Paradise Lost ! The Lurking Fear ! ENSLAVED ! CRADLE OF FILTH ! VENOM INC.
Anno 2 05/2017
o t Y D A RE
R E U Q CON
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LIVE REPORT
Hammer Highlights
ARCH ENEMY 26
PIU' FORTI CHE MAI Sono passati solamente tre anni dallo scossone che ha portato gli Arch Enemy a reinventarsi. Da quel momento sono passati più di trecento concerti, un live album e ‘War Eternal’ è diventato uno dei loro dischi più acclamati. Ora la formazione capitanata da Michael Amott ci presenta un nuovo, energico full-length, intitolato ‘Will To Power’.
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ENSLAVED
MIDGARDSBLOT
FRANTIC
Era da un bel po’ di tempo che si attendeva il ritorno degli Enslaved. Lo fanno in questo 2017 con un disco che segna una nuova evoluzione nel sound della band norvegese. ‘E’ , questo il titolo minimale che potrebbe apparire sin troppo scontato, nasconde un mondo dietro di sé. Abbiamo parlato con Ivar Bjørnson per capire di più di questa ultima fatica discografica.
Per la prima volta nella sua storia Metal Hammer si è recato in Norvegia, in veste di media partner ufficiale per l’Italia, al Midgardsblot Festival. Una manifestazione in cui la cultura vichinga si amalgama alla perfezione con il metal. Molti i gruppi di cui vi raccontiamo le esibizioni, dai Gaahls Wyrd agli Unleashed, passando per Solstafir, Oranssi Pazuzu, Aura Noir, Moonsorrow, Heilung e Tyr.
Un evento che si sta rivelando sempre più importante fra i festival estivi del nostro paese. Quest’anno abbiamo seguito le tre giornate del Frantic Fest, che ha avuto la caparbietà di portare molte band importanti al cospetto del pubblico. In questo articolo vi raccontiamo le gesta, fra gli altri, di Claudio Simonetti’s Goblin, Dark Lunacy, Martyrdöd, Ufomammut, Raw Power e Impaled Nazarene.
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Hammer Editoriale
The Hammer is Alive Il nuovo che avanza? No, meglio l’usato sicuro. Se sicuro, in questo senso, è sinonimo di qualità. Il numero che avete “tra le mani” di Metal Hammer è un inno a quel metal che di spegnere la luce non vuole proprio saperne... e meno male se il prodotto finito riesce ancora a raggiungere livelli difficilmente raggiungibili da gruppi imberbi al primo affaccio sul mondo della discografia. Ce lo insegnano bene i The Lurking Fear, band neonata ma dalla line-up da enciclopedia del metal, tra un microfono affidato a Tompa Lindberg e una batteria maltratata da Adrian Erlandsson, che con il loro debut ‘Out of the Voiceless Grave’ scrivono un valido trattato su come deve essere suonato (e concepito) il metal a Göteborg e dintorni, ponendo una nuova tacca ad una tradizione musicale che negli anni ha influenzato in modo massiccio il metal a livello mondiale. Una tradizione ripresa, rielaborata, rimasticata negli anni dai compatrioti Arch Enemy, che oggi tornano alla carica a tre anni di
distanza dal bistrattato ‘War Eternal’, lavoro troppo condizionato dagli stravolgimenti a livello di line-up e l’inizio dell’ “era” Alissa White-Gulz dopo l’abbandono della “garanzia” Gossow. Un ritorno segnato da ‘Will The Power’, un disco che con l’approdo alla corte di Amott di un pezzo da novanta come l’ex Nevermore Jeff Loomis consente alla band di riprendere quota e, seppur non riportandola ai livelli del passato, lascia filtrare sprazzi di luce che ben sperare fanno per il prosieguo del cammino. Il tris di “vecchietti indomabili” è calato dai Paradise Lost, semplicemente sorprendenti con il nuovo ‘Medusa’. Un autentico monumento al gothic-doom, un lavoro oscuro, granitico, a tratti inquietante, che ci mostra una band desiderosa di lasciarsi definitivamente alle spalle
le sperimentazioni di inizio millennio per rituffarsi in quelle sonorità plumbee che ne hanno caratterizzato le prime produzioni e che sono tornate prepotentemente a galla negli ultimi lavori. A corollario di questa carrellata di “usato sicuro” i Rage dell’indomito Peavy Wagner che, dopo la rifondazione, sono ripartiti con un disco più che positivo come ‘Seasons of the Black’ e gli Enslaved che celebrano i 25 anni di carriera con un tour che arriverà anche in Italia ma, soprattutto, con il fenomenale ‘E’. Ma ancora i rocker Mr. Big la cui classe scorre a fiumi in ‘Defying Gravity’, i malefici Venom Inc. con il trio Mantas-Abaddon-Dolan capace di mettere su una autentica macchina da guerra, e i The Haunted, gente che sa quando e come fare male... Insomma, evviva la gioventù ma fino a quando i “vecchietti” sapranno ancora produrre lavori di questo calibro, carta e penna in mano e giù di appunti. Perchè la sopravvivenza del metal passa inevitabilmente anche da questi insegnamenti. Fabio Magliano
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articoli Rubriche Podcast
TALES FROM BEYOND
Hammer Core
Cradle Of Filth 6
Metal Rubriche
The Lurking Fear
Bring Out The thrash
‘Cryptoriana’ è il nuovo capitolo discografico del gruppo di Dani Filth
Rage 8
DIRETTORE RESPONSABILE Paolo Taricco
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Per la band di Peavy Wagner inizia la “stagione del nero”, viviamola assieme
REDAZIONE
‘The Stories We Tell Ourselves’ è il disco della giovane band americana
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Horrid 13
Andrea Schwarz andrea.schwarz@metalhammer.it
Metal Cinema
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Possente ritorno sulle scene per la storica death metal band italica
Mr big
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Paradise Lost
gravità attraverso le parole di Paul Gilbert
Stay Brutal
La scintilla della genialità arriva da una band mai doma di sperimentare
Roberto Villani roberto.villani@metalhammer.it
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Republica
Emanuela Giurano
Vengono dal Brasile per presentare la loro nuova fatica ‘Brutal&Beautiful’
Venom Inc. 22
Andrea Lami andrea.lami@metalhammer.it
FOTOGRAFI Alice Ferrero alice.ferrero@metalhammer.it
Enter Shikari
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Angela Volpe angela.volpe@metalhammer.it
Dario Cattaneo dario.cattaneo@metalhammer.it
14 Scopriamo come dominare la
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VICEDIRETTORE EDITORIALE Fabio Magliano fabio.magliano@metalhammer.it CAPOREDATTORE Stefano Giorgianni steve.giorgianni@metalhammer.it
ProgSpective
Nothing More 12
DIRETTORE EDITORIALE Alex Ventriglia alex.ventriglia@metalhammer.it
Recensioni 34
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Un nome che è una garanzia. Tony Dolan ci parla di ‘Ave’
NEWS EDITOR Blagoja Belchevski blago@metalhammer.it GRAFICA Stefano Giorgianni HANNO COLLABORATO Giuseppe Cassatella, Alex Manco, Trevor, Marco Giono, Melissa Ghezzo
The Haunted Marco Aro racconta della
PUBBLICITÀ adv@metalhammer.it
24 genesi di ‘Strength In Numbers’
WEBMASTER Gianluca Limbi info@gianlucalimbi.com
Live Report
IN COPERTINA Arch Enemy Photo Courtesy of Century Media
BAY FEST @bellaria/igea marina - 14 agosto 2017 46
Non è la prima volta che parliamo con Dani Filth, ma ogni volta riusciamo a stupirci della profondità del suo carattere e delle sue risposte. Dietro all’altezza ridicola, al cerone sulla faccia e alla voce maligna e stridula si nasconde infatti una personalità artistica multisfaccettata, che mostra ogni volta un lato interessante di sé. Seduti con lui negli studi della Warner a Milano, lo convinciamo facilmente a parlarci del nuovo ‘Cryptoriana’, un album con diversi punti di contatto col precedente ‘Hammer Of Witches’. Sia perché per una volta line-up e produttore non sono cambiati? “In realtà il motivo di una certa somiglianza tra i due lavori può essere anche quello…”, concede al riguardo, “ma c’è anche da dire che abbiamo provato a dare un diverso approccio al processo di creazione di quest’album rispetto al precedente. Ad esempio ci siamo trovati a Brno, in Repubblica Ceca, e abbiamo lavorato tutti insieme, in un piccolo studio come una rock band. C’è stato certo tanto lavoro in sala e in consolle come sempre, ma anche tanto team
building: abbiamo passato assieme tutto il tempo libero. È stata una bella cosa: ha favorito la creazione di tante belle idee, che ci hanno aiutato nelle fasi successive. Un’altra differenza con ‘Hammer’, è sicuramente l’impostazione che abbiamo dato ai cori. Su ‘Cryptoriana’ ci sono molte voci da soprano, e il sound ha un’ombra più
sinistra e angosciante che veste perfettamente il disco. Per il resto poi hai ragione, non molte cose sono cambiate: stesso produttore, stessi tecnici, ci troviamo bene, e squadra che vince non si cambia. Il produttore, Scott Atkins, è amico mio da lungo tempo, produce anche i dischi dei Devilment,
e quindi ci intendiamo alla perfezione quando si tratta di far nascere un disco. Insomma, qualcosa è cambiato, qualcosa no, ma è stato un gran lavoro, con un gran risultato!”. Volendo andare a fondo sul tema principale dell’album l’horror gotico dell’epoca Vittoriana, chiediamo subito a Dani di parlacene: “Be’, come sai il tema Vittoriano è ovviamente alla base di tutte le composizioni di ‘Cryptoriana’, però il disco non è un concept come qualcuno può pensare”, ci spiega, “però tutte le canzoni condividono il medesimo argomento e la medesima impostazione, anche se magari non la medesima storia. Ho letto molto sul periodo Vittoriano, sia durante che prima le lavorazioni dell’album, e l’ho fatto per entrare nel mood giusto. I miei pensieri dovevano essere allineati allo stile gotico di quel periodo, a scrittori e poeti quali Stoker, Poe, o lo Stevenson di ‘Dr Jekill & Mr. Hyde’; a tutto quel genere di letteratura, insomma. Ovviamente mi sono concentrato sul tema dell’orrore, sulle cosiddette ‘victorian ghost stories’ e anche su qualcosa d’altro, storie magari
le of Filth, e' un ad Cr i de ro vo la o m si ‘Cryptoriana’, dodice tenzione dei fan at l’ te en em rt fo e ir colp lavoro destinato a o con Dani Filth! m ia rl pa Ne . ca ni an della band brit
e r o r r O ’ l l e d i I Signor di Dario Cattaneo
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che non trattavano di vampiri o fantasmi, ma avevano comunque una forte componente ultraterrena”. Logico, da parte nostra, immaginarcelo quindi a comporre in una stanza buia, illuminata da candele, con ogni sorta di ammennicolo gotico intorno a lui. Condividiamo con Dani quest’immagine, chiedendogli se in effetti l’ambiente circostante è fonte di ispirazione per lui: “Vedi, molto dello stile dei Cradle lo fa anche l’ambiente in cui compongo, questo è vero”, ammette, “Io lavoro alle canzoni principalmente nel mio ufficio, e il mio ufficio è una sorta… be’, mia moglie direbbe di discarica, ma io preferisco considerarlo un negozio di giocattoli. Un lugubre negozio di giocattoli dimenticati. Ci sono tante cose in quell’ufficio: poster di mostri, di film dell’orrore, immagini di belle donne impaurite. Action figure di personaggi mostruosi storici o della letteratura. Libri, DVD… c’è di tutto. Forse capisco perché mia moglie odia quel posto, posso capirla, ma credo sia importante per la mia creatività.
L’ambiente comunque fa molto per farmi entrare nell’ottica di ciò che devo scrivere. Indirizza la mia creatività in una direzione: quella che voglio. Anche se compongo fuori dal mio ufficio, cerco comunque sempre di ricreare un ambiente adatto a quello che sto scrivendo”. Quindi da sempre usi lavorare in questa maniera? “In generale sì. Ho lavorato anche in altri posti, però. Per un EP abbiamo lavorato a Liverpool, nel mezzo della città, in studi lussuosi, ma il clima alla fine non era quello giusto. Per ‘Damnation And A Day’ abbiamo invece lavorato in un piccolo paesino della campagna inglese, legato al mito di William il Conquistatore, e lì c’era tutto un altro feeling. Sì, l’ambiente in cui compongo non influenzerà forse la qualità del risultato finale, ma il mood di sicuro sì!”. Vista l’importanza del tema dell’orrore per la band, decidiamo di concentrare il nostro tempo su quello. D’altronde - oggi come oggi - la percezione dell’orrore, con tutto quello che si sente in TV, è oggettivamente difficile da descrivere
Curiosità: Estremo o non estremo? Avendo toccato il discorso sul sound personale della band, gli facciamo notare che, in effetti, il loro genere non viene nemmeno più definito Black Metal come un tempo, ma con il termine più generico di Extreme Metal: “Eh, a me non piace quel termine…”, borbotta, “non tanto perché non ci descriva, più che altro perché è un concetto personale. Quello che è estremo per me può non esserlo per te, quindi che senso ha? Chi ha creato una scala per stabilire cosa è estremo e cosa no? Nessuno, comunque il termine ce lo teniamo, e lo usiamo pure. In qualche modo, anche se non vuol dire niente, è descrittivo di un certo tipo di musica, e usato in una frase classifica quello che facciamo in una certa maniera, che poi è quella giusta. Veicola all’ascoltatore le linee guida di quello che troverà: velocità ‘estrema’, vocals ‘estreme’, temi molto forti. Come termine non dà certo una misura… ma comunque porta un’informazione”. E poi una interessante analisi sul sound dei Cradle: “Che poi comunque - voglio dire - i Cradle Of Filth sono comunque una band heavy metal”, ci spiega, serio, “non sto scherzando, è così. Io sono inglese, le radici di questa band affondano in quel tipo di sound, e l’ombra degli Iron Maiden dei Judas Priest è sempre presente anche nella nostra musica. Poi noi, come ti dicevo prima, vestiamo questa base in modo da crearci una nostra immagine riconoscibile. Mettiamo i cori, l’orchestra, le voci estreme, il blast-beat, ma se consideriamo il metal come un genere di musica basato sulle chitarre con melodie potenti ben definite – be' vedi anche tu che la definizione non è così lontana a descrivere i Cradle Of Filth!”.
o spiegare. Come si fa a scioccare con un racconto di vampiri un fan che sente parlare tutti i giorni di bambine uccise e di stupri? Dani ce lo spiega. “Sì, è vero, l’orrore oggi lo vediamo tutti i giorni sui telegiornali”, sembra darci ragione lui, “terrorismo, disastri naturali e atti di criminalità domestica sono il pane quotidiano, e i particolari macabri si sprecano. Tuttavia non credo che l’audience di adesso sia più indurita rispetto a quella degli Anni ’80 o ’70. Anche nei decenni scorsi c’erano le guerre, e la gente assisteva a orrori indicibili ancora prima se per questo. Le trincee della Prima Guerra Mondiale. La bomba atomica. I massacri dell’I.R.A.L’orrore della guerra e della miseria ci accompagna da sempre, eppure è sempre possibile, colpire e disturbare una persona. Noi, come i registri e gli scrittori del genere horror, ci concentriamo sull’aspetto evocativo. Sul sottinteso. Se l’immagine forte oramai la si trova dappertutto, noi giochiamo sull’aspetto disturbante, sul modo stesso in cui l’aspetto orrorifico viene presentato. Sta
qui la bravura di un artista”. Preso dal discorso ci fa un esempio calzante: “Prendiamo ad esempio un film o una serie sugli zombie… ce ne sono a migliaia. Come può un prodotto del genere avere successo adesso, dopo che è da trent’anni che ci sono film sugli zombi? Eppure, c’è sempre qualcuno che ci riesce…”. Capiamo che tutta la questione dell’orrore per Dani e i Cradle non sia soltanto una maschera chiassosa da mettersi sul palco, ma rappresenta il vero modo di essere della band. Dani ce lo conferma con le frasi successive: “Sai, credo che tutti questi elementi di cui abbiamo parlato, l’orrore e il modo di presentarlo, creino per i Cradle Of Filth un aspetto unico. Qualcosa di immediatamente riconoscibile. Ci sono questi elementi, quindi siamo noi. È qualcosa su cui abbiamo investito. Mi piace pensare che i fan pensino alla band e si facciamo un immagine precisa nella mente, un immagine che noi abbiamo fatto di tutto per rafforzare. Questo è sempre stata una priorità per me, lungo tutta l’evoluzione del nostro sound”.
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Qualche tempo fa pensavamo che l'avventura musicale dei rage fosse terminata. poi peavey ci ha ripensato, e ha sfornato due dischi uno dietro l'altro. oggi il cantante e bassista tedesco ci presenta la sua nuova creatura, 'season of the black'.
La
Stagione del nero
di Andrea Lami
Si dice che non ci esistono più le mezze stagioni, ma noi non ne siamo così convinti e, anzi, abbiamo idea che esistano più stagioni, una delle quali può essere la “stagione del nero”, che poi altro non è che il titolo del nuovo album dei Rage, il secondo realizzato con la stessa line-up, composta dall’inossidabile Peavy Wagner, il venezuelano Marcos Rodrigez e il greco Vassilios ‘Lucky’ Maniatopoulos: “La nostra è una formazione grandiosa ed è proprio questa la ragione per la quale ho deciso di scrivere/registrare un altro album con loro. Siamo amici da tanti anni, Vassilios ‘Lucky’ Maniatopoulos, per esempio, sin dal 1998 e Marcos Rodriguez da oltre quindici anni. Voglio avere una band che ha un ottimo rapporto interpersonale”. Queste le prime parole di Wagner durante la nostra chiac-
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chierata per presentare l’ultimo disco. Rodriguez non è solo un grande chitarrista ma anche un ottimo produttore, si viene a scoprire dalle parole di Peavey: “L’album è stato prodotto da tutta la band, non in particolare da Marcos. Abbiamo fatto un lavoro di squadra per ‘Season Of The Black’.”. Andiamo poi un po’ più a fondo riguardo alla scelta del titolo dell’album la quale è “stata mia e viene dal fatto che nell’album c’è una canzone con questo titolo, ci piaceva l’idea di usarlo come titolo del disco”, ma l’album in questione contiene ottime canzoni, ne è un esempio ‘Blackened Karma’ il cui titolo appare curioso e del quale chiediamo subito spiegazioni: “Eravamo in vacanza a Tenerife”, ricorda Peavey dopo una breve pausa, “e che Lucky mi ha chiesto di scrivere qualcosa sul karma e
così ho fatto.” Il nuovo album presenta una copertina un po’ tetra, nella quale è raffigurato il teschio della mascotte, Soundchaser, con alle spalle delle croci: “è una specie di cimitero”, specifica il mastermind dei Rage, “la cosa curiosa è che il teschio che tutti potete vedere non è un lavoro di grafica, non è photoshop, ma è un teschio vero che io ho nella mia collezione.” È sicuramente una copertina interessante, curiosa, che attira l’attenzione, ci azzardiamo a dire: “Hai ragione”, mi conferma Peavey, “se avete voglia di vedere il teschio in originale, vi basterà andare sul profilo della band di facebook per trovarlo.” Cosa che appena finita l’intervista io andremo a fare... Ma torniamo a parlare di musica e nello specifico mi ricollego a un’intervista nella quale è stato affermato che questo nuovo lavoro
“la cosa curiosa E’che il teschio che tutti potete vedere non e’ un lavoro di graf ica, non e’ photoshop, ma e’ un teschio vero che io ho nella mia collezione.” - peavy wagner
è in qualche modo collegato al masterpice ‘Black In Mind’: “Sì, ti confermo che ancora oggi penso questa cosa. Credo che questi due album siano legati, come due gemelli.” C’è quindi una sorta di relazione tra questi due dischi, ma ci sono anche dei richiami al passato. Non è che stanno guardando un po’ troppo indietro, osiamo dire: “Non penso”, precisa Peavey, “non stiamo copiando il passato. In tutti gli album che abbiamo fatto, puoi trovare il classico marchio di fabbrica dei Rage. Non credo che sia un discorso nostalgico, tutt’altro, credo che oggi abbiamo prodotto un album nel quale ci riconosciamo totalmente.” Be’, trentaquattro anni di storia della band non sono bazzecole, “effettivamente, ormai siamo riconoscibili e questa è una cosa molto bella”, afferma il vocalist ed è il massimo che un
musicista possa desiderare, “ho iniziato a far musica da giovanissimo e mai avrei pensato che diventasse il mio lavoro. Naturalmente ne sono molto contento e orgoglioso di farlo da così tanti anni.” Cambiamo, ma di poco, l’argomento per spostarci a parlare dei Refuge, band con la quale Peavy ha firmato un contratto con la nostrana Frontiers, chiedendogli quanto sia difficile comporre per due band: “Non è molto difficile, semplicemente perché quando ho delle idee un po’ più vintage, più ‘vecchie’, so che le userò nei Refuge. Tra l’altro, ne approfitto per far sapere ai fan che ci sono delle canzoni pronte che andremo a registrare tra settembre e ottobre in modo che il prossimo anno un nuovo album dei Refuge potrà essere pubblicato.” Questo non fa altro che confermare che i Refuge non sono solo una
pausa dei Rage “esattamente, i Refuge sono una band anche se è una sorta di hobby. Diciamo che i Refuge non sono una band professionale come i Rage, non sono allo stesso livello professionale. Si tratta di trovare del tempo tra me Chris e Manni per andare a suonare in qualche festival e per fare questo nuovo album. Diciamo pure che è una band nata per semplice divertimento, solo che i ragazzi della Frontiers hanno insistito talmente tanto che ci hanno convinto”. Frontiers ha colpito ancora, grazie alla sua sfrenata passione per la buona musica. La chiacchierata volge al termine, ci salutiamo con la promessa di vederci dal vivo presto: “Il prossimo anno partiremo per il tour mondiale con i Firewind come band di supporto, se non sbaglio ci saranno due date in Italia. Vi aspettiamo!”
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Il nuovo album degli enslaved flirta coi generi piu' disparati, senza perdere un’oncia di aggressivita' misticismo ed epicita'. scopriamolo attraverso le parole di ivar bjornson. Con un’insolita e copiosa pioggia preautunnale a far da sottofondo, un Ivar Bjørnson dalla voce stanca, ma calma e serena, ci introduce nella nuova fatica degli Enslaved: “è il nostro quattordicesimo album, non ho mai lavorato così duramente per scrivere delle canzoni, però ritengo che io e il mio vecchio fratello d’armi Grutle abbiamo fatto un eccellente lavoro, perché mai come in questo caso abbiamo osato e ci siamo spinti oltre. Abbiamo registrato presso i Duper & Solslottet Studios di Bergen e ancora una volta Jens Bogren si è occupato del missaggio e della masterizzazione ai Fascination Street Studios di Örebro. Dal punto di vista concettuale ‘E’ è incentrato sulla forza degli elementi naturali e sui legami dell’uomo con questa. Esiste un filo che collega l’essere umano a tutto quello che lo circonda, si viene quasi a creare un dualismo simbiotico. Si tratta di elementi duplici che sono essenziali per la nostra esistenza e per la nostra crescita individuale: uomo e
nave, figlio e genitore, musicista e strumento, caos e ordine, subconscio e coscienza”. Però quando chiedo se possiamo considerarlo un vero e proprio concept album, mi risponde: “no, non lo è. Almeno non lo è per come la vedo io. Per me il concept è un prodotto in cui la musica sorregge una storia. ‘E’ è un disco semantico, in cui i brani trattano argomenti comuni,
incentrati sulla spiritualità e sulla forza della natura. Ma non c’è una storyboard che collega le singole canzoni”. A confermare la vocazione spirituale del disco c’è anche il titolo, che non è semplicemente la prima lettera del moniker della band: “il si-
gnificato è doppio anche questa volta: quello più evidente è riconducibile al nostro nome, quindi facile da ricordare ed essenziale. Però ce n’è uno più profondo e mistico, che riporta alle rune. La ‘E’ non è altro che una runa, Ehwaz, che si pronuncia come ‘E’ ma che si disegna come una ‘M’. Il suo signi-
ficato è duplice: fiducia e cooperazione”. A ‘Storm Son’ è toccato il compito di presentare al mondo in anteprima il disco “perché non è facile scegliere un singolo, al suo interno deve riassumere tutte le caratteristiche del disco. Credo che ‘Storm Son’ riesca nell’impresa, sia a livello musicale, con tutte le influenze
dal black metal al progressive che caratterizzano l’opera, che tematico, perché racchiude in sé tutti quei temi di cui parlavo prima”. Non solo questa canzone è stata scelta per il primo video, ma apre anche ‘E’. Subito dopo il brano più corto, quel ‘River’s Mouth’ che con i sui cinque minuti si fa notare rispetto agli otto-dieci degli altri titoli. Si potrebbe pensare che la band abbia una predisposizione per le canzoni lunghe, ma Ivar parzialmente smentisce: “non ho una particolare preferenza tra canzoni durature o corte, dipende dal brano. Mi può piacere una più corta e intensa, così come posso gradirne una lunga e complessa. In ‘E’ abbondano le canzoni lunghe, è vero, ma sono uscite così, perché ci piace unire più generi e questo può richiedere un minutaggio maggiore”. Su mia imbeccata continua prendendo un po’ le distanze dal progressive “no, non mi piace definirla progressive la mia musica, anche perché il prog è un genere standardizzato. A noi piace invece spaziare, non porci dei confini stilistici. Se
Fiducia E Cooperazione di Giuseppe F. Cassatella 10 METALHAMMER.IT
Curiosità: Truls Espedal Truls Espedal è l’artista norvegese che ha disegnato le copertine degli ultimi nove album degli Enslaved. In passato ha anche collaborato con Theatre of Tragedy, Where Angels Fall, Djevel, Todtgelichter e NettleCarrier.
proprio devo dare un’etichetta a quello che scriviamo, allora opto per Avant-garde”. La voglia di spaziare tra i generi è evidente se si considera la scelta della bonus track posta in coda, la cover di quella ‘What Else Is there’ dei Röyksopp, non proprio una band metal “non sono una band metal, ma sono nostri conterranei. Propongono sonorità che non sono facilmente catalogabili, fanno musica elettronica, però in modo oscuro, dark. Credo che questo brano si adatti molto bene al mood generale di ‘E’”. Quello delle cover è uno sfizio che molte band si tolgono, alcune arrivano a pubblicare anche interi album, come è capitato ai Motorhead (chissà che ne penserebbe Lemmy) con il postumo ‘Under Cover’ “perché no? Magari un giorno potrebbe capitare anche a noi di farne uno, ci piace rendere tributo alle band che amiamo: Motorhead, King Crimson, Bathory”, anche perché nella vita di ogni giorno
Ivar confessa di avere gusti molto vari, “ascolto soprattutto roba vecchia, progressive, psichedelica, ma anche cose più estreme come il death e il black. Molta elettronica”. E di italiano? “Certo conosco le vostre band, credo che l’italiano si sposi molto bene con il progressive”. Confesso una mia particolare predilizione per ‘Sacred Horse’, che stando alle sue parole “è la prima canzone che abbiamo scritto. Anche qui trattiamo il tema centrale del disco, quello delle forze della natura, rappresentate dal cavallo, un animale sacro, simbolo arcano di energia. Uno dei più vecchi e più profondi legami dell’uomo con le forze della natura è stato proprio con questo animale. Entità sacra, ma anche mezzo di locomozione, cibo o bevanda, con il suo latte e/o il suo sangue. Inoltre, tornando al titolo del disco, la runa ‘E’ rappresenta anche il simbolo del cavallo”. Simbolo impresso sulla copertina del disco
La ‘E’ non è altro che una runa, Ehwaz, che si pronuncia come ‘E’ ma che si disegna come una ‘M’. Il suo significato è duplice: fiducia e cooperazione.
-Ivar Bjørnson
“è opera dello stesso autore degli otto dischi precedenti, Truls Espedal, che ha ancora collaborato con noi, facendo come sempre un gran lavoro. La copertina si ricollega direttamente a quella di ‘In Times’, rappresenta la Ehwaz, che è anche una ‘E’ capovolta”. Non mancano novità importanti a livello di formazione, dopo 12 anni Herbrand Larsen, storico tastierista è andato via perché “non si sentiva più motivato. La separazione è stata cordiale e auguro a lui tutto il bene e la fortuna possibile. A sostituirlo ci ha pensato Håkon Vinje della prog band Seven Impale, che ha fatto un gran lavoro alle tastiere e alle clean vocals. Il suo stile progressivo mi piace molto ed arricchisce la nostra musica”. Il tastierista non è però l’unico volto nuovo sul disco, diverse le collaborazioni “abbiamo avuto tre ospiti su questo album, il primo è il fenomenale sassofonista jazz norvegese Kjetil Møster, che ha impreziosito notevolmente ‘E’. Kjetil Møster dei Wardruna è stato fondamentale per creare delle atmosfere folk, così come il flautista Daniel Mage ha donato al tutto uno spirito più progressive. Sono molto soddisfatto del loro apporto in ‘Hiindsiight’ e ‘Feathers of Eolh’”. Non mancheranno i concerti “par-
tiremo con un primo tour per i club, per poi passare nei mesi più caldi ai grandi festival” e a sentire Ivar “non abbiamo una predilezione particolare per le piccole o le grandi location, sono esperienze diverse e ognuna in grado di dare emozioni e soddisfazioni diverse”. La chiosa finale è
di stampo televisivo, chiedo al norvegese un giudizio sulla serie ‘Vikings’ prodotta da History Channel “non la conosco, mi spiace. Certo guardo la tv, mi piace farlo, ma di questa serie non so dirti nulla: non mi interessa”. Più chiaro di così…
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I Nothing More ci introducono al loro nuovo album, frutto di una mistura di generi inaspettata. Ai nostri giorni, i Nothing More, hanno deciso semplicemente di premere il tasto play e di ripartire. Sono infatti trascorsi ormai quattro anni dal loro precedente album omonimo. Si è di certo trattato di una pausa in linea con i bioritmi della band, ma stavolta è stata anche necessaria a far integrare nel gruppo il nuovo batterista, Ben Anderson. E sapete una cosa? Se ne escono con ‘The Stories We Tell Ourselves’ , uno dei migliori album della loro carriera. Non sorprende tanto la qualità media delle singole canzoni, quanto la ricchezza del loro nuovo stile che ibrida generi diversi come il pop, l’hard rock e l’heavy metal. Come è facile intuire dalle parole del cantante e membro fondatore, Mark Vollelunga, l’entusiasmo è davvero alto, per cui non ho potuto far altro che partire dalle sue impressioni sul nuovo disco e indagare quali siano gli elementi chiave che hanno spinti i Nothing More a questo cambiamento: “È difficile descrivere lo stile dell’album, ognuno lo vede infatti in una prospettiva diversa. Di certo il nostro suono è cambiato anche grazie all’aggiunta del nostro attuale batterista Ben Anderson. Sui nostri dischi di solito era il nostro cantante [e batterista aggiunto, ndr.] Jonny Hawkins a scrivere e registrare tutte le percussioni. Ben è un batterista incredibilmente diverso, con un forte talento per la musica progressiva, quindi ha sicuramente influenzato il nostro modo di scrivere. Questo è stato anche
il nostro primo disco in cui abbiamo potuto lavorare assieme in sala prove.” Quindi il nuovo album è frutto come non mai del lavoro di gruppo. Allo stesso tempo alcuni equilibri si sono alterati grazie all’inserimento del batterista Ben Anderson, che mi pare sia anche autore di una prova davvero eccellente: “Assolutamente! Ho il massimo rispetto per Ben. Sono così felice che faccia parte dei Nothing More. Si è trattato di una ventata d’aria fresca e ci ha ispirato in nuovi modi, trovando una perfetta collocazione nella band. Sin dai primi
istanti in cui lo abbiamo sentito suonare durante la jam, io e Dan [il bassista Daniel Oliver, ndr.] sapevamo che di aver trovato la persona giusta. Ben proviene dal nostro stesso background musicale, così è stato sicuramente più facile partire con una stessa base. Ha eccellenti abilità d’improvvisazione, ha avuto diverse esperienze in tour e ha anche una storia come ingegnere del suono. Queste sono le esatte caratteristiche che stavamo cercavamo in un nuovo batterista. Tutti siamo stati colti di sorpresa
quando Paul ci disse di voler rinunciare, ma abbiamo capito e appoggiato la sua decisione anche se eravamo dispiaciuti per aver perso un fratello con cui siamo stati in un viaggio per così tanto tempo. Tuttavia, questa non è stata di certo la nostra prima sfida e abbiamo immediatamente avviato la ricerca per la sostituirlo. Fortunatamente abbiamo trovato Ben.” Tornando quindi al nuovo album, sono curioso di sapere cosa si celi nelle profondità della nuova musica dei Nothing More, quali i temi temi toccati nei testi di ‘The Stories We Tell Ourselves’: “Questo album riflette l’umore e lo stile di ogni membro della band e probabilmente dei nostri fan. È un buon mix tra le cose passato e del presente. Il mio lato egoistico, quello che preferisce vivere nel comfort, mi imporrebbe di dire che siamo nell’epoca migliore per vivere, MA i doni della nostra epoca (maggiore ricchezza, mobilità e libertà) possono essere incredibilmente tossici quando vengono mescolati con l’ignoranza. Ignorare le nostre radici, la nostra storia e il nostro cammino può rendere la condizione umana un problema sempre più complesso nel momento in cui ti vengono date troppe scelte, troppi soldi e un’abbondanza di strumenti che aumentano all’isolamento. L’ansia, la depressione, la perdita di uno scopo, il nichilismo, il narcisismo e tutte le forme di comportamento nevrotico prosperano nel vuoto dell’ignoranza e del tempo libero. Amo ogni canzone del nuovo album.”
o m ia t n o c c a r i c e h c ie Le Stor
di Marco Giono
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Tornano gli horrid con un nuovo, devastante disco. andiamo a scoprire di cosa si tratta attraverso le parole di David Belfagor.
Orgoglio e Perseveranza
di Alex ‘Necrotorture’ Manco
Seguo gli Horrid sin dalla loro demo tape ‘Your Are Mine’ datata 1994 e oggi ho il piacere di scambiare quattro chiacchiere con David Belfagor, chitarrista e membro fondatore di una delle death metal band più longeve d’Italia. Questa nuova formazione a tre da quanto tempo è attiva? È stato difficile trovare i giusti membri per portare avanti questa malefica creatura chiamata Horrid? Dopo che i rapporti con i membri precedenti si sono interrotti (alcuni bene, altri no) avevo bisogno di trovare persone veramente affidabili, sia umanamente che professionalmente. Troppe volte ho accettato persone che si sono rivelate inadeguate. Volevo elementi con cui condividere un progetto, non semplici turnisti senz’anima, anche a costo di tenere la band ferma. Mai più compromessi. Sono quasi tre anni che ho con me Dagon ed Eligor e l’attesa è stata ripagata. Non li cambierei con nessun altro. Il nuovo disco mi ha davvero colpito, lo stampo è ovviamente old school, vecchia maniera per intenderci. Quanto siete soddisfatti di questo prodotto? ‘Beyond The Dark Border’ è il frutto proprio di questa serenità e coesione. Abbiamo lavorato sodo, con professionalità e spirito di gruppo. È senza dubbio il miglior lavoro della band. Siamo pienamente soddisfatti. Dunkelheit Produktionen ha stampato il vostro ultimo lavoro ‘Beyond The Dark Border’ in vinile e compact disc, quanto è stata importante l’arrivo di questa
etichetta nella storia degli Horrid? La Dunkelheit è importantissima per gli Horrid. Quando i tuoi partner di lavoro sono anche i tuo primi fan è inevitabile che vada tutto alla grande. Ci supportano in tutto e non stiamo parlando di una major. Dal 1988 a oggi di tempo ne è passato, quale è stato il miglior prodotto targato Horrid? L’entusiasmo è ancora presente e adesso è facile dire Beyond, ma sono convinto che tante canzoni degli album precedenti, con la giusta line-up e la produzione necessaria, avrebbero avuto un risalto mag-
giore. A tal proposito ci sono lavori in corso... Cosa bolle in pentola? Il vostro futuro ci riserverà ancora grandi novità? Non posso anticiparti nulla di preciso al momento. Stiamo finendo la pre-produzione del prossimo progetto e stiamo iniziando a valutare alcune proposte live interessanti. Vogliamo promuovere ‘Beyond...’ il più possibile, ma stiamo già pensando al futuro. Horrid rappresenta attitudine, caparbietà e un consolidato stile di vita, cosa è per te questa band? Tutto ciò che hai scritto e molto di più.
Coerenza, rispetto e fiducia sono i valori fondanti della band e della mia persona. In tanti anni mi è capitato di vedere il lato peggiore di troppa gente e penso che possa bastare. Dagon ed Eligor sono i compagni che ho sempre voluto e finalmente trovato! Mai dire mai. Il death metal di ieri e quello di oggi. Cosa è cambiato e quali sono state le band che da sempre hai amato e ti hanno inspirato in tutti questi anni? Il metal dei primi anni ‘90 si può definire con poche parole: rispetto e supporto. Collaborazione e stima reciproca erano concreti. Prova a prendere un qualsiasi vinile di quegli anni: i ringraziamenti si sprecavano. Adesso è difficile trovare altrettanto, soprattutto nella scena italiana. Le band che mi hanno segnato sono molte, soprattutto nella scena underground svedese: Toxaemia, Macrodex, Darkified, Necrophobic, God Macabre, Goddefied, Crematory, Nihilist e tanti altri. Ovviamente Carnage, Dismember, Grave e primi Entombed hanno lasciato un solco più profondo e li reputo ancora ineguagliati. Fuori da quel giro ci sono band come Bloodbath, Asphyx, Bolthrower ed un pò tutta la scena underground finlandese come i primi Amorphis, Demigod, Depravity e primi Sentenced, che hanno dato il loro contributo. Bene David, è stato un piacere parlare con te, chiudi a tuo piacere questa intervista e stay sick! Grazie a te per l’intervista! Beyond The Dark Border segna un nuovo inizio per gli Horrid, fatto di passione, coerenza e totale devozione per il genere. Prendetelo e ascoltatelo tutti! Amen!
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Una band che non inventa nulla di nuovo, i Mr big, ma che suonano rock senza fronzoli e senza compromessi come solo i grandi del rock sono in grado di fare.
Sconfiggere la g ravità di Andrea Schwarz Emozioni, a fior di pelle. Tante, nel preparare la chiacchierata con Mr. Paul Gilbert e in prossimità dell’intervista in attesa che squillasse il telefono. Pronto? Sono Paul Gilbert, attimi di semi panico ma come accadde per l’intervista con Billy Sheehan di qualche mese fa è stato lo stesso musicista a mettere a proprio agio il sottoscritto in maniera naturale, spontanea. ‘Defying Gravity’, ultimo disco dei Mr Big, è un album che fin dal primo ascolto lascia perplessi per quanto concerne la produzione ma che allo stesso tempo fa gioire grazie a un ispirato songwriting, dove le parti vocali e gli arrangiamenti sono stati curati fin nei minimi dettagli. Probabilmente rappresentando il meglio della loro recente discografia: “Quando mi accingo a lavorare a un nuovo disco mi sono imposto una regola fondamentale, quella che esige il fatto
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che io possa divertirmi e trovare soddisfazione in quello che faccio. Mi sono altresì imposto che ogni volta in cui mi butto a capofitto in un nuovo progetto io debba lavorare duramente per raggiungere il miglior risultato possibile. Tutto ciò implica il
fatto di poter andare oltre i propri limiti, essere quasi esausti nel fare determinate cose. Ecco, può sembrare un qualcosa di negativo ma se aggiungi invece la volontà di divertirti quello che fai acquista un altro tono, certamente
positivo. La musica può sembrare la più oscura del mondo, ma se nel working process mi sono divertito a farlo ha un non so che di positivo no? Ogni musicista cerca di esprimere se stesso cercando il modo di trasmettere emozioni al proprio pubblico che a sua volta raccoglie e percepisce tutto ciò in maniera del tutto personale, secondo il proprio vissuto. Questa volta tutto si è svolto in maniera fluida, naturale, spontanea senza preconcetti o programmi particolari da seguire.” Come far fatica a credere a queste parole? Lo scorso novembre feci un’intervista a Billy Sheehan a margine di un clinic show e la sua risposta su un possibile nuovo cd dei Mr Big fu molto vaga, quasi come se fosse tutto in alto mare. E ora, a distanza di otto mesi, ci troviamo di fronte a un nuovo capitolo della saga: ‘‘Il nostro manager ha svolto un ruolo fondamentale, oggigiorno abbiamo un sacco di side-project, nonché mille partecipazioni in altre band, ma è più
interessante lavorare adesso come Mr Big piuttosto che all’inizio della nostra carriera, quando eravamo concentrati al 100% solo ai Mr Big. Non è facile, lo ammetto, ma abbiamo cercato tra i nostri più svariati impegni un momento in cui tutti avremmo potuto essere in una stessa stanza per pensare e registrare assieme, questo è il modo di lavorare che prediligiamo. Sai, con il precedente ‘The Stories We Could Tell’ abbiamo lavorato per così dire a ‘pezzi’, prima uno strumento in uno studio, un’altra parte in un altro e così via. Adesso invece è stato un lavoro di squadra, molto live e penso che i risultati siano più apprezzabili, è stato più facile!” Traspare dalle sue parole tanto quanto dall’improducibile tono di voce la gioia e la soddisfazione nell’aver lavorato a questo disco, tante le idee prima di entrare in studio, quasi l’imbarazzo della scelta domandandoci se sia stata più difficoltosa questa fase oppure quella di metterle insieme in maniera organica e convincente: “Come è nostro solito, abbiamo lavorato tantissimo in fase di pre-produzione. Sappiamo ormai fin da subito
quanto possa funzionare e quanto invece no. Le idee musicali normalmente partono da me, Billy e Pat, inviamo il tutto a Eric che riesce a completarle in maniera esemplare. Diciamo che una settimana prima di entrare in studio ho sentito il panico assalirmi perché dovevo ancora terminare cinque o sei brani ma come spesso mi succede, anche negli altri progetti nei quali sono coinvolto, le idee migliori mi vengono la notte prima dell’inizio delle sessioni di registrazione! Non è che sotto stress io riesca a lavorare meglio, semplicemente quando si avvicina il fatidico momento tutto si fa più reale, l’eccitazione cresce e l’adrenalina comincia a scorrere. Grazie alle moderne tecnologie puoi anche impiegare un anno per registrare un album ma il risultato è più artificioso, nella musica come nel quotidiano ciò che non è programmato è più ispirato. Nel nostro caso essere tutti nella stessa stanza è un valore aggiunto. Chi può comporre e suonare le parti di basso meglio di Billy (Sheehan)? Se ti trovi insieme in una stanza puoi ottimizzare questi aspetti, puoi lavora-
re insieme agli arrangiamenti e in maniera più efficace oltre che più velocemente rispetto allo scambiarsi file da un capo all’altro degli States.” Stupisce da un punto di vista esterno vedere come Mike Starr abbia fornito un’ottima prova dietro le pelli senza coprire il fondamentale ruolo di Pat Torpey che nonostante la sua malattia è parte integrante della band, come se questa non fosse solamente tale ma una vera famiglia prima di tutto: ‘‘Pat è parte integrante dei Mr Big, il suo apporto è fondamentale. Sai, realizzare un disco non significa solo suonare le proprie parti ma presuppone fare delle scelte, portare a compimento gli arrangiamenti.
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Ogni music se e r e m i r p s e cerca di il modo o d n a c r e c o stess
trasmettere al proprio i n o i z o m e pubblico - Paul Gilbert
di
E in questo Pat è una risorsa imprescindibile. Fin dall’inizio volevamo che l’album suonasse come se fosse lui dietro al drum kit, penso che ci siamo pienamente riusciti grazie al suo lavoro: ha lavorato alla produzione, ha fatto tanto per la scelta dei suoni della batteria. Non trascuriamo il fatto che lui sia il maggiore e migliore tra noi quattro nell’arrangiare sia le melodie vocali sia i cori. Le armonizzazioni vocali sono state fin dagli esordi il nostro tratto distintivo che non vogliamo perdere, parlo da chitarrista e devo ammettere che mi diverto tantissimo nel cantare i cori dei vecchi come dei nuovi pezzi, sono aiutato dal fatto che Pat, Billy ed Eric non sono secondi a nessuno in questo! Mi fa piacere che all’esterno certe cose si notino, siamo passati attraverso moltissime esperienze in questi anni che abbiamo cercato di sintetizzare nel brano ‘1992’, ci sono stati momenti che ci hanno fatto crescere, sempre con la musica come passione princi-
pale, la nostra scelta di vita. La malattia di Pat senza dubbio è stata qualcosa che ci ha legato più che disunirci, è capitato a lui ma poteva capitare a ognuno di noi. Cosa avrei fatto io al suo posto? Per lui è una sfida a livello fisico quanto mentale, non è banale. Siamo cresciuti, queste sono cose importanti che non vanno trascurate. Non importa se Pat avrà il 70% o il 50% o il 5% di capacità fisiche, lui sarà sempre con noi sia in studio quanto dal vivo se e quando si sentirà bene abbastanza dall’essere con noi su di un palco.” Ascoltando brani come ‘Meant To Be’ o la già citata ‘1992’, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a uno stile compositivo che riporta alla mente dischi come ‘Leant Into It’ e ‘Bump Ahead’ con quei duetti mozzafiato chitarra / basso: “Non c’è niente di programmato, te lo assicuro. Ad esempio con ‘1992’ ho cominciato a pensare al titolo, poi è venuto fuori il chorus con una chitarra acustica, ricordo che quel momento l’ho immortalato con una foto sul mio profilo Instagram. Poi ho composto il resto, come chitarrista si pensa che i guitar solo o le parti di chitarra siano le prime a essere scritte ma non è così: la melodia è il motore per tutto il resto!”.
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l nuovo disco degli de a rl pa w lo ew Cl m Lia o 'spark', nuovo enter shikari, intitolat cografia della band passo avanti per la dis britannica!
e c li p m e s : e n io z lu o riv
di Marco Giono
Trascorso un decennio dal loro album d’esordio intitolato ‘Taken To The Skies’ del 2007, gli Enter Shikari decidono di reinventarsi, di nuovo. Il genere electronicore cui avevano contribuito a dare vita, diventa altro ai nostri giorni. Troppe cose sono cambiate nei due anni trascorsi dalla pubblicazione di ‘The Mindsweep’, secondo quanto raccontato telefonicamente dal chitarrista e compositore Liam Clewlow. Con una voce sempre misurata e gentile, Liam ci descrive le forze che hanno spinto gli Enter Shikari a una rivoluzione stilistica che si definisce in melodie semplici amplificate da cori vibranti e un metalcore meno presente, ma non meno determinante. Proviamo a vedere se anche per Liam si tratta di una rivoluzione e cosa c’è dietro: “Il nuovo album nasce dalla volontà di scrivere
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musica semplice. Gli Enter Shikari di solito scrivono cinque canzoni in una. Nel nostro nuovo album, ‘Spark’, ci siamo invece focalizzati sulle melodie e sulle strutture dei brani. Penso sia di certo qualcosa di più immediato e allo stesso
tempo di davvero diverso rispetto al passato, ma sempre riconducibile allo stile del gruppo. In realtà, è come se fossimo in una nuova era, più positiva per noi tutti. Abbiamo molta più
fiducia, infatti, nei nostri mezzi e siamo soddisfatti di come vanno le cose.” Se la melodia diviene centrale, abbiamo anche constatato che l’anima metalcore è presente più che altro per muovere le dinami-
che dei brani: “Quando scrivo ovviamente non penso a uno stile specifico o a un genere. Non è qualcosa del tutto cosciente. Di certo, però un aspetto che curo sempre allo stesso modo nelle composizioni è quello relativo alle dinami-
che dei brani. Devo riuscire a trasmettere della passione nella musica. E ogni cosa viene di conseguenza, in maniera più naturale.” Mi domando se un cambiamento di questo tipo non sia stato però il risultato di un nuovo modo di pensare la musica stessa. Liam pare confermare: “Ci siamo focalizzati maggiormente sulla visione d’insieme, su quello che volevamo ottenere dalla nostra musica. Nel passato, invece, le composizioni era scritte di getto, in maniera più istintiva. Poi è stato determinante anche il lavoro che abbiamo svolto assieme al produttore David Kosten. Lui ci ha aiutato a realizzare quello che avevamo in mente, traducendolo in questo nuovo sound.È stato davvero decisivo per il risultato finale.” Cerco quindi di indagare cosa o chi vi sia dietro alla
rivoluzione stilistica di ‘Spark’: “Penso che in questi due anni siano successe tante cose che hanno toccato in modo diretto le nostre vite e quindi la nostra musica. Una di queste è stata la morte di David Bowie. Non è che mi abbia cambiato, in fondo sono da sempre un suo grande fan. In qualche modo, però, mi ha spinto a provare qualcosa di diverso. La sua musica non è mai stata uguale, ha sempre cercato nuove direzioni. Il suo coraggio e la sua attitudine sono qualcosa che mi ha spinto sempre a fare meglio. La sua scomparsa è stata però determinante a trovare il coraggio per cambiare direzione.” Il video del primo singolo ‘Live Outside’ è di certo un buon modo di iniziare a scoprire il nuovo album anche da un punto di vista narrativo, ma mi chiedo
se sia anche esemplificativo per le tematiche affrontate nei testi: “Il video è incentrato sulle problematiche legate alla salute mentale di una persona. Ansietà e depressione colpiscono di frequente le persone nella nostra società. Così uno cerca una via di fuga, qualcosa che stia di al fuori, una spiraglio di luce nel buio. Contemporaneamente però parliamo anche di quello che succede su scala globale con il ritorno dell’estrema destra, la Brexit oppure Trump. Tutte situazioni che ci coinvolgono e influenzano i nostri stati d’animo.” La copertina riesce a riassumere due concetti chiave per spiegare il nuovo stile degli Enter Shikari: semplicità e cambiamento. Gli chiedo da dove provenga l’idea di porre quello strumento musicale in primo piano: “Al principio
ci sarebbe piaciuto creare un oggetto fisico, per poi ritrarlo in copertina, ma non ne non abbiamo avuto il tempo. Così abbiamo semplicemente deciso di utilizzare la tastiera dell’ultimo tour come soggetto della cover.” Gli domando poi se vi sia un brano di ‘Spark’ a lui particolarmente caro: “È difficile da dire. In questo momento sono davvero orgoglioso di ogni brano. Tuttavia, sono particolarmente legato alla traccia ‘An Ode To Las Jigsaw Piece’, perchè brutalmente onesta e spero che possa aiutare le persone che si sentono allo stesso modo.” E se mi svela invece un brano che ha ascoltato ininterrottamente, qualcosa di ossessivo che lo abbia accompagnato negli ultimi tempi: “Oh, ascolto davvero così tanta musica. Lasciami pensare... Nell’ultimo perio-
do ho ascoltato spesso una composizione classica intitolata ‘Nimrod’ di Edward Elgar contenuta nell’opera ‘Enigma Variations’. L’ho ascoltata ripetutamente proprio nel periodo in cui stavo componendo il nuovo album.” In ultimo, chiedo a Liam di quanto denunciato da Rou, voce della band inglese, in merito ad un possibile caso di “frode” nei confronti dei fan di Taylor Swift: “Si è trattato di trucchi per manipolare in qualche modo la buona fede dei fan spingendoli a comprare dischi o gadget vari di Taylor Swift, attraverso l’acquisto di biglietti nei concerti. Penso che sia necessario essere più onesti e trasparenti con le persone. Esistono, ovviamente, altri modi per avere dei profitti, ma non puoi prendere in giro i fan. È una cosa non tolleriamo.”
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Dal Brasile con furore, i republica presentano la loro ultima fatica, intitolata 'brutal & beautiful’. Da non confondersi con l’omonima band inglese tecno pop con un buon successo commerciale a metà anni novanta e con un album fresco di stampa, i Republica sono un gruppo abbastanza sconosciuto in Europa ma conosciuti in Sud America grazie a ben quattro album e numerose partecipazioni al Rock In Rio nel loro natio Brasile. Ed è proprio dalla curiosità di capire il loro percorso artistico che è partita la nostra chiacchierata: “È una coincidenza il fatto che abbiamo pubblicato in Brasile il nostro debutto nel 1996 quando la band inglese si affacciava sul mercato discografico. Nel 2012 è cominciata una nuova fase pensando di voler cercare riscontri al di fuori del nostro Paese natio ingaggiando quindi Leo Beling alla voce, con il quale si cominciò a scrivere in inglese invece che in portoghese. La scelta portò alla pubblicazione nel 2013 di ‘Point Of No Return’ che ci diede una notevole spinta suonando in tutto il Sud America con band del calibro di Deep Purple, Megadeth, Pearl Jam, Kiss e molti altri. E ora si tratta di fare un altro passettino in avanti, puntare all’internazionalizzazione della band, alla quale si è lavorato duramente negli ultimi due anni, ingaggiando per questo ‘Brutal & Beautiful’ con Matt Wallace, un produttore con molta esperienza alle spalle.” Certo che incuriosisce la scelta di Wallace e non altri produttori di altrettanta provata capacità…”Matt Wallace è un produttore di successo, credevamo e crediamo che le nostre canzoni abbiano proprio bisogno di una figura con tanta esperienza sulle spalle come pochi altri possiedono. E
poi, per poterci evolvere e far maturare il nostro processo creativo Matt è stato assolutamente fondamentale, in studio è un maestro come ingegnere del suono e come produttore senza contare le sue grandi qualità umane. Non potevamo fare scelta migliore.” Ed effettivamente ascoltando il disco il tocco di Wallace salta subito all’orecchio, così come sembra che sia diventato il sesto membro del gruppo curiosando i vari teaser delle recording sessions caricati dalla band sui propri canali ufficiali: “O sì, Matt è certamente un membro aggiunto dei Republica! Senza il suo apporto ‘Brutal & Beautiful’
non suonerebbe così, abbiamo lavorato veramente insieme come una squadra nell’intero processo, fin dalla pre-produzione che è stato un periodo molto intenso. L’intensità e la profondità che lui richiede in ogni fase di produzione del disco fa la differenza, è meticoloso nella cura dei testi fino al singolo suono del crash, è quel valore aggiunto che adoriamo in lui.” Lo stile del disco non si discosta più di tanto rispetto a quanto già fatto in passato, una delle maggiori differenze riguardano i suoni, la produzione più potente e arrangiamenti più maturi, intensi e curati maggiormente:
“Sono d’accordo, un’evoluzione e una rivoluzione allo stesso tempo del nostro stile, a vederlo oggi penso che sia qualcosa che possa avvicinare la gente ed i nostri fans di lunga data nuovamente alla band. Ogni canzone ha la propria personalità, ‘Brutal & Beautiful’ è un album intenso e allo stesso tempo avvolgente e melodico.” A sentire queste parole viene da pensare che non sia stato facile lavorare al disco, un album che ha rappresentato una sfida in un momento cruciale della propria carriera: “La determinazione e la dedizione che abbiamo tutti quanti messo nella lavorazione di questo disco è stata la parte più difficile ma anche la sfida più grande. Abbiamo passato un anno a scrivere queste canzoni, altri sei mesi nel perfezionare quelle idee con Matt Wallace, tantissime ore chiusi in uno studio provando, scrivendo, producendo, stando insieme come una famiglia. Questo presuppone una forza ed una dedizione non da poco per mantenere alte le motivazioni ogni singolo giorno.” Dal vivo hanno partecipato a grandi eventi come il Rock in Rio e il Lollapalooza, a breve li aspetta nuovamente il Rock In Rio, quasi come se l’ambiente dei grandi happening li esalti maggiormente rispetto ai piccoli club: “Amiamo suonare live e non vediamo l’ora di tornare on the road, di restituire tutta l’energia accumulata negli ultimi mesi. Non importa se le situazioni possano essere i grandi festival o piccoli club, noi siamo sempre noi stessi indipendentemente dal contesto. Il nostro obiettivo primario è quello di far conoscere al maggior numero di persone possibili ‘Brutal & Beautiful’, il resto non conta!”
REPUBLICA
Bellezza e Brutalità Tra
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di Andrea Schwarz
IL RITORNO DI LUSSO DI ‘MASTER OF PUPPETS’ di Andrea Schwarz Il 3 marzo 1955 Elvis Presley apparve per la prima volta in televisione, evento epocale per l’enorme valore mediatico e musicale che il buon Elvis ha rappresentato per il mondo della musica e non solo. Ma il 3 marzo è un appuntamento dal grande valore anche per la pubblicazione parecchi anni dopo, 1986 per la precisazione, di un disco che a modo suo e in tutt’altro genere musicale ha rappresentato (e continua a rappresentare tutt’oggi) una pietra miliare in campo thrash metal: ‘Master Of Puppets’ dei Metallica. E qui potremmo tirare giù il sipario lasciando spazio a una infinita standing ovation per un disco seminale, epocale, immenso per quanto possa essere pietra miliare di un thrash metal che in quel preciso momento storico stava raggiungendo un successo di pubblico su scala mondiale che non replicò mai più negli anni a venire. Pagine e pagine d’inchiostro sono state scritte in merito, come sempre i pareri sono discordanti tra chi adora ogni singola nota di quel disco così come esistono coloro
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che invece ne detestano impostazione e musicalità. Tuttavia, come ogni capolavoro che si rispetti, questo fa inevitabilmente parlare di sé, nel bene e nel male. Lo scorso anno la ESP, la casa produttrice di strumenti musicali per la quale sia Kirk Hammet che James Hetfield sono endorser ufficiali, produsse nel trentennale della sua uscita una chitarra con serigrafia della celebre copertina in versione lim-
itatissima (400 esemplari) come fece anche in occasione dei trentennali degli altrettanto seminali ‘Kill ‘Em All’ e ‘Ride The Lightning’. Un omaggio che la dice lunga sull’importanza di un
album che, unico in campo heavy metal, è riuscito a essere inserito dalla Library of Congress nel National Recording Registry degli Stati Uniti per meriti “culturali, storici ed esteticamente significativi”. Se questo non è un riconoscimento... I Metallica non si sono fatti perdere l’occasione per celebrare a modo loro la pubblicazione dell’album decidendo di realizzare una deluxe version che tanti collezionisti e amanti del quartetto statunitense cercheranno di far proprio svenandosi non poco ma, analizzandone il contenuto, aggiungendo un tassello importante nella propria memorabilia dedicata ai Metallica, che ancora una volta fanno le cose per bene da buoni uomini d’affari, come asseriscono i maligni. E che aggiungiamo noi, in un mondo dove il marketing è tutto, i Metallica dimostrano ancora una volta di riuscire a essere dei perfetti manager di loro stessi e della loro musica come è sempre stato fin dai loro esordi, attenti ad ogni minima
mossa guidati dal duo Ulrich - Hetfield. I Metallica probabilmente non fanno solamente un’operazione nostalgia perché ormai non sono solamente un gruppo, sono ormai diventati un’azienda con moltissimi dipendenti che ovviamente deve produrre per poter “stare in piedi”. E così togliamo ogni velo romantico che possa in qualche modo adornare la figura del musicista. Dunque, ci troviamo di fronte a un’operazione “nostalgia” oppure semplicemente possiamo catalogarla come furbesca azione di marketing? In questa sede ci asteniamo nel catalogarla in una qualsiasi maniera, come farebbe un buon cronista, lasciando che siano i lettori e i fan della band a giudicare. Va da sé che questo box deluxe da 175 dollari è un’operazione fatta bene, perché omaggia un disco fondamentale che ha fatto la storia della musica contemporanea. Chissà se quei quattro ragazzetti poco più che ventenni, insieme a Michael Wagner che produsse quelle otto tracce, si sarebbero aspettati nel 1986 di concepire un tale capolavoro. Personalmente mi vengono i brividi al solo pensiero, certo c’era la voglia e la consapevolezza di produrre un album superiore al già stupendo ‘Ride The Lightning’, ma quello che ne è scaturito da quelle recording session ha qualcosa di stupendo ancora oggi, lo dimostrano le innumerevoli volte in cui Hetfield&Co. ripropongono live canzoni come ‘Welcome Home (Sani-
tarium)’ o la stessa ‘Battery’, vera e propria scudisciata sui denti che colpisce a freddo come primo brano del lotto. La vera chicca di questo box deluxe non la troviamo tanto nella versione rimasterizzata del disco oppure nella serigrafia di Pushead, artista che ha ‘sposato’ per tanti anni la band contribuendo a creare quel background visivo che ha caratterizzato alcune copertine, illustrazioni interne o epiche t-shirt con il logo Metallica (quello mitico con la M e la A stilizzate che ancora oggi riempie di fascino un nome che da solo non avrebbe avuto lo stesso impatto sul pubblico). La vera rarità dell’intero box è rappresentata da una cassetta contenente una registrazione pirata fatta dai fan in occasione dell’esibizione del 26 settembre 1986 alla Solnhallen di Stoccolma. I più attenti avranno già intuito la portata storica di tale registrazione, poiché si tratta della testimonianza audio dell’ultimo concerto suonato dal buon Clifford Lee Burton, per tutti Cliff che purtroppo morì da lì a poche
ore nel fatidico incidente che vide coinvolto il tour bus a Ljungby. La qualità della registrazione lascia un po’ l’amaro in bocca, nulla di così straordinario anche se entusiasmante affettivamente. Tanti anni fa il sottoscritto acquistò a cifre esorbitanti (per l’epoca) una cassetta proprio con quella registrazione, una chicca che ho
varie. Ne avete abbastanza? Certo, tutta questa ‘mercanzia’ non cambia nulla sul valore intrinseco di ‘Master Of Puppets’, il primo album nella storia del thrash metal a diventare disco di platino in un anno (1986) che è stato testimone di altre gemme come ‘Peace Sells….But Who’s Buying?’ dei Megadeth, ‘Among The Living’ degli Anthrax e ‘Reign In Blood’ degli Slayer. Album che insieme a ‘Master Of Puppets’ si ascoltano più che volentieri, esempio lampante di come la musica possa essere considerata, in taluni casi, senza tempo, un time-lapse che non finisce mai di stupire ascolto dopo ascolto. E ogni volta che risuoneranno nelle orecchie le parole “Master Of Puppets/I’m pulling
custodito gelosamente in tutti questi anni e che adesso, per la fortuna di tutti, è a disposizione di tanti evitando così inutili spese folli, anche se ormai i bootleg sono ormai parte del giurassico, grazie all’avvento di YouTube e della rete che tutto rende fruibile e assai ‘liquido’, non permettendo la cristallizzazione nel tempo di uscite discografiche da tramandare ai posteri. Oltre a questa autentica chicca, potrete trovare rough mix e outtake, cd pieni di demo versions e riff appena abbozzati, cd pieni di esibizioni live tenutesi nel 1986-1987 così come la curiosa testimonianza delle audizioni di Jason Newsted, dvd vari pieni di live show ed interviste
your strings/Twisted your mind and smashing your dreams/Blinded by me, you can’t see a thing/Just call my name, ‘cause I’ll hear you scream/Master/Master/Just call my name, I’ll hear you scream/Master/Master”, allora si tornerà in parte adolescenti con i nostri sogni nel cassetto, alcuni (forse) realizzati dopo tanti anni, tanti altri ancora in attesa che un giorno possano realizzarsi. Tutto sommato questo non è così importante, quello che conta realmente è celebrare degnamente un disco la cui forza intrinseca artistica e musicale troverà sempre tanti estimatori, da non confondersi con ‘vecchi nostalgici’ di cui ‘Master Of Puppets’ non ha di sicuro bisogno. L’unica cosa certa è una sola: la musica rende immortali e i Metallica, grazie a dischi come questo, lo saranno. Per sempre.
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La nuova creatura targata venom arriva al primo album da studio. ne abbiamo parlato con il grande tony dolan! Venom. Un nome che suscita rispetto, ammirazione per quanto hanno saputo dare alla nostra amata musica, tanto che non ci vergogniamo chiamarla Heavy Metal, quella con la lettera maiuscola. Poi, nel corso degli anni, sono venute fuori dispute sulle quali non ci addentriamo poiché saremo fuori contesto ma una cosa bisogna dirla: ‘Ave’, il primo album dei Venom Inc. di Tony Dolan & Co., è un album heavy, dark, con quell’impasto sonoro che ti ricorda più una band agli esordi con tutta la carica positiva che ciò comporta piuttosto che una band ‘riformata’ pur non nella sua interezza e quintessenza. Tony Dolan è stato un fantastico interlocutore, affabile e disponibile oltremodo, ed è proprio da questa considerazione che la nostra chiacchierata ha preso inizio: “Mi fa piacere che ascoltando il disco possa essere stato recepito lo spirito che ci accomuna. Niente è stato programmato, è stato un passaggio naturale al quale siamo arrivati con sole due regole: rispettare l’altro senza necessariamente avere la smania di dover provare qualcosa al mondo esterno. Allo stesso tempo una regola non scritta che si è seguita è stata quella del non voler essere copia di nessuno, era ed è importante essere onesti con se stessi guardando al futuro e non al passato. Non possiamo pretendere di piacere a tutti,
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è normale e quindi questo ci permette di suonare nella maniera più spontanea possibile. Poi è sacrosanto, divertente e tutto quello che si vuole vedere band riformarsi dopo vent’anni, suonando in lungo e in largo di fronte a fan che non aspettavano altro che ascoltare vecchi classici, lo abbiamo fatto anche noi ma abbiamo sentito che volevamo qualcosa in più, è bello ascoltare le storie della gente che incontri in tour….comporre nuova musica è stato entusiasmante e allo stesso
tempo, rigenerante.” Il suo entusiasmo è qualcosa di veramente contagioso, si nota in ogni singola parola quanto la loro alchimia venga da lontano ma che è scoppiata in maniera nuova e inaspettata quando risuonarono per un singolo show al Keep It True Festival del 2015: “Con Mantas ho collaborato negli anni scorsi negli M-Pire Of Evil, con lui mi accomunano moltissime cose altrimenti non avremmo lavorato insieme così tanto. Il Keep It True Festival è
stata la cosiddetta miccia che ha riacceso il fuoco, nessuno di noi tre però si sarebbe potuto aspettare che quello show avrebbe poi potuto essere propedeutico a quello che è avvenuto nei mesi scorsi. Per quanto lavorare a un nuovo album sia nato da una nostra esigenza, è altrettanto vero che è anche un modo per poter ringraziare i fan che ci hanno accompagnato in tutti i posti dove abbiamo suonato, dal Nord al Sud America, dal Giappone alla Russia, un omaggio in particolar modo all’Italia che adoro e dove ho molti amici. La scelta in alcuni casi dell’utilizzo del latino è anche un modo di dire grazie all’Italia, il video per il singolo ‘Dein Fleisch’ è stato girato nel Belpaese, dove torno volentieri ogni volta che posso. Ragazzi, questo è il vostro album, senza di voi tutto questo non sarebbe stato possibile!” Si scopre un Tony Dolan innamoratissimo dell’Italia con tutti i suoi lati positivi e negativi…”Avete il vostro modo di lavorare ma accetto sia i lati positivi come quelli negativi del vostro essere italiani, non si può non rimanere affascinati dalla vostra storia, dall’arte, dalla musica e dal cibo, è un amore nato nel 1985 quando con gli Atomkraft (insieme agli Exodus) fummo la band di supporto dei Venom. Nel corso degli anni ho potuto coltivare moltissime amicizie visitando l’Italia in lungo e in largo, ho anche un tatuaggio con la scritta Roma….quando c’è stata appunto l’occasione di registra-
In ave we trust
di Andrea Schwarz
La bellezza della musica e' il suo potere taumaturgico, il suo essere di ispirazione e di aiuto nei momenti difficili che ognuno di noi attraversa. re il primo singolo ‘Dein Fleisch’ ho chiamato tutte le persone che conoscevo in Italia invitandole alle riprese. Ricordo moltissimi show suonati nel tuo Paese, credimi, non è per essere ruffiani ma se suonare è un piacere, farlo in Italia è qualcosa di gratificante e rigenerante come se fossimo a casa.” ‘Ave’ è semplicemente musica, quella che non si può catalogare a tutti i costi, quella che si ascolta e si fa ascoltare con rispetto senza per forza doversi schierare in un’inutile divisione pro o contro: “La bellezza della musica è il suo potere taumaturgico, il suo essere di ispirazione e di aiuto nei momenti difficili che ognuno di noi attraversa. E contrariamente a quanto in certe occasioni si tenda a pensare, una forma d’arte che unisce. È come essere tifosi di una squadra di calcio, chi non vorrebbe vedere la propria squadra del cuore vincere? Ma alla fine anche se perdesse assistendo a una bella partita, sei comunque soddisfatto per aver passato dei bei momenti. E così è la musica che deve unire le persone, non dividerle in inutili fazioni. A volte mi domando dove stia andando il mondo. Non parlo molte lingue straniere, ma mi affascina constatare come in qualsiasi parte del globo ci si trovi a suonare, nonostante in taluni casi ci siano enormi differenze linguistiche e culturali ci si riesca a comprendere con chi
viene ad assistere ai nostri show, quando suoni la gente canta con te i testi ed è bellissimo, lì ti senti parte di un’unica umanità che né la politica né la religione possono dividere!” Sentimenti universali che possono riguardare il quotidiano, anche di chi come Dolan & Co. si son trovati in studio dopo moltissimi anni: “Stupendo...e non è tanto per dire! Siamo stati fortunati perché abbiamo avuto nel nostro percorso una guida, qualcuno che potesse accompagnarci a fare le scelte giuste: John Zazula. Non penso che abbia bisogno di molte presentazioni avendo scoperto i Metallica e avendo già lavorato negli USA con Venom in passato, ho con lui un rapporto splendido ed il suo coinvolgimento è avvenuto in maniera spontanea quanto inaspettata. Il modo in cui abbiamo lavorato è stato pressoché simile a quello di tantissime band, anche se ognuno di noi abita in posti diversi, è così che è cominciato un fitto scambio di file con moltissime idee che abbiamo discusso e vagliato attentamente con grande attenzione, come se fosse un faro che ci guidasse nel comporre musica che ci rappresentasse realmente, non scrivendo musica perché dovessimo risultare forzatamente old-style oppure per così dire contemporanei e alla moda a tutti i costi. In questo abbiamo sentito
un fortissimo legame con i fan continuando a suonare durante le fasi di scrittura dell’album quasi come se ogni cosa che scrivevamo fosse quella giusta, come se fosse parte di un puzzle già scritto dove ogni pezzo si stava magicamente incastrando all’altro in maniera naturale. Mi auguro che si possa sentire la gioia e il divertimento che abbiamo provato nel lavorare a queste canzoni!” Durante questa intervista durata molto più di quanto programmato Dolan utilizza soprattutto due parole: onestà, verso il pubblico e rispetto, tra i membri della band. Due ingredienti che pervadono un disco come ‘Avè’: “Ci siamo sforzati di essere veri, autentici, di metterci totalmente in gioco per questo capitolo della nostra carriera. I fan ci danno la forza, realmente e non come frase fatta, quella forza e spinta per fare tutto questo, lo riscontriamo durante i nostri live show.
Quando ascolti vecchi dischi delle formazioni storiche degli anni settanta ti sembra a volte di essere in studio con quelle band, ti senti parte di un tutt’uno che ti avvolge. Questo è quello che avevamo in mente di fare nella produzione di ‘Avè’. Ti ringrazio e mi fa piacere che si sia notato quali siano state le motivazioni che ci hanno guidato, senza i fans noi musicisti non saremmo nessuno, da questo nasce il nostro rispetto e devozione nei loro confronti. Purtroppo taluni si sentono come fossero degli Dei ma non è così, è triste ma vero.”
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La forza di Resistere di Marco Giono
Marco Aro ci accompagna alla scoperta del nuovo disco della band svedese, 'Strength In numbers'. Esistono band che attraversano placidamente la propria carriera musicale album dopo album, poi ci sono i The Haunted. I cambi di formazione si succedono come conseguenza ineluttabile dei problemi personali dei singoli. La band svedese, in origine messa in piedi dai fratelli Anders e Jonas Björler dalle ceneri degli At the Gates, è sempre a un passo dalla fine, ma riesce in qualche modo a sopravvivere, dando vita con una apprezzabile continuità a dischi death metal potenti e diretti. Come diretto e senza fronzoli è Marco Aro, la cui voce risuona chiara e limpida durante tutta la nostra conversazione, anche quando torna con la memoria ai demoni che l’hanno allontanato dalla sua amata musica. Gli stessi demoni però che sono diventati musa per il loro nuovo album ‘Strength
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In Numbers’ pubblicato ad agosto per Century Media. Così gli chiedo di raccontarmi le sue impressioni sulla nuova musica dei The Haunted. “Dal nostro punto di vista ‘Strength In Numbers’ è un bel salto di qua-
lità rispetto al nostro precedente disco. Infatti, è quello che avrebbe dovuto essere nelle nostre intenzionali ‘Exit Wounds’, ma non abbiamo avuto tempo per farlo
come volevamo. In realtà è stato l’album del nostro rientro sulle scene, un modo per dire che ci siamo. In definitiva ‘Strength In Numbers’ è più potente e veloce, ma anche più definito nei suoni. Abbiamo ottenuto questo risultato anche grazie ad una formazione diversa, ognuno ha potuto apportare il proprio contributo in maniera significativa anche per via di una migliore e progressiva coesione dei membri stessi all’interno del gruppo.” Sono ormai trascorsi quattro anni dall’inserimento del chitarrista Ola Englund, oltre che dal suo rientro e quello di Adrian Erlandsson. Gli chiedo quindi se il tempo abbia aiutato il gruppo a consolidarsi: “Certo. Ola è l’unico membro a non aver mai fatto parte della band prima, ma allo stesso tempo ormai è come se fossimo amici di vecchia data. Con la band ci divertiamo davvero tanto.
a I testi che ho scritto riguardano la mi ze vita privata, il mio passato di dipenden e dalle droghe, la lotta con i demoni ch in fondo è un tema universale... - marco aro Quando ci ritroviamo, magari anche dopo un periodo lungo che non ci vediamo, nulla è cambiato, tra noi c’è sempre un feeling fantastico.” L’impressione è dietro alla forza del nuovo album si nasconda altro. Chiedo quindi a Marco se è cambiato anche il mondo in cui è stata composta la nuova musica. “Tieni conto che il nostro precedente, ‘Exit Wounds’, lo avevamo messo in piedi scambiandoci dei tape a distanza via internet. Siamo stati molto più fortunati stavolta. Abbiamo avuto due differenti tour, uno con Arch Enemy e un altro con i Meshuggah. Così abbiamo avuto modo di suonare prima dei concerti nei momenti di pausa. È stato quindi un lavoro collettivo e con approccio molto più vicino a quello live.” Non è solo più potente, ma c’è anche una maggiore definizione nei suoni. Se prendiamo, infatti, in considerazione la title-track è possibile sentirci dentro tutti gli strumenti, persino il basso che spesso viene trascurato nelle produzioni death metal: “Gran parte del merito va al produttore Russ Russell. Quando abbiamo iniziato a completare la musica del nuovo album, abbiamo pensato che il risultato finale avrebbe dovuto essere qualcosa di duro, estremo, ma allo stesso tempo doveva risultare il più pulito possibile e un produttore di lunga esperienza come Russ, ci sembrava davvero perfetto per ottenere un risultato del genere. La produzione è uno di quegli aspetti cui abbiamo voluto porre parti-
colare attenzione.” Dietro alle molteplici interpretazioni possibili del titolo ‘Strength In Numbers’ domando ad Aro cosa si nasconda e se vi sia una connessione con i testi: “Viviamo in tempi particolarmente difficili e il titolo in qualche modo si riferisce alla necessità di cercare un’unità nella moltitudine. La nostra forza deve essere quelle di rimanere uniti. Non possiamo più isolarci. È quello a cui ci riferiamo con la forza dei numeri. Si tratta quindi, spero, di un messaggio positivo. Volevamo poi che la copertina ricordasse il passato con un manifesto di propaganda come negli anni ‘40, qualcosa di semplice, immediato e potente. Come la nostra musica. Per quanto riguarda i testi, invece, non potevamo raccontare ancora storie di serial killer, lo abbiamo già fatto. Quelli che ho scritto riguardano la mia vita privata, il mio passato di dipendenze dalle droghe, la lotta con i demoni che in fondo è un tema universale e può avere diverse interpretazioni. Pongo molta attenzione in realtà ai testi. Oggi si può scrivere di tutto, ma è mia intenzione mettere in risalto qualcosa che sia importante per me e per le altre persone.” Sposto l’attenzione del cantante svedese verso l’attuale scena musicale per comprendere, vista anche la sua esperienza di lungo corso, se sia cambiato qualcosa negli anni: “Oggi c’è più competizione ed è un bene. Ci sono molte più band che suonano e lo fanno a un buon livello. Allora
devi fare qualcosa di davvero speciale, non puoi creare un album nella media se vuoi essere ancora notato. Così devi migliorare sotto ogni aspetto... se non vuoi essere dimenticato. Nei The Haunted poi ci sono musicisti talentuosi che non vogliono di certo fermarsi, ma bensì progredire. Ed è una cosa sicuramente importante per stare al passo coi tempi.” Lo riporto al passato non poi così remoto dei The Resistance di cui faceva parte l’ex chitarrista degli In Flames, Jesper Strömblad. Come sospettavo si tratta di un terreno minato e Marco glissa piuttosto velocemente: “Purtroppo c’erano davvero troppe cose che non andavano allora. La situazione è andata peggiorando con il tempo. In realtà ancora oggi ascolto gli album che abbiamo fatto assieme e ritengo siano davvero grandi. Un peccato davvero, ma non c’erano allora le condizioni per andare avanti, troppi problemi.” Chiudo la conversazione cercando di scoprire le sue origini di musicista e ascoltatore, chiedendogli com’è nata la sua passione per il metal: “La prima band metal che ho mai sentito sono stati gli Iron Maiden. Poi ho ascoltato per tanto i generi punk rock e hardcore. Quindi la svolta, quando ho iniziato ad ascoltare gli Slayer, non avevo mai sentito nulla di così veloce e brutale come loro. Sono proprio gli Slayer con ‘Reign In Blood’ e i primi Morbid Angel ad aver dato il via al death metal e avermi avvicinato in fondo al genere.”
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Dopo l'acclamato 'War Eternal' gli Arch Enemy Tornano con un disco compatto e di stile intitolato 'Will To Power'. li abbiamo incontrati a Milano per scoprire la genesi del loro nuovo capitolo discografico.
Pronti per
Milano, metà lu infernale soffoca capoluogo lomb di giornalisti è c raccolta per inco band al gran com presentazione d album. Si tratta Enemy, che torn 2017 con 'Will T
DOMINARE
di Stefano Giorgianni
Milano, metà luglio. Un caldo infernale soffoca, opprime il capoluogo lombardo e un’orda di giornalisti è chiamata a raccolta per incontrare una band al gran completo per la presentazione del nuovo album. Si tratta degli Arch Enemy, che tornano in questo 2017 con ‘Will To Power, disco che succede all’album dello stravolgimento per la band di Michael Amott, full-length con il quale si è visto l’innesto di Alissa White-Gluz alla voce, in sostituzione della storica Angela Gossow. Tutti e cinque i componenti del gruppo ci attendono nella hall di un hotel milanese, in totale relax e con la voglia di discutere di quest’ultima
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fatica. Come prima cosa ci concentriamo sul lungo tour che ha seguito la pubblicazione di ‘War Eternal’. Durante una serie di concerti così prolungata e, naturalmente, estenuante, è possibile che una band come gli Arch Enemy tragga ispirazione da episodi avvenuti on the road oppure dagli incontri con i numerosi fan accorsi agli show. In questo caso sono Sharlee D’Angelo e Michael Amott a esordire: “In realtà è un misto di diverse cose, quando scriviamo non ci focalizziamo su una cosa sola. Le nostre canzoni inglobano diverse idee o esperienze, magari da ciò che accade in un determinato giorno e in
un momento preciso”. Poi è Alissa ad aggiungere che “succede a tutti. Ogni giorno ci alziamo e ti alzi diverso dalla giornata precedente perché qualcosa può averti cambiato o segnato. Questo influisce tanto sullo scrivere la musica quanto quel che riguarda i testi, che sono con tutta probabilità ancora più determinati dalle nostre esperienze personali. Per quanto concerne me, posso dirti che ogni concerto per me è una prova, ogni prestazione mi dà la spinta per migliorarmi come persona e musicista, e questo credo valga per tutti noi.” Continuiamo la conversazione, rimanendo
uglio. Un caldo a, opprime il bardo e un'orda chiamata a ontrare una mpleto per la del nuovo degli Arch nano in questo To Power, disco
in argomento tour e ci focalizziamo su particolari sezioni delle canzoni di ‘Will To Power’ che possono essere state trovate durante gli scorsi mesi in giro per il mondo. È sempre il chitarrista Michael Amott a inaugurare la conversazione: “Di certo c’è qualche riff, mi capita spesso di suonare e registrarli sul telefono quando li trovo particolarmente interessanti. A essere onesto devo dire che non riesco a scrivere canzoni intere durante i tour. Questo perché il più delle volte si è stanchi, si fa fatica a trovare la concentrazione giusta per raffinare le idee. Molti non riescono a capire come siano strutturati i tour. Oltre a suonare sul palco ci sono altri eventi collaterali, come le signing session, i soundcheck, c’è anche la vita di tutti i giorni, come lo sport o
semplicemente andare a fare compere veloci o una doccia, e tutto deve essere incastrato alla perfezione. Insomma, c’è poco tempo per mettersi giù ad annotare brani interi, belli e pronti. Anche se so che ci sono persone abituate a farlo. È differente per ognuno di noi. Comunque, a volte, ci mettiamo nei backstage a provare qualcosa di nuovo. A volte mi trovo a registrare delle idee che poi riprendo i mano e peno ‘che diavolo è questa roba?!’.” Circa trecento concerti, un live album e ora il nuovo disco da studio; il tutto in soli tre anni, facciamo una battuta rievocando gli Accept, dicendo ai ragazzi che sono ‘restless and wild’ e Michael risponde divertito: “Be’, selvaggi non più molto, però abbastanza instancabili.” Ci concentriamo poi su alcuni
pareri singoli relativi alla nuova fatica discografica, ‘Will To Power’, e chiediamo ad Alissa di quale direzione musicale abbia intrapreso l’album, secondo lei, ora che abbiamo il prodotto finito tra le mani: “Sai, me l’hanno chiesto anche qualche tempo fa, prima che il disco venisse terminato del tutto”, confessa la vocalist, “e ancora oggi faccio fatica a rispondere di preciso. Per i giornalisti è forse più facile da dire, visto che ascoltano il prodotto finito. Per noi è diverso, invece. Ci lavoriamo per mesi e mesi, con stati d’animo diversi, io ci sono ancora dentro e, a dir la verità, è arduo uscire dall’intero processo. Di certo so che amo questo disco, ciascuna canzone al suo interno ha il suo motivo per essere lì, i testi, l’artwork, quando si vede tutto insieme
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l'eterogeneitA’ di suono ha sempre fatto parte degli
Arch Enemy. allora si riesce a capire ciò che si è fatto. Non è solo il fatto di mettere piede in studio e registrare una decina di pezzi. C’è da decidere tutto, persino per le foto, che tipo di scatti si vuole o quale tipo di sfumature queste debbano avere. Tutti questi dettagli vanno a comporre l’album, per questo dare un parere preciso è faticoso.” Parlando con molte persone, sia con colleghi prima dell’uscita del disco che con fan dopo la pubblicazione di ‘Will To Power’, ci si è accorti che esistevano due “fazioni” per quel che riguarda l’approccio stilistico che gli Arch Enemy hanno voluto dare al full-length. Alcuni sostenevano che questo disco è un ritorno alle vecchie sonorità, altri una prosecuzione di ciò che è stato fatto con ‘War Eternal’. Come spesso accade, la realtà sta nel mezzo. Michael a questo proposito afferma che “abbiamo già toccato parte dell’Europa e parlato con molte persone, ed è vero che ci sono diverse impressioni in merito. Dico che questo ci ha anche abbastanza confuso le idee.” Azzardiamo allora a dire che, per quanto pensiamo, questo nuovo album appare più come un mix dell’intera carriera degli Arch Enemy; sia Alissa che Michael di danno ragione in tal senso: “È vero, anche per noi è una giusta mistura di ciò che
- Michael Amott abbiamo fatto finora. Non si può negare che ci sia un bel po’ di diversità all’interno del disco.” Alissa poi dichiara che “nonostante il materiale possa sembrare eterogeneo, questa è la stessa band di prima. Credo sia una buona cosa, comunque, che le persone trovino qualcosa di nuovo o diverso nel disco, ecco.” Michael a questo punto si butta in mezzo alla conversazione con una sola parola “Resisti”, che scatena l’ilarità generale e Alissa risponde con un “non sto cercando di fare confusione alla gente”. Di seguito Sharlee si allaccia alla discussione, affermando che “magari ci dicono che un riff può sembrare qualcosa riconducibile al nostro primo o secondo album, però dobbiamo considerare anche il fatto che la diversità, l’eterogeneità di suono ha sempre fatto parte degli Arch Enemy. Non ci siamo mai fermati a considerare una sola opzione per il nostro sound, abbiamo sperimentato di continuo, restando in ogni caso nei limiti. Non abbiamo mai usato un solo tipo di riff o linea melodica”, qui Michael continua, dicendo che “basta pensare alla musica classica e delle componenti di quest’ultima che abbiamo di tanto in tanto inserito nei pezzi. Quando scriviamo cerchiamo diversi colori o sfumature.” Tentando di legare gli ultimi due dischi, chiediamo soprattutto a Michael se ci sono delle idee messe da parte dai tempi di ‘War Eternal’, come gli stessi riff, o se non è presente nulla del vecchio materiale: “Avevamo qualcosa dal precedente album non utilizzato, però è sempre difficile far combaciare spunti passati con le nuove idee.” Alissa interviene, suggerendo che “forse non le abbiamo usate perché non erano forti abbastanza” e Sharlee aggiunge che “sono anche cose che avevano cinque o più anni, non
le sentivamo più nostre o non si adattavano bene.
se può capitare che si recuperino riff di dieci ciascun disco degli Arch Enemy e’ frutto Anche anni prima perché quello è il momento giusto per adoperarli.” Rivolgendoci sempre a Michael, gli Delle emozioni e delle coscienza comune poniamo la questione di un nuovo capitolo per la carriera degli Arch Enemy, suggerito di frequente sia ai tempi dell’uscita di ‘War Eternal’ che in questa di quel determinato momento. circostanza. “Vedete, ai tempi dello scorso disco è
stato diverso. Me ne sono un po’ fregato di quello che la gente poteva dire. Se non gli piaceva l’album o Alissa, si doveva considerare l’unica altra opzione disponibile, ovvero lo scioglimento. Si trattava di dire ‘grazie di tutto, è stata una bella carriera, Angela se ne va, non faremo più musica assieme’ o andare avanti in un altro modo. Questo è quello che abbiamo scelto di fare. Avevamo già alcune demo pronte, Angela ha raccomandato Alissa e abbiamo tentato. Ora è diverso. ‘War Eternal’ è stato un buon successo, partiamo da una base più solida. Non so se considerarla l’apertura di un nuovo capitolo per noi”. Sharlee prende la parola e afferma che “se ci doveva essere un nuovo capitolo, questo doveva essere ‘War Eternal’, a causa dei grandi cambiamenti, anche se credo ci siano state diverse ‘prime volte per noi’.” E parlando di prime volte, non potevamo non nominare un pezzo in cui Alissa canta con voce pulita all’interno di ‘Will To Power’: “La canzone è di sicuro potente”, dichiara la cantante, “e credo ci sia gente che non sa che io sono in grado di cantare così, anche se l’ho fatto per più di quindici anni, quindi qualcosa di più di un hobby. Non è nulla di nuovo per me. Poi si può dire che l’abbiamo fatto perché ascoltiamo un sacco di musica diversa e alcune delle migliori metal band di tutti i tempi hanno sempre cantato in pulito, ad esempio Judas Priest o Metallica. Non c’è niente di sconvolgente. Non deve esserci una guerra fra il “no,
-Alissa White-Gluz
CURIOSITa’: Gli Assoli di Jeff Loomis Il guitar hero Jeff Loomis è entrato negli Arch Enemy per sostituire Christopher Amott e, nonostante facesse parte della band, non ha contribuito al songwriting di ‘Will To Power’, trane che con i suoi funambolici assoli. Al riguardo ci dichiara che: “Ho avuto le demo da Daniele e Michael, e ho cominciato a lavorare su degli assoli che potessero ben adattarsi ai brani. Li ho composti per la maggior parte a casa mia, dunque ero già preparato quando mi sono recato in Svezia per registrare.” che schifo, non cantare così” e “oh, che bello, meglio in questa maniera”. Sharlee aggiunge: “Quando ero giovane, ero un die-hard fan degli Slayer e molti si sono scandalizzati quando un po’ di melodia e un cantato diverso è stato introdotto con ‘South Of Heaven’, e io stesso ho gettato via il disco, disgustato. Posso capire questo tipo di mentalità. Qualche anno dopo l’ho riascoltato e mi sono accorto che, in realtà, è un disco straordinario e credo ci siano alcuni dei migliori pezzi degli Slayer lì dentro.” Alissa ritorna, dicendo che “abbiamo creato la canzone sapendo che fosse differente, ma sapevamo che era pesante e intensa in una maniera sua, per questo crediamo che ai nostri fan possa piacere.” Michael poi precisa che “volevo scrivere una ballad da molto tempo per gli Arch Enemy, ma non ci riuscivo. Con la vocalità di Alissa siamo stati in grado di mostrare anche questa nostra faccia. Non è di sicuro una ballata commerciale, è un altro modo di far vedere le nostre emozioni al pubblico.” Si tratta per caso della famosa definizione ‘power ballad’, proponiamo: “In effetti ci siamo posti la domanda di come definire questa canzone”, dice Alissa, “ma non abbiamo trovato una soluzione precisa”. Quindi suggeriamo di chiamarla ‘Arch Enemy ballad’ “sì, ecco, forse questa è la definizione giusta”, afferma Alissa, divertita, e Sharlee rincara la dose, con aplomb: “Sì, sì, una tipica ballata alla Arch Enemy”. Finito questo siparietto, interroghiamo proprio il titanico bassista su una dichiarazione fatta qualche tempo fa, dove spiegava che ‘Will To Power’ è un album più ‘aperto’ rispetto al predecessore: “Sì, quello che intendevo dire in quella situazione era che in ‘War Eternal’ c’è un sacco di disperazione,
c’è una sorta di claustrofobia, mentre in quest’altro si respira un’aria diversa, c’è più speranza.” Questa è stata anche la nostra sensazione durante l’ascolto di ‘Will To Power’, oltre a più consapevolezza c’è anche più leggerezza di spirito che va a contrastare con la potenza sonora espressa dalle canzoni. Alissa tiene a precisare a questo proposito che “ciascun disco degli Arch Enemy è frutto delle emozioni e delle coscienza comune di quel determinato momento. ‘War Eternal’ per questo simboleggiava una sorta di K.O., mentre con ‘Will To Power’ ci siamo rialzati, ma essere messi al tappeto non è stata del tutto una brutta cosa perché siamo riusciti a esternare quello che provavamo in quel frangente. Far capire alla gente cosa succedeva nella nostra mente e nei nostri cuori. Molta gente prova quelle cose durante la vita, e ora aveva un disco cui aggrapparsi. Quindi, quando si scrive di avvenimenti particolarmente spiacevoli non è per lagnarsi, ma per lanciare comunque un messaggio positivo.” Michael aggiunge poi che “non siamo mai stati una band che canta di quanto la vita sia una merda o cose del genere. Qui si trattava di descrivere una battaglia, fra noi stessi, per noi stessi e per gli altri.” A questo punto si conclude la nostra chiacchierata con la band, che si dirige a pranzo nell’afosa Milano di metà luglio. In chiusura, dopo aver parlato con il gruppo del concepimento dell’album, possiamo affermare che ‘Will To Power’ ha molta strada davanti a sé e senz’ombra di dubbio avrà modo di farsi valere sui palchi della maggior parte dei paesi del mondo. Di certo, l’affiatamento che abbiamo potuto constatare fra i membri del gruppo è un bel punto d’inizio per questa notevole uscita discografica.
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LA PAURA IN AGGUATO di Marco Giono
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Tra il 1922 e il 1923, H.P. Lovecraft pubblica un racconto intitolato ‘La paura in agguato’. (‘The Lurking Fear’). Quasi un secolo dopo nascono i The Lurking Fear, una band death metal svedese che annovera nelle proprie file artisti provenienti da band quali At The Gates, The Haunted, Edge Of Sanity, Gods Of Macabre, Disfear e Bombs Of Hades. Un supergruppo, quindi. Tuttavia non nascono per sfruttare semplicemente la propria fama, il proprio lignaggio. Poco gli importa, infatti, che tra le proprie fila militino, tra gli altri, nomi storici quali il cantante Tomas Lindberg e il batterista Adrian Erlandsson degli At The Gates oppure il chitarrista Fredrik Wallenberg (Skitsystem) e il bassista Andreas Axelsson (Edge of Sanity, Tormented e Disfear). Per loro conta solo la musica, il loro death metal che prende vita dalla prosa straniante del maestro dell’horror, Lovecraft. Intervistato in una rovente serata d’agosto, Jonas Stålhammar, chitarrista e compositore dei The Lurking Fear, si rivela come uno di poche parole, ma sufficienti a rivendicare con orgoglio la volontà di voler andare oltre ad un disco d’esordio intitolato ‘Out Of The Voiceless Grave’ (pubblicato l’11 agosto via Century Media) e di credere in ogni singola nota creata con i suoi “nuovi” compagni di avventura. Come prima cosa voglio quindi indagare le modalità in cui il gruppo ha preso vita, come mai artisti così impegnati e con una fama di livello internazionale abbiano deciso di rimettersi in gioco: “Con gli altri membri della band ci conosciamo sin dai primi anni Ottanta. Siamo amici da
molto tempo, ma abbiamo iniziato a parlarne un anno fa, sentivamo la necessità di suonare assieme, creando musica che recuperasse in pieno le nostre origini. Alla fine abbiamo deciso di mettere assieme i The Lurking Fear. Non abbiamo mai avuto dubbi su quello che volevamo fare.” Già, e quello che volevate suonare è un death metal grezzo ed allo stesso davvero compatto. Tanto da sembrare lì da una vita. Jonas ci chiarisce come sono andate nel momento in cui si è ritrovato assieme ai suoi amici: “È quello che volevamo, niente di più, un death metal nella sua forma più grezza con un songwriting incisivo. Il risultato è una conseguenza diretta anche della chimica che vi è tra noi. Cosa che abbiamo sentito sin dalla prima registrazione. Siamo sulla stessa lunghezza d’onda anche in merito alla direzione musicale da prendere, come sulle tematiche che vogliamo affrontare.” Sin dal primo ascolto la musica dei The Lurking Fear risulta oscura ed epica allo stesso tempo, qualcosa che per atmosfere mi ricorda realmente Lovecraft. Chiedo a Jonas quindi di raccontarmi qualcosa sui testi: “Assieme a Tomas [Lindberg, voce degli At The Gates, ndr.], all’inizio, volevamo che i testi raccontassero quelle incredibili storie scritte da Lovecraft, che in realtà sono diventate poi sono diventate fonte di ispirazione per i nostri, abbiamo semplicemente cercato di catturarne lo spirito, senza però seguirne la trama in modo vincolante. Abbiamo voluto in realtà indagare e descrivere l’aspetto psichico della materia. Non si tratta però di un concept, ma le canzoni sono immerse nella stessa atmosfera e provengono comunque dal mondo di Lovecraft.” Non di certo un’impresa facile, entrare nella “testa” di Lovecraft. Chiedo quindi lumi sul processo creativo di ‘Out
CURIOSITA’: H.P. LOVECRAFT IN BREVE Malgrado oggi venga riconosciuto come uno dei più importanti scrittori horror di tutti i tempi, Lovecraft non ebbe molto successo in vita. Persino uno dei suoi più importanti scritti ‘Il richiamo di Cthulhu’ fu rifiutato dagli editori del tempo, in quanto ritenuto straniante. Ne conseguirono problemi economici che si sommarono a quelli di salute e affettivi. Una vita quindi che trovò conforto solo nella parola scritta e che a distanza di anni non smette di ispirare in tutta la sua forza l’arte stessa. A partire dal cinema con il grande regista Roger Corman che nel 1963 girò ‘La città dei Mostri’, uno dei primi film a ispirarsi ai racconti di Lovecraft. Negli anni a venire estese la propria influenza tentacolare anche alla televisione, ai videogiochi e alla musica. Infatti, il genere metal, nella sua attitudine estrema, ha una naturale affinità a musicare quelle storie, a dare vita a quelle atmosfere. Sono molteplici le band che si sono ispirate in modo più o meno diretto con lo scrittore americano. Ricordiamo tra le più famose: Iron Maiden, Metallica, Nile, Morbid Angel e tante altre.
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of the Voiceless Grave’: “Abbiamo iniziato a scrivere la musica poco dopo aver formato la band e visto che sapevamo che cosa volevamo, è stato molto facile. Abbiamo condiviso le idee tra di noi e siamo riusciti a scrivere diciotto canzoni in un periodo molto breve di due o tre mesi. Dopo di che abbiamo iniziato a registrare le demo e modellare le canzoni fino a ottenere ciò che volevamo. Dopo di che abbiamo cominciato a provare a fare le ultime correzioni. È quasi ridicola la facilità con cui siamo riusciti a fare l’album.” Tutto facile, ma visto anche le discendenze sin troppo famose dei membri del gruppo, il rischio potrebbe essere quello di risultare derivativi o semplicemente di autocitarsi. Chiedo quindi quali siano le muse, quali siano quindi le band cui si sono ispirati: “Quello che volevamo era di
fare una sorta di mix tra i primi Morbid Angel (quelli dell’era di ‘Abominations Of Desolation’) e l’atmosfera inquietante degli Autopsy, attualizzandola al 2017. Non si è trattato però di copiare, ma di avere un punto di partenza, qualcosa a cui semplicemente volevamo ispirarci. Alla fine abbiamo sentito che l’album nel suo complesso era molto forte. Non volevamo inserire canzoni riempitivo. Volevamo mettere su album solo i brani migliori.” Il loro nuovo disco è di certo di buon livello, un death metal forte, grezzo e antico, che rispetta in pieno i loro desideri, ma la cosa si esaurirà lì? Chiedo confermo a Jonas e ne approfitto per avere ulteriori informazioni sul loro tour: “Di certo questa è una band, non semplicemente un progetto. Certo suoniamo tutti in altre band, ma siamo tremendamente seri, crediamo in questo
gruppo. Per il momento abbiamo pianificato alcune date, suoneremo anche nei festival, ma speriamo di aggiungerne altre già quest’anno e ci piacerebbe davvero passare per l’Italia. Di certo vogliamo fare altri album e fare più concerti possibile.” In tutto questo racconto ho trascurato di chiedere a Jonas Stålhammar qualcosa in più sulle sue influenze e sui progetti futuri: “Le mie influenze come chitarrista sono piuttosto varie. Quando parliamo di death metal i miei artisti di riferimento sono tra gli altri: Trey Azagthoth, Uffe Cederlund e Eric Cutler/Danny Coralles. Poi mi piace anche altro: David Gilmour, Andy Latimer e Fast Eddie Clark. Musicisti del genere. Dopo i The Lurking Fear tornerò a suonare per le mie band: i Bombs Of Hades, Crippled Black Phoenix, i God Macabre e…ovviamente i The Lurking Fear.”
CURIOSITA’: LE NOBILI ORIGINI DEI THE LURKING FEAR ‘La paura in agguato (The Lurking Fear)’ è un racconto di H.P. Lovecraft scritto nel novembre del 1922 e pubblicato a puntate nell’anno successivo dalla rivista Home Brew. Lo scrittore narra le vecinde di un investigatore che deve risolvere il mistero della scomparsa di una famiglia, mentre in parallelo si succedono stragi compiute da una misteriosa creatura che compare al manifestarsi dei temporali. Il racconto inizia così: “Un tuono imperversava nella notte quando mi diressi verso la dimora abbandonata in cima alla Montagna alla ricerca della paura in agguato.”
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“il merito principale de ‘Il Sogno e l’Incubo - Vita e Opere di H.P. Lovecraft’ risiede nello scomporre e amalgamare in un flusso epistolare ininterrotto la particolare epopea di HPL, regalando al lettore un sguardo sull’abisso “ribollente di splendore rosa e ceruleo” del Copernico del genere horror.” Giovanni Ausoni - Spaziorock.it
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Ci sono momenti nella carriera di una band in cui si sente il bisogno di riavvicinarsi al proprio passato. Non tanto perché non si è soddisfatti di quanto creato fino a quel momento o in tempi più recenti, ma proprio per un fatto di riscoperta delle proprie origini. Questo viaggio i Paradise Lost l’hanno compiuto con il loro quindicesimo album, ‘Medusa’, un lavoro che guarda alle origini del gruppo più di tutta la produzione recente della band britannica. Seduto nella veranda di un bar del milanese, il cantante Nick Holmes ci spiega però che questo processo di ‘ritrovamento del passato’ è avvenuto principalmente grazie a un brano specifico contenuto sull’album precedente. “Dopo la creazione dell’ultimo album, il seme della canzone ‘Beneath The Broken Earth’ si è piantato a fondo nella nostra mente”. È il suo preambolo al riguardo. “È un pezzo chiaramente debitore del nostro passato,
e ci ha mostrato con quanta convinzione e con quali risultati potevamo di nuovo abbracciare quel tipo di musica. Era la musica che ci piaceva quando abbiamo iniziato, e siamo sempre stati bravi a trattare questo tipo di sonorità, come facevamo su ‘Shade Of God’ per intenderci. Certo, quanto imparato da noi negli anni non è stato dimenticato, e come risultato ‘Medusa’ è sì il nostro album più doomy, ma non si scorda però di quell’orecchiabilità e di quella melodia che ha caratterizzato anche le altre nostre uscite. Possiamo dire che ‘Medusa’ è un disco che guarda al passato, ma con l’esperienza di venticinque anni di carriera”. Riabbracciare la musica di un ventennio prima però può essere difficile, soprattutto se le motivazioni e l’approccio con cui si compone non è più lo stesso. Nick sembra essere consapevole di ciò, e infatti non nega la nostra affermazione, anzi la am-
plia. “Il punto principale è che cambia il motivo per cui fai certa musica”, ci conferma, “Quando sei all’inizio, la risposta classica del musicista è che fa musica per se stesso. Non ci sono aspettative, non ci sono interessi se non i propri. Andando avanti, queste aspettative e interessi arrivano, e se la band cresce e diventa famosa si dice spesso che c’è il rischio di perdere le tracce di ciò che si è, e del perché lo si facesse in un certo modo. Questo traccia una linea sottile su cui camminare: perdere la propria personalità non ti permette certo di vendere qualche copia in più o di piacere a più gente, così come neanche fossilizzarsi su una sola cosa ti renderà una band appetibile a un audience che si aspetta sempre qualcosa di nuovo. La strada da percorrere, se rinnovarsi o restare “fedeli alla linea” non va mai in una sola di queste due direzioni. È più che altro il risultato
usa’ i britannici Grazie al nuovo album ‘Med gnato Paradise Lost toccano l’ago bum in traguardo del quindicesimo al ue di questa carriera. Approfittiamo dunq leader Nick occasione per sottoporre il mande. Holmes a un fitto fuoco di do
Nel di
regno Medusa di Dario Cattaneo
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di un accorto bilanciamento.”. C’è tanta convinzione e anche tanta autoanalisi dietro queste parole. È venuto spontaneo chiedere quindi se l’amore per questo tipo di musica è ancora lo stesso che agli esordi, o se anche i gusti sono cambiati insieme con le motivazioni. “Guarda Greg (Mackintosh, compositore principale) è di sicuro preso da questo tipo di musica: doom, death, sludge, roba pesante, cupa e ossessiva. Se si parla di me e di questo genere di musica. Be’, chiaramente mi piace, finisco però per ascoltare sempre ciò che ascoltavo più di vent’anni fa, i dischi di questo genere degli Anni ’80 e ’90. Ovviamente ascolto anche musica nuova, non sono qui a dirti che il rock è morto un ventennio fa, ma per queste sonorità in particolare non trovo che ci sia stata un’esplosione di chissà quante band valide. Personalmente credo di avere gusti piuttosto vari, anche se la
matrice rock e metal è sempre prevalente. Ecco, da ascoltatore direi che non mi piace il thrash. Il thrash tecnico. Trovo che abbia poco da dire. Non è proprio il mio genere, ecco”. Un comparto da sempre interessante quando si parla dei Paradise Lost è quello lirico. Da ‘Gothic’ ci siamo abituati decisamente bene, con liriche e temi trattanti spesso la religione o temi molto introspettivi. Ci chiediamo quindi quale sia la fonte d’ispirazione principale per Holmes. Un’inaspettata risposta non tarda ad arrivare. “Non c’è una fonte di ispirazione che trovo costante nella mia vita…”, esordice, “Di carattere, sono una persona un po’ volatile: ho una capacità d’interesse limitata, ed è difficile trovare un tema che mi interessi costantemente negli anni perché col passare nel tempo mi interesso spesso a cose diverse. Questo è però un discorso che non si applica
per la religione, che appunto è un tema ricorrente nelle liriche dei Paradise Lost. Il tema della religione non cambia negli anni, i problemi e le incongruenze collegate sono sempre quelle, e mi trovo a mio agio a parlarne. È decisamente un argomento su cui ho sempre qualcosa da dire, ecco”. Ma quindi Nick si considera una persona fondamentalmente anti-religiosa? “Trovo che la religione, intesa in senso generale, abbia degli aspetti validi e comprensibili”, ci risponde contraddicendoci. “Ma l’agire usandola come motivazione trovo sia terribile. Uccidere nel nome della religione è un qualcosa che non riesco proprio a comprendere, ad esempio. Va oltre le mie possibilità. Trovo però condivisibili alcuni aspetti del paganesimo dei tempi passati. Voglio dire, gli uomini primitivi adoravano divinità legate ad aspetti importanti della loro sopravvivenza. I campi, il raccolto,
"Il tema della relig ione non cambia negli anni, i problemi e le incongruenze c ollegate sono sempre quelle ”
-nick holmes
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ella religione d e m o n l e n e r e id c “Uc on riesco è un qualcosa che n ere.” proprio a comprend -nick holmes il ciclo giorno/notte, oppure i disastri naturali, eruzioni e alluvioni. Questo approccio lo comprendo, perché davanti a forze oltre il proprio controllo, l’uomo sente un desiderio di sicurezza che sazia cercando di blandire queste forze con offerte e lusinghe. Non condivido questo approccio, non sono certo un seguace del paganesimo preistorico, ma trovo l’approccio in sé sensato. Dopotutto, quegli uomini possono vedere il sole, possono vedere la terra, sono cose tangibili, solo fuori dal proprio controllo”. Nick ci racconta anche che, secondo lui, il problema risiede nel fatto che globalmente si cerca troppo spesso di portare l’aspetto religioso fuori dalla sfera personale, dove invece dovrebbe stare. “Fondamentalmente, penso che la religione sia una cose personale”, ci dice infatti. “Dare un nome e un volto a ciò che non si comprende è lecito, risponde a un bisogno comprensibile. Se tu vuoi farlo, per me va bene. Se hai paura della morte, e la convinzione che comportandoti in un certo modo ti permetterà, dopo la vita, di stare in un posto migliore, buon per te. Ma è un affare tuo, non di altri. È personale. Usarla come motivazione per muovere altre persone in virtù di ciò in cui credi… è semplicemente sbagliato. Questo pensiero fa di me un ateo? Può essere, non credo in un Dio come lo chiamano gli altri, ho delle mie idee a riguardo,
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però, che sono solo mie”. Ritornando sul discorso musicale, emerge di nuovo il discorso sul cupo pessimismo che rappresenta il volto attuale dei Paradise Lost. Un volto che però, Holmes ci dice, non è per niente lo specchio del carattere dei singoli musicisti. “La musica non rappresenta la personalità di un artista per nulla!”, commenta a riguardo. “Non è che componendo musica doom, pesante e rallentata, sono per forza una persona triste. E non credo nemmeno che i Beach Boys, che fanno canzonette allegre e spensierate, abbiano una vita tutta sole & surf & bermuda che ci immaginiamo. La nostra musica, come i suoi temi, provengono da gusti personali. Da adolescente adoravo i film dell’orrore, le tematiche oscure, e un certo tipo di pensiero filosofico come quelli di cui parlavamo prima, logico che poi io ci cerchi in questa passione un suolo fertile per le mie canzoni. Ma i gusti, le passioni, sono una sorta di escapismo dalla realtà quotidiana e da come siamo fatti veramente… in realtà a me, come a Greg e agli altri, piace un sacco ridere, come puoi immaginare. Siamo persone normali, dopotutto. Cazzoniamo un sacco in tour, ci facciamo scherzi idioti… ma, ecco, non ci piacerebbe parlarne nelle canzoni. E poi, scusa, se fossi triste, pessimista e miserabile come i miei testi mi fanno apparire, non pensi che non sarei qui dopo 25 anni ancora a
fare questa musica? Di sicuro non sarebbe una cosa che mi rende felice…”. Con questa arguta risposta, il tempo a nostra disposizione va a concludersi. Riagganciandoci però alle sonorità oscure e a tratti anche solenni di ‘Medusa’, chiediamo ad Holmes se, in occasione dei festival estivi, non teme forse che queste possano subire un danno da un posizionamento sbagliato in scaletta. Dopotutto, a poche band gothic piacerebbe suonare in pieno giorno sotto il sole: “Non dici niente di nuovo, lo sappiamo tutti che lo slot migliore è quello serale sul palco principale…”, mi rimprovera scherzosamente lui. “Così come è altrettanto chiaro che band come la nostra non prendono molto spesso questo slot. Comunque è una questione di cercare di ottenere il massimo possibile da ogni situazione. Se chiedi un mio parere, ti dico che preferisco suonare su un palco piccolo di notte piuttosto che sul main stage di giorno, ma è un gusto personale, e non sempre questo corrisponde a ciò che è meglio per la band. Diciamo che abbiamo avuto entrambe le esperienze. Abbiamo suonato sul palco principale alle 11 con pochi fan e addormentati, così come abbiamo suonato alle 21:30 su un palco secondario, ma mentre sul principale si esibivano i Black Sabbath. È andata male? No, in nessuno dei due casi. L’importante è solo fare un bello show…”.
di Andrea Schwarz
ProgSpective
Se dovessimo fare un sondaggio chiedendo quale sia la band prog metal più famosa al mondo, non ci sarebbero dubbi: i Dream Theater sarebbero il nome più gettonato, sicuramente. Ci sono altre band per così dire di prima fascia che comprendono nomi illustri come Queensrÿche e Fates Warning...e poi? Comincia così un sottobosco di gruppi dediti al genere che per svariati motivi non sono riusciti a raggiungere il tanto agognato “posto al sole”, vuoi per oggettive incapacità compositive vuoi per la mancanza di esposizione mediatica tale da poter vedere riconosciute le proprie oggettive capacità musicali. I Threshold sono una band che è riuscita nel corso della sua venticinquennale carriera a raggiungere uno status quasi di cult band trovando successo e notevoli riscontri tra i cultori del genere senza peraltro ‘sfondare’ proprio questo sottilissimo confine tra i cosiddetti die hard fan e coloro che seguono il metal a tutto tondo. Uno dei limiti che ne ha in un certo senso tarpato le ali è stato certamente l’instabilità e i svariati cambi di line-up, basti pensare che al microfono si sono avvicendati dal 1993, anno di pubblicazione del loro debut album ‘Wounded Land’
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ben tre vocalist: Damian Wilson, Glynn Morgan, Andrew McDermott. Certo, questi avvicendamenti mischiati di tanto in tanto a un ritorno dietro al microfono dei vari Wilson e Morgan hanno saputo donare colori e sfumature diverse e per alcuni
aspetti inattesi alle musiche che il duo Karl Groom - Richard West ha saputo comporre disco dopo disco. Ebbene sì, in questo turbinio di avvicendamenti questi due musicisti sono stati gli unici che hanno invece marchiato a fuoco ogni composizione che i Threshold abbiano pubblicato
dal 1993 a oggi. Karl Groom, chitarrista già conosciuto per aver militato in band come Landmarq, Pendragon e Shadowland, con le sue taglienti e precise chitarre unite alle tastiere di Richard West sono riusciti a produrre un sound
unico che pochi altri gruppi posseggono, un suono epico con assoli melodici e quei breaks di pinkfloydiana memoria che rendono affascinante ogni loro uscita discografica. Durante oltre venticinque anni, i Threshold hanno vissuto momenti di grazia compositiva alternati ad altri nei quali si è temuto
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G MUSIC
addirittura lo scioglimento tanto scarse erano le informazioni che riguardavano il quintetto britannico ma fin dal proprio esordio i Threshold hanno saputo far parlare di sé gli amanti del genere. Diciamo che durante i primi 3 album, fino a quel ‘Extinct Instinct’ del 1997 che vedeva impegnato Damian Wilson prima dell’abbandono e il suo clamoroso ritorno il suono era più rarefatto, la produzione meno curata ed essenziale mentre dal successivo ‘Clone’ del 1998, il primo di una lunga serie con al microfono Andrew McDermott i suoni cominciano a trovare una connotazione più personale, per uno stile che ancora oggi li contraddistingue nel panorama prog, non solo metal. Il loro debutto è un po’ un fulmine a ciel sereno nel metal e fin da quel momento vengono additati come la risposta inglese al prog metal Made in USA dei Dream Theater che l’anno prima avevano pubblicato il seminale ‘Images & Words’ anche se le differenze sono notevoli: al quintetto inglese non fanno difetto complicate strutture armoniche e compositive, ma a differenza del combo statunitense la band di
Groom e West presentano un ‘taglio’ maggiormente metal, basti pensare alle twin guitars di Karl Groom / Nick Midson che lasciano ampio spazio alle tastiere mai scontate di Richard West, un’attenzione maniacale verso gli arrangiamenti che così donano profondità agli otto brani qui presenti. Le tematiche che legano la
quasi totalità dei brani riguarda lo status di salute del pianeta Terra, precursori di una tematica che negli anni a venire verrà trattata su larga scala in campo musicale ed artistico in generale. Dietro le pelli troviamo Tony Grinham per la prima e unica volta nella loro lunga discografia, il suo drumming è preciso ma suona a tratti artificiale per un album che è ancora oggi godibile, un connubio perfetto tra sezioni prettamente metal unite magistralmente a parti melodiche di primo livello come dimostrano canzoni come ‘Consume To Live’ o l’epica ed eccellente ‘Sanity’s Ends’ che con i suoi ben dieci minuti risulta essere il miglior compendio del suono Threshold, un autentico manifesto sonoro. Il loro momento di grazia compositiva prosegue solamente un anno dopo con ‘Psychedelicatessen’, un album che vede un nuovo vocalist in Glynn Morgan al posto del defezionario Damian Wilson (che tornerà nel successivo ‘Exctinct Instinct’ del 1997) così come vede alla batteria Nick Harrandence, anche lui solo per questo album come avvenuto per Tony Grinham. Forse non tutti all’inizio sono rimasti soddisfatti delle doti vocali di Morgan, sfoggia una timbrica maggiormente metal rispetto a quella più prog di Wilson, non è neanche tra i migliori album prodotti ma contiene al proprio interno degli autentici must. Il sound non si discosta molto da quanto già espresso nel precedente debutto, c’è la tendenza a mettere in risalto maggiormente il loro lato prettamente metal piuttosto che prog, non ci sono pezzi epici come la già citata ‘Sanity’s End’
ma le potenti e atmosferiche tastiere di West trovano maggiore spazio, ‘Sunseeker’ e ‘A Tension Of Souls’
possono essere considerati i momenti più interessanti di un album heavy che ha il solo difetto di stentare un po’ nelle linee melodiche. ‘Extinct Instinct’ del 1997 vede il ritorno di Damian Wilson, non a caso in generale ci troviamo di fronte a un album più marcatamente progressive rispetto al precedente ‘Psychedelicatessen’, nonostante le chitarre di Midson e Groom abbiano trovato un suono più metallico che mai senza tralasciare un ritorno prepotente al gusto melodico che li aveva fatti conoscere con il proprio debutto. Il sound della band comincia qui a delinearsi maggiormente, a trovare epicità in una struttura compositiva varia e personale, raramente si scende sotto i sei minuti dove cambi di tempi, arpeggi, parti soliste di chitarra e atmosferiche tastiere colorano ogni singola nota. Mai domi, ‘Clone’ arriva nel 1998 e vede al microfono l’arrivo di Andrew McDermott, un cantante dalle tonalità più potenti riuscendo nell’intento di dare nuove colorazioni e sfumature ad un sound che
progredisce sempre più. ‘Clone’ è un disco che contiene al proprio interno alcuni cambiamenti che trovano in ‘Hypothetical’ del 2001 il proprio compimento: un bilanciamento perfetto tra heavy metal riff che debordano in ogni dove coniugati a un eccellente e mai banale senso melodico. Forse l’album da cui partire per scoprire le varie sfaccettature che compongono il sound dei Threshold. Da ‘Hypothetical’ in poi il sodalizio con Andrew McDermott continua ininterrotto fino al 2007 con la pubblicazione di ‘Dead
Reckoning’, prima della prematura scomparsa di quest’ultimo a causa di una grave malattia il 3 agosto
2011. Finalmente, a partire proprio da ‘Hypothetical’ anche il mondo discografico si accorge di loro, è così che sia l’Inside Out che la Nuclear Blast (loro attuale etichetta discografica) li mettono sotto contratto donando maggiore esposizione ‘mediatica’ senza evitarne l’etichetta di cult band. Il primo decennio degli anni duemila li ha visti
pubblicare ben tre album (‘Critical Mass’/2002, ‘Subsurface’/2004, ‘Dead Reckoning’/2007) affinando sempre più il proprio stile compositivo tralasciando un pò il loro senso per la melodia strizzando maggiormente l’occhio al loro lato più metal fino a un buco di ben cinque anni culminati con il ritorno di Damian WIlson per quel ‘March Of Progress’ del 2012 che ha visto un ritorno ad un sound più vicino a ‘Hypothetical’ del 2001. E non è stato un passo indietro, anzi è da considerarsi come un notevole passo in avanti, uno dei migliori album che i Threshold abbiano composto grazie anche a un Damian Wilson che ha migliorato considerevolmente le proprie doti vocali. Un ritorno atteso fortemente che non delude le numerose e grandi aspettative intrinseche in cinque anni di assenza, prendete ad esempio la conclusiva ‘The Rubicon’: Karl Groom riesce a comporre uno dei migliori riff della sua intera carriera, Richard West si produce in una sezione del brano con un organo da chiesa che fa venire la pelle d’oca coadiuvati da una band in perfetta e smagliante forma. ‘For The Journey’ del 2014 è il secondo album consecutivo di Wilson dal suo ritorno, è un album che non brilla ma che ricalca fedelmente lo stile compositivo del quintetto britannico, dopo un disco entusiasmante come ‘March Of Progress’ ci si poteva aspettare un po’ di più ma ogni fan dei Threshold ha potuto trovare la tipica produzione Groom/West, classico prog metal con numerose canzoni up-tempo senza peraltro far gridare al miracolo. Ed ora, a distanza di ben tre anni ed un clamoroso ritorno al microfono di Glynn Mogan ci troviamo di fronte a ‘Legends Of The Shires’, ma per parlarne approfonditamente vi rimandiamo alla recensione per una disamina più completa, un album che possiamo già considerare tra i loro migliori album di sempre. Threshold, un gruppo da amare e da scoprire per coloro che abbinano al termine prog metal i soli Dream Theater….c’è ancora tanto da scoprire, avvicinatevi, non abbiate paura…..non ne rimarrete certo delusi, anzi!
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@ BORRE, VESTFOLD, Norvegia 17/18/19 agosto 2017
di Sofi Hakobyan e Stefano Giorgianni Foto di Stefano Giorgianni
Alla vigilia della partenza per il Midgardsblot festival non sapevamo di preciso cosa aspettarci. Di certo l’emozione era alta, perché ci immaginavamo di dover vivere un’esperienza diversa da quella delle solite manifestazioni cui eravamo abituati. Sin dall’inizio possiamo però dire che le aspettative sono state soddisfatte e che hanno addirittura sorpassato le previsioni. Il Midgardsblot si svolge in un’area che è a tutti gli effetti museale, ovvero quella del cimitero di Borre, un parco di 18200 metri quadrati dove sorgono tumuli funerari di epoca vichinga e già da qui si può intuire quale sia il tema che sta alla base dell’evento. Si tratta di una tre giorni interamente dedicata alla cultura degli uomini del Nord, con stand dedicati (dove si possono trovare pietanza cucinate con i metodi del tempo) e concerti di band che hanno, chi più chi meno, a che fare con il cosiddetto viking (e folk) metal. La suggestiva atmosfera è data in gran parte dalla location e dagli eventi collaterali che sono collocati fra le esibizioni dei gruppi, fra questi rievocazioni con combattimenti in puro stile vichingo e brevi recite delle antiche saghe nordiche da parte di moderni scaldi norvegesi. Il primo giorno approdiamo da Oslo in traghetto, giungendo al comune di Horten, un piccolo centro marittimo-industriale cui fa riferimento la località nella quale è ospitato il festival. L’epicentro dell’evento è circa a una mezz’ora a piedi e totalmente immerso nella natura tipica della contea di Vestfold. Una volta ritirati gli accrediti ci incamminiamo verso la zona della Gildehallen, la grande sala di Borre, vero fulcro della location del Midgard Historisk Center. L’edificio è una fedele ricostruzione di una sala dell’idromele di epoca vichinga, assai suggestiva dal di fuori e ancor più spettacolare all’interno, grazie ai numerosi intarsi presenti.
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La prima giornata del festival non prevede molto a livello musicale, poiché il vero evento della giornata è l’affascinante cerimonia di apertura, in cui si invitano gli dei a benedire la manifestazione soprattutto a proteggerla da una pioggia incombente. Chiamati a raccolta Freyja, Thor, Odino attraverso fiaccolate, canti, balli, tamburi che saturano l’aria e versi che urlano al cielo, il rito termina con i presenti invitati a prenderne parte con un’invocazione personale e a cospargersi del sangue del sacrificio per suggellare il patto con le divinità. Tra un’attività collaterale e l’altra, un pasto caldo, e qualche secchiata d’acqua che gli dei ci invieranno, per fortuna, soltanto per oggi.
Arriviamo quindi al concerto clou, quello di Kari Rueslåtten (5/10). La musica sognante della cantautrice norvegese s’impossessa della Gildehallen, mentre fuori il diluvio continua. La sala è gremita, non si capisce se più per la forte pioggia all’esterno o per la volontà di sentire la Rueslåtten, accompagnata solo da una chitarra, fatto sta che l’esibizione non resta particolarmente impressa.
M DAY TWO M Il giorno seguente ci dirigiamo di buonora verso la location, dove aprono le danze gli hardrocker Nan Madol (6,5/10). Ad attirare l’attenzione è di sicuro il cantante-batterista Kolbjørn Enge, mentre il genere proposto dalla band si snoda fra l’hard rock e il progressive, con dei riff doom che spiccano di tanto in tanto. A succedere sul palco sono gli ipnotizzanti Superlynx (6,5/10), provenienti da Oslo. A dominare la scena è la cantante-bassista Pia Isaksen, che conduce il gruppo nel lisergico stoner-doom già riscontrato nell’album uscito lo scorso anno ‘LVX’. Non per tutti di sicuro questi Superlynx, ma gli amanti di questa particolare forma di metallo li ameranno di sicuro. Ancora in trance data dall’esibizione del gruppo della capitale norvegese, ci concediamo un po’ di svago visitando gli stand di tatuaggi e merchandising presenti nell’area al di fuori della zona del palco, fino a spingerci a visitare la campagna adiacente sino a giungere al mare, che si trova poco distante dallo spazio riservato ai campeggi.
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È però scoccata l’ora del primo gruppo folk di quest’edizione del Midgardsblot, i Tengger Cavalry (8,5/10). Abbiamo già ospitato questo gruppo sulle nostre pagine con recensioni di alcuni dei loro lavori da studio e di sicuro aspettavamo da tempo il momento di assistere a un loro spettacolo. Il mongolian-folk proposto dalla band, ora con base negli Stati Uniti, infiamma il pubblico, fino a quell’attimo abbastanza tiepido e non ancora entrato in clima festival. Il gruppo, guidato dal mastermind Naturre G Ganganbaigaali, regala uno show sopra le righe. Autori di pezzi travolgenti, come ‘War Horse’ e Hymn Of The Earth, i Tengger Cavalry si dimostrano una delle migliori proposte degli ultimi anni in campo folk metal e, in questo caso, coadiuvati da percussioni vichinghe, danno ai loro brani una sfumatura diversa e imprevedibile. Come curiosità aggiungiamo che la band ha da poco firmato un contratto con l’attenta Napalm
Galvanizzati dallo spettacolo offertoci dai Tengger Cavalry, ci prepariamo per un altro concerto importante, quello degli Winterfylleth (7,5/10). Il gruppo di Manchester si presenta sul palco con l’usuale look total black e, forti anche del buon disco ‘The Dark Hereafter’ (pubblicato lo scorso anno via Candlelight Records), portano un’ulteriore botta di vitalità al festival, che oramai ha senza dubbio preso il via.
L’energia degli Winterfylleth è pronta a lasciare il posto a un altro degli show più attesi dell’intera manifestazione, quella dei Gaahls Wyrd (9/10). Alla sola entrata in scena del cantante norvegese il pubblico si esalta, già sapendo che qualcosa di unico li sta aspettando. La dissonanza delle note sprigionate dalla band di Gaahl è travolgente, fende l’aere e colpisce la carne affondando il coltello fino al cuore e l’apparizione di Kati Ran alla ghironda non fa altro che aggiungere valore a una prestazione che ha dello straordinario. ‘Steg’ e ‘Incipit Satan’ sono i due pezzi principe portati dai Gaahls Wyrd. Ancora due band mancano per terminare questa seconda giornata del Midgardsblot.
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Ora a devastare, letteralmente, il palco sono gli Unleashed (8/10). I death metaller svedesi calcano la scena con invidiabile sicurezza e precisione, oltre a dimostrare di avere una solida fanbase scandinava che li ha seguiti fino a qui per il concerto. Molti i pezzi storici proposti, ma se dobbiamo sceglierne uno che rappresenti in maniera degna lo show, nominiamo ‘Where Is Your God Now?’ dall’ultimo ‘Dawn Of The Nine’ (Nuclear Blast, 2015).
Dopo tutta la violenza sprigionata fino a questo punto, è lecito attendersi un po’ di tranquillità. Sono gli headliner, gli islandesi Sólstafir (7/10), a portare la quiete sul Midgardsblot. Uno spettacolo sognante e avvolgente quello della band post-metal di Reykjavík, autrice dell’ottimo ‘Berdreyminn’ (Season Of Mist, 2017). Dalle note scelte dai quattro musicisti ne esce un trip onirico, dal quale risulta difficile uscire.
M DAY THREE M Siamo quindi giunti al terzo e ultimo giorno del festival. A dir la verità c’è un po’ di tristezza nell’aria, che però viene dipanata dal doom metal dei Sahg (7/10), gruppo balzato alla ribalta con il full-length ‘Memento Mori’ (Indie Recordings, 2016), più incerta invece è la prestazione dei Synkvervet (5/10), forse non aiutati da diverse circostanze e dall’ora dell’esibizione.
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A seguire sono gli Oranssi Pazuzu (6,5/10) con il loro black metal psichedelico a doversi cimentare di fronte a un pubblico non ancora caldo al punto giusto. Complice qualche problema tecnico e un’audience forse non preparata, la potenza del combo finlandese si disperde e non viene carpita sino in fondo; tant’è vero che lo show termina in sordina, come se nulla fosse accaduto, non si capisce se per stupore o per indifferenza.
A scuotere un po’ gli animi sono, invece, gli Aura Noir (7,5/10). Con uno spirito alla Motörhead ed echi dei Celtic Frost, il gruppo dove militano Carl-Michael Eide, Rune Eriksen(meglio noto come Blasphemer) e Ole Jørgen Moe, è una live band con i fiocchi che, con più di due decenni di esperienza, sa come muoversi e arringare le folle. Quello che si definisce un bel calcio in bocca.
Dalla brutalità degli Aura Noir si passa in breve tempo all’epico pagan metal dei finlandesi Moonsorrow (8/10). Il gruppo di Helsinki, che ha dato alle stampe l’ultimo ‘Jumalten Aika’ (Century Media) lo scorso anno, dimostra un gran affiatamento in sede live e i brani, solitamente di durata consistente, fluiscono senza intoppi, anche grazie alla teatralità del chitarrista Janne Perttilä.
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Descrivere, invece, la prestazione della band che succede ai Moonsorrow è complicato. Sono fra i più attesi del Midgardsblot e circa un minuto dopo l’inizio del loro show ne capiamo il motivo. L’ensemble degli Heilung (9/10) porta sul palco un rito sciamanico composto da canti, balli e musiche ancestrali, quasi ultraterrene. Non sembra di assistere a un concerto, si tratta più di una funzione pagana, con i suoi interpreti e le sue fasi ben stabilite. Di secondo in secondo, di canzone in canzone, il gruppo trascina il pubblico una dimensione alternativa che culmina in una danza tribale incontenibile, alla quale partecipano tutte le persone presenti. Qualsiasi parola per illustrare ciò cui abbiamo assistito sarebbe superflua, un concerto degli Heilung va solo vissuto.
Frastornati, rapiti e stupefatti da quest’ultima perfomance, ci prepariamo ad accogliere un gruppo a noi più conosciuto e congeniale, i faroesi Týr (8/10). Che questo sia un po’ l’habitat per i metaller di Tórshavn è quasi scontato. Spade levate aspettano le prime note del gruppo, che non deludono i fan e sfoderano tutti i loro cavalli di battaglia, da ‘Sinklars Vísa’ a ‘Hold The Heathen Hammer High’, passando per ‘Regin Smiður’ fino a ‘By The Sword In My Hand’. Una degna conclusione per un festival che ha delle potenzialità enormi e che, siamo certi, attirerà sempre più persone nei prossimi anni.
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@ Bellaria-Igea Marina, Parco Pavese, 14 agosto 2017
di Alex Ventriglia Foto di Roberto Villani La riviera romagnola come Orange County? A pensarci bene, esistono diversi punti in comune tra le due località, più di quanto uno possa sospettare o meno… La Contea di Orange, a un pugno di chilometri da Los Angeles, è appunto celebre anche per aver dato i natali a numerosi gruppi di hardcore punk melodico (dai seminali, dirompenti e iconici Social Distortion agli Adolescents, dagli altrettanto fondamentali Descendents agli Agent Orange, nel cui nome svetta già orgogliosa la propria rivendicazione di appartenenza. Senza poi dimenticarsi dei più ruvidi Circle Jerks, o dei multi-platinati Offspring, tra coloro che, a metà anni Novanta, “sdoganarono” definitivamente il punk rock grazie al successo del loro ‘Smash’, album che li proiettò in vetta a tutte le classifiche mondiali) al punto tale d’aver quasi coniato il proprio riconoscibilissimo trademark musicale, un tratto stilistico direi distintivo di questa caratteristica zona della California del sud, tra il capoluogo Santa Ana e la più famosa Anaheim. L’illustre paragone potrebbe in fondo calzare se consideriamo che qui, nella riviera romagnola, più precisamente a Bellaria-Igea Marina, siamo arrivati alla terza edizione del Bay Fest, punk festival che, ne sono sicuro, ci invidiano un po’ in tutta Europa, sia per la sua posizione strategica, praticamente sulla spiaggia, sia per il successo che sta riscuotendo, anno dopo anno, edizione dopo edizione. Se nel 2015, furono i Millencolin a bagnare l’edizione dell’esordio, con una “prima” assolutamente positiva e benaugurante, l’anno dopo, con il festival portato a due giorni, il 14 e 15 agosto, il banco saltò del tutto, e le cose si fecero più serie e ambiziose. Merito senz’altro di un “cast” indubbiamente stellare – NO FX e Satanic Surfers, soltanto per citare gli headliner, fanno la differenza in ogni contesto – ma fu anche la formula “raddoppiata” e un’organizzazione capace di lavorare a pieno ritmo e con la giusta filosofia, in grado di trainare migliaia e migliaia di appassionati e trasformando il Bay Fest in uno degli eventi estivi imprescindibili per chiunque, in Italia, ami il punk, in tutte le sue sfumature e derivazioni.
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Noi di Metal Hammer ci siamo focalizzati principalmente sulla giornata del 14, parecchia era la curiosità di rivedere all’opera i leggendari Bad Religion soprattutto, affiancati dagli altrettanto blasonati Pennywise e dai Good Riddance, quest’ultima una band incompiuta, a mio modo di vedere, sempre sul punto di fare il grande passo, ma poi spesso frenata da un’ispirazione altalenante. Nulla da dire sull’impeto esecutivo del gruppo originario di Santa Cruz, Russ Rankin è un frontman di sicuro affidamento, però sembra che manchi sempre qualcosa, che il cerchio non sia perfetto, che non chiuda come dovrebbe... A me i Good Riddance han sempre fatto quest’effetto, e anche dal vivo cambia poco o nulla, il loro show, al Bay Fest, non ha purtroppo mutato il giudizio.
Le energie vanno centellinate, in ogni caso, quindi meglio convogliarle su chi, questo stile musicale e di vita, lo ha creato e allevato con le giuste attenzioni. Ragion per cui una volta che sul palco son saliti i Pennywise, le trame del gioco sono apparse più nitide, in virtù di un approccio sì dirompente e roccioso, ma non fine a se stesso e con una carica scoppiettante e incredibilmente armonica, trainati da Fletcher Dragge e Jim Lindberg; il primo, chitarrista, nume ispirativo e simbolo stesso del gruppo di Hermosa Beach, il secondo, vocalist tra i più quotati in circolazione, anch’esso membro storico nonché “figliol prodigo”, rientrato nei Pennywise dopo una piccola “fuga” di tre anni. La coppia, rodata da quasi trent’anni di concerti in giro per il mondo, ha creato letteralmente il vuoto, per la coesione, la compattezza con la quale ha guidato il resto della truppa (una menzione speciale va all’altro elemento originale della band, il batterista Byron McMackin, un autentico rullo compressore!) mandando in visibilio la platea del Bay Fest, che altro non aspettava che “massacrarsi”, nel vero senso del termine… Dall’iniziale ‘Wouldn’t Be Nice’ a ‘Fight till You Die’, dall’inno ‘Fuck Authority’ a ‘Pennywise’, agli omaggi e ai cazzeggiamenti vari, tipo ‘Blitzkrieg Bop’, ‘T.N.T.’e ‘(You Gotta) Fight For Your Rights (To Party!)’, che hanno ulteriormente animato la serata, bellissimo lanciare il cuore oltre l’ostacolo sulle note dei Beastie Boys…Uno spettacolo nello spettacolo, la performance offerta da Fletcher e compagni, la visione di migliaia e migliaia di braccia alzate ad acclamare i Pennywise è stato uno degli migliori scatti che abbiano degnamente immortalato questo coloratissimo Bay Fest.
Con i Bad Religion, si entra nella storia del punk rock californiano, probabilmente sono loro gli autentici padri putativi dell’hardcore melodico ma fatto con coscienza sociale e attitudine fiera e indomita, guidati sin dagli esordi dal frontman Greg Graffin. Lui, il mattatore del fiammeggiante show in terra di Romagna, il quale, con grinta e spirito, ha scatenato l’isteria collettiva di un pubblico desideroso e protagonista splendido, facendo leva sin dall’inizio su classici indiscussi. Al cardiopalma l’opener ‘American Jesus’ e la successiva ‘New Dark Ages’, mentre tutto intorno montava il caos, sull’onda dell’entusiasmo generato dall’arrivo dei losangeleni. ‘Let Them Eat War’, oggi purtroppo tornata più che mai attuale, seguita a ruota da ‘Stranger Than Fiction’, ‘Along The Way’e ‘I Want To Conquer The World’, anthem per eccellenza, un brano che non si può non amare, caratteristico in tutto e per tutto della reale essenza Bad Religion. Classici che si sono succeduti a gran ritmo, suonati da una band presentatasi in forma smagliante, seppur nell’ultima data della sua tournée mondiale, professionalità e voglia di divertirsi che vanno ancora stupendamente a braccetto, in questa combriccola di guastafeste capace di regalarci ancora ‘Fuck You’ e ‘Recipe For Hate’, ‘No Control’ ed ‘Against The Grain’, fino a ‘Los Angeles Is Burning’, fino al suggello finale, all’immortale ‘Fuck Armageddon… This Is Hell!’, brano estratto dal capolavoro ‘How Could Hell Be Any Worse?’. Per la vibrante intensità e la portata storica, un’èsibizione da tramandare ai posteri e l’ennesimo fiore all’occhiello del Bay Fest, manifestazione festivaliera più che mai nell’orbita giusta. Punk & belligerent!
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@ Francavilla al Mare, Tikitaka Village, 17/18/19 agosto 2017 di Alex Ventriglia Foto di Eugenio Monti
“Rischia” di diventare uno delle manifestazioni festivaliere più gettonate d’Italia, il Frantic Fest che quest’anno ha debuttato al Tikitaka Village di Francavilla al Mare, con una “tre giorni” piena zeppa di grandi nomi, affiancati da nuove leve che tanto bene promettono per la scena, più qualche celebrato outsider di grido, magari presente non così spesso sui nostri palchi, ma familiare presso i cultori della musica estrema e “pensante”. Dal 17 al 19 agosto, a pochi passi da Pescara si è assistito a un’autentica scommessa che, e la cosa non può che far piacere agli appassionati, a tutti noi che nella musica crediamo realmente, quasi fosse una religione o una catarsi a cui liberarsi, si è rivelata vincente, sia a livello di organizzazione e di strutture, sia grazie appunto a una scaletta ambiziosissima, oltre che super eterogenea e perfetta per ogni palato. Proprio la risposta del pubblico è stato uno dei fattori più importanti, data l’affluenza registrata, notevolissima se poi consideriamo anche la posizione geografica o il periodo vacanziero (mai semplice preventivare il successo o meno di iniziative del genere specie sotto il ferragosto), fatto sta che, nel complesso, il Frantic Fest ha richiamato più di 1700 persone, stando ai dati ufficiali, numeri considerevoli, che senz’altro premiano gli sforzi fatti.
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Si è respirata l’aria dei grandi eventi sin dal primo giorno, sin dalle primissime avvisaglie che sullo Small Stage hanno caratterizzato la data d’apertura già nel tardo pomeriggio, quando a inaugurare il Frantic ci han pensato prima gli Psychocello Project e poi i Bushi, quasi a tracciare l’ideale “alpha e omega” che condizionerà brillantemente lo svolgimento dell’intero festival abruzzese; i primi, chitarre e violoncello, più la leggiadra voce di Francesca Catenacci, abilissimi nel disegnare incantevoli arabeschi musicali, mentre i secondi, geniali ed eversivi, mi han ricordato non poco Primus e Meshuggah (e con un pizzico di John Zorn ad insaporire il tutto), per perizia tecnica ed innovazione. Un band, i Bushi, che annovera vecchie canaglie dell’underground, tipo Alessandro Vagnoni, ex Dark Lunacy e Infernal Poetry, nonché elemento di spicco dei Bologna Violenta. Tanto per sottolineare credenziali e relative coordinate sonore. A ritroso negli anni, invece, con i Doctor Cyclops, three-piece di Pavia fautore di un revival-rock innamorato perso dei classici blues & heavy, con decise virate verso il doom d’autore. Black Sabbath, ma non solo, per questa band fresca autrice del suo terzo full length album, ‘Local Dogs’, uscito per l’iperattiva Heavy Psych Sounds.
Tra birre artigianali di qualità e gli immancabili, e direi mitologici, arrosticini (siamo in terra d’Abruzzo, baby…), i tempi morti sono stati bruciati in fretta, nell’attesa del primo gruppo chiamato a battezzare il palco principale, ovverossia i Soviet Soviet, probabilmente il gruppo più di tendenza e, all’apparenza, fuori del tutto dal contesto musicale messo in piedi dal Frantic Fest. Invece, la formula vincente è stata proprio questa: tutto e il contrario di tutto, purché si tratti di musica di qualità, questa la regola vigente. E la formazione pesarese, di musica di qualità ne ha in abbondanza. Imprinting post-wave, con schiamazzi stilistici che tradiscono vecchi amori dark-wave per il trio marchigiano, non proprio tra i miei ultimi ascolti, ma la stoffa c’è tutta, questo va detto. Trio che ha lasciato infine il testimone agli Spiritual Front, bene o male stessi padri spirituali, ma l’approccio è apparso diverso, per questa band di Roma che, sinceramente, ha colpito molto l’audience del Frantic, me compreso. Cantautorato nero pece, e uno stile che di fondo unisce folk, gothic e country, la band capitanata dal cantante e chitarrista Simone Salvatori è stata tra le sorprese assolute del festival. Se Nick Cave fosse nato a Testaccio, credo che avrebbe suonato esattamente così. Applausi.
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Come da applausi, scroscianti, per non dire delle emozioni purissime, è stata la performance degli headliner Goblin, band di caratura mondiale alla quale siamo tutti grati, per averci regalato quelle famose sinfonie che ci hanno sempre terrorizzato, nei lungometraggi di Dario Argento, di George Romero, di Fulci, di Bava, sinfonie passate in rassegna durante un concerto a dir poco solenne. E carico di suggestioni antiche. Da ‘Demons’ a ‘Tenebre’ e ‘Phenomena’, alla suite finale dedicata a ‘Profondo Rosso’, a scatenare il tripudio generale. Con in più una chicca d’autore quale ‘Aquaman’, estratta dal sontuoso ‘Roller’ ed interpretata magistralmente da Claudio Simonetti, Titta Tani e Bruno Previtali. Aristocrazia al comando, che, fortuna nostra, di abdicare proprio non ci pensa.
DAY TWO Il venerdì, abbiamo rifiatato il giusto, prima di immergerci nuovamente in profondità, saggiando subito le doti dei claustrofobici Shores Of Null, band di Roma che incide per la storica Candlelight e tra le realtà che vanno per la maggiore nel campo del death’n’doom più spinoso e tormentato, a metà strada tra i primi, ruvidi Paradise Lost, e la disperazione innata di Katatonia, Swallow The Sun e i pionieristici Opeth. Maestri illustri, certo, ma la farina è tutta del sacco dei cinque capitolini, sorprendenti per violenza e controllo. Cosìccome sorprendenti (ma non troppo, conoscendo la loro bravura) sono stati i Dark Lunacy che, sul Main Stage, hanno assicurato ai presenti uno show al cardiopalma, digrignante ferocia pura e una fierezza stilistica che ha ben pochi rivali. Altra band a cinque stelle, altra band di indiscutibile portata internazionale. E scusate se è poco.
A coronare il penultimo giorno, due gruppi esteri, gli Aura Noir da Oslo, e i Grave, storica death metal svedese: i primi, nella loro unica data italiana, hanno spianato tutto e tutti con il loro black metal vecchio stampo che per l’ispirazione molto deve a Mayhem e Darkthrone, ma che suona tantissimo in stile Motorhead e Venom, ovverossia oltranzismo puro, ma anche una certa orecchiabilità. E tanto, tanto divertimento. A fare il paio con i Grave che assolutamente non ricordavo così coinvolgenti e brutali il giusto, direi a puntino per dimenticarsi dell’età e fiondarsi così nel pogo! Eravamo soltanto all’antipasto di una nottata che sarebbe stata a dir poco caotica…
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- LIVE REPORT - LIVE REPORT - LIVE REPORT DAY THREE Contati i lividi, numerosi, il sabato siamo ripartiti, pur mancando qualche gruppo iniziale (nutrivo più di una curiosità per La Casta, progetto black-core di Monopoli, sarà per la prossima volta…), ricominciando subito a farci del male con gli assurdi Martyrdöd, manipolo svedese che fa del crust-punk la sua regola di vita. Esagerato, fin troppo per i miei gusti, il gruppo lo ritroveremo presto, dato il suo fresco passaggio alla Century Media. Indomiti, per certi versi radicali anch’essi, ma di ben altra caratura, i Raw Power che si sono impossessati del palco principale per un’esibizione pregna di gloria passata, da grandi veterani dell’hardcore punk nazionale quali sono. Mauro Codeluppi ha sempre grinta da vendere, e un inno come ‘State Oppression’ continua a scuotere le coscienze, oggi come allora.
È stato quindi il turno degli Ufomammut, trio piemontese abilissimo nel tormentar le anime con il suo sound scurissimo, fatto di psichedelia vibrante, riffs mastodontici e filosofia drone, una miscellanea che ha conquistato adepti un po’ ovunque nel mondo. Anche a Francavilla al Mare, il rituale è stato perfetto, e i sacri dogmi osservati in tutto e per tutto, da questa band arcigna e sontuosa, autrice del nuovissimo full length ‘8’ pronto per rinforzare ancor più la fama, sinistra, di Vita, Poia e Urlo, i tre dietro il progetto Ufomammut. Quasi al photofinish, un cambio programma che ha rischiato di condizionare negativamente l’atto finale del festival: gli Slapshot, che, se non sbaglio, dovevano arrivare dalla Spagna, hanno avuto dei problemi con i voli, accumulando un ritardo tale da costringere gli organizzatori a chiamare subito sul palco gli headliner, gli Impaled Nazarene, i quali non si son certi fatti pregare pur di scatenare l’Apocalisse!
Le blasfemità varie e quel piglio battagliero che non guasta affatto, fanno dei finnici uno dei gruppi più amati a queste latitudini, e il clamore suscitato da ‘Condemned To Hell’, ‘The Horny And The Horned’, ‘GhettoBlaster’, ‘Total War’ si è espresso abbondantemente, sulle preferenze della giornata. Il ghigno di Mika Luttinen valeva più di una risposta, evidentemente… Una volta recuperati i tempi, smaltiti i chilometri di distanza e comunque pronti ad azzannare il palco, per gli Slapshot non è poi stata impresa facilissima richiamare sotto il pit una folla che si era già spremuta precedentemente, con i presenti tutti in fila ad ossequiare il morboso verbo di Satana… Un Frantic Fest composto da grandi firme e da un florido sottobosco di nuove bands una più intrigante dell’altra, il succo essenziale del discorso, e che ha centrato il bersaglio al primo colpo scagliato. Questa, è la prerogativa dei grandi. E degli audaci.
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‘THE DEVIL’s CANDY’
di Marco Giono
In una rovente serata di agosto, presso The Space Cinema Odeon di Milano, si è svolta l’anteprima del film ‘The Devil’s Candy’, che verrà pubblicato nelle sale il 7 settembre 2017 grazie alla lungimiranza di Midnight Factory, etichetta di Koch Media. Il film in realtà ha esordito in Canada il 13 settembre 2015 al Toronto International Festival, a cui sono seguite altre proiezioni in diversi festival per poi arrivare ad essere distribuito online lo stesso anno negli USA. Si tratta dell’opera seconda del talentuoso regista e sceneggiatore David Byrne, che ha in realtà esordito, dopo la classica trafila di cortometraggi, nel 2011 con il film horror/slash ‘The Loved Ones’. Ora diamo un’occhiata più in dettaglio a ‘The Devil’s Candy’.
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Buio in sala. Una nenia si insinua incomprensibile nella notte. Pur colto in pieno sonno, Ray Smilie, interpretato dalla grassa figura dell’attore Pruitt Taylor Vince, sa bene cosa fare. Balza in piedi angosciato, impugna la chitarra e suona con veemenza note distorte. In questi pochi passaggi iniziali della sceneggiatura di ‘The Devil’s Candy’ scopriamo alcuni elementi chiave del film diretto da Sean Byrne. Come prima cosa la trama è assimilabile al genere “case infestate/possessione demoniaca”, le cui origini sono rintracciabili al 1978 con ‘Amityville Horror’, che è stato replicato poi negli anni a venire in diverse forme. Una famiglia, composta da padre pittore con tanto di maglietta dei Metallica, figlia ribelle anche lei metallara e una madre comprensiva traslocano in una casa in campagna. Il pittore, interpretato da Ethan Embry, con il suo volto pelle e ossa che rimanda all’iconografia di Cristo, inizia a dipingere quadri in uno stile nerissimo. La possessione demoniaca, come metafora dell’eccesso di ambizione, diverrà l’espediente narattivo centrale del film, il cui fine reale è quello di mettere al centro della scena i conflitti famigliari e la lotta con interiore del protago-
nista stesso. Violenza, immagini e musica sono poi i tre elementi che si susseguono ed esplodono in una sinfonia inquieta che attraversa l’anima dei personaggi per donare uno stile contemporaneo a un film altrimenti classico nel suo sviluppo. L’anima slasher è un elemento meno presente rispetto al precedente e più sadicamente spassoso ‘The Loved Ones’, sempre scritto e diretto da Byrnes. Se, infatti, in ‘The Loved Ones’ i rapporti affettivi erano caratterizzati da una componente sessualmente perversa che trovava il suo naturale contrappun-
to in una violenza surreale, in ‘The Devil’s Candy’ il male è insito e allo stesso è più trasversale di quel che siamo disposti a credere. Difatti, persino la galleria d’arte, verso cui anela il pittore, da sempre in cerca di riconoscimento anche economico, prende il nome dal demone della seduzione ‘Belial’. I quadri e la musica sostituiscono in fondo lo slasher. Il metal da una parte è utilizzato come semplice
elemento di rottura, qualcosa che arriva potente in modo di certo inusuale. Ricordo solo ‘Deathgasm’ con un approccio simile al metal. Da citare poi alcune tra le band prescelte: gli Slayer in fondo non potevano mancare, con la loro iconografica del male e quei riff sinistri unici; i Metallica invece sono citati nel film stesso in alcune battute divertenti e in qualche modo sono uno dei nomi più noti della scena. Poi si alternano Machine Head, Ghost fino ad arrivare al drone doom metal dei Sunn O))), note potenti e cupe, come poche altre. Se la colonna sonora è ben curata, non da meno lo sono i quadri che spesso rubano la scena in frame disturbanti, fino a diventare parte integrante del finale. ‘The Devil’s Candy’ è un film ben congegnato in un alternarsi di suspence e una messa in scena con scelte inusuali decisamente in controcorrente. Un film dall’anima metal, quindi, che riesce a creare e comunicare inquietudine grazie anche alle sembianze dei suoi personaggi, alla forza suggestiva dell’arte e di una messa in scena curata nel dettaglio. Il fatto poi che Youtube ne abbia censurato gli spot, ritenuti troppo angoscianti, è solo un’altra dimostrazione che ‘The Devil’s Candy’ funziona.
l a t u r B Stay di Trevor Tra le tante interessanti realtà nostrane, ci sono due band, uscite di recente con il loro debut album, da subito entrambe si sono fatte notare, suscitando curiosità da parte degli addetti ai lavori, passando attraverso ottime recensioni. In
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questa puntata incontriamo Masha degli Exilia! Chi pensa agli Exilia torna subito alla mente il nome di Masha, inutile dire che sei tu la colonna portante del progetto. Cosa sta succedendo all’interno della
band? Prima di tutto ringrazio coloro che hanno costruito con me questo suono e questo ideale, da soli non si fa mai nulla. Nel tempo ho avuto meravigliosi compagni di band e anche manager importanti che mi hanno aiutato, sostenuto e insegnato molto. Credo che da qualche anno sia noto al nostro pubblico che sono in prima fila come songwriter e leader portando avanti Exilia nei periodi belli e in quelli brutti. Molte band nate come noi tempo fa, dopo anni di carriera, hanno avuto diversi cambi di line-up, penso questo diventi un passo necessario quando una certa sintonia si spegne, quando i desideri cambiano, quando nel corso degli anni emergono giustamente per tutti noi nuovi impegni e possibilità. Ritengo che una band sia come una famiglia, dove la collaborazione e il la-
voro quotidiano di tutti sono strettamente necessari, avere qualcuno che non fa il suo e rallenta il progresso di tutto il nucleo è davvero una grande mancanza sulla quale non si può far finta di nulla. A oggi porto avanti Exilia, ho degli ottimi musicisti al mio fianco, un ottimo produttore + team esterno, sono felice di questo nuovo equilibrio, le persone che credono negli Exilia credono in un’attitudine, in un suono, in un concetto che io sento forte dentro di me... ed è questo il cuore degli Exilia che ancora batte forte... a breve saremo pronti in studio per la registrazione del nuovo singolo e ne siamo tutti entusiasti. Gli Exilia sono una band che
in Europa ha una buona attività live, Germania, Austria, e anche oltreoceano. E in Italia? In Italia facciamo ciò che riteniamo giusto per la nostra musica, il nostro pubblico e per la qualità che desideriamo offrire. Questo significa ridurre drasticamente il numero di concerti perchè alcune strutture non sono idonee, ma io ho sempre pensato che qualità è meglio di quantità ! Non ha più senso esibirsi in posti dove gli impianti non sono adeguati o i palchi sono troppo piccoli, senza peccare di manie di grandezza nessuno qui pretende chissà cosa, ma desiderare il giusto affinché un fan possa godersi uno spettacolo ottimo diventa importante per gli ideali attuali. Oltre a essere la voce degli Exilia, sei insegnante in diverse scuole di musica, è difficile spiegare ai più giovani? Insegnare ai ragazzi è davvero entusiasmante, io riesco sempre a trovare una
connessione profonda con ognuno di loro. Ho degli allievi meravigliosi sempre pronti a sperimentare e a ricercare la strada verso quell’unicità vocale che tutti noi possediamo. Poter aiutare questi giovani leader e cantanti in questo percorso di crescita vocale e umana è davvero un grande dono e io lo vivo con grande positività. Negli ultimi anni le voci femminili accostate al Metal anche a quello più estremo sembrano essere sempre più, cosa ne pensi? Sono un’accanita fan del “girl-power” e credo davvero che molte vocalist abbiamo innovato e/o rinnovato alcuni generi musicali tra cui il metal ed anche quello più estremo, ma non sono un ‘amante delle copie, per cui ogni volta che sento l’ennesimo progetto in cui
una donna prova semplicemente a replicare un cliché, utilizzando i soliti trucchi, ecco che allora non sono per nulla d’accordo. La tua voce si discosta dai soliti canoni, ne vai orgogliosa? Sì, ne vado orgogliosa. Non mi sono voluta adeguare alle mode, alle cose “che funzionano”, non ho cercato strade facili in nessun modo, ho tentato di emergere per come sono, il successo è importante ma non vale la perdita della propria identità. Sei costretta a vivere per un mese su un’isola deserta, ma ti è concesso di portare con te dieci dischi, quali porti? A perfect circle - ‘Emotive’; Pantera - ‘Cowboys From Hell’; Deftones - ‘Diamond Eyes’; Bjork - ‘Post’; Tool ‘10.000 days’; Otep - ‘The Ascension’; Drowning Pool - ‘Sinner’; Gojira - ‘The Flash Alive’; Portished - ‘Roseland NYC Live’; Joe Satriani - ‘The Extremist’ Internet è entrato prepotentemente nella vita di tutti noi, hai ancora tempo per un libro? Sì, sono sempre alle prese con i libri, ne leggo 3 o 4
in contemporanea. Ora sono completamente impegnata con ‘Donne he corrono con i lupi’, un libro fantastico. Il concerto che ricordi con maggior soddisfazione? Domandone... Penso sia un concerto che abbia-
mo fatto in Olanda, dove sebbene non fossimo così noti al pubblico, i ragazzi cominciarono a esultare canzone su canzone. Non ti dirò chi era l’headliner, ma venne poi fischiato dopo la nostra performance. Piccole soddisfazioni. Quando hai capito che avevi la vocazione del canto? Da bimba cantavo sempre, crescendo cantavo sempre, mi rifugiavo nella musica, compravo tonnellate di cd, sognavo palchi e grossi impianti, e quando finalmente ebbi il primo microfono tra le mani, non ebbi alcun dubbio. Questa è la mia rubrica dal monicker “Stay Brutal” cosa per te è da considerarsi brutale? Trevor credo tu dia alla parola “Brutal” un’eccezione positiva, giusto?! E quindi ti seguirò in questo . Brutal è rimanere se stessi, veri, sinceri, selvaggi, liberi, puri. Tu sei molto legata agli animali, perché ci sono persone che ancor oggi li maltrattano? Penso quest’aspetto del mondo in cui viviamo sia tra le cose che mi rattrista di più. Non so come si possa far del male a chi non può difendersi, non so come si possa maltrattare un animale, davvero è una cosa che non riesco a immaginare, ma ho capito che nel mondo vi sono persone malvagie, che non provano nulla, pronte a far del male ad animali, bambini e persone e mi spiace dirlo ma per loro non riservo alcuna compassione. Siamo arrivati al termine dell’intervista, a te le ultime parole.... Ladies and Gentleman out there. Stay Brutal!
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Album Of The Issue
Arch Enemy Will To Pownye) r
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(Century Media/So
Una fenice dalle ali infuocate. Questo mi è subito balzato alla mente non appena ho terminato l’ascolto di quest’ultimo disco degli Arch Enemy. Sì, perché non tutte le band sarebbero state in grado di rialzarsi dopo un improvviso e devastante cambio di line-up che ha costretto Michael Amott, Sharlee D’Angelo e Daniel Erlandsson a reinventarsi (passateci il termine anche se potrebbe non essere quello adatto) e a ricominciare dopo quasi vent’anni di onorato servizio alla causa del metal. Si è già parlato fin troppo della fuoriuscita di Angela Gossow e dell’entrata di Alissa White-Gluz, ma non si è mai detto quanto tale scelta, a posteriori, sia stata azzeccata. Il sound degli Arch Enemy, per quanto riguarda il sottoscritto, con ‘Khaos Legion’ aveva cominciato ad appiattirsi, a diventare monotono, a battere sempre le stesse strade e a non portare più quelle ventate di freschezza
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sonora con cui Amott, in primis, ha sin dall’inizio voluto caratterizzare il proprio gruppo. ‘War Eternal’, di nuovo a posteriori, si è dimostrato a tutti gli effetti quello che ci voleva agli Arch Enemy per dare una nuova spinta alla carriera, per rifornire di linfa vitale una band che pareva oramai spenta; e in questo Alissa è stata parte fondamentale. Dunque, direte voi, cosa ha da aggiungere ancora questo ‘Will To Power’? Tutto, si potrebbe dire. Quest’album ha in sé il connubio ideale fra i primi Arch Enemy (almeno quelli della “seconda era”, cioè dopo l’innesto della Gossow e l’uscita di Liiva) e quelli di ‘War Eternal’, full-length che, a dispetto di quanto si aspettasse, ha raccolto consensi di pubblico e critica, fino a portare gli svedesi a suonare, anche da headliner, sui più prestigiosi palchi del mondo e a generare il buon disco dal vivo ‘As the Stages Burn!’ (Century Media, 2017),
il quale mostra l’affiatamento di un gruppo di nuovo padrone di se stesso e la padronanza di Alissa in sede live. ‘Will To Power’ è un album che appare meno tirato del precedente, con un approccio meno costretto, degli assoli che hanno una particolare cura (merito dell’aggiunta alla line-up di Jeff Loomis, il quale è andato a sostituire Nick Cordle) e delle parentesi curiose, come la ballad ‘Reason To Believe’, che vede la vocalist cimentarsi con il canto pulito per la prima volta da quando si è unita alla band. Ed è proprio “unione” la parola che esce in maniera prepotente da questo disco, oltre alla volontà di un gruppo di non sentirsi mai pienamente soddisfatto e di voler dimostrare che dietro a una difficoltà, in apparenza insormontabile, c’è qualcosa di più grande che attende. Stefano Giorgianni
E (Nuclear Blast/Warner)
Gli Enslaved continuano a stupire. Pur avendo raggiunto da un po’ una propria dimensione artistica stabile, riescono sempre a farci rimanere a bocca e a orecchie aperte. Non fatevi ingannare dal titolo sintetico del quattordicesimo album, ‘E’ è uno scrigno ricco di emozioni, un condensato della carriera di questi vichinghi che, mai come oggi, non rinnegano le proprie radici black. Il disco parte subito forte con ‘Storm Son’, singolo perfetto nella sua complessità e varietà, che chiarisce da subito come l’inserimento di Håkon Vinje (proveniente dai progster Seven Impale) al posto del tastierista di lungo corso Herbrand Larsen sia avvenuto in modo indolore. Un urlo di battaglia, i corni e un nitrito ci introducono in un pezzo rilassato
ma dalle sferzate improvvise. Un brano quasi opethiano, ma a differenza di Åkerfeldt, Ivar e Grutle non hanno scordato il nome del proprio padre, perché la componente estrema c’è e ci riporta ai primi due capolavori del gruppo, ‘Frost’ ed ‘Eld’, vera culla del viking metal post-Bathory. Spirito primoridiale ancora più evidente nella seconda ‘The River’s Mouth’, unico brano della tracklist al di sotto dei sette minuti. Il capolavoro di un album senza riempitivi occupa la terza posizione, ‘Sacred Horse’ è ‘E’ all’ennesima potenza: tutto quello che c’è di buono nel disco lo trovate qui, ma amplificato da un misticismo primitivo dal sapore psichedlico. Scavallare indenni questo brano non era impresa facile, infatti, la successiva
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Enslaved
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‘Axis Of The Worlds’ paga in parte dazio. Però le sorprese sono dietro l’angolo e gli Enslaved con l’aiuto di tre ospiti – Einar Kvitrafn Selvik dei Wardruna, il flautista Daniel Mage e il sassofonista jazz Kjetil Møster – piazzano una doppietta da sballo con ‘Feathers of Eolh’ e ‘Hiindsiight’, chiudendo così in gloria l’ennesimo avvincente capitolo della storia di questa fantastica formazione. Nell’edizione limitata troverete un paio di bonus, ‘Djupet’ e la cover “atipica” di ‘What Else Is There?’, brano dell’electro band norvegese Röyksopp, a riprova dell’apertura mentale del gruppo e a riconferma dell’amore di Ivar per l’elettronica. Chi riuscirà a scalzare ‘E’ dal podio di miglior album del 2017? Giuseppe Felice Cassatella
Counterparts
You’re Not You Anymore
(Pure Noise Records) Canadesi, originari di Hamilton nell’Ontario, i Counterparts, una delle band più apprezzate e seguite in campo melodic hardcore, arrivano con ‘You’re Not You Anymore’ a incidere il loro quinto album di una carriera iniziata nel non lontano 2010 con il debut album ‘Prophets’. Di quella formazione oggigiorno il solito superstite è il vocalist Brendan Murphy, mentre Kyle Brownlee alla batteria e Tyler Williams al basso compongono la base ritmica nuova di zecca, Adrian Lee e Blake Hardman sono i due chitarristi: in questo combo il quintetto canadese non lesina energie per dimostrare come sappiano pubblicare il loro album più heavy di sempre condito da numerosi chorus melodici e graffianti al tempo stesso. Non è un disco facile, uno di quei classici
“amori al primo ascolto”, perché lo stile della band e le undici canzoni qui presenti hanno bisogno di qualche ascolto per poterne apprezzare tutto il potenziale. Attacchi frontali forniti da heavy e chirurgici riff che lasciano attoniti per l’impatto e l’aggressività intrinseca che ne scaturisce, testi cantati in maniera sfrontata da un Brendan Murphy in forma smagliante, in grado di evocare potenti immagini, una base ritmica che sorregge le asce della premiata ditta Hardman/Lee che non eccedono mai in inutili orpelli da novelli virtuosi della sei corde badando più al sodo e alla forma-canzone. ‘Swim Beneath My Skin’, ‘Arms Like Teeth’, l’incredibile affascinante heavy ‘No Sevants Of Mine’, le grandi melodie e i tempi spezzati di ‘A Memory Misread’ sono la colonna sonora di un
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disco che nei suoi soli ventotto minuti sarà in grado di essere apprezzato per la sincerità e la spontaneità con le quali i Counterparts riescono ad ammaliare l’ascoltatore, anche quello meno avvezzo alle loro sonorità. Promossi pienamente nonostante la dipartita del loro autentico deus ex machina Jesse Doreen dopo il precedente ‘Tragedy Will Find Us’, non era un compito facile ma Brendan Murphy ha saputo prendere la band per mano e portarla anche oltre i buoni risultati fino a oggi raggiunti, un altro step che dimostra un’importante evoluzione di una carriera che auguriamo alla band possa essere ancora piena di soddisfazioni. Ma che non tarderanno ad arrivare grazie alle qualità di ‘You’re Not You Anymore’. Andrea Schwarz
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Paradise Lost
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Medusa
(Nuclear Blast/Warner) siamo adesso con ‘Medusa’, un disco caratterizzato da un solenne incedere doom e da ritmi pesanti e rallentati, in grado però di sfruttare bene gli elementi gotico e death per ravvivarsi e non annoiare mai, su alcun passaggio. Un esperimento quindi perfettamente riuscito: da un lato l’album si configura come un granitico monolite doom grazie a brani quali ‘Fearless Sky’ o ‘The Longest Winter’; dall’altro però la vivacità e il groove di passaggi come ‘Blood & Chaos’ o la conclusiva ‘Until The Grave’ (caratterizzata da belle trame chitarristiche) ci parlano di una band dalla comprovata esperienza, capace come non mai di appropriarsi di linee guida abbandonate da tempo
ma opportunamente svecchiate e attualizzate. Seppur meno snello e accattivante di ‘The Plague Within’ ‘Medusa’ si guadagna quindi il proprio ottimo voto sulla distanza, contrastando la propria più bassa accessibilità con un songwriting più focalizzato e una maggiore uniformità, soprattutto dal punto di vista qualitativo. Non ci si deve aspettare quindi alcun calo di tensione o la presenza scomoda di qualche inatteso passaggio a vuoto: il livello di ‘Medusa’ è uniformemente alto, indice tra l’altro dell’attenzione e della dedizione che la band mette in ogni proprio album. Promossi, come sempre. Dario Cattaneo
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È una di quelle cose che ti aspetti dagli Enter Shikari. Di che parlo? Di cambiamento. Certo, hanno dato il via con il loro album d’esordio ‘Take To Skies’ nel 2007, al genere electronicore, ma non è mai stato una cosa sola e di certo non era così facile da leggerci dentro. Le loro influenze sono molteplici. Ci puoi sentire dentro il pop, l’elettronica per arrivare al metalcore. Non è andata molto diversamente per il loro quinto album ‘The Mindsweep’ pubblicato nel 2014. Invece, a dieci anni dall’esordio, pubblicano un nuovo album intitolato ‘Spark’ per cambiare. Il brano ‘Red Shift’ pubblicato nel 2016 era il primo segno della nuova direzione intrapresa dagli Enter Shikari. Le melodie vengono ora messe in primo piano, poggiando su un’elettronica perversiva che si scompone e ricompone grazie
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alle più diverse influenze. ‘Spark’ non fa che confermare le prime avvisaglie di cambiamento che hanno come conseguenza più immediata di porre il metalcore in una funzione diversa: amplificare la dinamicità ai brani. Difficile defininirli se non citando la new wave, l’elettronica, l’alternative rock, il pop e il loro eletroncore. Tuttavia, facciamo prima ad ascoltarli. Quando parte ‘The Sights’ la prima sensazione è quella di aver a che fare con New Order, Blur, The Beatles, Bowie e altro, ma in uno stile che mantiene quella tensione tipica dell’hardcore. Di nuovo la stessa sensazione in ‘Live Outside’ che ha oltre a trascinarti all’istante con il suo coro, colpisce per quella sorta di gioia sarcastica che s’insinua nel mood del brano. C’è comunque tanto altro. Prendiamo ‘Airfield’, che pare ricordare i Radiohead, con quelle
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Enter Shikari
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Che i Paradise Lost non si siano mai persi per strada su nessuno dei loro album è oramai – dopo un ventennio e mezzo – un glorioso dato di fatto, e con l’ultima uscita discografica di tre anni fa, l’ottimo ‘The Plague Within’ la band britannica ce l’aveva voluto dimostrare un’ennesima volta. E proprio da quell’album si è partiti per arrivare a questo ‘Medusa’: la canzone centrale ‘Beneath Broken Earth’, infatti, nelle parole stesse del cantante Holmes, ha funzionato come catalizzatore per riaccendere la passione di Greg Mackintosh e dello stesso Holmes verso le sonorità degli esordi, quelle dense e clamorose di ‘Gothic’ e ‘Shades Of God’, per intenderci. Ed è proprio qui che
linee melodiche sospese e le note di piano melanconiche a fingere di cullarti. Ripartono da zero in ‘Rabble Rouser’ e lo fanno con il flow elettronico di Rou Reynolds sostenuto da un giro di basso paranoico in dialogo con le tastiere. Gli Enter Shikari amano ripetersi senza mai fare la stessa cosa. Così ci ritroviamo in chiusura di ‘The Spark’ con due brani ancora diversi: di nuovo basso ed elettronica, ma la chimica è leggermente mutata in ‘The Revolts of Atoms’ e diventa epica sinfonica in ‘An Ode to Last Jigsaw’. Ancora una volta. Gli Enter Shikari non amano fare la stessa cosa due volte ripetendosi e non amano ripetersi suonando lo stesso brano. Ci siamo capiti. Si tratta in ogni caso di un disco di alto livello… “This is Escalating Quickly!”. Marco Giono
The Haunted Strength In Numbers (Century Media/Sony) Come uso e consuetudine dei nostri tempi, i The Haunted anticipano l’uscita del nuovo album pubblicando online tre tracce. I commenti sui social media dei fan in merito possono essere categorizzati in due tipologie: quelli che rivogliono a prescindere l’ex cantante Dolving, quelli invece che a testa bassa inneggiano al discone con i giusti attributi. Due posizioni rispettabili e che vale la pena di analizzare. Peter Dolving non solo ha una voce versatile, ma anche per vocazione è incline a muoversi su soluzioni più sperimentali. Ecco quindi che il ritorno del cantante Marco Aro nel 2013 fa si che i The Haunted tornano a menare in un death metal senza troppi fronzoli, dando vita ad un buon album come ‘Exit Wounds’ del 2014 in cui presenziano Ola Englund e il batterista Andrian Erlandsson (At the Gates) che assieme ad Aro hanno com-
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pletato la band svedese nel 2013. Tutto bello, ma questo ‘Strength in Numbers?’ Conferma quanto premesso dai singoli? Si, ha gli attributi. Tali da paragonarlo a uno dei migliori album della loro discografia, ‘The Haunted Me Do It’ del 2000. Prendiamo uno dei miei brani preferiti, ‘Preachers of Death’, dove Aro deflagra in vocalizzi pesantissimi e remoti, mentre le chitarre alternano riff sempre personali a soli melodici che donano profondità e drammaticità alla messa in scena. Se ‘The Strenght in Numbers’ è opera massiccia, estrema, non per questo dobbiamo pensare che sia limitata nello suo spettro espressivo. E’ vero anzi il contrario. Infatti i The Haunted sono in grado di spostare gli equilibri dando vita alla furia thrash metal di ‘Tighten the Noose’. Diversamente in ‘This is the End’ giocano su un riff ossessivo, dalle tonalità
industrial, che trova una corrispondenza perfetta nella batteria jazzy di Erlandsson. Quello che poi non si può non apprezzare è come ogni strumento venga valorizzato al meglio. Pure il basso che viene spesso sacrificato in opere così estreme. Da ascoltare in tal senso la title-track che prende avvio in un arpeggio sinistro per poi muoversi in una magnifica sinfonia death dove il basso di Jonas Björler danza malvagio in un esplodere di riff saturi alternati a break tali da rimanere senza fiato. I restanti singoli, ‘Brute Force’ e ‘Spark’, sono nella mia testa da un pezzo e da lì non si muovono. Il resto anche. Direi che ‘Strength in Numbers’ è qualcosa che difficilmente vi toglierete di torno per un bel pò. I The Haunted sono di nuovo tra noi e si, hanno decisamente gli attributi. Marco Giono
Nothing More
The Stories We Tell Ourselves
(Better Noise Records) Quattro anni non sono pochi di questi tempi. Nell’era dell’obliquità presenzialista ingenerata dai social media, i Nothing More se la prendono con comodo, prima di dare vita al successore del loro album omonimo del 2013 (che a sua volta era uscito quattro anni dopo ‘The Few Not Fleeting’ del 2009). Premetto che la lunga pausa non ha cambiato più di tanto i connotati del gruppo, ma gli ha donato di certo un’energia creativa che trabocca da ogni singolo brano di ‘The Stories We Tell Ourselves’. ‘Do You Wanna Really it’ apre l’album e in fondo lo definisce. Ci sono ancora i riff alternative metal, ma sono inseriti in una struttura rock pop che mette in risalto una melodia in alta definizio-
ne. Come se i Linkin Park si incontrassero con i Fall Out Boy e fosse la cosa più naturale al mondo. La miscela trova una miracolosa sublimazione in ‘Funny Little Creatures’. La batteria del nuovo Ben Anderson alleggerisce i toni e allo stesso tempo arricchisce la struttura dei brani, persino quando ci troviamo di fronte a ‘Let’ Em Burn’. Traccia da battaglia che potrebbe limitarsi a un coro trascinante e invece stupisce per ricchezza di dettagli. I Nothing More sono in forma e lo ribadiscono a ogni nuovo brano, ad ogni nuova invenzione. Nel brano ‘Go to War’ c’è pure un rimando alla musica folk che ne impreziosisce le dinamiche. Velocità e lentezza si alternano, ma sempre con un’idea precisa di
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melodia. Dovessi trovare una sbavatura, per gusto personale, punterei al lentone acustico ‘Just Say When’ che pur mostrando eleganza compositiva, fatica a lasciare il segno. Il resto però funziona, anche nell’ultimo brano ‘FadeinFadeout’ con quella cupezza meditativa che esplode in crescendo sul finire del brano. Non so se ci troviamo di fronte a un concept o con più probabilità di un album a tema (introspezione et similia), ma di certo funziona maledettamente bene. ‘The Stories We Tell Ourselves’ intrattiene e vi trattiene a lungo nel suo mondo che è distillato di energia e melodia…e Niente Di Più. Marco Giono
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Horrid Beyond The Dark Border
(Dunkelheit Produktionen)
Horrid è garanzia, attitudine, passione, in poche parole il vero death metal italiano. Nati nel 1988 e ancora in forza grazie alla caparbietà di David “Belfagor”, chitarrista, mente e unico fondatore rimasto nella attuale line-up, oggi questa nuova formazione a tre vede ritornare in grande forma una band che non mi ha mai deluso e che non ho mai smesso di seguire, loro sono la vecchia scuola, loro rappresentano il vero underground Made in Italy, loro sono davvero un grande orgoglio per la scena nazionale e internazionale, ci hanno sempre rappresentato con delle produzioni validissime, il loro stampo è quello e non si discute! Siamo così alle prese con il tanto
atteso quinto album, “Beyond The Dark Border”, un concentrato di oscurità e potenza allo stato puro. Chitarre in pieno stile Swedish, batteria corposa e serrata, voci imponenti e ritmiche infernali, con loro il tempo sembra quasi essersi fermato, è questa la caratteristica principale di questa band: non aver subito mai cambiamenti stilistici, rimanendo sempre fedeli alla loro identità. Un disco pensato e scritto a regola d’arte con una produzione di alto livello grazie ai 16th Cellar Studio di Stefano Morabito, ormai maestro indiscusso per le produzioni estreme in Italia. Se amate Dismember ed Entombed questo è il disco che fa per voi, cinquanta minuti di
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autentico death metal, puro e senza compromessi prodotto dalla tedesca Dunkelheit Produktionen. David ha così raggiunto con questa nuova formazione la giusta dimensione per divulgare il verbo di questa maledetta creatura chiamata Horrid, i brani sono tutti incredibilmente piacevoli, il disco scorre senza mai deludere, chitarre e batteria si fondono alla perfezione, le metriche vocali e il basso di Dagon completano egregiamente un prodotto che merita di essere supportato e che darà alla band la possibilità di dar vita a dei nuovi grandi dischi da collezionare. Lunga vita agli Horrid! Death metal per sempre, fino alla fine! Alex ‘Necrotorture’ Manco
The Lurking Fear
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Out Of The Voiceless Grave (Century Media/Sony)
Un tuono imperversava nella notte quando mi diressi verso la Montagna alla ricerca dei The Lurking Fear. Nel cominciare questa recensione non ho potuto esimermi dal prendere spunto dalle prime righe del racconto di Lovecraft che ha dato il nome ai The Lurking Fear stessi. Il celebre scrittore dell’innominabile diventa, di nuovo, musa per il metal. Nello specifico trattiamo di una band death metal. Certamente non una band di giovani marmotte. Infatti alla voce troviamo Tomas Lindberg degli At the Gates che incontra le chitarre di Stålhammar (Bomb of Hades, God Macabre) e di Wallenberg (Skitsystem), il basso di Axelsson (Disfear, Edge of Sanity) ed in un ultimo la batteria di Adrian Erlandsson (At the Gates e The Haunted). Un gruppo quindi d’alto lignaggio e con l’intento nobile di raccontare le profondità della mente di Lovecraft grazie ad un death metal antico, diretto e brutale. Ovviamente non basta a definirli, è necessario piuttosto discendere con circospezione nel loro disco d’esordio ‘Out Of The Voiceless Gra-
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ve’ per comprenderne l’essenza. O meglio discendere lì dove si genera il vortice. ‘Vortex Spawn’ infatti è death metal grezzo, primordiale che trova la sua chiave di lettura in ritmiche serrate che velocemente convergono in soli virtuosi, le cui note danno vita un’atmosfera possente, ancestrale, cose quindi non lontane dai mondi di Lovecraft. Se cercassimo appigli per comprenderne le origini dovremmo guardare alla prima band di Tompa, i Grotesque “In the Embrace of Evil” del 1989 e alle prime cose degli At the Gates. Infatti, i The Lurking Fear ripropongo un death metal che è vecchia scuola (per citarvi altre influenze mi vengono in mente anche i primi Morbid Angel e i Dismember) nel suo non essere troppo ruffiano nelle melodie e contemporaneamente, come nelle vecchie pellicole horror, in grado di gestire i tempi in un’estetica quadrata. Affiorano tracce di Maiden in ‘Teeth Of The Dark Plains’ che risulta così da subito leggibile, come del resto è immediato e affilato è il brano ‘The Cold Jaws Of Death’. Voglio citare poi ‘Tentacles of Blackened Horror’
che si muove ossessiva verso montagne inarrivabili, dove la paura stessa cede il passo ad un orrore muto. Mettendo da parte velleità da scriba improvvisato per tornare al nostro ‘Out Of The Voiceless Grave’ è bene sapere quello che si va cercando prima di dare troppo peso al giudizio numerico, comunque positivo. Troviamo in realtà una band perfettamente nel suo elemento. I The Lurking Fear maneggiano con grande destrezza, il death metal (avevo pochi dubbi in proposito) e lo fanno, dando vita ad una versione credibile dell’antico anche grazie a suoni che rigettano l’idea stessa di facilità o di leggerezza. Tutto si muove brutale e cristallino. Ci poteva stare che osassero di più in modo da avere picchi qualitativi e di originalità più alti? Forse, si, visto anche i livello degli artisti coinvolti, tuttavia non era quello che cercavano. Quello che invece Io ho trovato è un buon disco in grado di tramorti grazie ad atmosfere cupe, potenti ed epiche, nel senso più efferato del termine. Marco Giono
recens
Republica
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Brutal & Beautiful
(Odissey Music Network)
Republica, no...non è un errore di battitura o di stampa. Si chiamano proprio così. Il quintetto brasiliano giunto con ‘Brutal & Beautiful’ a presentare il loro quarto album di una carriera iniziata nel lontano 1996 con l’omonimo album di debutto. E non li si confonda neanche con la band inglese techno-pop punk rock che nella metà degli anni novanta raggiunse un certo successo a livello internazionale. Ma il tratto che accomuna le due band non è certo lo stile musicale quanto il successo internazionale dei secondi, la voglia invece dei brasiliani di ampliare la propria fan base al di fuori del natio Brasile dove sono già discretamente conosciuti grazie anche a svariati festival quali il Rock In Rio. Si tratta di fare il cosiddetto salto di qualità, quel cambio di marcia che gli permetta di trovare consensi nel Vecchio Continente come in altri Paesi quali gli Stati Uniti, un
successo ad ampio respiro internazionale. Legittimo. Sacrosanto. Andando un po’ più nel dettaglio, il nuovo album non differisce sostanzialmente a livello stilistico rispetto alle precedenti tre produzioni, un alternative rock che vede in band come 3 Doors Down e Alter Bridge le proprie muse ispiratrici, nella capacità di creare deliziosi ritornelli guardando ai 3 Doors Down e di creare ruvidi passaggi di chitarra tipici dello stile di Mark Tremonti. Per dare un tocco internazionale al ‘brand’ Republica la band si è recata in quel di Los Angeles da Matt Wallace (Faith No More, R.E.M., Train, 3 Doors Down, Spin Doctors) e i risultati in fase di produzione non si fanno attendere, poiché se a livello stilistico le canzoni di ‘Brutal & Beautiful’ non si discostano da quanto già prodotto in precedenza, a livello di arrangiamenti e di suoni hanno fatto un vero salto di qualità. Purtroppo però
avere un produttore blasonato non è sufficiente da solo a produrre il miglior disco sulla faccia della Terra, quello che manca alla band di Leo Beling è la dinamica e la varietà compositiva che rendono un po’ faticoso l’ascolto prolungato del disco che invece va preso a piccole dosi. Ecco, allora, che brani come la ruvida ‘Black Wings’ e ‘The Maze’ risultano essere accattivanti ed estremamente godibili, la prova dei brasiliani è convincente facendo presagire a grandi cose in fase live. Detto ciò, ‘Brutal & Beautiful’ è disco agrodolce, è un album che tenterà timidamente di affacciare la band al di fuori dal natio Brasile ma senza lasciare particolarmente il segno, le potenzialità ci sono tutte e magari nel prossimo album potranno definitivamente spiccare il volo. Nell’attesa proviamo a goderci questo album, a piccole dosi. Andrea Schwarz
Threshold
‘Legends Of The Shires’, diciamolo fin da subito, si candida a essere tra le migliori produzioni del 2017 nonostante manchino ancora tre mesi e poco più alla fine dell’anno solare. Ma la qualità, le canzoni qui presenti li consegnano di diritto nella speciale lista che ogni anno ci si diverte a compilare, quasi come un promemoria di quanto un determinato anno sia stato avido o procace di ‘bellezze musicali’ che hanno solleticato i nostri timpani. A distanza di tre anni dal precedente ‘For The Journey’, il nuovo album della ‘premiata ditta’ Richard West - Karl Groom ci consegna un concept album mostruoso che ricalca in maniera più completa e matura gli stilemi che hanno contraddistinto le precedenti produzioni, un ritorno alle sonorità di album come ‘Dead Reckoning’ e ‘Subsurface’ tralasciando l’apparente semplicità di ‘For The Journey’. Le canzoni vibrano di un’energia smagliante, composizioni elegantemente intricate e intelligentemente assemblate, l’esperienza sonora dona ai padiglioni auricolari risonanze significative dove tutti i fan dei Threshold potranno immediatamente iden-
tificarsi nella tipica architettura sonora evocata dal sound della band. ‘Legends Of The Shires’ è un album molto ambizioso non solo per il semplice fatto che siamo di fronte a un doppio album ma più precisamente perché esplora in maniera perfetta strati di complessità progressive deliziando gli ascoltatori con nuove soluzioni espressive che riescono a emozionare a ogni ascolto. Non possiamo esimerci dal sottolineare come l’album mostra un approccio più naturale alla composizione accuratamente e amorevolmente curato ed affinato dopo anni e anni di esperienza, frequenti cambi di tempo e ritmo che a volte sembrano solo transitori ma che invece marchiano a fuoco le singole partiture, riflettono un arte compositiva che riesce ad avere un organico equilibrio che rappresenta il loro tipico sound. Questo però non sottintende che la band riproponga semplicemente vecchi stilemi triti e ritriti in maniera nostalgica, tutt’altro. Il ritorno di Glynn Morgan risulta essere mossa vincente, la sua voce maggiormente potente e mid-range si trova perfettamente a proprio agio anche se in alcune
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(Nuclear Blast/Warner)
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LegendS of the Shires
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occasioni non possiamo notare che una maggiore estensione vocale avrebbe giovato al risultato finale che però, è bene rimarcarlo ancora una volta, è assolutamente positivo e convincente. E lo è fin dalle prime note di ‘Small Dark Lines’ con il suo heavy riffing e il suo preciso e maniacale drumming che mette in luce fin da subito i tratti distintivi dell’intero album, la voce di Morgan canta un chorus così catchy che lo canterete nella vostra testa per giorni interi. Ed i Threshold non hanno timori nell’utilizzare le melodie, anzi. È difficile estrapolare questo o quel brano, tutti riescono in egual misura ad andare diritti nel segno, in ordine sparso potremmo scegliere la title-track, ‘Star And Satellites’, ‘Trust The Process’ con i suoi arrangiamenti orchestrali posti in apertura e il suo cantato che sembra una cantilena a presa rapida, la conclusiva ballad ‘Swallowed’ che chiude uno dei migliori lavori che i Threshold abbiano mai pubblicato. Chapeau, ‘Legends Of The Shires’ è un autentico colpo da maestro, difficile non innamorarsene. Andrea Schwarz
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