché suonare oggi, in un periodo dove le opportunità sono sempre meno e soprattutto, non sembra essere cambiato nulla per la musica Rock e Metal? R) Perchè siamo MetalHead! Con gli anni ci siamo resi conto che, soprattutto in Italia, vivere con la propria musica è quasi impossibile, quindi qualunque persona sana di mente lascerebbe perdere. Ma noi e Voi che leggete siamo diversi, a noi piace e crediamo nella nostra/Vostra musica. Divertirsi, fare nuove amicizie, vedere posti lontani, aver qualcosa da raccontare ai nostri figli e nipoti o semplicemente ricordi da rivivere un domani; queste sono cose che ci rimarranno dentro per sempre. So che per molti sono o sembreranno motivi stupidi, ma in una società fatta di fretta e cyberspace i nostri ricordi e le nostre emozioni, col tempo, saranno la cosa più preziosa che ci porteremo dietro.
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Album Of The Month
GRAVE DIGGER
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Essere un’autorità nella scena tedesca e un’istituzione nel panorama metal europeo è una croce a una delizia. Lo status di leggenda della musica del mondo libero implica un amore sconfinato e incondizionato da parte di migliaia di fedelissimi ma allo stesso tempo comporta che a ogni pubblicazione discografica le pretese del pubblico e della critica siano terrificanti e insensate. Una band come i Grave Digger, in circolazione da trentasette anni e con sedici album all’attivo, con sound consolidati da decenni e scarsa propensione alla sperimentazione, dovrebbe essere un libro aperto per qualunque fan o critico degno del suo titolo. Se si conosce sufficientemente la band si sa già a che genere di album si va incontro ed è pressoché inutile aspettarsi sorprese, perché non è questa la funzione di Grave Digger et similia: Chris Boltendahl e soci sono una solida, affidabile ancora in un mare di band che le provano tutte, lottando con un destino avverso e inesorabile, pur di non scadere nella banalità. “Healed
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By Metal” è un canonico album dei Grave Digger, né più né meno, appena un po’ più pesante della loro media. Dieci tracce poderose, accattivanti e perfette per essere suonate dal vivo e cantate a squarciagola dagli spettatori. I contenuti sono una delizia per le orecchie dei defender dal cuore d’acciaio: dai poteri salvifici e sanatori del metal celebrati nella prima traccia, quella che dà il titolo all’album, a un giovane amore spezzato dalle atrocità della guerra, passando per i dieci comandamenti che ogni bravo adoratore del dio metallo dovrebbe conoscere e rispettare. Innovativi? Geniali? Rivoluzionari? No, no e ancora no. E per fortuna, si potrebbe dire: la forza dei Grave Digger sta nella loro capacità, dopo decenni di carriera, di comporre musica sempre alla stessa maniera senza mai stancare il pubblico, servendo intrattenimento allo stato puro. Non c’è la pretesa di ingozzare le menti degli ascoltatori con del materiale intellettualmente gratificante, ciò che viene offerto è una valvola di sfogo, un punto
di scarico della tensione che ci opprime ogni giorno, dei sedimenti della quotidianità che si depositano nella nostra testa, occludendo i nostri sensi e inibendo la nostra capacità di godere del bello della vita. Chris Boltendahl crede profondamente nella missione che si è imposto: diffondere positività per mezzo della sua musica. Tra un album impegnativo e l’altro, “Healed By Metal” aiuta il metallaro di oggi a riconnettersi con i capisaldi della musica più bella del mondo: il senso di appartenenza, lo spirito di gruppo, la celebrazione di valori quali la forza interiore e la libertà. Questo non è sicuramente l’album più brillante della storia della band ma rimane comunque un buon lavoro, ricco di contenuti validi nonostante qualche piccola, insignificante falla. Imperdibile per gli amanti della band, un buon trampolino di lancio nel mondo del metal classico per gli ascoltatori della fascia più giovane. Alessandra Mazzarella
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Sepultura
Machine Messiah
(Nuclear Blast/Warner) I Sepultura sono vivi, si può discutere di volta in volta sul loro stato di forma, ma non sul fatto che cerchino di fare sempre qualcosa di nuovo. L’ennesimo capitolo della saga del più importante gruppo brasiliano non si discosta di molto da quanto prodotto dalla fuoriuscita di Max in poi, ossia un sound in bilico tra quello che sono stati e quello che vorrebbero essere. In ‘Machine Messiah’ la presenza di queste due anime è probabilmente più avvertibile che in passato, ci sono una manciata di pezzi che hanno un suono classicamente Sepultura e altri che sono degli audaci esperimenti. Sicuramente i secondi si fanno preferire ai primi, perché ‘I Am the Enemy’, ‘Alethea’, ‘Silent Violence’ e ‘Vandals Nest’ li abbiamo già sentiti nei dischi precedenti e sicuramente li ritroveremo nei prossimi. Lo spirito innovatore lo si riscontra, invece, nell’iniziale titletrack,
ultimi Machine Head. La settima ‘Resistant Parasites’ si pone a metà tra i due spirti che albergano nel lavoro, è il brano più equilibrato, suona nuovo e vecchio al contempo. Senza ombra di dubbio l’apice dell’intero disco! L’ultimo pezzo strambo, è posto in coda: ‘Cyber God’, dall’andamento instabile, chiude (non) in gloria l’album. Tirando le somme MM è un disco coraggioso ma non troppo, la band non riesce a staccarsi completamente dal proprio passato, e quando ci tenta, pur essendo apprezzabile la volontà che ci mette, non sfocia mai nel genio assoluto (cosa che invece capitava con Max). La sufficienza, pure abbondante, non gliela toglie nessuno neanche a questo giro, se solo trovassero un maggior equilibrio nel dosare le idee, probabilmente riscalderebbero le gerarchie all’interno della scena. Giuseppe Cassatella
Kreator
Gods Of Violence
Ammettiamolo, facciamo del buon sano outing. Tanto fa fine e non impegna no? Personalmente non no ho mai amato alla follia i Kreator, ho amato ‘Pleasure To Kill’ e ‘Coma of Souls’ ma per il resto li ho persi nei meandri di una scena musicale in continua evoluzione mantenendo però un rispetto profondo per Mille Petrozza & Co. che hanno continuato imperterriti e con coerenza a sfornare dischi in oltre trent’anni di carriera. E quindi? Mi sono avvicinato a ‘Gods of Violence’ in punta di piedi, senza preconcetti e senza aspettarmi nulla se non un nuovo disco. Già il singolo, la title track ha rivelato qualche indizio di quello che è la loro nuova fatica: riff taglienti, drumming possente condito da un’insolita violenza sonora che riporta alla mente il thrash old school. Impressioni confermate nel successivo estratto ‘Satan
Is Real’ in un’operazione di marketing ben riuscita: centellinare le informazioni e gli estratti video per creare quell’attesa nei fans per potersi finalmente ascoltare per intero tutto il disco. Ed a differenza di altre volte, questi due indizi hanno costituito una prova lampante di come ‘Gods Of Violence’ sia un album tellurico, suonato e concepito per deliziare i nostri padiglioni auricolari con il loro classico trademark attualizzato e reso godibile dalla produzione di Jens Bogren, uno che negli ultimi tempi sarebbe capace di far suonare ammaliante anche una campana stonata. Ed allora immergetevi nella violenza sonora di ‘Totalitarian Terror’, ‘Lion With Eagle Wings’ introdotto da un maligno carillon dove le chitarre di Sami Yli-Sirnio e Petrozza non lesinano intarsi finissimi ed allo stesso tempo rudi e taglienti, la lunga suite ‘Death Becomes
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(Nuclear Blast/Warner)
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una sorta di lentone in cui Derrick Green canta, alzando pian piano la tensione dell’ascoltatore in attesa della deflagrazione. ‘Phantom Self’ posta in terza posizione, riprende il discorso interrotto dalla più diretta ‘I Am the Enemy’, parte con ritmi tipicamente maracatu, continua con la chitarra aggressiva di Andreas e culmina in trionfo orchestrale di matrice orientale, ad opera della tunisina Myriad Orchestra. Il tutto ben amalgamato con le sonorità thrash-death tipicamente Sep. Per quello che è sicuramente uno dei migliori pezzi dell’album, non a caso scelto come singolo. In quinta e sesta posizione troviamo una doppietta - ‘Iceberg Dances’ e ‘Sworn Oath’ - che conferma la vena eccentrica di MM. La prima è una song strumentale dal piglio thrash, che potrebbe piacere agli amanti degli Annihilator, la seconda possiede al proprio interno la chiara influenza degli
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My Light’: un intro semi acustico sfocia in un interessante up tempo dove le chitarre rappresentano un’epica cavalcata in un immaginario incontro tra il metal classico ed il thrash anni 80, anni in cui questo genere visse il suo massimo splendore facendo innamorare orde di fans in tutto il mondo, sottoscritto compreso.Nel complesso quindi possiamo tranquillamente affermare che ‘Gods of Violence’ sia un ottimo disco, un album che ci consegna un gruppo che non vuole dormire sugli allori e che guarda al futuro. Probabilmente, più di quanto non abbia potuto rappresentare il precedente ‘Phantom Antichrist’ questa nuova fatica sarà in grado di mettere d’accordo i vecchi fans con le nuove generazioni che per motivi anagrafici si sono avvicinati al combo tedesco solo ultimamente. Andrea Schwarz
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i n o nsi
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GoTTHARD
SIlver
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(PIAS) accurata, tra l’altro con particolare accento proprio su ‘Silver’, album che non stentiamo a definire quasi ‘vintage’ proprio per la ricerca importante di queste radici. E’ il suono caldo di una distorsione d’altri tempi quella che accompagna l’introduttivo ritornello dell’opener ‘Silver River’, una distorsione che, mischiandosi al distintivo timbro di un inatteso organo, rimanda direttamente agli Anni ’70 e ai Deep Purple che preferiamo. Su coordinate simili si muovono anche brani più energici come ‘Electrified’ o ‘My, Oh My’, canzoni che fanno mostra di un guitarwork di marca blues, accoppiato però alle vocals languide e ‘nostalgiche’ del bravo Maeder, il quale con la
propria timbrica roca ma seducente dimostra finalmente di avere trovato casa stabile sotto al tetto di Leoni e compagni. Tra rockers frizzanti ma mai troppo heavy, ammiccanti song da classifica (‘Stay With Me’, ‘Beautiful’) e immancabili ballad (‘Only Love Is Real’), ‘Silver’ si destreggia quindi bene nel proprio ruolo di album celebrativo di 25 anni di carriera, mostrando appieno l’importanza delle fondamenta su cui si sono costruiti album come l’indimenticato ‘Need To Believe’. Forse ‘Silver’ non è proprio l’album che ci aspettavamo dopo l’energico e festaiolo ‘Bang!’, ma è comunque un bel capitolo nella ricca discografia della band svizzera. Dario Cattaneo
Pain Of Salvation
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In The Passing Light Of Day
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(Inside Out/Sony) essere quella precisa ed affilata di un tempo, con conseguente chiusura nel cassetto della parentesi vintage che tanto aveva fatto storcere il naso sui due capitoli della saga ‘Road Salt’. Esisterebbe poi tutta una serie di altri punti di vista che vorrebbero la continua e ossessiva comparazione tra questo nuovo lavoro e i capolavori del passato come ‘Perfect Element’, o – in maniera ancora più sfocata – trai POS stessi e altre band dalla carriera altrettanto imprevedibile come i Leprous o gli Haken… e alla fine anche questi potrebbero essere ritenuti punti di vista validi, pregni di altrettanto valide verità. Ma, a conti fatti, il punto di vista che preferiamo noi stavolta è quello puramente emozionale, che ci fa valutare ‘In The Passing Light Of Day’ come prodotto ludico in grado di generare sensazioni. E di sensazioni, sicuramente, questo disco ne genera tante. Difficile infatti rimanere indifferenti quando ad entrarti metaforicamente sotto la pelle sono il mutevole riffing e il sinuoso cantato di ‘On A Tuesday’, piccolo capolavo-
Vo
Come i vari fan di Star Wars presenti tra voi lettori ben sapranno, il saggio Ben Kenobi diceva a un giovane Luke Skywalker che molte delle verità che affermiamo dipendono da un nostro punto di vista. Anche se normalmente non siamo soliti usare la saggezza Jedi nelle nostre recensioni, pensando a questo ‘In The Passing Light Of Day’ – ultima fatica discografica dei progster Pain Of Salvation – ci accorgiamo di quanto il senso di quella frase possa essere almeno in questo caso piuttosto azzeccato. In effetti, molte ‘verità’ è possibile spendere su questo lavoro, ognuna strettamente dipendente dal punto di vista che si decide di adottare. Si potrebbe appoggiarsi per esempio ad un punto di vista per così dire strettamente stilistico, segnalando come l’ultima fatica di Gildenlow e dei suoi attuali compagni sia di diritto l’album più pesante e ‘metal’ della band a partire dall’irraggiungibile ‘Remedy Lane’. Vero. Si potrebbe anche adottare un approccio più tecnico, discutendo su come la produzione sia ritornata ad
gh Hi
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Parlando in un intervista su questo stesso numero col bassista Marc Lynn abbiamo scoperto che lui stesso vede un parallelismo tra il cammino percorso dalla band sui primi tre album in carriera e i più recenti tre dischi col nuovo cantante Nic Maeder. Dischi alla mano non ci sentiamo neanche di dargli torto visto che – in effetti – uno schema comune salta all’orecchio. Se difatti il primo album di ciascuna fase di carriera fu registrato “perchè c’erano le canzoni” e i secondi “esplorarono poi il sound in direzioni più heavy”, i rispettivi terzi album (‘G.’ e il qui presente ‘Silver’) recuperano entrambi radici musicali più vecchie, “che da sempre ci appartengono”. Un analisi
ro prog che la band non componeva da anni. Difficile anche non farsi rapire dalle melodie – irregolari e sbilenche – del tema principale della suite ‘Full Throttle Tribe’, le ‘solite’ melodie alla Gildenlow, che all’inizio stupiscono per la loro stranezza ma che dopo qualche ascolto ti rendi essere le uniche possibili per quelle canzoni. E forse, considerando che l’intero album è stato composto, liriche comprese, dopo una terribile malattia che ha quasi rischiato di uccidere colui che l’ha composto, ancora più difficile risulta separare il contenuto doloroso e affaticato dei testi dall’afflato altrettanto sofferto e faticoso di questa musica. Dov’è la verità in tutto questo? La verità, secondo noi, è che questo è un grande album. Abbiamo citato diversi punti di vista, tutti validi, ma forse solo tranelli che fanno distogliere l’attenzione da ciò che conta davvero, cioè che questo album ha davvero qualcosa da dire. Una caratteristica, a nostro avviso, sicuramente non da poco. Dario Cattaneo
recens
ioni
Annhilator
Triple Threat
(UDR/Warner) Gli Annihilator sono una band che a volerla presentare si rischierebbe seriamente di non rendere pienamente omaggio alla loro reale importanza che, forse, verrà apprezzata tra moltissimi anni quando il buon Jeff Waters appenderà la chitarra al chiodo ed il mondo si renderà conto di quanto importante sia stato il suo estro nel mondo dell’heavy metal. Eppure non si vendono oltre 3 milioni di dischi, certo spalmati su 23 anni di onorata carriera ma i numeri sono numeri, da qualsiasi angolazione li si tenti di guardare rimangono numeri ragguardevoli. Ma gli Annihilator non sono mai scesi a compromessi, hanno seguito il loro istinto e la via maestra tracciata da Waters andando oggi a proporre al proprio pubblico un gustosissimo nonché ricchissimo box set formato da 2 cd’s ed un DVD, il primo totalmente live dalla loro ultima performance al Bang Your Head Festival 2016 e un altro totalmente (per loro) inedito: un set acustico formato dai loro pezzi più clas-
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sici e che, in qualche modo, potessero essere tranquillamente suonati in una versione anomala quanto affascinante. E non storcano il naso i puristi del genere perché l’esperimento portato a termine dai nostri si rivela vincente ed alquanto avvincente, mi si scusi il gioco di parole. Con una scaletta che pesca a piene mani da ‘Alice In Hell’, ‘Never, Neverland’, ‘Set The World On Fire’ e ‘King Of The Kill’ (praticamente i loro primi quattro albums) è bello potersi gustare sotto altre spoglie brani magistrali come ‘Stonewall’, ‘Snake In The Grass’, ‘Phoenix Rising’, ‘Crystal Ann’ giusto per citare i loro brani più rappresentativi: la band, a differenza dell’esibizione live suona un po contratta e poco istintiva ma l’ascolto ne vale decisamente la pena, conferma di come una buona canzone rimanga tale indipendentemente dalla versione con la quale la si interpreti. Forse il brano che maggiormente spicca tra i dieci qui presentii è ‘Sound Goods To Me’ anche se citazione a parte tocca a ‘Crystal Ann’:
toccante, sognante, energica ed ispirata, come d’altronde nella versione originale. A fare da contraltare troviamo un’esibizione live nella quale la band si trova maggiormente a proprio agio rispetto ad una situazione insolita come quella acustica, eseguendo in tutta scioltezza canzoni come ‘Set The World On Fire’, ‘Never Neverland’, ‘W.T.Y.D. (Welcome To Your Death)’, ‘Phantasmagoria’, ‘Alison Hell’....cos’altro ci sarebbe da aggiungere se non che è proprio tutto quello che si potrebbe aspettare dagli Annihilator? Ed infine un documentario dietro le quinte ripreso proprio dallo stesso Bang Your Head….cosa chiedere di più a Jeff Waters & Co.? Che non perdano mai la propria integrità continuando a deliziare le nostre orecchie con il loro inconfondibile sound, in attesa del prossimo disco previsto per l’estate del 2017 ‘accontentiamoci’ di questo box set, un cadeau gradito per tutti i loro fans più affezionati. Andrea Schwarz
As Lions
Selfish Age
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(Better Noise/Warner) Qualche mese fa ci era capitato tra le mani l’ep ‘Aftermath’ dei britannici As Lions, una manciata di canzoni di cui il sottoscritto non aveva esitato a parlarne in maniera più che positiva cercando al tempo stesso di allontanare il più possibile ogni paragone con i legami di parentela del loro singer, tale Austin Dickinson. Detto ciò, si rimandava ovviamente all’ascolto di un full lenght album per poter avere un’idea completa della loro caratura artistica. Ed oggi ci troviamo finalmente di fronte a ‘Selfish Age’, un album di ben undici brani che a livello di produzione ricalca pedestramente quanto già pubblicato mesi addietro stupendoci di come solamente sette undicesimi siano brani totalmente nuovi (gli altri hanno fatto parte dell’ep già edito mesi addietro). Questa è una scelta alquanto
discutibile, non si riesce a capire a questo punto l’utilità di editare un ep quando poi le stesse quattro canzoni sono presenti anche nel full lenght album. Dettaglio a parte, gli As Lions confermano ciò che di loro si era già avuto modo di parlare: moderno rock dalle forti tinte melodiche con quella spruzzatina di elettronica che non guasta in una miscela sonora che richiama alla mente ensemble come Bring Me The Horizon e, soprattutto gli Shinedown con i quali sono stati anche in tour recentemente negli USA. In maniera più esplicita, grande attenzione è stata dedicata alla parte vocale e corale affinché l’ascoltatore potesse ascoltare questi brani in maniera continuativa senza stancarsi piuttosto che puntare solamente sul ‘fattore marketing’ dato dal pesante cognome del buon Austin. ‘Bury
My Head’ e la già nota ‘World on Fire’ hanno al loro interno dei gustosi intro di piano prima di sfociare in un moderno e roccioso modern rock, ‘The Suffering’ è un tributo non troppo velato agli Shinedown senza risultare noioso, ‘One by One’ e ‘The Fall’ sono ancora modern rock con catchy chorus e quella giusta dose di energia che ti fa battere il piede a ritmo. Niente di nuovo sotto il sole, in alcuni casi le soluzioni sono un po ruffiane ma non si può affermare che ‘Selfish Age’ sia un disco noioso. Ribadiamo lo stupore di trovarsi nuovamente i quattro brani già presenti in ‘Aftermath’ nella stessa identica versione ma chi non avrà ascoltato il precedente ep potrà godersi pienamente tutto il ‘pacchetto’. Andrea Schwarz
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i n o nsi
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Theater Of Dimensions
(Napalm/Audioglobe) Quando nel 2013 i tedeschi Xandria pubblicarono ‘Sacrificium’, in molti ebbero la sensazione che si trattasse di un lavoro di transizione. L’inserimento della vocalist Dianne Van Giersberger fu annunciato molto a ridosso della pubblicazione dell’album, e il sospetto che l’intero lavoro fosse stato scritto con in mente la vocalità della ex Haggard Manuela Kraller fu piuttosto forte. In quell’occasione crediamo che il timido ma avvertibile tentativo da parte del compositore Heubaum di staccare lo Xandria-sound da quello dei padri putativi Nightwish abbia
in parte nascosto l’utilizzo ‘a metà’ della nuova brava cantante, ma è innegabile che una sensazione di incompiutezza, soprattutto sulle linee vocali, fosse rimasta. La conferma di ciò ci arriva col nuovo ‘Theater Of Dimensions’, album che ridefinisce in altro modo il percorso evolutivo iniziato con ‘Sacrificium’ e nel quale la Giersberger trova una nuova e più adatta collocazione. Con questo album gli Xandria tornano infatti a fare quello che sanno fare meglio: musica cinematico/sinfonica di chiara firma Nightwish, guidata da grandi orchestrazioni e ritornelli fruibili, ma con
anche un piccolo spazio per personalizzazioni e barocchismi alla Epica. Il risultato è sicuramente superiore a ‘Sacrificium’, l’album scorre in maniera più uniforme e senza gli inutili pesi e pomposità che il predecessore caricava su quasi tutti i pezzi. Gli Xandria non sono certo una band originale, si sa, ma nell’attuale veste di band surrogata dei Nightwish, il proprio lavoro lo sanno fare bene. ‘Theater Of Dimensions’ non è più che questo: un valido album di metal sinfonico, da alternare con piacere ai nostri preferiti. Dario Cattaneo
Frei.wild
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mit liebe stolz & leidenschaft
gh Hi
l t a ge I Frei.Wild non sbagliano un colpo! Questa è la frase giusta per iniziare la recensione di questa nuova release speciale del gruppo brissinense intitolata ‘Mit Liebe Stolz & Leidenschaft’. I nostri più affezionati lettori avranno notato che nei Metal Hammer Staff Awards 2016 ho votato i Frei.Wild sia per miglior uscita live (proprio con quella che vi sto descrivendo), sia per miglior concerto dello scorso anno con la grandiosa performance all’ultima edizione dell’Alpen Flair Fest, di cui trovate un dettagliato resoconto nel numero 05/2016. Le tre parole scelte dal gruppo simbolo del Südtirol sono quelle che lo descrivono al meglio: amore, orgoglio e passione è tutto quello che si respira e sfocia dalla musica dei Frei. Wild, che nel 2015 hanno celebrato il quindicesimo anno di attività con una crescita esponenziale che li ha portati a vincere persino un Echo Award nella categoria Rock/Alternati-
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ve nazionale tedesca. Difficile trovare le parole per descrivere ‘Mit Liebe Stolz & Leidenschaft’, poiché è una release con tutte le carte in tavola per definirsi “eccezionale”. Un triplo DVD (o blu-ray) che rende giustizia a un gruppo che in “soli” quindici anni di vita è riuscito a scalare le classifiche, con dischi di altissima qualità, dei quali tengo sempre a citare il monumentale ‘Opposition’ nella sua Xtreme Edition (un vero e proprio manifesto del Deutschrock contemporaneo, un disco da 100 pieno) e, in ordine di tempo, il recente ‘15 Jahre Deutschrock & SKAndale’ (anche questo nella mia top10 del 2016, con quel gioco di parole nel titolo che invoglia all’ascolto ancor prima di averne sentito una sola nota). Il primo disco di ‘Mit Liebe Stolz & Leidenschaft’ è travolgente. Un live registrato a Berlino durante una data estiva di fronte a ventimila spetta-
tori e che raccoglie tutti i più grandi successi della band del Südtirol, come (nomino solo alcune delle preferite del sottoscritto) ‘LUAA Rock’n Opposition’, ‘Niemand’, ‘Wir brechen eure Seelen’, ‘Unvergessen, Unvergänglich, Lebenslänglich’, ‘Hab keine Angst’, ‘Wir reiten in den Untergang’ (uno dei pezzi che in versione live riesce ancor meglio che da studio) e ovviamente ‘Frei.Wild’ e ‘Südtirol’. La performance registrata in questa uscite live è la solita dei Frei.Wild, e quando “solito” sta a significare “ordinario”, beh, cambiamo registro, perché ogni show dei brissinensi è ad alto voltaggio, un barile ricolmo di energia che si riversa sui fan, che sanno sempre cosa aspettarsi dai loro beniamini. Philipp Burger si conferma mattatore delle folle e assieme ai suoi compagni tiene in alto la bandiera del Deutschrock, del loro paese e della libertà. Stark! Stefano Giorgianni
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(Rookies & Kings/Soulfood)
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Battle Beast
Bringer Of Pain
(Nuclear Blast/Warner) I Battle Beast sono arrivati al quarto album della loro carriera senza il mastermind Anton Kabanen e ancora una volta, dopo la separazione con Nitte Valo, la critica e il pubblico hanno messo in dubbio il destino della band, ritenendola incapace di proseguire dignitosamente senza il suo unico compositore. Ancora una volta la critica e il pubblico vengono smentiti da quello che è forse il miglior album della discografia dei Battle Beast fino ad oggi. “Bringer Of Pain” è un album primo di imposizioni, la conseguenza dell’effetto che la libertà dal giogo di Kabanen ha avuto su ogni componente della band. Pur mantenendo i forti richiami alle sonorità tipiche degli anni Ottanta, l’album esplora una buona varietà di stili, risultando in una proposta ina-
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spettatamente ricca ed eterogenea. La prima traccia, “Straight To The Heart” ha un certo je ne sais quoi di Debbie Harry che non potrà non solleticare l’interesse dell’ascoltatore. Il primo singolo estratto dall’album, “King For A Day”, fonde insieme gli Eighties con un sentore disco anni Settanta per ottenere una hit da ascoltare in loop e ballare senza sosta. “Beyond The Burning Skies” sembra strizzare l’occhio ai Nightwish della fase Anette, un brano che, visti i precedenti della band, difficilmente si assocerebbe alla personalità e alla voce di Noora Louhimo, ma nonostante tutto le calza come un guanto. È forse Noora la maggiore beneficiaria della separazione con Kabanen: per la prima volta da quando si è unita alla band, la sentiamo sfruttare in toto la
sua voce, dimostrando di non essere brava solo a urlare. Il suo è un cantato duttile, perfetto in ogni contesto e in ogni sua espressione di forza, sentimento, dolcezza e sensualità, incredibilmente adatto sia ai passaggi più heavy, sia a quelli più pop. Ebbene sì, “Bringer Of Pain” è un album commerciale, concepito per far divertire il pubblico in barba a ciò che i “veri metallari” dovrebbero produrre. Con quei suoni sintetici ingombranti e le melodie più catchy di quanto si possa accettare, “Bringer Of Pain” si aggiudicherà un posto nel cuore degli ascoltatori senza grossa fatica. Per i Battle Beast è l’alba di una nuova, sfavillante era, che ci auguriamo splenda su di loro ancora a lungo. Alessandra Mazzarella
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Helheim
erezione lasciate stare e passate oltre. Se invece siete disposti a intraprendere un viaggio a volte anche un po’ ostico alla scoperta delle origini di un popolo le cui radici affondano in una cultura antica e misteriosa accomodatevi e fatevi rapire dall’oscurità di ‘landawarijaR’. Quello che gli Helheim vogliono fare è proprio esplorare e catturare gli aspetti più profondi della cultura pre-cristiana Nord-europea attraverso le rune, strumenti potenti e, come dice la loro radice etimologica, misteriosi appunto. Come il precedente ‘raunjaR’ infatti anche ‘landawarjaR’ prende il suo nome da una delle antichissime iscrizioni runiche risalenti rispettivamente al 200 e al 400 AD. Ogni canzone, a partire dal titolo è un richiamo potente alla tradizione e alla personalità dei popoli del nord: ‘Ymr’ ( dall’old norse: grido; stessa origine etimologica del gigante Ymir, primo tra gli esseri), canzone sul
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(Dark Essence)
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landawarijaR
L’anno è appena iniziato e io ho già trovato uno dei miei top album del 2017. Lo dico senza esitazione, sicura del fatto che ‘landawarijaR’ non uscirà tanto facilmente dalle mie playlist. Solo un mese e mezzo fa avevo intervistato V’gandr, bassista e membro fondatore della band, che, seppur senza sbottonarsi troppo, mi aveva già dato qualche informazione sul disco in uscita descrivendolo come un album adulto che avrebbe ripreso alcune sonorità che avevamo già conosciuto con ‘Heiðindómr ok mótgangr’ e avrebbe migliorato alcuni aspetti che su ‘raunjaR’ non l’avevano convinto troppo. In effetti l’impressione che dà è quella di un album maturo, ponderato, in equilibrio tra il feroce sound black degli esordi e un progressive raffinato che piano piano, nel corso degli album, ha trovato uno spazio sempre maggiore. Se vi aspettate un lavoro “viking metal” fatto di fuochi d’artificio e martelli in
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concetto di ascesa e della determinazione di sé, ‘Baklengs Mot Intet’ che di contro descrive la caduta, la battaglia interiore, la disperazione senza fond, ‘Rista Blodørn’ (la famosa Aquila di sangue), la titletrack ‘landawarijaR’, ‘Ouroboros’ (ovvero Jormungandr, figlio di Loki, l’enorme serpente di Midgard che si morde la coda, formando un cerchio senza inizio né fine) , ‘Synir Af Heidindomr’ fino alla conclusiva ‘Enda-dagr’. Come tradizione in casa Dark Essence, anche in questo disco ci sono molti gli ospiti tra cui l’inconfondibile Pehr Skjoldhammer degli Alfahanne su ‘Synir Af Heidindomr’, William Hut, Morten Egeland, Bjornar E Nilsen (Vulture Industries, Black Hole Generator) e Ottorpedo. Un album non proprio di facile ascolto, ma ogni volta si scopre qualcosa di nuovo ed è questo a renderlo speciale. Mara Cappelletto
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BRINGING TO THE
METAL HORSES FINE MORTE
LA di Francesco Ceccamea Non esiste più un mercato discografico, ok. Stranamente a piangerlo non sono soltanto i ricchi produttori, gli artisti opulenti e le etichette depresse ma anche il povero pubblico squattrinato che ha sempre dato il mangime a questi dinosauri del guadagno e dello sperpero. È vero, tranne l’acquisto dei vinili in tiratura limitata, delle cassette TDK con le copertine fotocopiate in bianco e nero vendute per corrispondenza come vuole la tradizione Tvue Black più hipster, qualche cofanetto con la custodia in bara di vero legno querciolo e all’interno frammenti di pelle morta della band, gli album non vendono più una briglia, specie quelli in formato CD. Nonostante ciò le band continuano a realizzare, distribuire, promuovere compact. Sono convinto che ancora pensino a una tracklist di dieci, dodici canzoni, quando scrivono il materiale, immaginandosi persino un lato A e un lato B su cui imbastire la scaletta. I CD sono come le penne realizzate dai tossici in comunità: la scusa per un contributo economico alla causa che un acquisto necessario. Nell’insieme tutta questa è una situazione
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LA inverosimile che fa sbottare il vecchio orco delle opportunità Gene Simmons : “senza un vero sistema finanziario che funzioni i Kiss un altro disco non lo fanno neanche morti”. A parte che artisticamente sono deceduti dal 1993, nonostante i quintali di cerone buttati sugli occhi e le orecchie del pubblico ma la sparata del grande vecchio sembra più la scusa di chi non accetta l’idea di andare in pensione, accusa l’ambiente lavorativo di schiavismo e pessime opportunità e quindi preferisce sospendersi a tempo indeterminato e campare di rendita grazie ai risparmi messi via negli anni fiorenti. So come la pensate, vi sento nitrire ogni giorno a riguardo: senza soldi il metal è destinato a morire eccetera eccetera. Ma drizzate le orecchie puntute, somari che non siete altro, perché questa è una balla! Oggi fare un disco decente e metterlo in rete
costa quasi quanto un buon demo di vent’anni fa. Altrimenti come vi spieghereste il fatto che siamo sommersi di musica nuova? Certo, per quanto sia più difficoltoso cogliere la qualità in mezzo al mediocre riciclaggio di idee, vi assicuro che ogni giorno escono dischi straordinari. E non è il sound cristallino e la produzione bombastica a fare la differenza ma le idee. Basta avere la pazienza di leggere le recensioni delle webzines e che, per quanto non siano più determinanti per il vostro portafoglio lo sono per il tempo. Vedrete, di nomi buoni da sentire ne avrete almeno un paio a settimana e con una spesa minima o nulla. Inoltre è innegabile, questo stallo finanziario fa bene all’Underground che sta alla pari dei nomi grossi quanto a opportunità, solo che esso ha sempre ignorato i guadagni e dato vita a movimenti
DEI DEI
CD E KISS
creativi linfatici per il genere. Ancora oggi da sotto le macerie di torrent emergono decine di nomi interessanti e per quanto a volte un po’ troppo ostili alla buona creanza del pentagramma, inebriati di sogno artistico. Inoltre riflettete la fortuna che è capitata alla musica, oh quadrupedi: è fuori dalla logica del consumismo e questo è grandioso. Ricordate cosa diceva Jodorowski: “il nostro impegno come artisti è di far perdere più soldi possibili ai produttori!” e solo così è possibile realizzare qualcosa di autentico, innocente, puro e arricchente per tutti. Lasciate perdere le grandi band che negli anni sono venute a galla e che oggi si riformano indegnamente allo scopo di recuperare i soldi per la manutenzione delle loro esose dipendenze chimiche: pensate invece alla montagna di merda di nomi orribili che le logiche di mercato ci hanno imposto e ancora vorrebbero imporci? Il metal è fuori da questo e vive per amore della gente che lo pratica e lo ascolta. Ormai si realizza perché ci si crede e non se ne vuol fare a meno. Chi pensa solo ai soldi fa la fine di Gene Simmons e francamente lui sarebbe ora che lasciasse il mondo a chi sa accettarne le incongruenze e ha la forza di fare musica lo stesso.