BLIND GUARDIAN
| EDGUY!|the Dead daisies Anno 2 04/2017
+ IVA
ESCLUS
! k c a B s e Strik Speciale: Nuclear LiveSummer
ESCLUSIVA
Hammer Highlights
PAPA ROACH 26
SCHEGGE DI PASSATO Tornare al successo non è facile, specialmente quando sei arrivato quasi alla vetta. È quello che è più o meno successo ai Papa Roach, nota band americana che nei primi 2000, godendo dell’ondata nu metal/alternative, era riuscita a scalare le classifiche con album come ‘Infest’. Oggi, a diversi anni di distanza, ci riprovano con l’ottimo ‘Crooked Teeth’.
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ALPEN FLAIR FEST
IRON MAIDEN LIVE
GUNS N' ROSES LIVE
Il numero estivo di Metal Hammer è da sempre dedicato ai live e ai festival che seguiamo in giro per l’Italia e l’Europa. Quest’anno siamo tornati all’Alpen Flair Fest, il più grande festival musicale del’Alto Adige e una delle manifestazioni che sta acquisendo importanza sul piano nazionale. Nell’ultima edizione si sono visti importanti nomi della scena internazionale, fra cui Anthrax, Sepultura e Frei.Wild.
Il Book Of Souls Tour è oramai terminato, ma noi abbiamo seguito gli Iron Maiden fino negli Stati Uniti d’America. Il rovente sole della California ha riscaldato la data della band inglese dello scorso 1 luglio a San Bernardino, presso il Glen Helen Amphitheater. A seguire il concerto per Metal Hammer è stata una storica penna del giornalismo musicale italiano: Piergiorgio Brunelli.
Il concerto di Imola dei Guns N’ Roses è stato un evento planetario. Quasi novantamila persone sono accorse all’Autodromo Ferrari per rivedere assieme la line-up di una delle band che ha fatto la storia del rock. Metal Hammer è stata l’unica testata metal accreditata per fotografare il ritorno assieme di Slash e Axl e, finalmente, vi possiamo presentare quegli scatti, con qualche nota dei nostri lettori.
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Hammer Editoriale
The Hammer is Alive E anche quest’anno siamo arrivati al numero estivo, quello dei live, quello del caldo asfissiante che non ci lascia respirare e quello, sicuramente, delle vacanze per la maggior parte di noi. Come ogni anno dedichiamo questa uscita ai live, che dominano e imperversano lungo la penisola e nella maggior parte d’Europa, andando a pescare fra le migliori manifestazioni che si sono svolte in questo periodo. Abbiamo quindi il monumentale concerto dei Guns N’ Roses a Imola, per il quale abbiamo scelto di includere un paio dei migliori ricordi annotati dai nostri lettori arrivati attraverso il sito e facebook. Saliremo poi in Südtirol, per assistere, per il secondo anno consecutivo, all’Alpen Flair Festival, fino a giungere in Svizzera per il Rock The Ring e solcare l’oceano per gli Stati Uniti, dove Piergiorgio Brunelli ha seguito per noi il live degli Iron Maiden a San Bernardino (California).
Tante cose sono poi successe dall’ultimo numero. Ci ha lasciato Chester Bennington, in una maniera improvvisa e inspiegabile, riportandoci alla mente quello che era accaduto a Chris Cornell, suo caro amico e collega. Abbiamo dunque deciso di inserire, in extremis, un tributo al cantante americano dei Linkin Park, evitando inutili dietrologie. Purtroppo, non solo Chester è venuto a mancare in questo periodo, di certo non fra i migliori per la nostra musica. Gli Adrenaline Mob sono stati coinvolti in un grave incidente stradale e, dopo il lutto che li aveva colpiti qualche tempo fa con la scomparsa di A.J. Pero, il gruppo ha subito la perdita del bassista David “Dave Z” Zablidowsky, rimasto ferito mortalmente
nel sinistro. Passando ad argomenti che definiremmo più leggeri, c’è stato il concerto di Marilyn Manson al Castello di Villafranca di Verona. Un caso che ha tenuto banco per diversi giorni sulla nostra piattaforma online e nella quale potete trovare le foto e il report dello show. Alla fine, come volevasi dimostrare, il tutto si è svolto nella più assoluta tranquillità, al contrario di quanto si aspettavano alcuni benpensanti bigotti che hanno perso tempo a pregare per l’annullamento della data dell’artista americana. È impensabile che nel 2017 esistano tali forme di ottusità. Il nostro motto è sempre “vivi e lascia vivere”. Tra denti rotti con i Papa Roach e un live album fresco di stampa per i Blind Guardian, vi auguriamo buone vacanze. Continuate a seguirci sul sito e sui social per il giornalismo musicale, quello vero. Keep on Rockin’ and keep the metal flame burning! Stefano Giorgianni
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articoli Rubriche Podcast
TALES FROM BEYOND
Hammer Core
Metal Rubriche
Blind Guardian
DIRETTORE RESPONSABILE Paolo Taricco
Bring Out The thrash
DEAD DAISIES 6
Il supergruppo australiano-americano esce con il ‘Live And Loud’
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Five Finger Death Punch
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ProgSpective
I problemi con il frontman e il futuro della band. I 5FDP dietro le quinte.
Prong 10
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‘Zero Days’ è la nuova sfida degli infaticabili metaller statunitensi L’hardcore senza fronzoli della band statunintense arriva al terzo full-length
Edguy
REDAZIONE
24 Stay Brutal 52
14 È tempo di best-of per i
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FOTOGRAFI Alice Ferrero alice.ferrero@metalhammer.it
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Nuovo capitolo per gli alfieri del power teutonico. Ecco a voi ‘Gunman’.
Recensioni
Roberto Villani roberto.villani@metalhammer.it Emanuela Giurano
The Unity 18
Angela Volpe angela.volpe@metalhammer.it
Dario Cattaneo dario.cattaneo@metalhammer.it
Tattoo
Orden Ogan
Andrea Schwarz andrea.schwarz@metalhammer.it
Andrea Lami andrea.lami@metalhammer.it
Chester Bennington
tedeschi. Scopriamo cosa si cela dietro a ‘Monuments’
VICEDIRETTORE EDITORIALE Fabio Magliano fabio.magliano@metalhammer.it CAPOREDATTORE Stefano Giorgianni steve.giorgianni@metalhammer.it
Code Orange 12
DIRETTORE EDITORIALE Alex Ventriglia alex.ventriglia@metalhammer.it
È tempo di supergruppi e progetti sensazionali. Vi 34 presentiamo i The Unity.
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NEWS EDITOR Blagoja Belchevski blago@metalhammer.it GRAFICA Stefano Giorgianni
Adrenaline Mob 22 Un’intervista raccolta prima
HANNO COLLABORATO Giuseppe Cassatella, Alex Manco, Trevor, Marco Giono, Melissa Ghezzo
dell’ultima tragedia che ha colpito il gruppo americano
PUBBLICITÀ adv@metalhammer.it WEBMASTER Gianluca Limbi info@gianlucalimbi.com
Live Report
IN COPERTINA Papa Roach Photo Courtesy of Eleven Seven Music
ROCK THE RING @Zurigo - 23/25 giugno 2017 48
Una band che non inventa nulla di nuovo, i The Dead Daisies, ma che suonano rock senza fronzoli e senza compromessi come solo i grandi del rock sono in grado di fare.
L E D O N R O T IL RI ROCK’n’roll
di Andrea Schwarz
È primo pomeriggio in quel di Milano, località scelta per questa intervista faccia a faccia con un John Corabi in splendida forma, affabile e disponibile nell’accogliere l’accalorato scribacchino di turno senza perdere il buon umore e la voglia di mettere a proprio agio chi aveva l’ingrato compito di inondarlo di domande. Intervista che è andata avanti per ben quarantacinque minuti, un tempo molto maggiore rispetto alla norma nella quale Corabi ha parlato a viso aperto, quasi ci si trovasse al pub sotto casa con una pinta di birra e tanta voglia di chiacchierare. Conosce bene il suo passato, le (dis)avventure che la vita gli ha posto dinanzi ma è altrettanto conscio della grande opportunità che i The Dead Daisies stanno dando a lui ed alla band di scrivere un importante capitolo di una carriera che sta vivendo una seconda giovinezza raccogliendo finalmente i frutti di tanta dedizione e lavoro. ‘Live and Loud’ è quindi il loro primo album live, non poteva che partire da qui la nostra conversazione provocandolo un pò, chie-
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dendoci l’utilità della sua pubblicazione in un mondo dove una montagna di video live vengono quotidianamente caricati su YouTube oppure sui più svariati canali social: “Il nostro ultimo disco è uscito lo scorso anno dandoci la grande opportunità di suonare parecchio dal vivo, alla fine di ogni show siamo soliti orga-
nizzare dei meet and greet con i nostri fans e molti di loro, complimentandosi per lo spettacolo ci chiedevano di poter sentire immortalati questi live shows. È un apprezzamento che ci ha gratificato ma che non avevamo ancora preso in considerazione fino a pochi mesi fa, in autunno torneremo in
studio per lavorare al prossimo album e quindi ci è sembrato il periodo migliore per poter fare una cosa del genere. È vero che in rete ormai puoi trovare di tutto ma sono pur sempre video girati da fan con un sound per lo più scadente, i nostri fans si merito molto di più!” La cosa che maggiormente sorprende è la grande coesione tra loro musicisti, caratteristica assente per lo più sul loro debutto ma che è cresciuta esponenzialmente album dopo album: “Il primo album che è stato pubblicato da David e da Jon Stevens alla voce era il frutto della loro collaborazione piuttosto che un lavoro di squadra, inevitabilmente questo poteva riflettersi sulle canzoni e sul prodotto finale. Fin dalla release dell’ep avvenuta appena prima del mio ingresso credo che si possano notare i miglioramenti in tal senso, oggigiorno non ci sono una o due persone che si sobbarcano l’intero aspetto compositivo ma è qualcosa che viene fatto in gruppo. Ognuno di noi sa suonare la chitarra ed in continuo si lavora da soli alle più svariate idee che poi vengono
“mi è stato domandato come mi fossi sentito apprendendo della morte di Chris Cornell, per lui come in tanti casi da fuori sembra che ci sia felicit à, che la vita scorra via normalmente ed invece non sai mai cosa può accadere nella testa delle per sone.” condivise, è bello quando arrivo con un riff e Doug (Aldritch, chitarra) o chiunque altro mi propone di suonarlo modificandone la tonalità o aggiungendo qualcosa, è un working team fantastico che non può non riflettersi sulle canzoni che di volta in volta componiamo.” Non dev’essere facile riuscire a mettere d’accordo persone con un potenziale ego molto elevato soprattutto in occasione dei tour piuttosto che in studio, si vive la quotidianità forzatamente insieme, come stare in famiglia: “Non abbiamo nessun tipo di problema legato al voler essere la primadonna in nessuna situazione, né on tour né quando siamo in studio. Ti faccio un esempio: quando lavoriamo ad un disco o prepariamo un tour ci troviamo tutti in quel di New York, ci chiudiamo in una stanza e imbracciamo i nostri strumenti. Proviamo insieme, componiamo insieme, ci confrontiamo serenamente... le idee sono sempre tantissime e sfruttiamo gli strumenti tecnologici dati dagli smartphone per poter immagazzinare dati su dati, quello che non sembra una buona idea potrebbe esserlo domani. Pensa che per ‘Revolucion’ e ‘Make Some Noise’ abbiamo impiegato qualcosa con un mese abbondante per completare il songwriting, registrare, fare il mix ed il mastering….è tutto così veloce e fluido, la dimostrazione di come tra di noi siamo affiatatissimi!”
Su ‘Make Some Noise’ troviamo un brano intitolato ‘We All Fall Down’, effettivamente nella vita ognuno può trovarsi in difficoltà per svariati motivi, chissà quali possono essere le motivazioni per rialzarsi secondo John Corabi: “È una domanda molto personale, dipende dalle cadute e dalla persona che sei...oggi mi è stato domandato come mi fossi sentito apprendendo della morte di Chris Cornell, per lui come in tanti casi da fuori sembra che ci sia felicità, che la vita scorra via normalmente ed invece non sai mai cosa può accadere nella testa delle persone. Tutti passiamo momenti no nella nostra vita, per arrivare in alto bisogna necessariamente vivere momenti non propriamente positivi e per superarli dipende dalla determinazione che ogni individuo ha in sè, dalle sue motivazioni. Anche io ho vissuto periodi difficili, uno di questi è rappresentato dal momento in cui persi il mio posto nei Motley Crue contemporaneamente alla perdita di mia madre. Devi cercare comunque di andare avanti ma non per tutti è facile.” Purtroppo trascrivendo queste parole è impossibile riuscire a mettere su carta con quale sensibilità Corabi è riuscito a dire cose a volte ovvie ma non così scontate come sembra, uno che non se l’è passata bene ma che è riuscito a trovare in sè e nel mondo che lo circondava le giuste motivazioni per poter guardare
avanti: “Dall’avventura con i Motley Crue ho imparato tantissimo, posso raccontarti un aneddoto. Appena entri a far parte di una band così grossa non te ne accorgi subito ma immediatamente hai tantissime persone che ti chiamano, ti invitano a feste, vogliono regalarti chitarre, vestiti, ogni genere di cosa tu possa immaginare. Quando fui fuori dai giochi il mio telefono non squillava più, tutto svanito come neve al sole. Non è stato facile, ho dovuto lavorarci duramente ma ho capito che prima di entrare a far parte di quell’ingranaggio avevo degli amici che sono rimasti tali durante quell’avventura e dopo, quello era il segreto e la fonte delle mie motivazioni ad andare avanti oltre a mio figlio e a mio padre. Ho realizzato semplicemente che la vita va avanti indipendentemente dalle cose che possiedi, dai soldi che hai e che inevitabilmente vanno e vengono, quello di cui avevo bisogno erano gli amici, un piccolo gruppo di amici che potessero sorreggermi e starmi vicino indipendentemente dal ruolo che avevo, anche e soprattutto facendomi notare i miei errori. È una lezione che ho imparato sulla mia pelle, non penso a fare mille programmi, ringrazio di avere la fortuna di fare questo mestiere, di avere una bella famiglia alle spalle, ogni giorno è una gioia e un dono da vivere fino in fondo.”
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Trascorsi due anni dalla pubblicazione del loro ultimo disco,'Got Your Six' e dalla data milanese del 2015 cancellata a seguito della tragedia del Bataclan, affrontiamo in un faccia a faccia senza troppi fronzoli, il chitarrista e cofondatore dei Five Finger Death Punch, Zoltan Bathory.
E r A D L A S A D UN CONTO
di Marco Giono Foto di Melissa Ghezzo
Una volta che lo incontri, anche solo per pochi istanti, ti rendi immediatamente conto che Zoltan Bathory, chitarrista e cofondatore dei Five Finger Death Punch, non è uno che abbassi facilmente lo sguardo. Prima ancora di dare il via all’intervista ti fissa negli occhi con fermezza. Da campione di arti marziali è consapevole del fatto che per leggere le mosse altrui in anticipo, lo sguardo dell’avversario è tutto. Allo stesso modo, poi, non è uno che ti dà l’idea di arrendersi e come molti altri ha deciso di non piegarsi. I Five Finger Death Punch tornano in Italia, infatti, per saldare un conto in sospeso. Devono recuperare la data di novembre 2015 cancellata a seguito dell’attentato al Bataclan a Parigi. In quei giorni il gruppo americano si trovava in tour a supportare il nuovo album ‘Got Your Six’. L’ennesimo successo meritato, a dire il vero. Però, sono passati ormai due anni da quel loro ultimo disco e anche in virtù dei numerosi concerti siamo curiosi di sapere come quelle canzoni sono invecchiate. “Penso che sia uno dei
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nostri migliori album. Abbiamo messo nero su bianco quello che siamo oggi e quello che vogliamo essere al meglio delle nostre possibilità. Poi la band sta ancora crescendo e penso vi sia la chimica giusta tra i diversi membri.” Come si evince sin dalle prime parole, Zoltan non tergiversa, evita i preamboli e quando
lo provochi su eventuali difficoltà nel mettere assieme la musica incorrendo magari in scelte difficili: “Più passa il tempo, più dischi facciamo e più cresciamo come gruppo. Il modo in cui lavoriamo è quello semplicemente di scegliere i migliori brani possibili da mettere sul disco. Non ci sono
discussioni o problemi nell’escludere brani. Tra le altre cose dividiamo i proventi derivanti dai diritti dei singoli brani in modo uguale per ogni membro del gruppo. Questa è una scelta che abbiamo portato avanti sin dal primo giorno in modo da evitare conflitti tra di noi e concentrarci sulla musica.” Se è davvero così semplice per i Five Finger Death Punch fare i dischi, è anche immediato chiedersi se il prossimo album sia già pronto e se magari ha già una forma definita. La risposta non si fa attendere: “Il nuovo disco è già stato completato da ormai sei mesi ed è già nelle mani dell’etichetta. Non abbiamo cambiato molto rispetto a ‘Got Your Six’...ehi, non siamo una band jazz...abbiamo il nostro stile e lo vogliamo seguire. Quindi, si tratta più di un seguito. Penso sia un grande album e abbiamo dentro delle canzoni davvero ottime, sempre nel nostro stile.” Si tratta dunque di aspettare e immaginiamo che ulteriori dettagli li pubblicheranno via social. Infatti, come altri gruppi e più di altre band sono davvero attivi anche in rete: “Di certo
non siamo una band jazz... abbiamo il nostro stile e lo vogliamo seguire. le cose sono cambiate, oggi abbiamo la possibilità di dialogare in maniera diretta e continuativa con i fan e loro stessi ci pongono domande e vogliono sapere cosa succede dietro le quinte. È una situazione interessante. Noi rispondiamo di persona. Non mettiamo altre persone a occuparsi della cosa. In questo senso non possiamo rispondere a tutti, cerchiamo di trovare un bilanciamento tra le cose.” In qualche modo i Five Finger Death Punch oggi si ritrovano con i fan italiani dopo un concerto cancellato e un presente ancora tragicamente irrisolto. “Non possiamo cambiare il modo in cui viviamo. Non possiamo fermarci e stare a guardare. Allo stesso tempo dobbiamo fare in modo che il nostro spettacolo si svolga nelle migliori condizioni possibili per la sicurezza di tutti. Si tratta di una nostra responsa-
bilità. Ed è una vera vergogna che delle persone ci rimettano per qualcosa che non è colpa loro.” Oltre a non fermarsi, Zoltan è uno che si spende in prima persona per dare il suo contributo a persone magari dimenticate, colpevoli magari di aver svolto solo il proprio dovere e per la qual cosa hanno poi pagato un prezzo alto: “I veterani svolgono un lavoro che nessuno di noi vuole fare. La loro attività comporta dei rischi molto alti per la salute. Così, necessitano di cure mediche, di supporto psicologico e nella maggior parte dei casi di essere reintegrati nella società. Ci affidiamo a organizzazioni che si occupano di prendersene cura in modo da rendere possibile un loro ritorno ad una vita più normale. Supportiamo anche organizzazioni legate alla polizia, ai vigili del fuoco. Loro operano per tenere lontano il caos dalla
nostra civiltà. Se questi ragazzi, anche solo per un giorno, non andassero al lavoro, torneremo al tempo della pietra. Così vogliamo in qualche modo dare il nostro contributo, pensiamo sia la cosa giusta da fare.” Tornando a cose più leggere, gli chiediamo quali siano i punti di riferimento dei Five Finger Death Punch, anche dopo aver suonato con gruppi stilisticamente diversi tra loro, come ad esempio Deftones, Judas Priest o Korn. “Vedo il rock e il metal come un insieme unico, una grande famiglia. Non sento grosse distinzioni tra i generi. Mi piacciono gli Scorpions come gli Slayer...allo stesso modo. Ci sono di certo differenze nei loro stili, ma quello che mi piace è come stanno sul palco, quello che trasmettono con la loro musica. Poi sono un fan dei Rammstein, mi piace quello che fanno quei ragazzi sul palco, con quei
Ultime Notizie: i problemi di Ivan Moody e l’entrata di Tommy Vext Con un post sul blog del loro sito web, i 5FDP annunciano che il loro tour andrà avanti con Tommy Vext dei Bad Wolves a sostituire Ivan Moody, il quale è ricaduto di nuovo nel tunnel dell’abuso di sostanze e non è in grado di proseguire. Di seguito la dichiarazione di Moody: “Sono imbarazzato e costernato di ammettere di essere di nuovo caduto dal vagone. Mi trovavo su terreno instabile prima della nostra performance a Tilburg, e anche se tante cose successe durante il concerto erano fuori dal mio controllo, la vergogna per non avere portato a termine (il concerto) mi ha spinto giù. Non sarebbe giusto nei confronti dei miei compagni di band e dei fan continuare a esibirmi nella mia condizione attuale. Una delle cose peggiori della dipendenza è la solitudine che senti, quindi avere il supporto della mia band e di tutti i zucconi è ciò che mi fa andare avanti. Mi dedicherò a riprendermi in modo da poter tornare sul palco il prima possibile.” concerti enormi, sono davvero impressionato da quel genere di cose.” Come chitarrista, Zoltan ha ricevuto anche dei riconoscimenti importanti, siamo quindi curiosi di indagare com’è cambiato nel tempo il rapporto con il suo strumento: “Come per tutte le attività ripetitive, uno tende a migliorarsi e nel caso della chitarra a rifinire la tecnica con cui suoni. Non si tratta solo di quello, ma di suonare bene quando sei sul palco, quando ti muovi e stai con la tua band, cercando di reagire alle più diverse situazioni. Allo stesso tempo non cerco di essere Yngwie Malmsteen, amo
Yngwie, ma ho un differente stile, più diretto e heavy. Voglio concentrarmi, non tanto sull’essere un guitar hero, ma sullo scrivere canzoni che possano toccare la vita delle persone. È quello che mi piace fare.” Ancora prima di essere un musicista, Zoltan si considera però un artista marziale. Leggendo dalle sue note scopriamo che è un campione di Jiu-Jitsu. Così gli chiediamo se vi siano dei collegamenti tra musica e arti marziali: “Le arti marziali non sono quello che fai, ma quello che sei.È il modo in cui guardi la vita ed è il modo in cui sei nella vita. Invece, come praticante di arti mar-
ziali quello che voglio fare è di trovare un modo di vincere, analizzi una data situazione e cerchi di trovare una soluzione per portare a tua favore l’incontro. Si tratta, quindi, del modo in cui affronti le cose. È la stessa cosa nel lavoro, oppure nella musica. In modo uguale le arti marziali mi aiutano a concentrarmi, ad avere una forte consapevolezza di me stesso. Tutto questo poi ti serve nella vita. Centra con la disciplina, con l’Io e quindi con la forza interiore.”
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Tommy Faccia a faccia con i victor, il leader degl e infaticabili prong, ch con il tornano quest'anno nuovo 'zero Days'!
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Prong, questa entità sconosciuta. Così potremmo cominciare la chiacchierata con Tommy Victor, incontrastato leader della band statunitense oggi tornata sulle scene con un nuovo album di zecca intitolato ‘Zero Days’. I Prong fin dai loro esordi con ‘Primitive Origins’ del 1987 sono stati una scheggia impazzita in un contesto musicale che tende a catalogare ogni singolo vagito musicale, proprio loro che invece hanno coniato un sound personale e fuori da ogni schema. Prendere o lasciare, anche se non tutto quanto prodotto in carriera può essere considerato come qualcosa di assolutamente imperdibile. Certamente albums quali ‘Rude Awakening’, ‘Cleansing’, ‘Prove You Wrong’ e ‘Beg To DIffer’ avevano nel loro dna quella forza innovativa che non si è riscontrata nelle produzioni più recenti, probabilmente i frequenti e costanti cambi di line up hanno influito sul risultato finale. Tommy Victor, unico reale mastermind dietro il monicker
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Prong ha dato un’impronta decisiva e fondamentale nella realizzazione anche di questo nuovo album: “Anche in questo disco puoi trovare molto Tommy Victor, ne sono il maggiore songwriter sia livello musicale che per quanto riguarda i testi. Questo non vuol dire che sia un mio lavoro solista, una volta che la maggior parte dei brani furono pron-
ti mi sono confrontato parecchio con Chris Collier che ha portato alcune sue idee compositive e con il quale abbiamo affinato come un affiatato working team tutti gli arrangiamenti. Ma Chris non è stato l’unico con il quale ho
di Andrea Schwarz
condiviso questo percorso perché ho coinvolto altri musicisti come Eric Loch (Primitive Race) con il quale avevo già collaborato per il precedente ‘X (No Absolutes)’ così come su alcune parti di chitarra ho avuto il piacere di lavorare con Marzi Montazeri, Chris Cannella (Autumn’s End) e Greg Harrison al pari di Fred Ziomek (ex-Darkes Hour). Senza contare Matt Williams dei Delphian che ha cantato tutti i backing vocals.” Il risultato finale dimostra però quanto cuore e quanto tempo Victor ha speso nella realizzazione di un altro capitolo della saga Prong: “La realizzazione di questo disco ha richiesto veramente tantissimo lavoro ma devo ammettere che mi sono stupito come questo possa essere avvenuto in un tempo relativamente breve considerando i moltissimi aspetti che abbiamo dovuto affrontare prima di entrare in studio. Suoniamo ancora parecchio dal vivo e quindi tutto è avvenuto in circa tre mesi, appena tornati dal tour di X (No Absolutes) mi sono messo a scrivere e tra una serie di date e le altre ho potuto
“Il fatto che si possa dopo tanti anni continuare a suonare così tanto ci inorgoglisce e non ci stupisce, forse la gente riesce ad apprezzare quante buone canzoni abbiamo scritto in trent’anni di carriera.” mettere mano alle lyrics così come agli arrangiamenti giusto per avere tutto pronto prima di entrare in studio ottimizzando quest’ultima importante fase.” Detto in questa maniera sembra quasi che tutto sia filato liscio senza nessun momento di indecisione, quei momenti nei quali a volte si avrebbe la voglia di ricominciare tutto da capo mandando in fumo mesi di duro lavoro: “Ho avuto qualche momento di indecisione, non sempre quando componi tutto sembra poter essere organico al prodotto al quale stai aspirando a completare, anzi a volte guardi quello che hai fatto e ti rimetti a comporre nuovamente perchè quello che hai tra le mani non rispetta pienamente il progetto iniziale. E allora scrivi, scrivi, scrivi fino a quando non ti rendi conto di aver trovato la giusta ‘quadra’. E questo ti garantisco che non accade solamente nella fase compositiva, abbiamo fatto alcuni cambiamenti anche nel mixaggio, alcune soluzioni non ci soddisfacevano e abbiamo dovuto rimetterci mano. La parola d’ordine è ‘non farti prendere dal
panico’ così riesci in qualche maniera a mantenere i nervi saldi per poter terminare il tutto nei tempi prefissati.” Ogni tanto, facciamo delle sane confessione personali: ho scoperto i Prong con ‘Beg To Differ’ e li ho apprezzati fino alla pubblicazione di ‘Rude Awakening’, mi domando quanto sia stato difficile andare avanti tutto questo tempo considerando le difficoltà quotidiane, il non essere riusciti a diventare una starlilght di prima grandezza come l’affrontare il noiosissimo vortice dei continui cambi di line up che non danno stabilità al progetto: “Penso che da quei giorni il nostro songwriting sia migliorato, dopo tutto con tutte le releases che abbiamo pubblicato fino ad oggi riesci a comprendere cosa possa funzionare e cosa no. Hai l’esperienza dalla tua parte, indubbiamente. Al tempo stesso cerchiamo di non alienare i fans che pazientemente ed amabilmente ci stanno seguendo, alcuni fin dai primordi così come credo che anche a livello esecutivo la line up odierna sia la migliore che abbiamo avuto. Prendi ad
esempio Art Cruz, è il batterista più tecnico con il quale ho avuto la fortuna di collaborare, anche questo fattore aiuta e non poco. In ultimo, se posso spendere due parole su me stesso, rispetto agli inizi il mio stile vocale è cambiato trovando oggigiorno la sua dimensione ideale.” Forse l’ultima affermazione è un pò troppo pretestuosa ma quale musicista riesce a ‘snobbare’ la sua ultima produzione? Ma a confutare questo punto di vista bisogna ammettere che la band è sempre richiestissima live, basti pensare alle tantissime date live già programmate per le prossime settimane in giro per l’Europa (Italia esclusa). “Il fatto che si possa dopo tanti anni continuare a suonare così tanto ci inorgoglisce e non ci stupisce, forse la gente riesce ad apprezzare quante buone canzoni abbiamo scritto in trent’anni di carriera, e non è poco. Quando siamo sul palco è emozionante ogni singola volta ‘toccare con mano’ il rapporto magico che si instaura con il nostro pubblico, è qualcosa di indescrivibile.”
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In occasione del concerto dei Code Orange a Milano abbiamo avuto l’oppurtunita' di parlare con la punk hardcore band americana
La minaccia arancione
di Marco Giono
Il concerto dei Code Orange è da poco terminato. Jami Morgan, batterista e cantante del gruppo proveniente da Pittsburgh, pare rilassato, come se le fatiche del palco lo avessero rinvigorito. Si direbbe che la forza scorre potente nel giovane Jami. Credo che la sua condizione di forma sia dovuta non solo alla sua età o alla residua adrenalina ancora in circolo, ma anche al momento positivo vissuto dal gruppo punk hardcore americano che con il nuovo album ‘Forever’ ha elevato l’asticella verso una complessità fatta di variazioni elettroniche e passaggi ancora più brutali riuscendo comunque a riscuotere consenso tra i fan. Abbiamo tentato quindi di indagare il passato nelle parole di Jami, ricostruendo le origini di quei teeneger che agli inizi, come altri, pensavano solo a divertirsi con il punk, per poi arrivare a pubblicare ben tre album. Non rimane che chiedergli come sente oggi la sua ultima creazione, ‘Forever’ dopo averlo suonato in tutto il mondo… “Lo spirito che muove la nostra musica è legato all’idea di migliorarci sempre ed è anche ciò che ci siamo prefissi di fare sin dall’inizio. Il risultato è stato il nostro nuovo album ‘Forever’ che musicalmente è
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di certo più complesso e più interessante, ma riesce allo stesso tempo a mantenere ben in evidenza il nostro tratto aggressivo. In queste nuove tracce poi ritroverai intatto lo stile dei Code Orange, solo abbiamo implementato anche altro. Devo dire che anche dal vivo siamo molto migliorati ed in questo senso ‘Forever’ funziona davvero bene. Siamo più che soddisfatti del risultato.” Ci spingiamo poi a
ipotizzare che quel senso di claustrofobia e di tensione che pervade la musica dei Code Orange possa dipendere, se non nel modo in cui sono formati, magari dal fatto di essere di Pittsburgh: “Ci siamo formati quando eravamo piccoli. Eric e Reba li ho incontrati a scuola quando eravamo giovanissimi, allora Reba aveva solo dodici anni, mentre Eric ne aveva quattordici. Al principio avevamo
qualche difficoltà a suonare nei locali perchè non avevamo l’età. Poi Pittsburgh non è un bel posto come ad esempio la California, si tratta di una città industriale e penso che la nostra musica ne sia un riflesso.” Se non sbagliamo,facevano musica punk in principio…“Suonavamo cover di gruppi punk da teenager. Dal vivo ci esibivamo in brani di band quali Operation Ivy
o i Minor Threat. Si è trattato di buon allenamento ed è una cosa interessante a pensarci bene, perché per buon parte la formazione dei Code Orange è ancora quella. Siamo quindi cresciuti suonando la stessa musica per poi fare altro.” In realtà c’è tanto altro nella musica dei Code Orange. Chiediamo quindi quali sono le altre band o generi che abbiano influenzato il loro percorso musicale: “All’inizio eravamo
influenzati dai Metallica ed ancora di più da band della scena hardcore quali i Converge o i Disembodied. In realtà ascoltavamo anche generi diversi tra loro. L’elettronica, l’harcore, l’industrial sono tutte influenze che fanno parte della nostra identità. In ultimo non vogliamo essere una imitazione di nessuno, vogliamo mantenere il nostro stile come unico, incrociando i generi così che l’ascoltatore ci riconosca immediatamente.” Se nel loro album di debutto intitolato ‘Love is Love/Return to Dust’ i testi erano una sorta di ribellione punk riletta però con uno stile già personale, gli ultimi album paiono essere meno leggibili, difatti spiega: “In qualche modo i nostri testi, soprattutto a partire da ‘I am King’ hanno a che fare con l’identità e con il problema di rimanere se stessi, soprattutto nel momento in cui devi confrontarti con gli altri e quindi sei costretto a crescere. Con il nostro ultimo album ‘Forever’ abbiamo proseguito quella via...principalmente descriviamo e analizziamo la lotta interiore per mantenere la propria identità. I nostri testi se vuoi vertono proprio sul conflitto e comunque si rivolgono a noi stessi, a ciò che sentiamo.”
iera non Venticinque anni in carr a non piu' sono pochi, e i forse or gli Edguy cosi' giovani ragazzi de arlo in hanno deciso di festeggi n Jens grande. Ne parliamo co Ludwig!
BUON COMPLEANNO
JOKER
di Dario Cattaneo E così, dopo le nozze d’argento dell’anno scorso dei Gotthard, ci troviamo a festeggiare anche con gli Edguy il traguardo dei venticinque anni in carriera. Un traguardo che, nelle parole di Jens Ludwig, nessuno nella band si aspettava veramente, quando hanno iniziato. “Eh sì, alla fine, chi pensava che gli Edguy sarebbero diventati una parte così importante delle nostre vite? Di certo non noi quando abbiamo cominciato da ragazzi!”. Il tono di quest’intervista è fin da subito molto sincero come se, invece che al telefono, fossimo al bancone di un pub con una birra in mano. “A parte però la mera valutazione del risultato, direi che il viaggio in se è stato grade. È di quello che siamo più felici. Certo, festeggiare venticinque anni in carriera ci fa sentire tutti un po’ vecchi… ma non abbiamo ancora nemmeno quarant’anni quindi perché preoccuparsi? Siamo tra i pochi musicisti che possono festeggiare così tanti anni in carriera stando ancora dentro i ‘trenta’ come età, quindi abbiamo da essere felici anche per questo, no?”. Di sicuro sì, infatti gli
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Edguy sono considerati da sempre ‘i ragazzi del power metal’. Ma questo, secondo Jens, non vuole però dire che abbiano avuto successo più in fretta rispetto ad altre band. “Il successo non ci è arrivato velocemente, anche se in molti lo dicono!”, puntualizza infatti il chitarrista. “Abbiamo avuto fortuna, quello posso anche ammetterlo, ma i
nostri step li abbiamo fatti tutti. Il primo album nessuno lo voleva pubblicare, al secondo abbiamo trovato una etichetta, ma abbiamo fatto tutto da soli. Sul terzo sono arrivati ospiti importanti, e siamo stati mixati da Tolkki, un autorità all’epoca per il nostro genere. Col quarto abbiamo cominciato a
supportare grandi band, e col quinto abbiamo gestito un tour da headliner. È stata una strada lunga e costante, che abbiamo percorso tutta con dedizione, senza saltarne alcune parte. La costanza penso sia una virtù che ci può essere di sicuro ascritta!”. Un’altra virtù
che gli riconosciamo è poi il fatto di non litigare: la formazione degli Edguy non è mai cambiata da ‘Vain Glory Opera’ in poi, per un totale di 20 anni senza cambi in line-up. Come se lo spiega Jens questo fatto? La risposta ci coglie di sorpresa. “Come mai non abbiamo mai cambiato line-up se non all’inizio? È presto detto: i caratteri dei cinque musicisti devono incastrarsi come un
puzzle e le nostre personalità lo fanno.”. È l’immediata risposta. Fin qui tutto normale, a colpirci è il pezzo dopo: “Vedi, quando in una band si ha un frontman come Toby, un personaggio sopra le righe che attira l’attenzione e VUOLE l’attenzione, per forza di cose tutti gli altri devono capire la situazione e riuscire a trovare una maniera di essere a proprio agio anche stando nel background”, confessa infatti, tranquillamente. “Credo che per noi abbia funzionato così: siamo tutti felici del nostro ruolo, e questo evita i problemi di ego, che sono la bestia nera di ogni rock’n’roll band. Abbiamo trovato un equilibrio che fa stare bene tutti, e quindi, potenzialmente, crediamo che non si romperà mai!”. Il suo giudizio sul fatto che i ben noti problemi di ego siano alla base di molti split nel rock’n’roll ci intriga molto. Gli chiediamo quindi di precisarci meglio questo punto. “Ovviamente è solo una generalizzazione!”, si difende poi, ridacchiando. “Però, se ci pensi, nei casi più clamorosi di split l’ego in qualche modo c’entra sempre. Poi ho sentito le
ragioni più varie e disparate per giustificare gli split di una band… dal chitarrista che si è fatto la tipa del cantante, a problemi contrattuali fino ai soldi che spariscono. Immagino ci sia una miriade di motivi per una band per spaccarsi, i problemi di ego sono però una casistica penso assai frequente. Forse tra le due o tre più importanti”. Entriamo nel dettaglio di come gli Edguy hanno deciso di festeggiare questa sorte di nozze d’argento, ovvero con una ricca compilation, che contiene peraltro pure sei inediti. Come si è arrivati a una tale ricchezza? “Non tutti i brani nuovi sono stati scritti per questo disco…”, ci spiega Jens. “Dopo l’ultimo tour per ‘Space Police’, abbiamo comunque continuato a scrivere qualcosa, che presumibilmente sarebbe finito sul prossimo album in studio degli
Edguy. Poi, quando c’è stata l’idea di festeggiare i 20 anni con questa compilation, avevamo un paio di brani pronti che sono stati finiti in fretta. Poi Toby ci ha chiesto se avevamo qualche pezzo quasi finito, qualcosa che si poteva concludere in tempi brevi, e così sono saltati fuori ben sei brani inediti. Neanche noi ce ne aspettavamo così tante in verità…”. Un pezzo in particolare, invece, ha una storia del tutto diversa, molto divertente. “Stiamo parlando di ’Reborn In The Waste’…”, inizia il racconto. “Quella canzone è stata registrata originariamente per l’album ‘Savage Poetry’, ma poi al momento del mixing, quando già le attività in studio erano chiuse, ci siamo resi conto che nessuno aveva registrato le chitarre acustiche. Dimenticate completamente. Quindi, niente, è rimasta lì. Poi ci siamo dimenticati del tutto e quindi è rimasta nel cassetto per vent’anni
“Come mai non abbiamo mai cambiato line-up se non all’inizio? e’ presto detto: i caratteri dei cinque musicisti devono incastrarsi come un puzzle e le nostre personalita’ lo fanno.” anche se era praticamente già registrata! Certo, adesso l’abbiamo riregistrata, ma non abbiamo cambiato niente. Ci sembrava sensato in un lavoro retrospettivo come questo mettere qualcosa di… retrospettivo, appunto!”. Ad averci stupito poi è stata la scelta di inserire come testimonianza live uno show registrato molti anni prima, ai tempi del tour di ‘Hellfire Club’, più di dieci anni fa. La spiegazione anche qui è molto semplice: “Mah, ti dirò… era l’unico show intero che avevamo. Si voleva rilasciare anche una testimonianza dal vivo, ma se volevamo coprire anche l’ultima parte in carriera, avremmo dovuto fare una compilatio anche lì, e pescare un po’ di registrazioni live dagli ultimi anni. Qui invece avevamo un concerto intero, e pure un bel concerto, quindi perché no? Anche questo a ben vedere è una scelta che celebra bene il passato della band, e, infatti, non abbiamo toccato più di tanto, lo scopo era fornire una istantanea di quella che era la band allora”. Sembra non essere mai a corto di
risposte il simpatico chitarrista. Per pungolarlo un po’, facciamo una domanda che molte band trovano scomoda: tra i due album in genere considerati di maggior successo, ‘Hellfire Club’ o ‘Vain Glory Opera’, qual è secondo lui quello in effetti più adorato dai fans? “Non saprei dirti se i fan ritengono più un grande album ‘Hellfire Club’ o ‘Vain Glory Opera’…”, ragiona. “Sono tutti e due importanti, e tutti e due sembrano aver raggiunto il cuore di tanti fan. Poi, è solo questione di statistica, si vede facilmente che questi due hanno colpito il maggior numero di persone, però sono anche tanti i fan per qui il loro preferito è ‘Theatre Of Salvation’ o ‘Mandrake’. Dal mio punto di vista… preferisco ‘Hellfire Club’, in effetti lo trovo il nostro lavoro migliore!”. Visto che abbiamo toccato quei due dischi, pubblicato nel periodo d’ora del power teutonico, chiediamo a Jens un suo giudizio sui cambiamenti avvenuti in vent’anni di scena power metal nel vecchio continente: “La scena power è cambiata molto… adesso è…
di più.”, spiega. “Mi ricordo nei ‘90s quando ascoltavo io stesso questo genere di musica, che per avere la prossima uscita in campo power dovevi aspettare tre o quattro mesi… usciva il nuovo Blind Guardian, eri felice e lo ascoltavi mille volte, poi dovevi rimetterti aspettare, e solo alla stagione dopo avresti visto il nuovo Gamma Ray. Adesso non passa settimana senza un uscita nel campo. Buono o no, qualità o meno, quanto tempo rimane per ascoltare questi dischi? È un peccato, perché molti i questi album sono anche belli, ma se sei sempre dietro a correre alla nuova uscita, come fai a goderteli? Penso che noi tutti abbiamo perso molto da questo punto di vista”. Ma quindi, in questa scena in declino, cosa si augurano gli Edguy per il futuro? “Beh, speriamo solo di avere una carriera ancora lunga, e che il divertimento rimanga come quello che abbiamo vissuto fino ad ora! Alla fine, sono un gran fan della filosofia ‘wait and see’…”.
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Non sembrano abbassare il mirino, gli Orden Ogan. Dopo il già ottimo ‘To The End’ di qualche anno fa, i quattro tedeschi avevano infatti bissato nel 2014 l’alta qualità di quell’album con l’altrettanto valido ‘Ravenhead’, per poi mettere a centro il terzo successo grazie a questo nuovo, frizzante, ‘Gunmen’. Da dove partire con l’intervista se non facendo il punto sull’ambientazione scelta dai nostri per questo nove nuove canzoni, il Far West? È il bravo chitarrista Tobi, in risposta alla nostra domanda, ad introdurci in questo cupo mondo di pistoleri e non morti. “‘Gunmen’ è il nostro omaggio ad un certo genere western cinematografico”, ci spiega
lui, “ma le varie canzoni non fanno parte di un intreccio narrato o di una continuità particolare. Più che altro, come facciamo di solito, tutte le canzoni condividono uno stesso setting, che come vedi è
una sorta di versione fantasy e oscura del far west classico. Sai, cowboy,
fantasmi e roba simile? Certo, come le altre volte abbiamo incluso anche brani che portano avanti la storia di Alister Vale e le sue gesta, come
‘The Face Of Silence’... ma in generale possiamo considerare questi come singoli pezzi uniti da un’ambientazione comune. Direi che trattano
tra l’altro temi piuttosto diversi!”. Intrigati da questa ultima nota, gli chiediamo di specificarci meglio, magari con un esempio. È però il frontman Seeb a farcelo. “Un esempio... beh, possiamo parlare di ‘Vampires In The Ghost Town’. Si tratta di una canzone che parla di un tale che ha una relazione con la ragazza sbagliata, e comincia ad isolarsi da amici e famiglia, pensando di essere lui la causa di alcune brutte vicende. Non si rende però conto che era la ragazza stessa a plagiarlo, a farlo comportare in modo strano. È una situazione che molti di noi hanno vissuto, su se stesso o sugli amici. Mi piace usare un vocabolario appropriato
aglia un colpo infatti sb n no a sc de te nd ba ‘La esto ‘Gunmen’ da ‘To The End’, e con qu ro di fila su livelli pubblicano il terzo lavo an Seeb e il sodale altissimi. Con il frontm rta questa volta Toby vediamo dove ci po l gruppo, l’enigmatica mascotte de Alister Vale.
DARK WILD WEST di Dario Cattaneo 16 METALHAMMER.IT
all’ambientazione che abbiamo scelto, usando metafore prese da quell’ambito, per narrare però qualcosa di Diverso. Lo faccio spesso!”. Da quanto si vede da queste prime risposte, capiamo subito che il concetto dietro un album riveste un ruolo di grande importanza per la band. Oltre infatti a influenzare i temi lirici, l’ambientazione scelta influenza anche il modo di presentarsi su palco e foto promozionali. La cosa non può non
ricordarci gli Iron Maiden degli Anni ‘80, con l’Egitto di ‘Powerslave’ e il mondo futuristico di ‘Somewhere In Time’... “Beh, sì… possiamo dire che quanto facciamo noi con Alister Vale e le nostre copertina è vagamente simile a quanto fatto dagli Iron Maiden… ma non credo però che sia un esempio completo”. Ci contraddice Toby. “Loro portavano pochi elementi on stage rappresentanti l’ambientazione della copertina, noi invece ci vestiamo
in modo da immedesimarci con l’universo che stiamo dipingendo. Ogni nostro album ha un suo tema, e a partire da quello leghiamo tutto assieme: copertina, vestiti di scena, foto del booklet, aspetto generale del palco… Cerchiamo di incorporare tutti gli aspetti possibili! È un lavoro più estensivo che solo dare un flavour all’album!”. Un lavoro all’apparenza ben impegnativo, ci viene da dire! Ci chiediamo però se sia difficile, e quanto,
l cuore, e se ne a d e n ie v n ga O n e d r ’’Lamusi ca degli O pli cemente, m Se i. o n i d a im r p frega di c hi ha in ciso questo i e h c so n e p : o m ia m a c he noi componiamo cio’ apprezzino.’’ lo e o n ca is p ca lo nostri fan Seeb Levermann -Sebasti an
per Seeb e compagni lavorare con simili vincoli, in un campo come quello del power metal nel quale, lo ricordiamo, già nei ‘90 è stato detto quasi tutto. “Ma no... non è difficile per noi comporre nuova musica, nemmeno nel campo del power!”. Ci rassicura Seeb al riguardo. “La musica degli Orden Ogan viene dal cuore, e se ne frega di chi ha inciso prima di noi. Semplicemente, noi componiamo ciò che amiamo: penso che questo i nostri fan lo capiscano e lo apprezzino. Il nostro lavoro su questi album non è costruito, non è pensato a tavolino per rimanere all’interno dei canoni di un genere, ed è per questo che suona così originale. E che non ci costa nessuna fatica”. A fronte di una simile dichiarata spontaneità nel processo compositivo possiamo ben immaginarci che anche nel di solito più regolamentato processo di scrittura di un brano viga una certa libertà. La nostra ipotesi è confermata da Seeb. “Il mio approccio compositivo cambia
anche lui, non si mantiene fisso...”, ci spiega infatti. “Su ‘Ravenhead’, l’album precedente, provammo infatti qualcosa di diverso e partimmo a comporre dai ritornelli, costruendo poi le canzoni attorno a quelli. Su ‘Gunmen’ invece non ci siamo posti questo obbiettivo ma abbiamo lavorato passando da un riff ad un altro, nella più ampia libertà creativa. Il risultato è un album più guitar driven e meno incentrato sui cori. È stato bello non esserci dati troppo pensiero su come lavorare, forse è anche per questo che le canzoni di ‘Gunmen’ suonano così creative...”. Un genio non si da vincoli né orari insomma! “Infatti!”, è la risposta, “Pensa che è successo anche che alle tre di notte mi svegliassi perché avevo sognato una canzone e mi precipitassi subito a lavorarci! Le belle canzoni hanno modi sempre diversi per nascere…”. Prima di chiudere l’intervista, ci interroghiamo sul fatto del perché, dopo l’im-
provviso abbandono del tastierista Nils tre anni fa, gli Orden Ogan siano ancora un quartetto. Per Seeb suonare la tastiera, la chitarra e cantare non deve essere facile... “Non so, non direi”, risponde lui. “Componevo le tastiere in studio anche prima che Nils arrivasse nella band. Le suonavo anche mentre lui era nella band, se è per questo, e per me essere anche un tastierista non è proprio uno sforzo. Certo, dal vivo non posso fare tutto, ma le backing tracks esistono per questo e ci permettono di reggere il concerto senza problemi. E poi su ‘Gunman’, ma anche un po’ su ‘Ravenhead’, abbiamo detto che l’accento è decisamente sulle chitarre. Si potrebbe riprodurre quei brani anche solo usando i classici quattro strumenti del rock - voce, chitarra, basso e batteria - e posso sostenere che non perderebbero molto del loro flavour. La tastiera… beh, da’ sempre quel ‘quid’ in più che non fa mai male!”.
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Dario Cattaneo scopre col simpatico Henjo Richter alcuni retroscena dietro al progetto della nuova band tedesca “Sai una cosa buffa? Trovare un nome per una band sembra impossibile! Abbiamo passato giorni a proporre nomi per i The Unity e, puntualmente, erano già presi! Alla fine il monicker è saltato fuori un po’ per scherzo: fu buttato lì da qualcuno di noi come nome improbabile per altre band. Però poi abbiamo capito che – considerato il modo in cui è nata la band e le nostre scelte riguardo l’aspetto musicale – quello era proprio il nome adatto a noi!”. Con questo simpatico aneddoto Michael Ehre, batterista e mente pensante dietro ai The Unity, ci racconta la partenza di questo nuovo progetto power, i The Unity. Facezie a parte, a noi interessa però capire meglio questa nuovo progetto, e chiediamo cosa ha portato due nomi di una certa rilevanza come Ehre e Henjo Richter a collaborare. “Beh, mi sono unito ai Gamma Ray nel 2012…”, ci spiega Michael pacatamente, “e ho fatto subito amicizia con Henjo. Parlando con lui e passando tempo assieme in tour, abbiamo scoperto di avere le stesse radici musicali. La stessa musica: Black Sabbath, Rainbow, Dio, Deep Purple, lo stesso materiale aveva formato entrambi! Dopo averlo scoperto abbiamo capito che, pur essendo assorbiti spesso dai lavori per i Gamma Ray, in realtà ci rimaneva del tempo libero. Un bel po’, diciamo, e non solo a noi…
anche Kai Hansen, che ne è il leader, aveva da tempo una seconda band, gli Unisonic. Quindi abbiamo pensato: ‘perché non farlo anche noi?’”. Tutto molto naturale, il classico modo in cui si forma una band tra amici. Parola peraltro scelta apposta, visto che gli altri membri della band sono proprio amici, persone di fiducia che si conoscono da tempo. “In molti hanno notato che il resto della
band arriva dai Love.Might.Kill...”, ci spiega al riguardo lui. “Vedi, dopo ‘2 Big 2 Fail’ non attraversammo un buon periodo. Il nostro chitarrista Chris se ne andò per continuare la propria carriera di insegnante, e io stesso ebbi poco tempo, dovendo stare dietro agli impegni nei Gamma. Quindi, ci congelammo. Quando io e Henjo mettemmo poi in piedi i The Unity, fu naturale pensare a loro. Erano ancora i miei compagni, eravamo solo in attesa l’uno dell’altro…”. La cosa sembra aver comportato un grande beneficio a livello di sinergia. Ehre ci rimarca il
concetto. “Il vantaggio è che ci conosciamo bene”. Spiega. “La chimica tra musicisti è importante, e da quel punto ho deciso di non rischiare. Non avevamo nulla oltre l’idea di una band con un certo sound, e una serie di amici che si conoscono ci è sembrata una buona partenza”. Con veterani come Michael e Henjo potevamo aspettarci di trovare anche musica compos-
ta originariamente per altre band, quindi cambiamo argomento e chiediamo a Ehre se tutti i brani composti qui dentro siano tutti nuovi. “Sì, sì, è tutta roba nuova”. Ci conferma. “Prima abbiamo deciso di fondare la band, e solo dopo abbiamo cominciato a comporre canzoni. Poi, è vero, quando abbiamo cominciato a scrivere materiale alcune demo portate da me e Henjo arrivavano da vecchie sessions o da take per altri gruppi… ma praticamente ogni brano è stato rifinito e rielaborato per sposarsi allo stile musicale di questo progetto”. Un lavoro di forte
personalizzazione, dunque. “Esatto! Era importante che le canzoni suonassero come le volevamo. Abbiamo raccolto tutto in una pool, e abbiamo scelto i brani migliori, concludendoli tutti assieme. L’unico brano con una storia diversa è ‘The Wishing Well’, che è una cover dei Crossroads, la vecchia band di Stef E. (il secondo chitarrista, ndr). A me sono sempre piaciuti, quindi ho detto a Stef: ‘perché non prendere questo vostro brano, svecchiarlo e adattarlo al nostro stile?’. Ha funzionato!”. Più volte nel corso dell’intervista si è parlato di un genere musicale preciso di riferimento, cioè l’hard/heavy primi Anni ’80, quello delle band che hanno contribuito a fondare il genere. Michael però ci specifica che gli ascolti attuali di ciascuno di loro sono ben diversi, e che questo rappresenta solo una partenza comune per i cinque musicisti. “Anche se abbiamo deciso di suonare questo genere, è quello che ascoltiamo tutti”. È la precisazione. “Queste sono radici comuni che hanno formato i nostri gusti attuali. Singolarmente ascoltiamo musica ben diversa... Io ad esempio ho adorato l’ultimo Kreator, e bazzico molto il thrash. Steph invece è molto sul progressive, cose del genere. Però, come dicevo, abbiamo un’origine comune, e questo ci unisce come musicisti. Ha senso per una band chiamata The Unity, no?!”.
a f e L’Union la Forza di Dario Cattaneo
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VIAGGIO NEL THRASH CONTEMPORANEO di Andrea Schwarz È ormai qualche mese che ci dedichiamo a questa rubrica, uno spazio dove parlare di un genere musicale che ha avuto e continua ad avere estimatori in tutto il globo nonostante che questo filone musicale abbia subito trasformazioni, gruppi che ne hanno tracciato la via alternati ad altri che semplicemente (ed astutamente) si sono accodati al carrozzone sperando in un tornaconto che nella maggior parte dei casi non si è verificato per ‘manifesta inferiorità’. Tralasciamo per un momento quindi band caposaldo come Exodus, Metallica, Megadeth (e tante altre di siffatta caratura), lasciamo da parte gruppi che son state eterne promesse mantenute a metà (vedasi ad esempio i Forbidden trattati recentemente su queste colonne) e concentriamoci su un altro aspetto: la salute dell’intero movimento. Ci sono dati oggettivi e soggettivi per poter provare a capirlo, tra i primi possiamo annoverare il numero di band dedite a questa affascinante miscela sonora, non di certo le copie di hi venduti poiché è arcinoto lo
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stato di salute dell’odierno il music business, il numero di tour e live show può essere un altro indicatore interessante. Non prendendo quindi in considerazione i fattori puramente soggettivi abbiamo alcuni interessanti dati da analizzare attentamente. Ci sono band giovanissime come i Warbringer freschi del loro recente ‘Woe To The Vanquished’ che nell’epoca d’oro del thrash non erano neanche nati ma che annullano il mero fatto
anagrafico con canzoni energiche e interessanti oppure possiamo citare ‘a caso’ gruppi interessanti quali gli Harlott, gli Havok, i Suicidal Angels, Distillator, Chronosphere, Condition Critical, Traitor,
Warfect, Angelus Apatrida, i nostrani Ultra Violence, Rising Dark e In.Si. Dia…..e potremo andare avanti ancora qualche altra riga indicando la miriade di gruppi sparsi per il globo che mantengono viva la fiamma di un genere vivo e vegeto. Prendiamo ad esempio i Warbringer, la loro ultima fatica è qualcosa che non aggiunge niente di nuovo ma quello che propongono è tremendamente attuale ed affascinante per ogni thrash metal head che si rispetti: ‘Woe To The Vanquished’ unisce potenza, aggressività, senso melodico, perizia esecutiva. Tralasciamo da parte la velleitaria considerazione sul fatto che la loro miscela sonora sia qualcosa di vecchio, di già ascoltato innumerevoli volte ma quando si è in possesso di un songwriting di tale portata ogni rispettabile e contraria considerazione andrebbe messa da parte altrimenti non ci si potrebbe godere canzoni come le telluriche ‘Descending Blade’ o ‘Silhouettes’ oppure il magnetico mid-tempo di ‘Re-
main Violent’. Disco uscito solamente lo scorso marzo così come recente è anche l’ultima fatica degli australiani Harlott intitolato ‘Extinction’ pubblicato lo scorso 7 aprile: le band di riferimento sono sempre le
stesse, dagli Exodus agli Anthrax passando per Metallica e Testament ma questa volta il tutto viene fatto con maggiore convinzione e personalità, si denota lo sforzo di produrre una manciata di brani che possano essere apprezzati senza cadere nel solito ritornello del ‘già ascoltato’. ‘The Penitent’ è un omaggio non troppo velato ai Metallica di ‘Master Of Puppets’ ed è uno dei brani maggiormente riusciti dell’intero lotto mentre la title track con i suoi quasi sei minuti di durata è una canzone che brilla per intensità e violenza sonora, un brano dalla doppia cassa
schiacciasassi unita a killer riff che non lasciano prigionieri, il ritornello è un vero e proprio must sostenuto da chitarre ritmiche potenti e precise al tempo stesso. ‘Better Off Dead’ con quella suo intro di slayeriana memoria è un altro esempio lampante di come
questi quattro ragazzotti australiani abbiano imparato la lezione del thrash metal anni Ottanta attualizzandolo con un’esecuzione che non fa altro che rinverdire i fasti passati di un genere mai domo. I Suicidal Angels hanno presentato il loro ultimo album non più tardi di un anno fa, era il 2016 quando pubblicarono ‘Division Of Blood’, canzoni che vedono i thrashers greci sempre più autorevolmente tra le migliori e più talentuose thrash metal band nonostante abbiano ‘mitigato’ la loro primitiva irruenza degli esordi optando per riff più cadenzati ma al tempo stesso maggiormente heavy e di impatto. Forse dell’intero lotto sarebbe necessario sottolineare come i ChronosPunishment Records. La loro proverbiale brutalità che spiazza piuttosto che attirare
l’attenzione dell’ascoltatore. Ha di fatto rappresentato un piccolo evento il ritorno sulle scene dei nostrani In.Si. Dia. con un album, ‘Denso Inganno’ che ci riconsegna un gruppo dopo ben 22 anni come se il tempo si fosse fermato al 1995, anno in cui fu pubblicato il secondo album (‘Guarda Dentro Te’).
La band bresciana ebbe l’ardore confermato a tutt’oggi di cimentarsi con un thrash metal di maniera con il cantato in italiano: difficile unire la metrica della nostra lingua nazionale con le ritmiche serrate del genere ma il quartetto è sempre riuscito egregiamente. Un gradito ritorno nella speranza che non si debba aspettare altri vent’anni o più per riascoltare una nuova produzione targata In.Si.Dia. Non è tutto oro quello che luccica, ci sono produzioni che si rifanno alla vecchia scuola nei quali non si riescono a scorgere la freschezza compositiva che contaddistingue invece alcuni dei sopracitati lavori, una sterile ripetizione di cliché per giunta registrati e suonati peggio. È il caso ad
esempio dei Mortillery autori lo scorso anno di un album su Napalm Records di una prova incolore ed anonima nonostante i proclami della vigilia. Oppure sarebbe necessario citare band dall’alto potenziale come i Dust Bolt, talento ancora grandemente inespresso come dimostra l’ultimo album intitolato ‘Mass Confusion’. Certamente i giganti del genere come Testament e Megadeth, giusto per citare qualche nome con una produzione recente, riescono a (ri)produrre dischi che in qualche modo brillano di luce propria, esempio lampante di come il talento non sia qualcosa che si possa creare ‘artificialmente’ in studio ma qualcosa che si ha
nel DNA e che si esprime al di là del contesto storico in cui viene proposto o dall’età dei singoli musicisti, questi ultimi mai domi e sempre proiettati verso il futuro senza ripiegamenti su se stessi. Ancora oggi quindi possiamo tranquillamente ‘sentenziare’ che il caro vecchio thrash è vivo e vegeto, una commistione unica di vecchie glorie che non hanno nessuna intenzione di abdicare in favore di giovani band che dalla loro hanno l’irruenza e quella voglia matta di emergere a suon di dischi che possano farci fare del sano headbanging.
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‘We The People’ e' il terzo album degli Adrenaline Mob, il primo dopo la scomparsa di AJ Pero. Sentiamo dalle sue parole come la band ha reagito a questa tragica perdita, e quali soprese ci hanno preparato con questo nuovo, scoppiettante, album.
Never
Give Up
di Dario Cattaneo Se dal punto di vista della qualità la carriera degli statunitensi Adrenaline Mob sta proseguendo sicuramente molto liscia, grazie a tre album solidi e dalla buona personalità, dal punto di vista della stabilità di formazione non si è dimostrata certo immune alle botte del destino. Nel corso di tre album infatti la formazione di base a New York ha subito ben tre grossi colpi, perdendo l’indaffarato Portnoy prima, John Moyer dopo e per ultimo AJ Pero, stroncato nel 2015 da un imprevedibile attacco di cuore. Lecito dunque da parte dei fan chiedersi se il futuro della band fosse mai stato messo in discussione a fronte di tutti questi eventi… “Sicuramente la morte di AJ ha colpito tutti noi, me in maniera particolare”. Ci racconta il leader Mike Orlando a riguardo, la voca ancora ammantata di sincero cordoglio. “AJ è stato il mio migliore amico per circa vent’anni, pensare che non c’è più è qualcosa che faccio fatica ancora a elaborare. Nel mio studio, appena entrati, si trova esposto uno dei suoi drumkit preferiti. Lo tengo lì, pronto, come se lui potesse tornare da un momento all’altro e rimettersi a suonarlo”. Con un sospiro, il barbuto chitarrista torna alla nostra domanda. “Nonostante però tutto l’impatto che questa tragedia può aver avuto su di me a livello personale, mi
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sento di dire che l’esistenza degli Adrenaline Mob non è mai in nessun modo stata messa in discussione. Dopo l’ultimo tour e la notizia della sua morte non ce la sentivamo più di fare niente, però era solo il bisogno fisiologico di tempo che ci serviva per assorbire l’accaduto, ognuno con i suoi modi e i suoi tempi. Non aveva a che fare con la band. La band è sempre esistita, era solo lì in attesa che, sistemata la situazione emotiva, si tornasse a lavorare”. Presentarci il sostituto di AJ è però qualcosa che Mike fa con toni molto più entusiastici.
Ci racconta infatti come mai si è scelto proprio questo talentuoso ragazzo con un curriculum forse un po’ più… ‘corto’ rispetto a i suoi predecessori. “Quando cominciammo a cercare un nuovo batterista ricevemmo molti video di batteristi che si proponevano per il posto... ma Jordan non era tra loro”, ci dice. “Il
suo nome ci fu fatto da un ragazzo dello staff dei Twisted Sister, e fummo quindi noi a chiedergli di mandarci un video. Ci convinse subito, e gli chiedemmo così di incontrarci, per vederlo suonare un po’ di pezzi nostri, ‘Hit The Wall’ e altri. Beh, il resto è storia, non riesco a immaginare nessuno che possa suonare quei pezzi con tale naturalezza! È un batterista davvero fenomenale!”. Nuova formazione quindi, e tredici pezzi tutti nuovi per un album che sa di rivincita contro gli scherzi del destino. “Eh sì, il 90% di questi brani sono nuovi….”, conferma. “Sono canzoni nate in studio quando abbiamo deciso di riprendere a scrivere nuova musica per i Mob. Però, almeno un paio di brani hanno una storia più vecchia. ‘Bleeding Hands’ ad esempio era una canzone incompleta, che col tempo si è intrisa sempre più della personalità mia e di quella di Russel. È un pezzo davvero molto personale, cui ci sentiamo legati, forse proprio per il parto piuttosto lento. Anche ‘Lords Of Thunder’ è un pezzo vecchio, anzi vecchissimo! È forse uno dei primi che io e Russel abbiamo composto assieme... anche questo pezzo è molto personale, ovviamente!”. Andando avanti col le chiacchiere, scopriamo che ogni pezzo dei Mob parte comunque e sempre dalla penna di Orlando, che compone da solo nel
FACT: REST IN PEACE DAVID Z Nella tarda mattinata del 14 luglio 2017, il camper sul quale viaggiavano gli Adrenaline Mob con la loro crew in occasione del tour promozionale dell’album ‘We The People‘, pubblicato all’inizio di giugno, si è scontrato con un tir sulla Interstate 75 in Florida, risultando nel decesso istantaneo del bassista David Zablidowsky. Altre 6 delle 9 persone coinvolte nell’incidente sono attualmente ricoverate in condizioni critiche all’Health Shands Hospital. Un altro lutto colpisce così la band americana, che aveva da poco superato la scoparsa del batterista AJ Pero. Rest in peace David Z.z
proprio studio a getto quasi continuo. “In genere ogni canzone dei Mob parte dalle mie mani… ho uno studio, e quindi posso occuparmi di registrare e salvare ogni cosa su cui lavoro”. Sono le sue parole. “In genere parto da un riff di chitarra, il mio strumento, e registro tutto su nastro, producendo una demo finita che viene poi condivisa con Russel per le parti vocali. Può però capitare che l’idea per una canzone non passi per forza dalla chitarra... ‘Blind Leading The Blind’ ad esempio è nata con me che cantavo questa melodia, sulla quale poi ho costruito un movimento ritmico e tutto il resto. Comunque ogni brano che senti è il risultato di un lavoro di squadra tra me e Russel, non c’è un pezzo su cui non abbia messo la sua mano anche lui”. Andando avanti col discorso, gli diciamo che a stupirci come sempre è l’energia e il piglio live che la band dimostra su ogni brano. “Certo! Gli Adrenaline Mob sono decisamente una live oriented band!”, esclama lui, vivace. “Dal primo giorno di questa band questo punto è stato chiaro: nessun progetto da studio, questa era una band per suonare rock’n’roll, e quello si suona dal palco! Non potrei vedere questa band in maniera diversa che da una live band...”. Una risposta che non ci stupisce, considerato il sound
a cavallo tra hard rock e heavy metal di cui si fanno bandiera i Mob. Ma Orlando considera la sua creatura una band hard rock o una band metal? “Attitudine hard rock con un sound metal penso ci descriva molto bene”. È l’onesta risposta. “E anche questo era stabilito dall’inizio: le coordinate su cui la band si sarebbe mossa dovevano essere esattamente quelle. Fin da ‘Omertà’ si vedevano bene queste due anime, distinte su canzoni dal piglio rock come ‘Indifferent’ e pezzi molto più ‘straight’ come ‘Psychosane’ o ‘Hit The Wall’. Su ‘Man Of Honor’ questo aspetto si è addirittura estremizzato, con pezzi pesanti alternati a brani sorprendenti come ‘Crystal Clear’.... Differenze che qui con ‘We The People’ abbiamo invece smussato, componendo il nostro album più uniforme”. Il bilanciamento tra rock e metal sembra quindi essere alla base della proposta della band, che considera questo aspetto anche in fase compositiva. “Sai, capita spesso anche che ci troviamo a dover bilanciare il sound, per raggiungere un risultato che sia adatto alla band…”, ci spiega. “Spesso, nelle linee che compongo, qualche linee sembra un po’ troppo estrema, e quindi bisogna lavorare per raggiungere comunque quella melodia o quella accessibilità che cerchiamo per questa band. Il lavoro di rifinitura
e di bilanciamento è importante per noi: il risultato deriva sempre da molto lavoro in questo senso. D’altronde, se non ci fosse questo tipo di controllo, forse il nostro sound sarebbe più accostabile agli Slipknot! Sono una delle band che apprezzo di più…”. Anche stavolta, troviamo un chiaro messaggio politico dietro le canzoni dei Mob, che come sempre usano l’immaginario della mafia americana per le proprie copertine e alcuni temi lirici. Chiediamo a Orlando se nelle canzoni dei Mob si nasconda o meno un messaggio di qualche tipo. “Si, ci piace pensare di portare un messaggio”, conferma. “Un musicista rock, un compositore è una sorta di cantastorie, e per potersi definire tali si deve avere un messaggio da trasmettere. Con questo però non sostengo che siamo una band politicizzata, come qualcuno ci dice per via dell’immaginario con la criminalità organizzata che usiamo spesso. Il messaggio che trasmettiamo rappresenta la nostra opinione su argomenti attuali, ma non vuole essere un invito a pensarla come noi per nessuno. Non dobbiamo convincerti di niente, non vi facciamo cambiare le tue opinioni, ma esprimiamo le nostre con forza, perché la musica è anche esprimere quello che si sente”.
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di Andrea Schwarz
ProgSpective
Per la rubrica di questo numero la ‘folgorazione’ arriva da lontano, qualche giorno fa si è nuovamente palesata in tutto il suo splendore. Parliamo dei Queensrÿche autori in questi giorni di un paio di concerti in territorio italico, a Bologna prima, Fontaneto d’Agogna poi lo scorso 29/06/2017. Ma di quale folgorazione stiamo parlando? Qualcosa che per chi come il sottoscritto è una sacrosanta verità ogni volta che il nome e la musica della band statunitense risuona nelle proprie orecchie. Utilizziamo un aggettivo soltanto: innovazione. E già perché i Queensrÿche nel corso della loro carriera sono sempre stati un passo avanti componendo musica che ancora oggi è attuale, fuori da ogni schema anche se nella comune esigenza di etichettare la musica (o qualsiasi altra forma d’arte come nella vita quotidiana) i Queensrÿche sono stati definiti come prog. Ma è alquanto riduttivo, un qualcosa di forzato nato dalla voglia di apporre etichette nel creare generi e sottogeneri. Ma fin dai propri inizi il termine prog è solamente riuscito a descrivere la forza propulsiva ed innovatrice della loro musica piuttosto che la descrizione della stessa
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poiché non hanno mai fatto sfoggio di tecnica fine a se stessa, mai un eccesso di solismi o tonnellate di note fini a se stesse. Piuttosto una cura maniacale dei particolari, una volontà disco dopo disco di andare oltre i propri limiti cercando di stupire se stessi
prima ancora che i propri fans sparsi per il globo. Fin dal primo album intitolato ‘The Warning’ del 1984 i Queensrÿche non suonano banalmente come mere copie dei più famosi Iron Maiden grazie a fini incastri di twin guitars del duo DeGarmo/Wilton come novelli Murray/Smith ma
vanno oltre grazie ad atmosfere più darkeggianti, lyrics improntate su tematiche ispirate al pericolo della tecnologia digitale, un pò come avviene in films come Blade Runner o Terminator in anni in cui i computer
stavano piano piano ma in maniera decisa prendendo piede nella società dei primi anni ottanta. Prendete ad esempio un brano come ‘NIM 156’ con l’iniziale ‘Machines have no conscience’ cantata dall’ugola di un Geoff Tate che si dimostra fin dagli esordi come uno dei talenti più cristallini del panorama
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musicale di quegli anni (e di quelli a venire). ‘No Sanctuary’ ha al suo interno uno dei tratti distintivi del loro songwriting, una ballad con al suo interno un flavour operistico ed un chorus magnetico. In ultimo ‘Take Hold Of The Flame’ e la conclusiva epicheggiante ‘Road To Madness’, la prima con il suo riff iniziale pulito e una performance mostruosa di un Tate che con grande maestria riesce ad essere a suo agio sia sulle basse che sulle alte tonalità mentre nella seconda lo stesso Tate è alle prese con tematiche più personali che hanno a che fare con le malattie mentali, musicalmente gli arrangiamenti orchestrali di Michael Kamen donano profondità al brano anche se il loro utilizzo minimale non fu sfruttato in tutta la loro potenzialità. È quindi il loro voler essere al passo con i tempi a livello musicale utilizzando soluzioni stilistiche ancora inedite così come la voglia di esplorare tematiche che in quel determinato frangente non erano sulla bocca di tutti come oggi. Contestualizzando i temi ed il periodo storico in cui furono composti non è difficile comprendere il taglio quasi
avanguardistico di queste nove canzoni. Non ‘contenti’ di quanto prodotto con ‘The Warning’, il percorso di crescita fa un balzo in avanti nel successivo ‘Rage For Order’ prodotto da Neil Kernon (Michael Bolton, Flotsam And Jetsam, Nevermore, Street, Kansas), un album maggiormente ‘guidato’ dalle tastiere piuttosto che
dalle chitarre come avvenuto nel debutto. Anche in questo caso trattasi di un concept album incentrato su tre temi principali: amore, politica e tecnologia, filo conduttore che accompagnerà le undici composizioni qui presenti. La lavorazione alla base di un disco seminale come questo è stata accompagnata da una ricerca spasmodica dell’ambiente giusto nel quale poter registrare, due lunghe settimane furono necessarie solo per questo fine così come ben cinque giorni furono impiegati per trovare il giusto sound delle chitarre di DeGarmo / Wilton. Per capire quanto i suoni e le canzoni di ‘Rage For Order’ siano attuali ancora oggi a distanza di ben 31 anni basti ascoltare canzoni come ‘The Killing Words’ con il suo magnetico intro di tastiere, la voce sempre ispirata di Geoff Tate ed una coppia d’asce che regala melodie ad ogni singolo passaggio. L’espressività di Tate è qualcosa di disarmante, la sua capacità di muoversi tra tonalità alte alternate ad altre decisamente più baritonali rendono la sua voce unica ed inimitabile, ancora oggi è difficile scoprire talenti altrettanto cristallini. Al di là della pura tecnica che indubbiamente fa parte del bagaglio di tutti i musicisti qui presenti, il quintetto riesce a dosar- la concentrandosi sul songwriting, sulle
melodie che sono sempre orecchiabili ma mai banali, un bilanciamento perfetto ed una cura maniacale dei
dettagli con un Tate che non solo canta i testi dei brani ma li interpreta in maniera teatrale. ‘Rage For Order’ brilla in canzoni come ‘Walk In The Shadow’, nella darkeggiante ‘Gonna Get Close To You’, nella tecnologica ‘Screaming In Digital’, nella maideniana ‘The Whisper’ a riprova in quest’ultimo caso di come si possa mantenere salde le proprie radici metal semplicemente reinventandosi grazie ad idee musicali che in tanti negli anni hanno cercato di far proprie. È con ‘Operation Mindcrime’ del 1988 che i nostri scrivono un’altra importante pietra
miliare in campo, questa volta di diritto, prog metal,
una storia ed una serie di canzoni che tanti hanno provato ad imitare, brani che anche decontestualizzati riescono a ‘camminare da soli’ pur essendo slegati dal contesto della trama. Chissà quale strana alchimia si possa creare in studio quando una band riesce a comporre musica così perfetta….sarebbe bello poter riavvolgere il nastro del tempo e ripiombare dietro al mixer per assaporare il gusto della storia. Di
questo album si è scritto e detto di tutto, sarebbe oltremodo superfluo continuare ad incensare un disco che
ancora oggi al pari di pochi altri riesce ad ammaliare vecchi e nuovi ascoltatori. Nel 1990 è la volta di ‘Empire’, un tassello importante della loro carriera che li ha visti affinare e modellare il modello proposto solamente due anni prima con ‘Operation…’, i suoni si fanno più puliti e cristallini
che mai, il vero fiore all’occhiello è il songwriting a dir poco perfetto, le twin guitars di DeGarmo e Wilton fanno scuola mentre ancora una volta Tate si dimostra essere un interprete piuttosto che un cantante. Menzione particolare per la sezione ritmica di Eddie Jackson (basso) e Scott Rockenfield (batteria), più eclettico quest’ultimo rispetto alle precedenti produzioni, sempre preciso e mai debordante (ma dal prezioso contributo) il basso di Jackson. Anche qui è difficile estrapolare un singolo brano nella perfezione generale, citiamo ‘Silent Lucidity’, una ballad che grazie agli arrangiamenti degli archi possiede un’atmosfera fiabesca. È un disco che li proietta nell’Olimpo dei grandi, li catapulta nello starlight del music business portandoli il 27/04/1992 a registrare un set acustico per gli MTV Unplugged che in quegli anni erano un passaggio obbligato per chi si era ritagliato un posto al sole. Nel 1994 arrivano a comporre il loro album più darkeggiante e superprodotto, quel ‘Promised Land’ che è probabilmente il loro canto del cigno prima che prendano il sopravvento le loro velleità moderniste ed alternative sfociate in ‘Hear In The Now Frontiers’, ultima gemma dove possiamo gustarci song come ‘Disconnected’ (con influenze da ‘Game Without Frontiers’ di Peter Gabriel), l’epica ed emozionale ballad ‘Someone Else’, la catchy ‘One More Time’, l’acustica ‘Bridge’ e l’heavy di ‘Damaged’. L’ultimo episodio dove brilla il genio incontrastato di questi cinque musicisti, un ultimo esempio di un talento senza confini prima di svolte moderniste e litigi che molti anni dopo portarono alla dipartita di Chris DeGarmo prima, Geoff Tate poi in modalità assolutamente deplorevoli che hanno lasciato strascichi per moltissimi anni. Tutto ciò non inficia il talento e la spinta innovatrice che molte delle loro produzioni hanno nel loro DNA, un gruppo che ancora oggi, riascoltando live le vecchie produzioni emanano una magia ed un carisma senza eguali.
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Il penultimo album dei Papa Roach, ‘F.E.A.R.’, aveva convinto un po’ tutti. Alla luce del successo di critica e di pubblico del lavoro targato 2015, non potevamo quindi che pensare a questo ‘Crooked Teeth’ come un album nato sotto ottimi auspici, soprattutto considerato che il primo singolo, ‘Help’, è finito subito in testa alle classifiche americane. Nonostante il passare del tempo quindi, la musica dei Papa Roach sembra rimanere intrisa di quella grinta e di quella energia che li ha caratterizzati fin dagli esordi. Ed è lo stesso Tony Palermo, batterista della band dal 2007, a confermarci questa nostra ipotesi: “L’energia è parte di noi, individualmente”, afferma. “È il nostro modo di essere: per questo la trasmet-
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di Angela Volpe e Dario Cattaneo
tiamo nella nostra musica. È naturale per noi raggiungere quel livello di carica, e a conti fatti, è proprio questo che i fans si aspettano da noi”. Approfittando della disponibilità del loquace batterista, approfondiamo il discorso sul processo di realizzazione dell’album, che sembra essere stato piuttosto fluido, senza intoppi: “In effetti si è trattato di un processo creativo davvero coinvolgente, sia per noi membri della band che per i nostri produttori!”, ci conferma, estendendo il discorso anche alle efficienti (e particolari) sessioni di registrazione: “Abbiamo iniziato a lavorare all’album nel 2016, a Sacramento, mentre le registrazioni sono iniziate circa a gennaio 2017. La posizione degli studi è stata tra l’altro
influente sul lavoro. Abbiamo lavorato con gente nuova, Nicholas Furlong e Colin Brittain, in studi che non conoscevamo: gli Steakhouse di North Hollywood. Sai, è strano l’ambiente lì. È un po’ un postaccio, come quartiere, e gli studi sono proprio nel mezzo del casino. Sai, cose tipo l’elicottero che sorvola il ghetto tutte le notti, la polizia che insegue qualcuno nel circondario, il rumore delle pistole… non un posto tranquillo, ma secondo me il mood di quel quartiere ha influito sulle composizioni. Le ha rese più dinamiche, più reattive. Una bella differenza rispetto a quando incidevamo ai Paramour Studios. Lì stavamo in una bella villa, su una delle più alte colline di Los Angeles, con una vista sull’intera
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di che non conoscevamo: gli Steakho
North Hollywood. Sai, e' strano l'am
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proprio nel mezzo del casino.'' città… era l’opposto di come è stato per ‘Crooked Teeth’. Penso che questa aria nuova, pur nella sua miseria, ci abbia giovato, artisticamente parlando”. È in questo ambiente così atipico che hanno preso quindi forma le canzoni del nuovo album, impregnandosi, per così, dire del vibe del posto. Però, ci dice Tony, il mood dell’intero lavoro è stato - per così dire - segnato più da un brano in particolare piuttosto che dal posto in sé. “‘My Medication’ è stato il primo brano che abbiamo proposto ai produttori… ne sono stati entusiasti”, racconta. “È da quella canzone che abbiamo capito quale sarebbe stata la direzione giusta da seguire. Sì, possiamo dire che sia stato proprio quel brano a dare l’im-
pronta al resto dell’album!”. Insomma, la fonte di adrenalina che anima lo spirito della band sembra non essersi affatto esaurita nel tempo. Al contrario, pare invece che il periodo appena trascorso sia stato uno trai più produttivi nella carriera della band. “Stavolta avevamo davvero moltissimo materiale di partenza…”, ci spiega Tony, affabilmente, “tanto che non potevamo raccogliere tutto in un unico album. Abbiamo perciò scelto quei brani che stavano meglio insieme, per ottenere un risultato omogeneo. Ma abbiamo ancora diverse canzoni pronte, che useremo presto, spero!” Non deve essere stato così semplice escludere alcune proprie creazioni tra l’altro già pronte, e la cosa ci incuriosisce. Mentre
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approfondiamo con lui l’argomento, Tony a questo proposito ci regala un aneddoto quantomeno curioso: “Sai, avevamo già finito di incidere l’intero album, ma era rimasta fuori una canzone alla quale non volevamo proprio rinunciare…”, mugugna raccontando. “Quindi siamo tornati in studio per registrarla lo stesso, e direi che è stata una scelta azzeccata. Si tratta proprio di ‘Help’, il singolo appena pubblicato che ha riscosso un grande e immediato successo sulle charts americane. Se ci pensi, è piuttosto bizzarro che fosse proprio un brano che stava per essere scartato!”. La fidelizzazione dei fans è sicuramente un aspetto importante per i Papa Roach, che devono il proprio successo proprio
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a una risposta massiva ed immediata al loro primo album. Importante però per la band californiana è sempre stato anche il raggiungere il proprio pubblico attraverso le parole e non solo con la musica. “I nostri testi sono molto comprensibili ai nostri fan, ci si possono identificare”. È la spiegazione di Tony al riguardo. “Parlano di storie di vita quotidiana, di cose vere che accadono tutti i giorni. Di gioie e di dolori. Parliamo della vita reale, non di argomenti di fantasia, e in questo modo i nostri ascoltatori si possono immedesimare, e sentirsi decisamente più coinvolti.” Uno formula questa che si ripete nella produzione dei Papa Roach dal 2000, e che affronta uno dei rischi maggiori per una band in attività da anni: quello di ricalcare le proprie stesse orme e risultare ripetitivi. La cosa viene in mente a noi, ma non sembra assolutamente essere tra le preoccupazioni dei ragazzi
della band. “Ripetitivi dici? Tutt’altro secondo noi con quest’album!”. Questa è la divertita risposta. “’Crooked Teeth’ ha aperto invece la porta su nuovo materiale che andremo a pubblicare, secondo me. Certo, siamo stati sempre attenti a non discostarci troppo dal nostro stile, però questa volta ci siamo sentiti più liberi, ed è stato naturale sperimentare anche nuove strade.” Stando a quanto dice Tony, infatti, ‘Crooked Teeth’ riserva ai fan numerose interessanti sorprese. Non ultimo, un aumento delle parti rappate, da sempre fonte di interesse e di discordia tra i fan della band. “Ecco, su questo album abbiamo aggiunto ancora più parti rap rispetto al solito. Non è stata una scelta dei produttori, nessuno ci ha forzato, erano i brani stessi a richiedere di incamminarsi in quella direzione. Se non fossero stati inseriti quei versi rap, non avrebbero reso alla
stessa maniera, capisci! Questa scelta ha reso le composizioni più accattivanti e coinvolgenti, e noi abbiamo fermamente seguito ogni direzione in cui una canzone ci portava”. Una band rinnovata, quindi, pur mantenendo una propria identità: “Siamo rimasti comunque una rock band, sia chiaro”, ci rassicura però Tony. “Abbiamo semplicemente aggiunto alcuni elementi elettronici, tra l’altro al solo scopo di migliorare il sound, non di snaturarlo”. Nelle parole del batterista capiamo che le idee, in studio e anche fuori, erano ben chiare per tutti. “Durante le registrazioni abbiamo usato anche una batteria elettronica, come puoi sentire su ‘Born For Greatness’. È stato interessante mescolare i suoni classici a quelli elettronici, il risultato è secondo me molto soddisfacente. E poi mi sono divertito a provare cose nuove!”. Grande soddisfazione dunque un po’ per
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tutti con questo nuovo album, l’artista ce lo rimarca con parole precise. “Credo che l’esperienza di registrare ‘Crooked Teeth’ sia stata una delle più positive in carriera”, è il suo giudizio. “E penso che i fan lo percepiranno. Soprattutto coloro che hanno apprezzato il primo disco, penso apprezzeranno anche questo. Ci piace dire che ‘Crooked Teeth’ è come se ‘Infest’ avesse avuto una notte di sesso con ‘Get Away With Murder’, e ne fosse nato un figlio. È così! Non tanto per il sound forse, quanto proprio per il vibe, per quell’approccio fresco e nuovo con cui questo e quei lavori sono stati composti”. ‘Crooked Teeth’, tra l’altro, vede realizzarsi la propria unicità anche grazie alle collaborazioni con giovani artisti provenienti da ambiti esterni al rock, come quella col rapper ‘Machine Gun’ Kelly, che presta il proprio swag ritmato su ‘Sunrise Trailer Park’, e con la
cantante pop Skylar Gray, la quale duetta con il frontman Jacoby Shaddix sul brano ‘Periscope’. “Sono state collaborazioni insolite”, ci dice Tony, parlando dei due artisti. “Skylar per esempio ha uno stile vocale molto diverso dal nostro. Pensavamo però che la sua voce sarebbe stata adatta ad un brano come ‘Periscope’, ed infatti il suo cantato si è amalgamato perfettamente nel pezzo, con un risultato finale davvero ottimo”. Tony infine non nasconde la propria soddisfazione per l’uscita di questo nuovo disco pieno di sorprese. “Come si sarà capito, siamo davvero molto orgogliosi di questo nuovo lavoro...”, confessa infine, in chiusura alla nostra simpatica chiacchierata. “I vari brani sono davvero buoni, e sono stati resi in modo ottimale dalla produzione. Sono convinto che ‘Crooked Teeth’ sia il migliore dei nostri lavori... o quanto meno che rappresen-
ti al meglio lo spirito dei Papa Roach attuali!”. Prima di chiudere l’articolo, ricordiamo ai lettori che i prossimi mesi vedranno impegnati i Papa Roach in una vasta tournee americano. Riusciamo però comunque a scoprire che la band è ben intenzionati a portare la propria musica anche qui in Europa, in particolare qui da noi. Non ci sono piani definitivi, ma Tony ci assicura che ci saranno non appena possibile. “È vero, presto partiremo per un tour canadese in compagnia degli amici dei Sum 41. Saremo quindi presenti in molti festival primaverili negli States e anche su date singole. Ma non ci fermeremo qui. Australia e Asia sono già sulla lista delle cose da fare, e il prossimo anno contiamo sicuramente di partecipare a qualche festival Europeo. E... promettiamo anche che torneremo presto in Italia! Ci vediamo lì!”. Anche noi lo speriamo tanto, Tony!
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‘n occasione della prossima pubblicazione del triplo album ‘The Live Beyond the Spheres’, un Andre Olbrich in forma smagliante, ci racconta i Blind Guardian tra film, videogiochi e il leggendario orchestrale.
Oltre la sfera del Suono di Marco Giono Aspetto di conoscerli dal lontano 1995 quando grazie alla recensione di ‘Imaginations from the Other Side’ contenuta in un numero cartaceo di Metal Hammer, ho scoperto i Blind Guardian. I bardi di Krefeld, nel tempo, nei miei pensieri, hanno assunto sembianza di figure lontane ed epiche. Poco prima di poter parlare con André Olbrich, chitarrista storico dei Blind Guardian ripenso alle loro ultime mosse. Dopo aver sfidato ancora una volta i propri limiti musicali con un album metal e orchestrale quale ‘Beyond The Red Mirror’, hanno deciso di pubblicare il terzo live della loro storia con registrazioni dal tour europeo del 2015 che sarà disponibile dal 7 luglio... nel salutarmi la voce di André Olbrich risuona da subito gioiosa, sembra davvero in forma, non indugiamo oltre.
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Sono curioso di conoscere quali ragioni si celino dietro a quest’ultima pubblicazione e se c’è un nesso con ‘Live’ pubblicato nel 2003 all’indomani di un altro album ambizioso intitolato ‘A Night at the Opera’... “Rispetto ad allora abbiamo aggiunto due nuovi musicisti, alla batteria Frederik Ehmke e al basso Barend Courbois. Si è trattato di trovare anche dal vivo le misure tra noi che non è una cosa immediata. Nel frattempo abbiamo pubblicato tre album. Tante cose sono cambiate rispetto al 2003. Così abbiamo ritenuto fosse il momento giusto per fare un live che raccontasse sia il nuovo gruppo che la nostra nuova musica.” Ascoltando quest’ultimo live è facile rendersi conto di come il gruppo sia in forma, però quello che sorprende su tutto sono i
suoni puliti e cristallini. “Dal punto vista tecnologico ci siamo preparati ben prima del tour, già ai tempi di ‘Beyond the Red Mirror’, sapevamo che volevamo recuperare canzoni diverse di ogni periodo. In questo senso ci siamo confrontati con il produttore e non volevamo che i brani suonassero poi su disco in modo diverso l’una dall’altro, a seconda del locale dove registravamo. Per riuscire a rendere i suoni omogenei, però abbiamo dovuto prepararci ogni sera prima del concerto. Una delle cose che ci ha aiutato è stato passare dagli amplificatori al kemper profiling. Si tratta di un sistema di registrazione che consente di aggiustare la musica in modo da personalizzare e salvare l’audio, così da equalizzare i suoni allo stesso
“Avevamo un totale di quarantacinque canzoni, che coprono tutta la nostra discografia, tra cui scegliere, alcune sono venute fuori bene, altre meno.”
modo ogni sera. Usualmente si registra dagli amplificatori che però restituiscono ogni volta qualcosa di diverso e questo nuovo sistema ci ha permesso di saltare quel passaggio. Invece Hansi ha dovuto valutare tra più di venti microfoni per la voce in modo da eliminare il più possibile il rumore che è sempre comunque presente, a volte in maniera più o meno residuale, nelle registrazioni dal vivo. Poi abbiamo piazzato diversi microfoni sul palco in modo da poter distinguere il più possibile i diversi strumenti oltre che far sentire il pubblico in modo più vivo possibile, ma se ascolti attentamente troverai delle differenze in questo senso, ed è una cosa di cui dobbiamo farci una ragione. Alla fine penso abbiamo messo su
album le canzoni migliori possibili. Io ed Hansi abbiamo dovuto ascoltare tra cinquanta concerti, non sai mai dove la magia si nasconde.” Tento di incrinare il suo entusiasmo cercando di scoprire quale siano i motivi che hanno portato a escludere ‘Somewhere Far Beyond’ dalla tracklist. André ci chiarisce come plausibile che non è una cosa voluta: “Avevamo un totale di quarantacinque canzoni, che coprono tutta la nostra discografia, tra cui scegliere, alcune sono venute fuori bene, altre meno. Però dovevamo iniziare, come i concerti, con ‘The Ninth Wave’ e così avevamo altre canzoni a cui non potevamo rinunciare e ne rimanevano quindi solo altre dieci tra cui scegliere liberamente. Si è trat-
tato di sfortuna se non siamo riusciti a inserire canzoni da ‘Somewhere Far Beyond’ nella tracklist. Certo avremmo potuto fare quattro cd, ma sarebbe stato un lavoro prolisso, questa versione in triplo cd mi abbia raggiunto un buon equilibrio.” Ha senso però un triplo cd senza registrazioni video che avrebbero invece potuto soddisfare anche i fan magari alla ricerca del cofanetto estremo? I Blind Guardian, come sospettavo, ribadiscono di essere dei perfezionisti: “Avremmo dovuto registrare tutti gli show. Sarebbe stato sia troppo costoso che complicato da mettere in pratica con i nostri standard. Se facciamo delle riprese abbiamo bisogno di 50 telecamere per fare delle immagini ad alta definizioni per ogni
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concerto. Fare una cosa del genere sarebbe stato anche logisticamente molto difficile, se non impossibile. Così abbiamo pensato che la soluzione di un live solo audio restituisse la migliore qualità audio possibile. Poi in ogni caso in rete è possibile trovare anche riprese ufficiali di nostre esibizioni, alcune come all’Hellfest e al festival di Loreley sono state trasmesse anche in streaming.” Le copertine hanno diviso nel tempo, alcuni fan infatti rimangono legati a Andreas Marschall e non sono riusciti ad amare quelle troppo strutturate e seriose di Felipe Machado. La copertina del nuovo live vede un cambio di artista e di stile verso qualcosa tratto più ironico: “Volevamo provare a tornare a qualcosa che fosse dipinto a mano, perchè il disegno digitale è diventato una moda e in qualche modo inizia a stancare.
Così abbiamo pensato di tornare alle origini, a qualcosa che recuperasse lo spirito più antico, però non so cosa faremo per il futuro, ma l’idea è quella di tornare al disegno classico. Lo abbiamo provato qui perchè in fondo volevamo qualcosa che catturasse lo spirito di tutti gli album, attraverso la rappresentazione di un tema fantasy.” Sposto l’attenzione di Andrè verso il tour appena trascorso così da chiedergli quale sono i brani che più gradisce suonare dal vivo: “Mi piace molto ‘Tanelorn’ che è davvero difficile da eseguire. Si tratta infatti di un brano molte veloce, quando la suono bene, anche lo show viene bene e sono certo di essere nel mood giusto. È una sfida per me.” Chissà se anche Hansi la pensa così: “Credo che lo screaming sia piuttosto alto in quel brano. È un test anche per lui. Un’altra canzone che invece mi
piace particolarmente per il feeling è ‘And There Was Silence’, mi piace molto suonare la chitarra su quel brano e come suona la partitura stessa.” Il prossimo anno saranno trascorsi trent’anni dalla pubblicazione di ‘Battalions Of Fear’ e vent’anni da ‘Nightfall In Middle-Earth’. Le occasioni non mancheranno quindi per fare qualcosa di speciale: “Stiamo ultimando l’orchestrale. Hansi è in studio e sta registrando le parti vocali. Abbiamo finito le partiture delle ultime due canzone. A giugno entreremo in studio a registrare. Diciamo che nel 2018 dovremmo riuscire a completare le registrazioni e la produzione del progetto orchestrale. Non so però se riusciremo a pubblicarlo per il 2018, difficile da dire perchè dipende da quanto si muoveranno fluidamente le cose…”. A questo punto, visto che è davvero in forma, ci provo:
“Volevamo provare a tornare a qualcosa che fosse dipinto a mano, perche il disegno digitale e’ diventato una moda e in qualche modo inizia a stancare. Così abbiamo pensato di tornare alle origini,.. ”
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“Rispetto ai primi anni le cose per me sono cambiate allora non pensavo troppo a suonare in modo accurato durante i concerti, prendevo in mano la chitarra e volevo divertirmi piu’ che altro. Hai cosi tanta energia che non fai troppa attenzione a come suoni...”
“Abbiamo ultimato la scrittura di due canzoni per il prossimo album metal. Frederik registrerà la batteria nell’estate in modo da vedere come vanno le cose e decidere se ci sono delle cose da aggiungere o comunque da modificare.” Chiedo poi se André ha un’idea dello stile del prossimo lavoro: “È davvero troppo presto per dire verso quale direzione ci stiamo muovendo. Servono almeno quattro o cinque canzoni per definire lo stile dell’album, per vedere quali novità introdurremo e se riusciremo a stupire i fan. Non siamo ancora a quel punto, ma sta andando molto bene. Io ed Hansi siamo molto creativi al momento, più in generale lo stato di salute della band è davvero molto buono.” Dato che nel presente tutto sembra andare per il meglio, voglio togliermi una curiosità che ho da diverso tempo. Com’è andata con la colonna sonora del film de ‘Il Signore degli Anelli’? Ricordo che a quei tempi si diceva che un loro brano fosse stato scartato: “In realtà stavamo già scrivendo musica per il progetto orchestrale e quando abbiamo saputo che sarebbe uscito il film de ‘Il Signore degli Anelli’ abbiamo pensato che in fondo avevamo già le musiche perfette per quel film. Così abbiamo provato a contattare la produzione, ma non è cosa semplice. Ricordo poi di aver trovato il numero di telefono della
segretaria del regista Peter Jackson e lei ci aveva detto di spedirle un brano che avrebbe potuto farlo sentire direttamente a Peter. Solo che Hansi in quel periodo era occupato con i Demons & Wizards e non siamo riusciti a ultimare la demo, così non abbiamo potuto inviarlo. Solo alcuni mesi dopo avevano completato le selezioni per la soundtrack. Comunque potrete trovare quelle stesse musiche nel progetto orchestrale…” Parliamone. Di che si tratta di preciso, cosa si cela dietro il leggendario orchestrale? “Si tratta di musica completamente orchestrale che prevede cori e delle parti cantante con Hansi. Contiene inoltre degli elementi progressivi che rimandano al suono tipico dei Blind Guardian, come una grande colonna sonora, solo con il nostro marchio di fabbrica. Come ti dicevo nel 1996 avevo iniziato a scriverlo con l’idea in mente le vicende dello scritto de ‘Il Signore degli Anelli’, ma oggi le cose sono cambiate e stiamo collaborando con Markus Heitz in una storia originale. Probabilmente è la cosa migliore che abbiamo mai fatto, sia Io che Hansi lo consideriamo il nostro capolavoro e spero davvero di farvelo sentire al più presto.” Sbaglio o Heitz centra qualcosa con il videogioco ‘The Dwarves’ per cui avete eseguito il brano ‘Children of the Smith‘?
Il racconto su cui si basa il videogioco “The Dwarves” è stato scritto proprio da Markus Heitz. Noi amiamo scrivere musica per i videogiochi. Abbiamo scritto il brano ‘Sacred’ di cui abbiamo poi fatto un video. I videogiochi sono parte importante della mia vita, così il fatto di scriverci su della musica è il perfetto mix tra le cose. È una cosa che mi piace molto. Se i Blind Guardian sono uno splendido insieme, un’orchestra ormai ampiamente collaudata. André Olbrich rimane un grande chitarrista e in fondo un giorno potrebbe crearsi uno spazio tutto suo: ”A dire il vero non ci ho mai pensato sul serio... già nei Blind Guardian posso sperimentare, se faccio qualcosa di folle, posso inserirlo nell’album per cui non saprei davvero cosa fare di diverso da quello che suono nel gruppo. Rispetto ai primi anni le cose per me sono cambiate, allora non pensavo troppo a suonare in modo accurato durante i concerti, prendevo in mano la chitarra e volevo divertirmi più che altro. Hai così tanta energia che non fai troppa attenzione a come suoni...adesso voglio il feeling a seconda del mood della canzone, per trovare il tono giusto e diventare sempre più personale. In realtà abbiamo trovato il nostro suono e nel mondo della musica, tu non senti nulla come i Blind Guardian in giro, siamo immediatamente distinguibili.”
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GOODBYE CHESTER (1976-2017) #RIPCHESTER
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The Story so Far...
Dall’ultimo , enigmatico album a ritroso nel tempo fino agli inizi della carriera del cantante americano, voce di una generazione con i suoi linkin park.
di Angela Volpe Foto di Emanuela Giurano A distanza di tre anni dall’ultimo album, ‘The Hunting Party’, che ha registrato vendite da capogiro in tutto il mondo, nel febbraio 2017 i Linkin Park lanciano ‘Heavy’, il primo singolo tratto dal nuovo album, ed esplode la polemica. Il nuovo sound delude anche i fans più affezionati, che non perdonano ai loro beniamini la brusca virata verso il pop. ‘Heavy’ è un duetto con voce femminile, il primo nella carriera della band, con un testo che non ha duplice interpretazione: parla di stati depressivi, della difficoltà di convivere con il malessere dell’anima. Il video mostra Chester nei panni di una persona tormentata interiormente, che partecipa a un gruppo di ascolto per parlare dei suoi problemi e finisce quasi per fare a botte. In alcune scene sono presenti contemporaneamente due aspetti del personaggio, entrambi interpretati da Chester: uno che rimane seduto a tavola con la testa tra
le mani e l’altro che inveisce contro il suo alter ego in modo violento, urlando e distruggendo oggetti. Togliendo l’audio, le immagini del video trasmettono disperazione e rabbia, in contraddizione con la delicatezza della canzone. Ed è proprio questo contrasto, la dolcezza della melodia contro l’amarezza del contenuto, la leggerezza del genere contro lo stesso titolo del brano a rendere affascinante ‘Heavy’, ma questo non ha soddisfatto le aspettative del pubblico, che avrebbe voluto un brano in linea con le hit a cui i Linkin Park avevano abituato i propri seguaci. Il settimo album in studio ‘One More Light’ viene pubblicato nel maggio 2017 e volano critiche pesanti e parole severe anche dai fan club. Lo spirito vitale che animava la musica dei Linkin Park sembra essersi ridotto a una poltiglia pop già sentita. Tuttavia, come troverete nella recensione
già pubblicata da Metal Hammer, per la prima volta i Linkin Park hanno presentato un lavoro introspettivo, profondo e sincero. Lo stesso Chester, in un’intervista riguardo all’album, ha dichiarato di aver messo a nudo le sue debolezze più grandi nella scrittura dei brani, condividendo le proprie angosce personali come mai aveva fatto prima. Anche Shinoda aveva dichiarato che i testi rappresentavano gli autori in modo molto intimo e ora, purtroppo, alcune frasi appaiono tristemente rivelatrici dello stato d’animo di Chester. Dopo la sconvolgente notizia del suo suicidio a soli 41 anni, ‘One More Light’ appare come una lettera di addio. La maggior parte delle tracce comunica una sofferenza profonda, anche solo nei titoli, come ‘Nobody Can Save Me’, ‘Good Goodbye’, ‘Sorry For Now’. Un verso di ‘Nobody Can Save Me’ dice: “Nessuno può salvarmi ades-
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“I’m dancing with my demons I’m hanging off the edge Storm clouds gather beneath me Waves break above my head”
Nobody Can Save Me ‘One more light’ (2017)
so, tengo accesa una luce per scacciare il buio interiore, perchè nessuno può salvarmi”. È brutto pensare che un artista possa aver messo in luce così tanto della sua sfera emotiva e che sia stato attaccato perchè ciò non era all’altezza dei suoi pregressi standard musicali. E sebbene Chester abbia avviato più progetti artistici nel corso degli anni, la quasi totalità della sua carriera è stata connessa ai Linkin Park. Nel 1993, giovanissimo, fonda la band grunge/alternative rock Gray Daze, con la quale pubblica due album, ‘Wake me’ e ‘No Sun Today’. I Gray Daze si sciolsero pochi anni dopo per divergenze tra i due fondatori, ma nel 2002 Chester aveva manifestato la volontà di riunire la band, progetto mai realizzatosi a causa dei suoi impegni con i Linkin Park, che in quel periodo stavano registrando ‘Meteora’. Recentemente, Chester aveva annunciato una reunion della band in formazione originale (salvo per il chitarrista, venuto a mancare nel 2004). I Gray Daze avevano già in programma un concerto in Arizona, previsto per settembre 2017, evento che per ovvie ragioni non avrà più luogo. Bennington fu reclutato dagli Xero nel 1998, i quali furono quasi immediatamente colpiti dalla sua vocalità. Nel 1999 la band cambia nome in Hybrid Theory, pubblicando il primo EP omonimo. Solo nel 2000, con il nome ufficiale di Linkin Park, venne pubblicato l’album ‘Hybrid Theory’, che portò Chester e compagni al successo. Così, a soli ventidue anni, Chester raggiunse fama mondiale, divenendo un idolo teen rappresentativo per la sua energia comunicativa. Parallelamente all’attività con i Linkin Park, nel 2009
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“So say goodbye and hit the road Pack it up and disappear You better have some place to go e ‘Cause you can’t come back around her Good goodbye (Don’t you come back no more” GOOD GOODBYE ‘One more light’ (2017)
Bennington incise un album con i Dead By Sunrise,’Out of Ashes’, dove oltre a cantare si dedica anche a chitarra e tastiere. Nel 2012, voci lasciavano intuire la volontà del gruppo di riunirsi per lavorare a un nuovo album, ma il progetto non è mai stato realizzato. La passione per il grunge che l’aveva avvicinato alla musica agli esordi, si rinnova con la collaborazione con gli Stone Temple Pilots, nei quali milita per due anni, incidendo l’EP ‘High Rise’. Far parte di quella band è un sogno che si avvera per Chester, che prima di diventarne il cantante ne era un fervente ammiratore. Tuttavia, anche in questo caso, ha scelto di dare priorità ai Linkin Park, uscendo amichevolmente dalla band nel 2015. Nota al pubblico, la sua amicizia con Chris Cornell, la cui morte l’aveva colpito duramente. Meno di due mesi fa Chester cantava ‘Hallelujah’ di Leonard Cohen al funerale dell’amico, dedicandogli anche una lunga lettera, nella quale diceva: “Non posso immaginare un mondo senza di te”. Nessuno può dire quanto questo dolore abbia influenzato la sua decisione di togliersi la vita proprio nel giorno del compleanno di Chris. I due amici, mestamente accumunati dallo stesso destino, si erano esibiti in una toccante performance di ‘Hunger Strike’, meraviglioso brano dei Temple Of The Dog. Chester si esibisce con i Linkin Park per l’ultima volta in Italia il 17 giugno, all’interno del festival I-Days a Monza. A onor del vero, in quell’occasione il cantante era apparso sotto tono agli orecchi più attenti, ma ciò non poteva certo lasciar presagire un tale epilogo. Tralasciando ogni sorta di disquisizione sul “Perchè l’ha fatto?”, al bando ogni sterile e puerile polemica, pensiamo piuttosto a cosa lascia. Chester Bennington, nato a Phoenix nel 1976, è e sarà ricordato come un’icona del nu metal e ci possiamo scommettere che sentiremo parlare di lui per molto tempo. Magari fra qualche anno, in un bar all’ora di pranzo, partirà una melodia familiare e ci ritroveremo a canticchiarla nella testa prima di ricordarne il titolo, che potrà essere ‘Final Masquerade’ o ‘Numb’. Ricorderemo un ragazzo ossigenato in un vecchio video di MTV, forse non metteremo a fuoco il suo volto, ma riconosceremo la sua voce. Perché anche chi non ha mai amato i Linkin Park, chi li ritiene responsabili di aver mescolato pop e metal, chi non ha mai ascoltato un loro disco e chi ha disprezzato ‘One More Light’, pur senza volerlo, riconoscerà quel timbro di voce che ha caratterizzato uno stile e un periodo: la voce di Chester Bennington.
“Who cares if one more light goes out? Well I do”
one more light ‘One more light’ (2017)
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LIVE REPORT - LIVE REPORT - LIVE REPORT -
di Stefano Giorgianni, Sofi Hakobyan Foto Patrick Schneiderwind
Tra caldo asfissiante e fiumi di birra si è svolto anche quest’anno l’Alpen Flair Fest, la manifestazione musicale più importante del Südtirol e, oramai, una delle migliori sul territorio nazionale. L’edizione del 2017 propone un bill di grande interesse, con il solito mix di generi che è da sempre uno dei punti di forza del festival. In cartellone ci sono, difatti, Hardcore Superstar, Unantastbar, Hämatom, Kärbholz, SubwayToSally, DAD, Combichrist, Bad Omens, Nitrogods, Anthrax, Sepultura e Frei. Wild assieme a Truck Stop, Schürzenjäger e Voxxclub; come potrete capire, ce n’è per tutti i gusti e l’atmosfera dell’Alpen Flair beneficia di questa inusuale mistura.
Il primo giorno inizia alla grande ed è dedicata a band di madrelingua tedesca che infiammano il pubblico sin dai primi secondi in cui calcano il palco. Arriviamo alla location dei concerti, l’Ex Nato Areal Natz, al termine dello show di Hannah, mentre stanno per cominciare la loro performance i divertenti Voxxclub, certo non un gruppo da Metal Hammer, ma l’aria di festa che si respira all’Alpen Flair durante queste esibizioni è qualcosa di impagabile. Il festival del Südtirol mantiene, infatti, il clima di familiarità e gioia ereditato dai cugini germanici, qualcosa che dovremmo imparare anche noi italiani, sempre pronti alle polemiche pre e post manifestazione. La prima band che inizia a picchiare sono i Kärbholz (7,5/10), la punk rock band di Ruppichteroth, capitanata dallo scatenato frontman Torben Höffgen. Reduci dal buon ‘Überdosis Leben’, i tedeschi offrono una prestazione di tutto rispetto, che inaugura un po’ la “parte rock” dell’Alpen.
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Una volta terminata l’esibizione dei Kärbholz è la volta degli Hämatom (8,5/10), da considerarsi una delle più riuscite di quest’intera edizione. La band bavarese, che presenta un misto tra groove, l’autoctono Neue Deutsche Härte e thrash, regala un’ora ad altissimi livelli, ripercorrendo gli show dei conterranei Rammstein e Megaherz (quest’ultimi ospiti lo scorso anno dell’Alpen Flair). Tra sonorità industriali, giochi di luce e una grande interazione con il pubblico, i teutonici, sotto contratto con la Rookies&Kings, si dimostrano un gruppo navigato, degno dei maggiori palchi d’Europa. Punto massimo dello show viene raggiunto durante l’esecuzione di ‘Wir sind Gott’, title-track del disco uscito nel 2016.
A chiudere questa prima giornata sono gli Unantastbar (8/10), band che gioca in casa, essendo di Bressanone così come i Frei.Wild, e, come gli Hämatom, ambasciatori della Rookies&Kings. Scatenati, precisi e intransigenti, i brissinensi dominano il palco per circa un’ora di fuoco e fiamme, anche grazie alla notevole presenza scenica del frontman Joachim “Joggl” Bergmeister. Un Total Oi! assolutamente consigliato agli amanti del genere.
DAY TWO
Il secondo giorno dell’Alpen Flair Fest 2017 si apre con il gran caldo che regna e non dà tregua; una temperatura che mette a dura prova sia il pubblico che gli artisti. Tutto questo però non scoraggia e non incide sullo svolgimento del festival, che vede i norvegesi Combichrist aprire le danze. Seguono i Troglauer e i country Truck Stop, band che servono un buon antipasto per la nostra giornata rock. Siamo ansiosi, infatti, di assistere allo show di uno dei gruppi più rappresentativi del medieval rock tedesco, i Subway To Sally (8/10). Con venticinque anni di storia alle spalle, la band di Potsdam si è legittimamente piazzata fra le band che hanno segnato i trascorsi del metallo medievale e godersi un loro concerto è uno dei passi obbligatori per gli appassionati del genere. La prestazione offerta da Michael Boden&co. non delude, la mescolanza tra strumenti moderni e ghironde, cornamuse, ciaramelle e l’impetuoso violino di Silke “Frau Schmitt” Volland, ci dona un’altalena di emozioni dall’inizio alla fine del concerto.
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Poco tempo per respirare ed è l’ora dei danesi DAD (7,5/10), autori sempre di show convincenti e trascinanti. Quelli che erano i Disneyland After Dark, prima di una sanguinosa causa con la Disney che li ha costretti a cambiare nome, i rocker di Copenhagen sanno come mantenere alta l’attenzione del pubblico e, tra la carica del cantante Jesper Binzer e i cambi di costume e strumento del bassista Stig Pedersen, i sessanta minuti riservati al loro concerto scivolano via piacevoli come una birra gelata con quaranta gradi di temperatura.
Siamo quasi giunti alla fine di questo day-two dell’Alpen Flair e sono pronti a scaricare tutta la loro energia gli indomabili Anthrax (8/10). Band che non ha bisogno di presentazioni e che ognuno di noi ha già visto in diverse occasioni durante tutti questi anni di attività, riesce a stupire ogni volta, grazie anche al selvaggio e superbo Joey Belladonna, LA voce del combo americano. Un’ora e mezza di concerto ci dà la possibilità di apprezzare e valutare positivamente la prestazione di uno dei gruppi più in forma della scena thrash internazionale, con dei suoni mostruosi e una voglia di spaccare che li rende freschi come fossero all’inizio della carriera.
DAY THREE
Terzo giorno, terza insopportabile ondata di calore che investe persino le cime dell’Alto Adige. L’unica consolazione, da un lato, è che in serata è prevista la pioggia, cosa che potrebbe però rovinare la chiusura del festival. Nel mentre non ci preoccupiamo troppo e ci incamminiamo per andarci a godere le ultime ore della manifestazione. Ad aprire sono i Nitrogods (7,5/10), heavy metal band tedesca che molto ricorda i Motorhead del compianto Lemmy, formata dal chitarrista Henny Wolter (Thunderhead, Primal Fear, Sinner), dal batterista Klaus Sperling (Freedom Call, Primal Fear) e dal bassista/cantante Claus “Oimel” Larcher, gruppo reduce dalla release ‘Roadkill BBQ’ (Steamhammer/SPV). Prestazione infuocata, anche sotto una calura insopportabile che inficia un po’ l’accoglienza da parte del pubblico, intento a trovare riparo dal clima rovente.
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Stessa sorte che subiscono gli Hardcore Superstar (8,5/10) che, oltre al caldo, devono fronteggiare anche le prime gocce d’acqua, difatti il pubblico si rintana sotto un enorme tendone allestito in un lato dell’area, lasciando praticamente sguarnita la zona sotto al palco. Gli svedesi non si lasciano però scoraggiare dalle intemperie e Jocke Berg le prova tutte per coinvolgere gli spettatori, facendo anche salire due di loro a fianco a sé e continuando a saltare come un ossesso su e giù, fino a lanciarsi in mezzo alla folla. ‘We Don’t Celebrate Sundays’ è l’apice del concerto degli Hardcore Superstar: grandissima professionalità e classe da vendere.
Lo scroscio si intensifica e iniziamo un po’ a temere per la prosecuzione del festival. Sappiamo però che la band attesa in questo momento non ci deluderà. È giunto il momento dei Sepultura (8,5/10). Sotto un diluvio funesto, la thrash metal band brasiliana regala una prestazione magica, sensazione forse condizionata dalla stessa pioggia. Tuttavia, i granitici riff di Andreas Kisser, la precisione della sezione ritmica e la potenza di Derrick Green si fanno beffe del dio del tuono e, tra classici e pezzi recenti, attirano e coinvolgono il pubblico per un concerto memorabile.
Inutile star qui a sprecare molte altre parole per quest’ultima giornata. Siamo arrivati al gruppo più atteso della tre giorni, i padroni di casa e beniamini della platea, i Frei.Wild (9/10). Vedere uno show dei deutschrocker brissinensi è sempre qualcosa di speciale, grazie a quella miscela di generi che li ha resi una delle band più popolari in Germania, ma assistervi qui, dove sono nati e cresciuti, è tutta un’altra storia. Il gruppo, solido e rodato, non perde un colpo. Philipp Burger conduce la folla come un direttore d’orchestra e già dall’opener ‘Wir Reiten in den Untergang’ gli spettatori vanno in visibilio, partecipando al massimo in ogni singolo brano. ‘Frei.Wild’, ‘LUAA Rock’n Opposition’, ‘Hab keine Angst’, ‘Yeah, Yeah, Yeah’ e molti altri successi fanno da cornice a una nuova, indimenticabile prestazione dei Frei.Wild, in attesa del prossimo disco. Anche l’edizione 2017 dell’Alpen Flair Fest termina in bellezza, lasciandoci un bel ricordo com’è stato per le precedenti, con un’organizzazione perfetta e un clima veramente speciale. Siamo già in attesa dei primi nomi che prenderanno parte alla prossima edizione, alla quale vi consigliamo di non mancare.
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THE BOOK OF SOULS TOUR SAN BERNARDIno (CALIFORNIA) 1 luglio 2017
di Piergiorgio Brunelli
L’ultimo pezzo di tour per il celebrato ‘The Book Of Souls’, tre settimane e dopo New York, gli Iron Maiden andranno in vacanza. Nicko McBrain, nel pre-concerto nella Trooper room, fa, divertito, del puro comizio. Per un po’ si fanno vedere anche Adrian Smith con la moglie e Bruce Dickinson. Un Bruce che Nicko descrive talvolta in difficoltà, dopo il cancro. Spesso gli si secca la gola a metà concerto e non tutte le note vengono come vorrebbe. Non è Paul Stanley, che è oltre la frutta, ormai al caffè, direi. Se Bruce ha avuto problemi stasera, beh, non se n’è accorto proprio nessuno… Gli Irons in California sono ancora di metallo purissimo, il loro pubblico (ben 25.000 i paganti, questa la cifra ufficiale) è selvaggio, sembra di essere a vedere gli Slipknot! Ci sono fiamme sul palco con ‘If Eternity Should Fail’ e ‘Powerslave’, in questo caso come introduzione ad un Bruce mascherato, e presto le fiamme si ergono alte in cima alla collina, dove una danza tribale e violenta fa eco alle note delle complesse ‘The Book Of Souls’ e ‘Fear Of The Dark’.
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- LIVE REPORT - LIVE REPORT - LIVE REPORT Steve Harris non sta fermo un minuto. A 62 anni gioca ancora a calcio e si fa 90 minuti ogni volta che scende in campo, mi dicono dalla regia. Per cui non me ne sorprendo più di tanto. Janick Gers è l’altro svitato che fa flessioni e mosse da kick boxing tutta la sera. Bruce ci gioca spesso a nascondino. In ‘The Trooper’ lo copre con una delle bandiere, chitarra compresa, mentre su ‘The Red And The Black’ gli riveste la faccia con la maglietta durante il suo assolo, tanto per far vedere che sa suonare anche cieco. Il fratello di Janick mi ha detto che qualche anno fa ha suonato uno show con una gamba rotta, poi un fan gli ha abbracciato la gamba a bordo palco, e lui è scattato via, ma il ginocchio lì è rimasto… Nessun dramma fisico permanente però, stasera sembra un canguro indemoniato! Mentre Dave Murray, lui non fa i cento metri, ma le sue dita creano assoli dolcissimi, vedi ‘Powerslave’.
Bruce conversa tanto quando presenta ‘The Book Of Souls’ facendo riferimento alla fine del mondo, e la marijuana che una vasta percentuale del pubblico sta consumando viene menzionata come possibile ragione della fine. Racconta di come gli Irons non abbiano “aiutini” tecnici e che quello che si ascolta è quello che suonano, senza alcun artifizio. Nicko, prima dello show, aveva confessato come il concerto di Albuquerque di qualche giorno prima fosse stato forse il peggiore della loro carriera, tutti avevano avuto una giornata storta per una ragione o un’altra. Magari l’aiutino sarebbe servito in quell’occasione, chi lo sa… Eddie che appare a ripetizione sui teloni del backdrop, molto tradizionale non avere schermi elettronici, e stasera ha le gambe. Va a passeggio e si fa il palco parecchie volte agendo prima da sparring partner per Janick, mentre poi se la vede con Bruce che, nella “collutazione”, gli strappa il cuore, poi gettato al pubblico, per rimandarlo, infine, nel backstage a testa bassa. Ritornerà più tardi sotto forma di grosso testone che appare dietro alla band durante ‘Iron Maiden’, testone che esplode una cascata di fuochi artificiali. Visivamente eccitante!
Nel bis, dopo la bellissima ‘The Number Of The Beast’, arriva la comunione col pubblico. No, tranquilli, niente ostie… I ‘Blood Brothers’ stasera vengono da tutto il mondo, ci sono bandiere svedesi, bandiere dell’Honduras, del Guatemala, del Cile. Bruce vuole una onda di braccia durante la “polka” che descrive la parte strumentale della canzone. 40mila le braccia che si muovono al suo comando, tutti uniti dalla musica della band. E quelli nel mosh pit attorno al fuoco, sono così “fatti” che manco sanno che giorno è! Loro le braccia non le hanno alzate, forse più tardi faranno diversamente con la polizia che li arresta poi per danni al palco… Andiamo tutti a letto sulle note di ‘Always Look On The Bright Side Of Life’, dei Monty Python. Guarda al lato positivo della vita. E dopo uno show come questo, la vita sorride davvero… Rock on!
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@ AUTODROMO - IMOLA 10 GIUGNO 2017 Foto e Testo di Roberto Villani
Sono trascorsi venticinque anni dal mio primo incontro ravvicinato con i Guns N’ Roses allo Stadio delle Alpi di Torino, con una band all’apice della forma creativa, nonché fisica, pronta a dominare il mondo grazie a un rock che coniugava sapientemente la potenza selvaggia degli Who, al carisma e la sfrontatezza irriverente tipica degli Stones e degli Aerosmith. Poi il naufragio e quello che poteva essere e, di fatto, non è mai stato, è consegnato agli almanacchi del rock e a un album piuttosto deludente come ‘Chinese Democracy’, dai costi stratosferici pari aduna manovra finanziaria italiana, per realizzare solo un paio di brani accettabili e niente più, a coprire un arco temporale di vent’anni come peggio non avrebbero potuto.
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emory Reader’s m mano ‘Appetite for De-
ttore nuto in con il mio le lta che ho te di ascoltarlo vo ma ia a m gl im so vo pr in lla ’, la ni Incident emevo da Avevo 17 an en, la cassa e fr ’, ‘Spaghetti ev al II St e la e I fi zy in on Iz si o stata con e se your Illu struction’. Er ‘U bb , re s’ sa ie ha ‘L ta xl ti i. A perfet arriva ion davvero accontentarm e più a CD. Poi sono Certo, la reun ltato posso decisamente ss . ci ia us or ri st n è no o il rest o e asco o convinti st an vi er il graffio ho e e ch ’ ch le ro the Jung e to e ma per quello la sfida contro tutti colo m di co el ‘W inta Let Die’, il riff iniziale vinto con gr di ‘Live and a ho sentito le en ona pp fi hi A . cc to ri ta cu , l’a r rispos alche sc cantare. Beh ate la miglio onostante qu n ueen’ sono st luto piangere di gioia. N Q ia di Ferrer no t er ke tt oc ba ‘R di ici esso della avrei vo or gr st e’ i in in zz ’M vo O pe ti i d la il i e 27 ‘Sweet Ch Rain con re namente tutt hinese di November suonato divi imento di ‘C ha er h ns as lio sull’assolo l’i Sl e , il le ib ua ut an sc m ‘Estranged’ di ’, da ta e ‘Civil War ’t Cry’. Scel m on co propriamente i ‘D e an a br m gata da a cui Co se City perché ntare Paradi piamente ripa della band, fr ca am a a m ta ci r’, us te ‘Bet ozioni, oltre essere ri Democracy’ e solo di non osione di em pl ce es ia Duff sp ra di ve i a M . ts cantata da stato un e ‘Yesterdays’ a il finale è ude’ dei Misfi Chris m it o tt a, ic ‘A m on e af m l’a à al co e le cover o omaggio ormai ero gi it nt nt Ta ta se a. rt se un ca e tti di Floyd a questa ra che di foglie re’ dei Pink cco magico he to xl e A un er w h, to u as la Sl yo ga ish nno re , vedere McKagan, ‘W Una oltre 20 anni e Sun’, che ha . ol po co H is do ck nt la hé ra ‘B rc ga lo ne sì, pe Cornell con o effetto, ve surreale. Ebbe vvero un cert sempre. da r fa pe già di per sé o o lc em pa ri er stesso rsone ricord Marty Palmie pe 00 e Duff sullo .0 90 e tr al e io notte che
E l’attesa, com’era auspicabile, è stata ampiamente ripagata da una prestazione convincente e quasi perfetta da parte della nuova macchina da corsa messa in pista dal magnifico trio, il quale, sotterrata l’ascia di guerra, coadiuvato da un manipolo di ottimi session man e sulle ali di uno spettacolo ampiamente collaudato da oltre un anno quasi ininterrotto di concerti, ha messo a fuoco e fiamme Imola Park, esaltando il popolo degli ottantamila presenti da ogni parte della penisola all’autodromo Enzo e Dino Ferrari, così come fecero gli AC/DC due anni fa sempre qui, in riva al Santerno. La scaletta ripercorre in lungo e in largo un quarto di secolo di grandi classici, annoverando tutti quei brani che hanno catapultato i Guns N’ Roses dai sobborghi di Los Angeles ai vertici del rock mondiale, ma a cui è mancata la costanza e, soprattutto, la lungimiranza di grossi calibri come Stones e Who, per dominare le scene in maniera quasi incontrastata, sulla scia dei due colossi britannici .
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Slash ha toccato vette di alto gradimento, oltre che per i suoi proverbiali assoli, uno su tutti, quello di ‘Sweet Child O’Mine’, omaggiando Rota con il Padrino e i Pink Floyd con ‘Wish You Were Here’, mentre Axl ha commosso la sconfinata platea di Imola, interpretando più che degnamente, prima ‘Don’t Cry’ e successivamente la struggente ‘Black Hole Sun’, dedicata al collega Chris Cornell, tragicamente scomparso, raggiungendo in questo contesto, il picco più alto dell’intero concerto. Ricordiamo che Cornell con i suoi Soundgarden, oltre ai Faith No More, aprirono il Use Your Illusion Tour del 1992, compresa ovviamente la data torinese allo Stadio delle Alpi . Tutti gli occhi sono puntati, ovviamente, sul cantante e sul chitarrista e su quell’intesa ritrovata, che ha rappresentato per anni l’ago della bilancia per la fragile stabilità, nonché la sopravvivenza del gruppo e che, per quanto visto a Imola, non ha dato assolutamente segni di cedimento e di stanchezza, come se il tempo si fosse fermato agli anni d’oro di ‘Appetite For Destruction’ .
CHRIS CORNELL (1964-2017) In questa foto del 1992 di supporto ai guns A torino con i soundgarden (Use Your Illusion tour)
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- LIVE REPORT - LIVE REPORT - LIVE REPORT Parrebbe una favola a lieto fine e invece eccoci qua in ottantamila a godere di uno spettacolo entusiasmante e, nello stesso tempo, a interrogarci se alla fine di questo monumentale tour faccia finalmente seguito un album di inediti con l’attuale formazione, magari con l’innesto di un Izzy Stradlin e uno Steve Adler a caso, non certo per recuperare il tempo perduto, ma almeno per dare un senso compiuto a una delle reunion più attese del nuovo millennio dal popolo del rock. Ritrovarsi un’altra volta con due cover band in giro per il mondo a suonare i pezzi storici dei Guns N’ Roses non si può davvero più sopportare, ma questa ipotesi pare per il momento scongiurata, considerato che si parla già di un loro ritorno negli stadi europei e italiani nell’estate 2018.
emory Reader’s m
orre lungo le l vivo pura, che sc e insieme da ar na li on due na su re e ad re ima fila e a zione di Slash intona derli dalla pr ca, è un’inie ve a po , ’e i) Vedere Axl e no ld un fi so e o r at ch fatto pe e stelle e hanno segn erito (l’hanno paranormale, come se du far incrociare a m in le canzoni ch e ch ri o reto ter a un fenomen cindere dalle sembrava po roll. vene. A pres me assistere i nulla ormai i del rock ‘n’ co as o et qu at an e st pi ch i è , e ro za lo ce di an lu n st ci co ni di e pa an di e ca e metri s sono allineat e lontan Guns N’ Rose mpo, si trovassero i to erano stat te o en o se nt i nt pu om rc ta m o da rt el da an qu mo dom di vivere da, a un ce va ia ra ve gl st do vo la ni i o io o cu an oz ov o le em ovino, in enti avev loro di nu to. E di cert stito a un pr dei fans pres en si e as om rt o m pa am to an bi es gr su qu Non ab ioni che l’adolescenza a delle emoz gli stessi to per tutta ca suonare, ma ti as nt fa ato il cuore, ha rm fe e, o m e nn m ha I’t’s so easy’, e che ci per chi, co . Die’, ‘Coma’, sso pallottol t te do Le ca ente d ad an o m an at e no ar iv ci ha totalm non so ne’ , ‘L nno sp Democracy’, ‘Mr.Brownsto palco e ci ha gon, l se e su po ne ch m hi ti li ‘C te ue sa il m ng o Sono a con il sa rte dell’albu m aver fermat i pa o m e an is ha nt ic br ce ci m cn fa e se a’ ch chi te seppur pezzi che magari con po era visibile; il riff di ‘Com nei nostri essa ‘Better’, h, st as la Sl ’, di lle ra he ò o ci picchi ‘My Mic alla manie ima fila tutt gistrare dei l’assolo fatto o che dalla pr h,facendo re ur as ro Giardino gi Sl lo e storditi con l i di de an re ri m to delle sue rose miglio l defibrilla le de i n ic co ’ (da pelle tr e, et or el ng fiava le vene zzato il cu ar’, ‘Estra ed ve’. gli impulsi W re n il ca iv co ac ‘C o e , at s’ ch zz ay s I Lo hanno an sincroni ca ‘Yesterd di Axl in ‘Thi ramma; ma ci , la nostalgi ’ o l’attacco in nesse critiche Ra an r elettrocardiog bre ‘Sweet Child O’ Mine’ on be (c , em to ov er ‘N nc di le reco o ce an un ente a ’ Roses rapp note al pi dell’Eden: la ito semplicem ente uno show. I Guns N le prime tre st e si m e as co to er sì su av is co ,v em d’oca), a pensa di el rock ruvido stato semplic i novantamil . No, non è le del rock, qu fortuna di assistere,lia pa ag ci in sb Chi di noi de pr si a ), rt lla po uto la e erto stesso esente, ha av tà ha superato il sogno e è entrata ne da post conc di noi era pr nerazione ch al i ge re ve Ch a . la do im a so a lt D ol ca l’u i siamo? nel loro roll. A Im sentano h e Duff. Ch e fin troppo gno rock ‘n’ as rs so Sl fo , o ri e, xl A nt op di pr ue a il delinq quella za vere nell’anim a accanto a sentire e rivi Daniele Lean giorno è stat ck! un r ba e pe ar ra st ey th a, la no eg fr i se ne veniamo? Ch
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LIVE REPORT - LIVE REPORT - LIVE REPORT -
@ Hinwil - Zurigo - Svizzera 23-25 GIUGNO 2017
di Alex Ventriglia Foto di Roberto Villani Un Festival di grandi firme, il Rock The Ring di Hinwil, a quattro passi da Zurigo, prediletto non solo dai nostalgici del rock’n’roll più d’autore, ma che nel corso degli anni ha saputo trainare a sé le nuove generazioni con il suo giusto “mix-appeal”, forte di nomi altisonanti, di quelli che hanno scritto la storia, ma senza però trascurare il nuovo che avanza, la gioventù che si affaccia alla ribalta. Anche l’edizione 2017 ha saputo rispettare in pieno tale tradizione, avviata il 23 giugno e conclusa il 25, in una domenica a dir poco magica con la suggestiva, solenne esibizione di John Fogerty, leggendario cantante fondatore dei Creedence Clearwater Revival, tanto per sottolineare l’importanza storica e il blasone dei gruppi chiamati all’opera sul palco del Festival elvetico. Festival che al tempo stesso si dimostra alquanto “open-mind” e variegato quando nel venerdì di apertura lascia campo libero al pop dei locali Pegasus e del duo Lo & Leduc, all’irish folk dei Saint City Orchestra, per non dire di improbabili intrecci robot Kraftwerk-style (Dabu Fantastic) oppure strizzando l’occhiolino all’hip hop più di maniera, con gli headliner Die Fantastischen Vier, da Stoccarda. Non propriamente la giornata per Metal Hammer Italia, che le armi e i bagagli li tiene invece pronti per il sabato, stavolta il fantasmagorico duo Ventriglia-Villani le Alpi le svalica invogliato ad approfondire la conoscenza con uno degli Open Air Festival più intriganti dell’intero lotto continentale, almeno per coloro che hanno il palato fine in materia di rock’n’roll.
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- LIVE REPORT - LIVE REPORT - LIVE REPORT Capoluogo dell’omonimo distretto del Canton Zurigo, Hinwil è una cittadina nota ai più per essere sede della Sauber, la scuderia di Formula Uno, ma da qualche anno deve parte della sua notorietà anche al Festival, situato al centro di un anello all’interno di una bellissima vallata in cui, ovvio, è il verde a farla da padrone. Siamo in Svizzera, fortuna nostra, e il cemento è ridotto allo stretto necessario, ragion per cui tutto è ancor più godibile, specie se trattasi di una manifestazione tale, nella quale gli spazi aperti sono fondamentali. Una manifestazione che oggi, sabato 24 giugno, si infiamma sin dalle prime battute, quando sul palco del Rock The Ring irrompono i Krokus, quarta band della giornata dopo QL, Crystal Ball e Fiddlers Green. L’irriducibile team capitanato dal frontman Marc Storace incentra il suo set sia sulle dirompenti cover di immortali “evergreen”, da ‘American Woman’ a ‘Rockin’ In The Free World’, a ‘Quinn The Eskimo’ (gli svizzeri hanno fresco fresco un album di cover al bacio, ‘Big Rocks – The Roots Of Krokus’), che sui classici che noi tutti amiamo - l’opener ‘Long Stick Goes Boom’, ‘Tokyo Nights’, ‘Heatstrokes’, ‘Screaming In The Night’- mettendo in chiaro che, in quanto a cattiveria agonistica e sano mestiere, i Krokus non sono secondi a nessuno. La sinergia alle chitarre tra Fernando Von Arb, Mandy Meyer e Mark Kohler, sotto la spinta dell’indomito Chris Von Rohr, bassista storico e altro elemento distintivo della compagine rossocrociata, è stato il primo, grande spot del sabato qui all’Autobahnkreisel di Hinwil. Ai Krokus abbiamo sempre voluto bene, impossibile fare il contrario…
Si danno quasi il cambio, in questa “staffetta” nazionale che specie quest’anno li ha visti suonare spesso insieme, dato che ora è la volta dei Gotthard, autentiche stars in Patria e non solo, i quali, in rapida battuta, sparan fuori subito ‘Silver River’ ed ‘Electrified’, tra i brani più frementi dell’ultimo, ottimo full-length, ‘Silver’. Come detto sopra, i Gotthard sono eroi nazionali, l’entusiasmo sotto il palco cresce sempre più, tra fedelissimi della prim’ora, quelli legati indissolubilmente alla figura di Steve Lee, e i nuovi aficionados che parteggiano per Nic Maeder, frontman che con umiltà e grandi doti canore ha saputo affrontare la pesante eredità raccolta. ‘Hush’, la cover di Joe South, scuote l’arena poderosamente, ‘Stay With Me’, altro notevole estratto da ‘Silver’, prima di ‘Mountain Mama’, sanguigno classico di ‘Dial Hard’ che mette i brividi addosso ogni volta che lo si ascolta. La band di Lugano, capitanata da Leo Leoni, sul palco è una garanzia assoluta, lo certifica anche qui al Rock The Ring con una prova d’autore che tende più ad evidenziare il lato più scanzonato e disinvolto della propria identità musicale. E il top dello show non può che essere ‘Heaven’, con le immagini, forti e commoventi, di Steve che scorrono sui maxischermi, per una dedica struggente che idealmente ricongiunge il gruppo al pubblico, quest’ultimo visibilmente emozionato. Ciliegina finale, la cover di ‘Come Together’ dei Beatles irrobustita dalla presenza dei Krokus, una solida realtà direi, a dar manforte ai Gotthard che, infine, salutano il loro pubblico, felici.
A tirare giù il sipario, i Deep Purple protagonisti novelli con un album che, forse forse, si potrebbe perfino ispirare a ‘Perfect Strangers’ vista l’eccelsa qualità del suo repertorio, ma che, come dato primario, li ha intanto riportati in cima alle classifiche di mezzo mondo, mica poco il compitino svolto da ‘InFinite’... Come dire, il mondo ha ancora voglia di Profondo Porpora, e Hinwil non si sottrae alla comunione con il gruppo che, tra il serio e il faceto, ha annunciato il suo ritiro dalle scene. Qualcosa di grosso bolle in pentola, e chissà, forse i più lungimiranti avranno già capito… Ian Gillan, Roger Glover, Steve Morse, Ian Paice, unico membro originale, e Don Airey, il reale architrave su cui si regge tutto l’apparato musicale marcato Deep Purple, chi è un buon intenditore sa di cosa parlo, che il referente numero uno in cabina di regia è il tastierista originario di Sunderland. Un complesso che non può temere concorrenza, sull’onda poi dell’entusiasmo e di una scaletta direi sorprendente, a partire da una ‘Fireball’ posizionata quasi in apertura, in sostituzione di ‘Highway Star’ che, in più di una circostanza, ha creato a Gillan non pochi grattacapi. Gillan, però, sembra starsene sulle sue, è meno coinvolto del solito, ma va detto che è tutto il gruppo a mantenersi al di sotto dei suoi consueti standard, complice forse un’accoglienza un po’ fredda da parte del pubblico presente all’Autobahnkreisel di Hinwil. Fortuna vuole che con pezzi come ‘Lazy’, ‘Space Truckin’, ‘Perfect Strangers’ e l’indiziata ‘Fireball’, basta poi poco a riassestare gli equilibri. Ma una punta di amaro è comunque rimasta, lasciando sospeso più di un rimpianto, nel sabato che ormai va morendo…
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LIVE REPORT - LIVE REPORT - LIVE REPORT DAY TWO
La domenica, di buon’ora, ci avviamo all’arena ben consapevoli che oggi sarà un giorno particolarmente speciale, i gruppi e le personalità chiamate all’appello alimentano suggestioni storiche non indifferenti, ma ci arriveremo per gradi… Sono le 13 quando, di fronte a una platea ancora insonnolita e non troppo nutrita, scatta sul palco quel folletto che risponde al nome di Danko Jones, indomito rocker canadese che, miracoli della scienza, pian pianino sta prendendo piede anche da noi in Italia. Poche pugnette, con il three-piece originario di Toronto si va sul concreto, sull’essenziale, e la mezz’ora scarsa di set a sua disposizione tanto basta però a galvanizzare il pubblico, bello coinvolto sotto i colpi dello scatenato Danko e i suoi fidi compari, tra cui l’oriundo italico John Calabrese al basso. Protagonisti di una convincente panoramica che chiama in causa sia il nuovissimo album ‘Wild Cat’ (‘My Little RNR’, la stessa title-track) che classici tipo ‘Forget My Name’, ‘Do You Wanna Rock’ e ‘Gonna Be A Fight Tonight’. Bravi, bravi davvero. Non perdeteveli a settembre, quando i Danko Jones verranno a suonare al Live di Trezzo.
Altra mezz’oretta che si preannuncia torrida quella con i Black Star Riders, band che personalmente adoro, ma vengo purtroppo preso in contropiede da Ricky Warwick e soci, che quest’oggi appaiono piuttosto sbrigativi e svogliati, siamo al minimo sindacale, quasi… D’accordo, ‘All Hell Breaks Loose’, ‘Heavy Fire’, ‘The Killer Instict’ e la sempiterna cover di ‘The Boys Are Back In Town’ sono brani che lasciano sempre e comunque il segno, ma è l’indolenza del quintetto a colpirmi maggiormente, e da uno come Scott Gorham non me lo aspettavo. Come si diceva una volta: rimandati a settembre.
E per una band che, invano, credevo di totale affidamento, c’è sempre magari una risposta opposta, ci sono le rivelazioni o, per meglio dire, le sorprese, che il più delle volte amano contraddire l’usuale pensiero, e mi riferisco esplicitamente a colei che condizionerà, positivamente, l’andamento del Festival, vale a dire Bonnie Tyler. Sia il sottoscritto che Roberto Villani, ma credo di poter parlare a nome dell’intero pubblico del Rock The Ring, dato che si rimane letteralmente spiazzati al cospetto della qualità e dell’impeto trasmessi da questa storica cantante inglese, non la credevamo fosse ancora a tali livelli! Spirito indomito, un’abilità intrattenitiva realmente di categoria superiore, simpatia strabordante e graffiante come e quanto la sua voce, costantemente calda e potente, con Bonnie si fa un viaggio a ritroso negli anni nostalgici dell’airplay radiofonico, dei singoli di successo, delle collaborazioni importanti (tra cui quella con Jim Steinman, produttore, compositore e paroliere, noto ai più per il suo sodalizio con Meat Loaf, e a Jim, qui sul palco del Rock The Ring, dedica una serie di battute scherzose, tanto per sottolinearne il legame artistico). La sua performance è un’autentica carrellata di hits come non ne ascoltavamo da tempo, in lista fanno il colpo grosso ‘It’s A Headache’, ‘This Is Gonna Hurt’, le cover di ‘Have You Ever Seen The Rain?’, ‘To Love Somebody’, ‘Straight From The Heart’(rispettivamente Creedence Clearwater Revival, Bee Gees e Bryan Adams), oppure le celeberrime ‘Total Eclipse Of The Heart’e ‘Faster Than The Speed Of Night’, capisaldi di un repertorio che pare non conoscer difetti. E quando viene il momento di salutarla, sulle note di ‘Holding Out For A Hero’, ci piacerebbe rimandarlo, a una data possibilmente più lontana, per il modo in cui Bonnie Tyler ha saputo colorare quest’incredibile domenica. Tra gli appunti del mio inseparabile taccuino, rivedere al più presto un concerto di questa magica showgirl di Swansea, costi quel che costi…
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- LIVE REPORT - LIVE REPORT - LIVE REPORT
E il taccuino, saggio e fondamentale, non sbaglia neppure quando traccia il suo insindacabile giudizio sul conto dei mitologici Cheap Trick, che non ho mai visto live e che, colpevolmente, ho lasciato spesso nel proverbiale cassetto. Chiedo venia e, cosparso di cenere il capo, posso solo annotare di uno show a dir poco pazzesco per intensità e carisma, Robin Zander ha fatto il patto col diavolo tanto è giovane e dirompente, e il suo compare nonché alter-ego Rick Nielsen zompetta che è un piacere, magari meno agile, ma con la giusta motivazione e una voglia innata di far casino, come suo stile. Per non dire di Tom Petersson, bassista ed “eminenza grigia” della storica band originaria di Rockford, Ohio, che quando si piazza dietro il microfono per un arcigno remake di ‘I’m Waiting For The Man’ dei Velvet Underground, rischia di far venire giù il palco! ‘Hello There’, ‘Elo Kiddies’, ‘California Man’, ‘Baby Loves To Rock’, più canzoni che fanno quasi parte dell’immaginario popolare tipo ‘I Want You To Want Me’, ‘Dream Police’ e ‘Surrender’, il succo di un’esperienza al limite del paranormale, con una band che non ha mollato neppure per un secondo, a riprova che i grandi avevano e hanno una marcia in più. Probabilmente, a braccetto con Bonnie Tyler, i veri vincitori dell’edizione 2017 del Rock The Ring.
Sul podio dei migliori tre non poteva non salirci infine John Fogerty, cantante, chitarrista e fondatore dei Creedence Clearwater Revival, per chi scrive, insieme a Grateful Dead e The Doors, la band che ha incarnato la vera essenza del rock’n’roll generato in California a fine anni Sessanta. I principi della West Coast music si trovano lì, seppur con qualche confine delimitato altrove. E vedere questo settantenne che se ne infischia bellamente della sua anagrafe e che mette letteralmente a soqquadro l’intera situazione, con due ore piene di spettacolo, fa sinceramente ben sperare sulle proprietà taumaturgiche del rock! Fare un elenco dei classici suonati stasera pare quasi un affronto, basti dire che in scaletta c’erano tutti, e la pelle d’oca l’abbiamo mantenuta costante, per me che scrivo resteranno impresse e vivide canzoni del nobile stampo di ‘Green River’, dell’apripista ‘Born On The Bayou’, di ‘Travelin’ Band’, di ‘Lookin’ Out My Back Door’, di ‘Lodi’, di ‘Down On The Corner’, di ‘Hey Tonight’, del totem ‘Have You Ever Seen The Rain?’, suonato per ben due volte, una delle quali con Bonnie Tyler in veste di ospite speciale, di ‘Fortunate Son’. Se poi la tranche finale, tira in ballo ‘Rockin’ All Over The World’, ‘Bad Moon Rising’ e ‘Proud Mary’, i giochi son fatti, e la sensazione è netta, stiamo vivendo uno sbalzo temporale dal quale non vorremmo più riprenderci. Sarà appunto questo il sigillo finale, di un Festival che è andato oltre le più rosee aspettative, specialmente grazie a un bill che, signori miei, teme ben pochi rivali. Ho come l’impressione che replicheremo l’esperienza l’anno prossimo, i motori noi li teniamo sempre in caldo…
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l a t u r B Stay di Trevor Tra le tante interessanti realtà nostrane, ci sono due band, uscite di recente con il loro debut album, da subito entrambe si sono fatte notare, suscitando curiosità da parte degli addetti ai lavori, passando attraverso
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ottime recensioni. In questa puntata incontriamo i Roommates! Dopo anni d’intensa attività live, i Roommates escono con il debut album, quanto siete soddisfatti?
“L’attività live di questi anni è stata decisamente formativa, sia dal punto di vista musicale che dal punto di vista personale. Girare per locali, piazze e manifestazioni permette di conoscere ambienti radicalmente differenti tra loro e sviluppare rapporti personali e musicali che vanno a caratterizzare il suono di un disco. L’album ha quindi un suono nato da gusti sviluppati grazie all’interplay che si è creato in questi anni e ciò è una grande soddisfazione, soprattutto vista la resa sonora del prodotto finale.” Si parla un gran bene di voi, le recensioni del vostro album sono più che positive, vi aspettavate tale risposta? “Per quanto letto finora e quanto ascoltato da chi ha potuto sentire il disco, possiamo affer-
mare che ci aspettavamo una risposta positiva, vista le fatiche profuse nella realizzazione del full-length, ma non potevamo aspettarci che tale risposta fosse così marcata e decisa.” È innegabile il vostro genere rimandi agli States, da dove parte tale legame con il Paese a stelle e strisce? “Fondamentalmente abbiamo unito gran parte dei gusti che caratterizzano il sound di ognuno di noi. La nostra anima acustica si è sviluppata negli anni grazie a John Butler, al grunge degli Alice In Chains e dei Pearl Jam, ai suoni storici di Allman Brothers, Lynyrd Skynyrd e Black Crowes e dalle sonorità più
moderne dei Blackberry Smoke, tutte queste sfumature hanno (in gran parte) origine in America. Di recente il tutto è stato reso più marcato e potente da parte di Alessio, grazie a suoni anch’essi robusti, che hanno interpretato ciò che c’era già prima in modo ottimale. Dunque possiamo dire che il legame per l’oltreoceano (e per la bandiera confederata) è un mix di amore e passione per generi che hanno affondato le radici nella terra e nel fango tra il delta Mississippi e Seattle.” Come definite la vostra musica, southern rock, o c’è anche altro? “Finora abbiamo sempre e semplicemente definito ciò che facciamo come “Rock”, un’etichetta unica, solida e monolitica per indicare la radice di ciò che esprimiamo. Al suo interno possiamo trovare robuste venature di southern, miste ai toni del grunge e dello stoner, senza tralasciare “qualcosa” di alternative. La forte componente acustica alla base è comunque “bottleneck” e determina una connessione con gli
ultimi rivoli e le evoluzioni del rockblues. In sintesi…penso che “Rock” resti l’etichetta migliore.” Avete fatto smuovere esimi colleghi, che goduria è stata leggere il post dei Lynyrd Skynyrd su di voi? “Leggere la pagina di Rossington, Van Zant e soci, con il nostro volto sopra è stato irreale. La loro eredità musicale è un patrimonio mondiale, e poter portare avanti un vessillo “sporco” della loro impronta è sicuramente un vanto. “ Immagino sarete desiderosi di portare in sede live il nuovo album, a quando i prossimi appuntamenti? “Adesso stiamo terminando le ultime “caselle” dell’estate, saranno presto disponibili sulla nostra Pagina. Fino ad allora possiamo solo dire che il mese di Maggio ci vedrà vicini a casa, tra Ventimiglia e Cervo. “ L’entrata nei Roommates di Alessio Spallarossa, già drummer dei Sadist,
ha dato energia alla band, siete soddisfatti oppure state pensando di buttare fuori il povero Alessio? “L’ingresso di Alessio, ormai tre anni fa, ha drasticamente cambiato l’equilibrio nel suono della band. La resa, da acustica a elettrica, è ora molto potente e corposa. Poten-
dolo guardare da vicino potreste notare il bagliore di un chip che gli è stato impiantato sottopelle, al fine di non farlo allontanare eccessivamente da noi.“ A quando un nuovo album, sono desideroso
di ascoltare nuovi brani. “Nuovo album? Ci volete morti! Scherzi a parte, siamo usciti da meno di due mesi con ‘Fake’, il parto è stato sentito e provante, e dovremmo solo lavorare alla promozione di questo. Nonostante ciò, avendo una gran voglia di raccontare qualcosa, siamo già al lavoro sul secondo album, ma non possiamo ancora sbilanciare nessuna informazione sull’uscita, quantomeno per scaramanzia.” A voi l’ultima parola… “L’ultima parola, il foglio bianco, danno sempre una sindrome da vuoto preoccupante. Oltre a ovvi e sentiti ringraziamenti, e alla garanzia che l’impianto praticato ad Alessio NON lederà la sua salute (per ora), possiamo solo augurarci di vedere quanto prima chi legge questa intervista a un nostro concerto per poter raccontare con gli strumenti ciò che abbiamo bisbigliato in queste poche righe.”
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Segreti, consigli, curiosita' dal mondo del tatuaggio
di Alex “Necrotorture”Manco
tro.
Questo mese siamo in compagnia di Donatello Mazzone, classe 1977, tatuatore presso il Crossbone Studio e chitarrista/cantante della death metal band Implodead, con lui ho avuto il piacere di fare una sana chiacchierata a base di inchiostro e metallo pesante. Come nasce questa grande passione per il tatuaggio e quali sono le caratteristiche principali del tuo stile? “Verso la fine degli anni ’80 iniziai a notare e osservare i tatuaggi che sfoggiava solo qualche galeotto o qualche vero “alternativo”; all’epoca erano veramente rari e la gente li temeva. A scatenare l’interesse verso quest’arte fu un tatuaggio che si fece un mio amico verso la fine degli anni ’90: uno squarcio con all’interno dei meccanismi e tubi vari… L’esecuzione era approssimativa, ma fu quel tatuaggio a farmi accendere qualcosa den-
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Essendo già un esponente dell’arte biomeccanica con l’aerografo, incominciai a immaginare che i soggetti che creavo sulla tela, avrei potuto trasportarli sulla pelle, adattandoli al corpo in maniera dinamica. Nel 1999 un mio amico musicista, Alessio Virno, si tatuò un drago sulla scapola con delle belle sfumature; quello fu il tatuaggio che mi spinse seriamente a entrare in questo mondo e con tante difficoltà, riuscii a procurarmi una macchinetta e il resto dell’attrezzatura. L’unico tatuatore che si offrì di darmi qualche dritta fu Simone, del Simone Tattoo Art di Bari, con cui ho collaborato per un periodo. Contrariamente alle reazioni che suscitava negli anni 80, il tatuaggio odierno si è diffuso in maniera virulenta, fruibile a tutti anche in maniera sbagliata, ad esempio per emulazione. Proprio per questo nel mio studio seleziono la clientela “sconsigliando” il tatuaggio a coloro che non considero abbiano i requisiti giusti per tatuarsi. Le richieste variano dai giapponesi ai biomeccanici, dai ritratti ai fantasy e agli horror.“ Cosa c’è dietro un tatuaggio
realizzato da te? Studi, approfondimenti, culture, viaggi, passioni? “Dietro ogni tatuaggio eseguito c’è una storia legata a delle esperienze personali di cambiamento e di riflessione codificate dalla simbologia della Tattoo Art. La mia ricerca su quest’arte millenaria è costante per riuscire a creare dei tatuaggi sempre più equilibrati e armonici; viaggiare e conoscere altre culture è la mia priorità ed infatti questo lavoro ti porta a farlo anche grazie a tattoo convention nazionali e internazionali, alle quali partecipo. La passione per l’arte, per la musica e per lo skateboard mi portano a conoscere nuove prospettive di vita che rifletto direttamente nei miei lavori.” Il mondo del tatuaggio e quello del metal estremo hanno grandi affinità, cosa li unisce? “L’elemento che li accomuna è sicuramente l’immaginario tetro e violento: teschi, lupi, serpenti, draghi, demoni e tutta la simbologia esoterica sono molto presenti nel metal estremo come nel tatuaggio europeo o americano e concettualmente esorcizzano il “negativo” della vita stessa. Tatuarsi un teschio può
essere una riflessione sulla caducità della vita o il simbolo del tempo che passa, tatuarsi un demone significa dominarlo oppure ci si tatua un lupo per rimarcare un carattere da predatore o una personalità solitaria. L’introspezione e la “reazione” è quello che unisce questi due mondi, impregnando con un genuino groove la vita di coloro che ne fanno parte.” In occasione dell’Ink Metal Meeting, come è nata l’idea di creare un evento dove ci fosse inchiostro, metallo e arte? “Era un’idea che mi girava da un pò nella testa e grazie ai ragazzi del “Testudo Eventi” e dei Vinterblot siamo riusciti a realizzare questo primo esperimento di arte e musica estrema nella provincia di Bari. Il tutto è nato in maniera spontanea sposando le mie due principali passioni. Importantissima è l’amicizia e la collaborazione con il Gioko’s Tattoo Shop (Franco, Beppe e Fede) con cui condivido la maggior parte delle tattoo convention e degli eventi di Art Fusion; sono artisti incredibili e
stimolanti e divertendoci, ci confrontiamo e influenziamo a vicenda… è fantastico!” Come giudichi la scena attuale estrema, soprattutto in terre come la nostra, la Puglia, dove mancano strutture e dove la posizione geografica quasi sempre ci svantaggia? “Non è niente male la scena underground a Bari e in Puglia; certo siamo un po’ svantaggiati geograficamente al passaggio delle grandi band rispetto a Roma o Milano ad esempio, ma la Puglia è pregna di gente che supporta gli eventi underground e affolla piacevolmente i concerti
metal. La presenza di duecento o trecento persone adun live di band locali è un traguardo che al nord Italia non esiste, afferma il mio amico Alex di Torino, batterista degli Adversam e di altre band di metal estremo. Quindi ci riteniamo fortunati perché la vera passione musicale regna nell’underground e non nel music business. Quale dei due mondi ti ha dato più soddisfazioni? “Come ho già accennato prima nel 94 ero il chitarrista cantante dei Necromion, death metal band molto apprezzata, soprattutto per la tecnica e per la complessità delle composizioni; abbiamo suonato molto in giro e la soddisfazione più grande è stata vedere fans che addirittura cantavano le nostre canzoni. Si sono susseguite altre band negli anni fino ad approdare negli Implodead con i quali iniziamo a incassare esperienze gratificanti. Nel mio lavoro invece, sono felice quando ricevo riconoscimenti dai miei colleghi, dai clienti e da persone che fanno centinaia di km per venirsi a tatuare da me nel mio studio. In tutti e due i mondi esprimo la mia “essenza” e la mia soddisfazione deriva anche dal fatto di arrivare a colpire le emozioni degli altri.” Parlaci del Crossbone Studio e della tua band Implodead.
“Ho aperto il Crossbone Studio nel 2006 a Triggiano, per starmene più appartato e distaccarmi da quello che stava per diventare un fenomeno di massa sdoganato dalla moda e dai calciatori: il tatuaggio commerciale. La caratteristica principale dei tatuaggi del Crossbone Studio è una buona dose di spiritualità e di poesia: imprimere un tatuaggio con questi
composizioni standard del Death Metal, arricchendole con diversificazioni di varia natura e rendendole mai statiche, il prosieguo nel presente è un sound che, pur attenendosi all’impronta classica del Death è condito dallo Stoner e dall’Hardcore, il tutto filtrato da una venatura bio-meccanoide.” Il death metal, uno stile di vita, una passione, una fede, cosa rappresenta realmente per te? Attitudine. È la prima parola che mi viene in mente. E sulle mie dita spicca la parola chiave su
requisiti dona ad esso una luce personale e duratura a discapito dei classici “tattoo modaioli”. La nascita degli Implodead è più recente, Maggio 2014, da un “ ri-incontro” abbastanza casuale di due band molto affermate negli anni ’90: Necromion e Feltura. Nonostante ognuno di noi si fosse un po’ allontanato dalle sonorità tipicamente metal, non abbiamo esitato nel ritornare sui nostri passi e rispolverare quello che è il nostro sound più familiare: il Death Metal . Sin da subito abbiamo capito che il tutto andava condito da un profondo groove di matrice rock-stoner; è così che siamo approdati ad un sound Death’n’Roll , che man mano si è trasformato in un puro Death Metal vecchio stampo ma con un’impronta chiaramente personale. Il nome Implodead nasce dalla fusione di “implode” e “dead”, un riflesso della società che sta implodendo su se stessa portandola alla morte. Il tema stilistico del nostro EP ‘Implode Your Mind’ si è formato con naturalezza, apportando le influenze maturate nel tempo da ognuno di noi. Premettendo che sia Necromion sia Feltura esulavano già negli anni 90 quelle che erano le tipiche
cui si basa la mia vita hard core. Inseguo tutto ciò che è estremo, tutto ciò che mi fa sentire vivo e combattivo. Bene Donatello, è stato davvero un piacere per me scambiare due chiacchiere con un personaggio del tuo calibro, chiudi a tuo piacere questa intervista e soprattutto segnalaci qualsiasi tipo di tuo progetto. Metal Hammer Italia ti ringrazia per il tempo concessoci. Stay sick! “Vi annuncio in anteprima che abbiamo in cantiere altre tre date, oltre l’Ink Metal Meeting; il 13 Luglio suoneremo a Rutigliano in compagnia dei Backjumper, il 29 Luglio al Basilicata Metal Fest con Uli Jon Roth, Goblin e Cadaveria e il 18 Agosto a Pulsano al Rock Metal Fest. Vorrei ringraziarvi per avermi dato l’opportunità di questa intervista e sono grato di essere parte di questo settore. Mi sono fatto degli ottimi amici durante questo percorso e ho avuto il privilegio di condividere le mie passioni e il mio lavoro con molte persone. Grazie alla mia famiglia, ai miei amici, ai colleghi e ai clienti. Sarò sempre grato a tutte le persone che hanno contribuito a farmi diventare la persona che sono oggi.”
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n e c
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Album Of The Issue
PAPA ROACH Crooked Teect) h
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(Eleven Seven Musi
Vedere i Papa Roach con un voto così alto mi fa effetto, ve lo confesso. Prima di valutare quest’album, l’avrò ascoltato almeno una trentina di volte e niente mi ha dissuaso a dargli un punteggio inferiore a quello che vedete qui indicato. Certo, devo ammettere che i Papa Roach, assieme a molti gruppi della cosiddetta ondata nu metal (poi ricollocatisi in maniera furbesca e mesta sempre più nell’alternative), fanno parte della gioventù del sottoscritto. Era impossibile, difatti, in quei primi anni 2000, non vedere o sentire pezzi come ‘Last Resort’, contenuto in un disco, ‘Infest’, che ha fatto scalare le classifiche ai californiani. Per un po’ di tempo confesso di averli persi di vista, vuoi perché non sono mai stato un fan sfegato del genere, vuoi perché ce ne hanno messo del loro, producendo album non sempre all’altezza. ‘Crooked Teeth’ mi ha preso di sorpresa,
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mostrando una band cresciuta, maturata, in grado di arrivare a un prodotto finale piacevole ma non banale. Quest’ultima fatica si colloca, difatti, molto al di sopra del predecessore ‘F.E.A.R.’ che, pur essendo un disco discreto, in alcuni - forse troppi - punti si perdeva, facendo risultare il tutto poco appetibile per successivi riascolti. ‘Crooked Teeth’ è bilanciato, connette i Papa Roach del presente a quelli del passato, uno sguardo al futuro con un occhio ai gloriosi fasti dei tempi che furono. E la qualità del full-length si sente già dall’opener ‘Break The Fall’, un brano sicuramente moderno, ma convincente, con quel misto di rap, metal e orecchiabilità che ha reso famosi le band di inizio millennio. Molti dei brani contenuti in ‘Crooked Teeth’ hanno la giusta durata, collocandosi sempre intorno ai tre minuti, puntando a mantenere alta l’attenzione
di chi ascolta, evitando di perdersi in inspiegabili digressioni stilistiche e cercando di trovare sempre il groove giusto, cosa che si verifica anche nella title-track. Più facile invece è commentare la produzione, di sovente perfetta nei dischi dei Papa Roach, anche se questa volta, forse per il diverso valore del disco, risulta ancor più incisiva. Inserire l’album dei californiani nello stereo e portare il volume al massimo potrebbe essere, infatti, uno dei fattori che può convincervi a comprarlo ancor prima di arrivare alla fine. In conclusione, a chi consigliare ‘Crooked Teeth’? A tutti, direi. Tranne a chi non ha mai amato i Papa Roach, oppure il moderno metal americano. Agli altri suggerisco di precipitarsi nel più vicino negozio di dischi o aprire lo store digitale di fiducia e spendere bene questi sporchi, dannati euro. Stefano Giorgianni
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The Dead Daisies
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Live and Louder
(SPV/Audioglobe) Puntualmente, ciclicamente la domanda è sempre la stessa: il rock è morto? Da illustri addetti ai lavori a musicisti passando per semplici ascoltatori e fruitori dell’arte delle sette note ci si divide tra chi scova le cosiddette new sensation a controprova che il rock sia vivo e vegeto ed altri la cui unica risposta è quella negativa. Qui non è il caso di confutare questa o quell’altra tesi, è però una domanda propedeutica pensando all’ultimo album dal vivo degli statunitensi The Dead Daisies. E già, la band capitanata da John Corabi ha nella sua breve ma intensa carriera inciso ben tre albums in studio ed un ep che dimostrano come il rock possa essere il frutto dell’alchimia tra musicisti accomunati da una sola passione: creare
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musica. Senza fronzoli, fatto con il cuore e l’anima. E in effetti il rock che ascoltiamo ancora dopo quarant’anni è proprio questo, non sappiamo se tra tanti anni si parlerà dei The Dead Daisies alla stregua dei giganti del rock ma è indubbio che i loro albums trasudino emozioni, basiche ma al tempo stesso le uniche che ogni amante della musica cerca in ogni canzone, in ogni disco. I tempi del loro omonimo debut sembrano lontani anni luce ma sono passati solamente quattro anni e la formazione nel frattempo ha avuto una totale metamorfosi con gli ingressi di Marco Mendoza al basso, Brian Tichy alla batteria, Doug Aldritch lo scorso anno al posto di Richard Fortus (ora nei Guns And Roses post-reunion) ed il già citato
John Corabi alla voce. E l’alchimia, se si sente in studio lo si può a maggior ragione affermare in sede live dove il quintetto esprime il massimo delle proprie potenzialità, ‘Live And Louder’ è la migliore rappresentazione di questo concetto: esecuzioni tecnicamente perfette, un’invidiabile alchimia, la scelta di una scaletta che raccoglie veramente il meglio del proprio catalogo. Ed allora immergervi in brani come ‘Mexico’, ‘Long Way Home’, ‘With You And I’, ‘We All Fall Down’ e tanti altri, siamo invitati a scoprire la loro adrenalinica performance che accompagna sempre i loro live shows. Niente di nuovo sotto il sole ma un’ora ed un quarto di pura gioia musicale. Garantito. Andrea Schwarz
Edguy
Monuments
(Nuclear Blast/Warner) Che dire sul nuovo lavoro in studio degli Edguy? Partiamo con ordine e diciamo subito - a benefico di chi non segue le news metalliche – che ‘Monuments’ NON è un nuovo album di inediti. Cioè, ne contiene qualcuno, ben cinque in realtà, ma questo è solo un unico aspetto della enorme mole che caratterizza l’intero lavoro. Inoltre, NON è nemmeno una raccolta di pezzi live, anche se qui troviamo un intero concerto, registrato nel 2004 durante il tour di ‘Hellfire Club’ e ripropostoci per intero. Quello che invece ‘Monuments’ dovrebbe essere, è una compilation, una sorta di best-of celebrativo, fornito ai fan come peculiare biglietto di invito per celebrare una carriera lunga ben venticinque anni e caratterizzata da praticamente un solo cambio di line-up, cosa più unica che rara se ci si pensa. Solo che i simpatici jester di Fulda hanno voluto come al solito strafare, e fornirci qualcosa di più rispetto ad un
semplice best-of. Ed ecco quindi che i conti tornano, e le tre parti che abbiamo nominato (EP di inediti, registrazione di un concerto, best of) si combinano, formando quello che probabilmente è il piatto discografico più ricco dell’intero 2017. Prodotto unico o meno, siamo però convinti che le singole parti meritino certamente un’indagine dedicata, e così possiamo subito dire che la parte best-of (forse quella meno interessante per il fan di lungo corso) è ben fatta, senza alcun pezzo ri-registrato o proposto in modo diverso dall’originale, e caratterizzata da una scaletta ben in grado di rappresentare sia gli esordi power della band sia gli episodi più hard rock di album recenti quali il controverso ‘Tinnitus Sanctum’. Per quanto riguarda il concerto, condividiamo la scelta di riproporre un intero show dipingente in maniera onesta un particolare periodo della band piuttosto che di mettere insieme una altra com-
pilation di brani live; quello che forse meno condividiamo è la scelta propria di quel concerto, a conti fatti avremmo forse preferito una data più recente, in modo da avere un’immagine onesta degli Edguy attuali, e non di una band con età, motivazioni ed energia diverse (dopotutto si sta parlando di ben tredici anni fa…). La sezione con gli inediti è forse invece quella che ci ha convinto di più… a due ottimi pezzi –perfettamente in linea con gli Edguy più recenti – come ‘Ravenblack’ e ‘Wrestle The Devil’, la band fa poi seguire un ottimo brano power (‘Landmarks’), un buon passaggio heavy (‘The Mountaineer’) e uno stupendo diamante hard rock come ‘Open Sesame’, sicuramente il brano che abbiamo preferito. Insomma il piatto è ricco, e ce n’è davvero per tutti i gusti: a questo punto… si stappi la bottiglia e si dia il via ai festeggiamenti! Dario Cattaneo
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The Unity
The Unity (SPV/Audioglobe) risce intesa e alchimia, caratteristiche che in questo gruppo sembrano funzionare davvero a mille. I risultati quindi non possono che essere più che buoni, e infatti il power dei Nostri – molto vicino però come approccio e vocalità all’heavy melodico alla Jorn Lande – piace e convince senza troppe difficoltà. Molta melodia, grandi ritornelli, un riffing robusto e ricchi arrangiamenti sono grossomodo gli ingredienti alla base di ciascuno di questi brani, ma è anche e soprattutto grazie a piccoli inaspettati arricchimenti che la band raggiunge i risultati migliori: preziosi sono infatti gli sconfinamenti nell’hard rock che la band compie qui e la per variare il sound (‘Killer Instinc’, ‘No More Lies’),
Orden Ogan
Gunman (AFM/Audioglobe)
Prendiamo il power metal, quello di Blind Guardian e Running Wild. Riff veloci, atmosfere epiche, grossi cori, melodie infettive. A questo ci aggiungiamo una bella dose di oscurità. Un approccio nero, non cupo e pessimista, ma piuttosto quasi malvagio e sinistro, che evoca immagini di notti oscure, di creature minacciose. E, all’opaca e misteriosa miscela appena ottenuta ci aggiungiamo l’ingrediente più improbabile, il frenetico ritmo di un saloon del vecchio west. Cosa si è ottenuto? Semplicemente il nuovo disco degli Orden Ogan, ‘Gunmen’, esplosiva e dinamitarda miscela di power metal, metal estremo, estetica horror e iconografia della frontiera americana. Un vero casino? Sulla carta forse, ma possiamo assicurarvi che sui solchi digitali di un CD, questa mistura funziona bene, anzi
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dannatamente bene. Perchè riesce a essere originale dove nel power non c’è più spazio per l’originalità, riesce ad essere melodico dove in generi più estremi spazio per la melodia non ce ne è, e riesce ad essere credibile anche quando nelle liriche mischia elementi della letteratura gotica come i vampiri con le città fantasma del Sonoran Desert. Come faranno? Per ora non ci è dato saperlo, ma forse nemmeno ci interessa, visto che quello che abbiamo tra le mani, questo nuovo disco, ci basta di sicuro a distrarci da simili interrogativi. Piuttosto che arrovellarci su domande senza risposta, preferiamo in effetti di gran lunga imparare a memoria (bastano due ascolti) le ottime melodie del ritornello di ‘Gunman’, oppure goderci le atmosfere a tratti gotiche, a tratti cinematiche del singolo “Field
gh Hi Vo
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così come l’accento quasi AOR che la voce di Manenti sa dare nei frangenti più melodici (‘Never Forget’, ‘Always Just You’). Insomma, per una volta troviamo un platter power metal che non si mostra come un monolitico blocco di cavalcate o come un indigesto polpettone di ingredienti già visti mille volte: qui ogni elemento (seppur non nuovo) viene dosato e pesato tenendo in mente l’equilibrio generale, col risultato che tutto funziona bene e senza intoppi. Un buon risultato dunque, che mette il nome dei The Unity nella lista delle band da cui aspettiamo bramosi una conferma con il prossimo disco. Buona la prima. Dario Cattaneo
l t a ge
I The Unity sono una band nuova, formata però non da giovani esordienti come ci si aspetterebbe, ma da due ‘vecchi’ volponi della scena power tedesca: Michael Ehre e Henjo Richter. Non ci vuole molta cultura per collocare entrambi i nomi all’interno della line-up attuale dei Gamma Ray, ed infatti è proprio durante la loro militanza in quella band che i Nostri due hanno deciso di unire (appunto) le forze e riversare il contenuto delle proprie penne in una direzione diversa da quella immaginiamo imposta dal leader Kai Hansen. Ad accompagnare i due lupi di mare in questa nuova avventura troviamo poi la quasi totalità dell’altra band di Ehre, i Love. Might.Kill, una scelta che di sicuro favo-
Of Sorrow”, altro pezzo da novanta che i Nostri ci piazzano in partenza, come biglietto da visita. L’ascolto dopo questa ottima doppietta iniziale prosegue poi su binari simili, alternando brani dall’altissimo impatto dinamico come “Vampires In Ghost Town” a pezzi più ragionati come “Come With Me To The Other Side”, con ospite Liv Kirstine. In definitiva, dallo scoppiettante inizio fino alla finale ‘Down Here (Wanted: Dead Or Alive)’, ravvivata da azzeccate atmosfere epiche di tastiera, tutto l’album funziona, girando liscio come ‘To The End’ e ‘Ravenhead’ lo facevano prima di lui. E’ inutile gli Orden Ogan la loro spinta decisamente non l’hanno ancora persa, riuscendo per la terza volta a risultare credibili, personali e originali. Speriamo continuino così. Dario Cattaneo
Prong Zero Days (SPV/Audioglobe) Non è facile approcciarsi ad una band come i Prong, terzetto statunitense capitanato da Tommy Victor che proprio del musicista americano possono essere considerati come la propria espressione musicale. Il loro stile fin dai tempi lontani di ‘Beg To Differ’ del 1990 (tralasciando i primi due studio album, ‘Primitive Origins’ del 1987 e ‘Force Fed’ del 1988) è stato caratterizzato dal riffing e dai vocals del buon Victor spaziando dall’alternative all’industrial passando per il thrash metal. Insomma, un mix sonoro che non solo ha caratterizzato gli inizi della carriera ma anche il suo sviluppo fino ai giorni nostri in occasione della pubblicazione di ‘Zero Days’ con una line up nuovamente rinnovata e che vede tra le proprie fila il solo Tommy Victor come unico filo conduttore
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della trentennale carriera. Non ci troviamo probabilmente di fronte al loro miglior album, hanno perso negli anni quella vena innovativa che li aveva caratterizzati nei caotici anni novanta anche se bisogna ammettere che ‘Zero Days’ è album godibile e per certi versi di maniera. L’aspetto per così dire industrial è ormai un ricordo di un passato non troppo lontano che ha lasciato spazio fin dalle iniziali ‘However It May Ends’ e la titletrack ad una miscela sonora tendente al thrash (nel riffing) unita al tipico stile vocale di Tommy Victor che anche in questa occasione non si è lasciato andare a virtuosismi chitarristici che in questo contesto sarebbero risultati fuori luogo. Ad essere onesti il primo grande acuto di ‘Zero Days’ arriva durante il quarto brano in scaletta, ‘Divide and Con-
quer’: una granitica midtempo dove il riffing si fa composto e misurato unito ad una melodia tra le migliori della loro carriera recente. È nella parte centrale che si trovano i brani più convincenti grazie a ‘Blood Out Of Stone’ che nelle vocals ricorda i Machine Head, la thrashy ‘Interbeing’ e ‘Forced Into Tolerance’. Solo con ‘The Whispers’ troviamo similitudini con la vecchia produzione strappando più di un sorriso a qualche nostalgico del sound di ‘Prove You Wrong’ o ‘Cleansing’. ‘Zero Days’ possiede una grande carica senza peraltro raggiungere le vette compositive che li hanno fatti conoscere al grande pubblico, potrete trovare sicuramente una manciata di pezzi che vi faranno fare headbanging che è una meraviglia….vi basterà? Andrea Schwarz
Adrenaline Mob
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(Century Media/Sony) Il fato e gli eventi sono finora stati poco clementi con gli Adrenaline Mob… supergruppo heavy rock formato all’inizio di questo decennio con dichiarati obbiettivi di gloria, hanno subito però qualsiasi tipo di colpo del destino sia possibile dare a una band nuova della scena. L’abbandono di uno dei fondatori (tra l’altro uno dei nomi più altisonanti, trattandosi di Portnoy), la morte di un membro importante (il carismatico AJ Pero) e la turnazione costante del bassista sono solo tre degli incidenti di percorso che hanno ammaccato la carrozzeria di questa ruggente e tamarra macchina da rock, guidata ora praticamente soltanto da Mike Orlando e Russel Allen. Ammaccato sì, ma di sicuro questi intoppi non ne hanno fermato
la corsa e così – colpo più colpo meno – ecco entrambi i due musicisti ancora qui con un nuovo album da presentarci; un album che, fortunatamente, dei lividi lasciati da questi colpi ne mostra alla fine proprio pochi. Il disco parte infatti forte con ‘King Of The Eing’, pezzo cadenzato e semplice declinato nel classico stile della band; un brano frizzante e veloce che scalda i motori prima che la buona doppietta ‘The Killer’s Inside’ e ‘Chasing Dragons’ li accenda definitivamente, soprattutto grazie all’afflato vorticoso della seconda. Molto ‘panteriana’ è invece la successiva ‘Til The Head Explodes’, un pezzo tipicamente groove metal che mette in mostra le potenzialità del nuovo batterista Cannata. Le radici hard rock dei Nostri non sono
però dimenticate, e infatti vengono esplorate nella seconda parte del disco, con particolare menzione alla bella ‘Blind Leading The Blind’, trai pezzi che abbiamo preferito dell’intero lavoro. La qualità, come accadeva su ‘Omertà’ e ‘Man Of Honor’ rimane molto alta, e anche la possibile eccessiva uniformità che si può ravvisare a un ascolto rapido viene di fatto assorbita da quanto di buono è possibile ascoltare su tutte queste tracce sia tecnicamente che dal punto di vista melodico. Insomma, riprendendo il paragone iniziale, il fuoristrada di Orlando e Allen si dimostra ancora una volta bello solido: andarci a fare un giro è anche stavolta davvero molto divertente. Dario Cattaneo
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Dirkschneider Live-back to the roots-Accepted!
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Vedere Udo Dirkschneider tornare sul palco con le canzoni degli Accept fa commuovere. Commuovere perché un po’ ho sempre pensato che lui incarnasse la band e nonostante, per ragioni anagrafiche, non abbia assistito ai tira-molla fra il cantante e gli altri membri, vedo ancora lui come IL frontman del gruppo tedesco, anche se è stato rimpiazzato a dovere da Mark Tornillo. Un live come ‘Back To The Roots Accepted!’ non fa altro che portarmi a rimpiangere il fatto di non aver potuto vedere gli Accept dal vivo con la formazione storica e mi fa ancor più incazzare che non potrò rivederli in un vicino futuro né mai, secondo quello che è stato dichia-
(AFM/Audioglobe)
rato da ambo le parti. È quindi sufficiente un disco come questo per placare la sete di heavy metal restless and wild? Per come è concepito, confezionato ed eseguito, tenendo sempre presente la premessa di cui sopra, direi di sì. La carica del vocalist teutonico c’è tutta, la line-up è di tutto rispetto - e fa abbastanza impressione vedere il figlio di Udo, Sven, alla batteria (amico, io non ci suonerei mai assieme a uno dei miei familiari in un gruppo) - la prestazione è sicuramente soddisfacente, a tratti da pelle d’oca. Da ‘Starlight’ a ‘London Leatherboys’, passando per ‘Breaker’, ‘Neon Nights’, ‘Princess Of The Dawn’, ‘Winter Dreams’, fino a monumenti della nostra musica come
‘Restless And Wild’, ‘Metal Heart’ e ‘Balls To The Wall’, si ripercorrono i momenti che hanno fatto grandi gli Accept. Lungo lo scorrere del live ci sono anche attimi che permettono a tutti i membri della band di mettersi in mostra, con i rispettivi assoli, forse per dare anche un po’ di respiro al mitologico cantante, che a sessantacinque anni suonati riesce ancora a domare le folle per più di due ore. ‘Live - Back To The Roots - Accepted!’ è dunque un eccellente prodotto che consente a tutti gli amanti del metallo classico di assaporare la storia, tentando di non rimpiangerla troppo. Stefano Giorgianni
Linkin Park
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One More Light (Warner)
Un musicista ha tutto il diritto di sperimentare nuove strade, in qualsiasi momento della propria carriera. Molti non hanno il coraggio di farlo per timore di perdere il proprio pacchetto fans, per non rischiare di compromettere la propria immagine consolidata nel tempo. Icone del nu-metal fine anni novanta, i Linkin Park hanno spiazzato tutti con le sonorità delicate di ‘One More Light’. Quasi vent’anni dopo il debutto, la band californiana mostra un lato più profondo e intimo, aggettivi che fino ad ora non avremmo mai pensato di usare per descrivere un loro album. Mike Shinoda e compagni incassano l’accusa di essersi venduti, ma davvero una band con tanto seguito e con tanti successi alle spalle ha bisogno di sfornare un album commerciale per guadagnare soldi, fama o pubblico? Non sarebbe stato più facile mettere insieme qualche parte rap, melodie catchy e suoni imperiosi, frullarli insieme secondo la loro ricetta e darli in pasto ai fans? Non sarebbe stata una mossa più commerciale produrre un disco con lo
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stesso sound ormai collaudato e prendersi i soliti scontati applausi? C’è da dire che nonostante le dure critiche mosse anche dai fans club ufficiali, “One more light” ha ottenuto il primo posto della classifica di Billboard 200 Album, per un totale di 110.000 copie vendute a neanche un mese dall’uscita. Della serie: “Chi disprezza compra”. La deragliata rispetto al genere che li ha resi celebri è brusca, qui di metal o rock non c’è più niente, “One more light” è un disco pop e come tale deve essere valutato. A differenza del loro abituale songwriting, i Linkin Park hanno costruito la musica sui testi, la cui stesura è stata affidata a professionisti esterni alla band e il risultato si sente. ‘Heavy’, il primo duetto con voce femminile nella storia della band, ha un significato di non immediata comprensione per chi non ha provato e vissuto alcuni stati d’animo. Molti hanno ironizzato sul contrasto tra la leggerezza del brano e il titolo. Bandita la superficialità, il termine “heavy” si riferisce a quelle condizioni psicologiche opprimenti che imbrigliano la mente, appesantendo
l’anima fino a schiacciarla. La title track ‘One more light’ è una ballata commuovente che esprime con grande sensibilità la tendenza al diffuso cinismo contemporaneo. Il testo, sottile come i suoni utilizzati, parla dell’indifferenza che permea la nostra società. Tolti questi aspetti, le restanti tracce sono deboli e dall’allegria che trasmette ‘Nobody can save me’ in apertura ci si chiede dove sia finita la rabbia dei tempi di ‘Given up’. Spogliati dall’alternanza screaming/rap che li ha consacrati, i Linkin Park perdono energia fino a diventare irriconoscibili. Rivoluzione o Involuzione, dunque? Prima di condannarli ricordiamo che la libertà di espressione sta alla base della creazione musicale e il pop non è tutto uguale, esiste il pop di alto livello, scritto bene, ricco di contenuti. Se questo è l’obiettivo, i Linkin Park hanno mosso un timido primo passo in quella direzione, altrimenti, torneranno a fotocopiare i precedenti lavori e il ricordo di ‘One More Light’ si spegnerà presto. In fondo, “It doesn’t even matter”. Angela Volpe
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Stone Sour
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Hydrograd
(Roadrunner/Warner)
Bene ma non benissimo. Quando ce la si sente dire – sul lavoro, a scuola, a casa, ovunque – questa è una frase che genera sempre un sottile senso di fastidio. Lo stesso senso di fastidio che supponiamo si genererà in alcuni di voi leggendo quest’inizio di recensione, ma sul serio troviamo questa particolare allocuzione adatta al nuovo album degli Stone Sour. Ma perchè ‘bene ma non benissimo’? Beh, ‘bene’ perché l’album è bello, non c’è che dire. C’è melodia, c’è tiro, c’è freschezza. Scorre che è un piacevole nelle nostre affamate orecchie: le accarezza, a volte le colpisce, fa sempre e comunque sentire la propria presenza. ‘Bene’ anche perché con un vocalist come Taylor alla voce c’è poco da trovare difetti: una voce – la sua – eclettica, camaleontica, sempre pertinente. Una voce capace di passare dalla dolce melodia di un’afosa nenia country come ‘St. Marie’ all’aggressione
dell’attacco 100% alternative metal di ‘Taipei Persone-Allah Tea’. ‘Non benissimo’… perché, indubbiamente, qualcosa manca in questo bel tavolo imbandito. Qualcuno si è sforzato di metter su un buon banchetto, di curare la presentazione, di disporre le pietanze, di fare tutto come si deve. Ma qualcosa manca. Sarà magari la nostra salsa preferita, la saliera e l’oliera… il nostro bel banchetto scade su un dettaglio come questi. E infatti, tutto sembra molto perfettino, a tratti plasticoso quasi, con l’attenzione posta più a come ‘devono’ suonare i pezzi piuttosto che a come potevano suonare se l’approccio fosse stato un pelo più sincero. L’impressione, oramai l’avrete capito, che a noi ‘Hydrograd’ ci dà è quella di un album prodotto, composto e preparato da professionisti e grandi artisti, ma messo su con l’ottica del lavoro più che dell’arte in sè. Ci manca quindi l’angosciata ma genuina
disperazione che sentivamo su ‘Tired’ dal primo capitolo di ‘House Of Gold And Bones’, e ci mancano anche la melodia urgente di ‘Stalemate’ o il nervosismo di ‘RU486’. Sensazioni, appunto, emozioni che per qualche verso in questo splendente lavoro sono venute meno, sostituite da una professionalità e da un gusto compositivo di certo non inferiori, ma anche meno genuine. Il risultato è quindi un album che lusinga il cervello e le orecchie ma convince il cuore solo in alcuni passaggi, passaggi comunque preziosi e imperdibili come la già citatà ‘St. Marie’, la slipknottiana ‘Knievel Has Landed’ e la ancora diversa ‘When The Fever Broke’. Un album di cui siamo felici e stiamo ascoltando a ripetizione, ma che, in fondo in fondo, ci lascia un minimo di rimpianto per la ricchezza emotiva dei due capitoli di ‘House Of Gold And Bones’. Dario Cattaneo
Blind Guardian
Per i Blind Guardian la necessità di sfidare i propri limiti è strettamente correlata al loro modo di intendere l’arte ed è anche una via per trovare ispirazione a quasi tre decadi dal loro esordio. Non fanno poi mistero di essere dei perfezionisti cosa che li ha sospinti lontano, in territori oscuri come con il leggendario orchestrale, progetto rimandato negli anni fino a diventare mito. Tutto questo per dire che il terzo album live dei bardi di Krefeld non è un evento qualunque. Non mi riferisco tanto all’aver scelto il formato in triplo cd, quanto al timing scelto per la pubblicazione e, come vedremo, al risultato finale. L’ultimo disco creato dai Blind Guardian è ‘Beyond The Red Mirror’, un concept che fa leva su orchestra e cori per raccontare una storia inedita. Il tutto si traduce in un’opera che segna l’apice del loro sforzo creativo. Di nuovo quindi scelgono, come nel 2003 con ‘Live’ dopo ‘A Night At The Opera’, di dare vita ad un live che registri e ripercorra le memorie di un viaggio il cui fine è quello della crescita, a qualunque costo. Quando i dettagli della pubblicazione di ‘Live Beyond the Spheres’ si sono palesati, il
mio primo istinto è quello di scrutarne avido la copertina. Ritornano infatti alla classicità con un drago fiammeggiante e un pizzico di ironia che ricorda, anche se in tono minore, quella del loro artista più amato, Andreas Marschall. La tracklist invece ben racconta quelli che sono stati i live su e giù per l’Europa nel 2015, fatta eccezione per l’esclusione di alcuni brani da ‘Somewhere Far Beyond’. Come anticipato si tratta di un live alla ricerca maniacale della perfezione sonora raggiunta anche attraverso nuove tecnologie che hanno permesso di rendere allo stesso tempo omogenei i suoni malgrado le tracce siano state registrate in location diverse e di trovare il giusto bilanciamento tra gli strumenti con in mente l’obiettivo di un suono cristallino (in questo senso la batteria risulta sacrificata, ma scelte di questo tipo sono necessarie in rapporto alla complessità della proposta musicale). I Blind Guardian stupiscono sin dalle prime note con una prestazione maiuscola da musicisti ormai affiatati e di alto livello, ma su tutto si erge la voce di Hansi Kürsch capace di donare sempre una nuova vita a brani che ormai cono-
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(Nuclear Blast/Warner)
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sciamo fin che mai bene. Difficile non stupirsi quindi della nuova versione di ‘And There Was Silence’ che assume una veste persino più affascinante dell’originale. Tuttavia, la tracklist inizia come i concerti del tour con il brano ‘The Ninth Wave’ che è epica del racconto e ben funziona come prima mossa. A cui fanno seguire ‘Banish From Sanctuary’, un brano antico, risalente al 1989, per anni esiliato e rispolverato per l’occasione. Non ci sono grosse sorprese nei brani selezionati con la solita chiusura affidata a ‘Mirror Mirror’ che diventa saluto per accomiatarsi da un momento speciale che si ripete negli anni senza mai perdere smalto. I Blind Guardian danno vita quindi a un live cristallino, dove in alcuni passaggi diventa persino difficile trovare delle differenze con le registrazioni da studio. Potrebbe essere un limite per alcuni, ma in verità posso solo applaudire il risultato finale che riesce a donarci brani consunti dagli ascolti in nuove brillanti versioni ed allo stesso è tributo ai fan fino all’ultimo coro, fino all’ultima agognata nota. Marco Giono
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SOLSTAFIR
GAHL'S WYRD
MOONSORROW UNLEASHED
AURA NOIR KARI RUESLÃ…TTEN
WINTERFYLLETH
VIRELAI
SAHG
ORANSSI PAZUZU
OPENING BLOT CEREMONY
HEILUNG
FORNDOM
TENGGER CAVALRY
SUPERLYNX
TREPANERINGSRITUALEN
MORE BANDS TO BE ANNOUNCED
17-19. AUGUST 2017 BORRE. VESTFOLD. NORWAY O P E N - A I R
F E S T I V A L
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M O U N D S