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Direttore responsabile Mariella Crocellà Redazione Antonio Alfano Gianni Amunni Alessandro Bussotti Francesco Carnevale Bruno Cravedi Laura D'Addio Gian Paolo Donzelli Claudio Galanti Marco Geddes Loredano Giorni Carlo Hanau Gavino Maciocco Mariella Orsi Marco Monari Paolo Sarti Collaboratori Marco Biocca, Centro Documentazione Regione Emilia-Romagna Eva Buiatti, Osservatorio Epidemiologico, Agenzia Regionale di Sanità della Toscana Giuseppe Costa, Epidemiologia - Grugliasco, Torino Nerina Dirindin, Dipartimento di Scienze Economiche Finanziarie – Università di Torino Luca Lattuada, Agenzia Regionale della Sanità - Friuli Pierluigi Morosini, Istituto Superiore di Sanità - Roma Luigi Tonelli, Direzione Sanitaria - Siena Comitato Scientifico Giovanni Berlinguer, Professore Emerito Facoltà di Scienze - Roma Claudio Calvaruso, Direttore Generale Studi Documentazione Sanitaria e Comunicazione ai cittadini. Ministero della Sanità - Roma Giorgio Cosmacini, Centro Italiano di Storia Sanitaria e Ospitaliera - Reggio Emilia Silvio Garattini, Istituto Negri - Milano Donato Greco, Direttore Laboratorio Epidemiologia e Biostatistica - Istituto Superiore di Sanità Elio Guzzanti, Docente di Organizzazione Sanitaria Facoltà di Medicina e Chirurgia "A. Gemelli" - Roma Tommaso Lo Savio, Ospedale Psichiatrico S.Maria della Pietà - Roma Segreteria di redazione Patrizia Sorghi Salvini Simonetta Piazzesi Direzione, Redazione Via Fiume, 8 - 50133 Firenze Tel. 055/282703 - Fax 055/282703 salute.territorio@virgilio.it Pacini Editore S.p.A. Via Gherardesca, 56121 Ospedaletto (PI) Tel. 050/313011 - Fax 050/3130300 Pacini.Editore@pacinieditore.it. www.pacinionline.it Questo numero è stato chiuso in redazione il 6 dicembre 2003
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Rivista bimestrale di politica-socio-sanitaria fondata da L. Gambassini Giunta Regionale Toscana ANNO XXIV - Luglio-Agosto 2003
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D. Kriebel, J. Tickner A. Pedone, S. Bartolucci, A. Ghiandai, M. la Mastra, R. Romizi M.G. Barneschi, M.F. Palmarini, A. Ciani, M. Marsili, N. Zamperetti, D. Mazzon, L. Orsi, C. Rossi, M. Geddes, G. Campanile
Spazio Toscana 220 E. Buiatti, E. Marchini, A. Dolara Monografia 223 E. Rossi 225 B. Giordano 229 G.F. Gensini, A.A. Conti, R. Rasoini, C. Rostagno 232 S. Rodella 235 P. Bonini, F. Rubboli 238 T. Bellandi, R. Tartaglia, P. De Simone, C. Tomassini, V. Casotto 246 R. Cinotti, V. Basini, P. Di Denia Esperienze dal territorio 250 G. Cangiano, R. Paleani
Politica ambientale Il progetto “Città sane”
Il limite alle cure
L’adeguamento della rete nazionale
Centri aventi funzioni di riferimento nella Regione Toscana L’errore in medicina Le responsabilità dell’informazione Il punto di vista giuridico Il “critical pathway” La cultura della sicurezza La sicurezza del paziente Il clima organizzativo ospedaliero
Approccio integrato alla gestione del rischio
Il triage di Pronto Soccorso
Abbonamenti 2003 Italia € 41,32 Estero € 46,48 I versamenti devono essere effettuati sul c/c postale 10370567 intestato a Pacini Editore S.p.A., specificando nella causale «abbonamento a Salute e Territorio».
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David Kriebel Joel Tickner
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Politica ambientale
Lowell center for sustainable production Department of work environment University of Massachusetts. Lowell
el Marzo 1999, il Los Angeles Unified School District, il più grande comprensorio scolastico della nazione, annunciò una nuova politica per l’uso dei pesticidi all’interno dei propri edifici. Il distretto aderì ad una metodica di disinfestazione integrata che favoriva l’utilizzo di prodotti non chimici, ponendosi come obiettivo a lungo termine la completa eliminazione di tutti i sistemi di disinfestazione chimici. Nel sostenere questo approccio, il distretto scolastico, affermò che: il principio di precauzione è l’obiettivo a lungo termine del distretto. Questo principio riconosce che: 1. Nessun pesticida è completamente privo di rischi per la salute dell’uomo. 2. Le industrie produttrici dovrebbero essere obbligate a dimostrare che i loro prodotti non costituiscono un rischio, piuttosto che richiedere al governo o alla società di evidenziare l’esistenza di un danno per la salute dei cittadini. Definendo una serie di principi base (tutti i pesticidi sono potenzialmente pericolosi e quindi bisognerebbe optare per sistemi di disinfestazione non chimici) ed un obiettivo a lungo termine (avvalersi dell’approccio più sicuro ed a minor rischio per l’eliminazione dei parassiti, proteg-
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gendo la popolazione, l’ambiente e la proprietà), questa politica stimola la ricerca di un’alternativa sicura, senza legare le mani al distretto quando non vi è alternativa all’uso di un pesticida. Essa è importante anche per quello che non dice: non esiste una lista di sostanze da bandire, né vi è la clausola di “accettabile livello di rischio”. Che si concordi o meno (noi concordiamo) con questo approccio alla disinfestazione, è chiaro che l’invocazione del principio di precauzione da parte del distretto scolastico fa emergere questioni importanti sia per i ricercatori che per i sostenitori della sanità pubblica. In questo articolo verranno brevemente descritti gli elementi chiave del principio di precauzione, con particolare riferimento agli aspetti più rilevanti per la sanità pubblica. La prospettiva da noi proposta deriva dallo sforzo combinato di università e comunità per definire nei particolari il significato di “principio di precauzione” e sviluppare strategie per applicarlo alle politiche ambientali. Noi sosteniamo che il principio di precauzione è valido anche in sanità pubblica, poiché favorisce la ricerca di tecnologie più sicure, incoraggia la partecipazione democratica, favorisce una maggiore apertu-
Stimolare la sanità pubblica attraverso il principio di precauzione ra di vedute e stimola la revisione dei metodi di ricerca in questa disciplina. Definizione del principio di precauzione Una definizione di principio di precauzione frequentemente citata è quella sviluppata per la “Dichiarazione di Rio” del 1992 ed il Wingspread Statement del 1998 utilizza un linguaggio molto simile. “Quando un’attività appare una minaccia per la salute pubblica o per l’ambiente, è necessario prendere in considerazione misure precauzionali, anche se alcune relazioni causa-effetto non sono state completamente dimostrate“. La dichiarazione elenca anche le quattro componenti chiave del principio: 1. Assumere provvedimenti preventivi anche in presenza di incertezze. 2. Trasferire la responsabilità di raccogliere prove sul soggetto proponente l’attività. 3. Esplorare il più ampio range di alternative possibili ad un’azione potenzialmente dannosa. 4. Incrementare la partecipazione pubblica al processo decisionale.
Il termine “principio di precauzione”(precautionary principle) è stato introdotto nel vocabolario inglese come traduzione della parola tedesca Vorsorgeprinzip. Una traduzione alternativa potrebbe essere “principio di previsione” (foresight principle), che ha una connotazione anticipatoria - un’idea attiva, positiva- mentre a molti il termine precauzione suona negativa. Nella politica ambientale tedesca, il Vorsorgeprinzip stimola la ricerca sociale volta all’innovazione, alla sostenibilità ed alla creazione di nuovi impieghi. Negli Stati Uniti, il principio di precauzione viene propugnato dagli ambientalisti e dai sostenitori della sanità pubblica. Essi considerano la politica ambientale statunitense più reazionaria che precauzionale, in quanto l’adozione di azioni preventive richiede un alto livello di certezza del danno ed inoltre privilegia la gestione del rischio rispetto alla sua prevenzione. Il principio di precauzione viene considerato come un’opportunità per spostare i termini del dibattito ambientalista, invocando azioni preventive anche in caso di in-
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certezza (ma con credibili evidenze di un potenziale impatto negativo), trasferendo l’onere del monitoraggio e della valutazione del rischio su coloro che propongono l’attività potenzialmente pericolosa ed enfatizzando la partecipazione democratica e la ricerca di alternative. L’American Public Health Association ha recentemente approvato una risoluzione che riafferma il suo sostegno al principio e che spinge per la sua applicazione nella protezione della salute infantile dai rischi ambientali. Forte sostegno al principio di precauzione è presente anche nella politica ambientale dell’Unione Europea. Data l’importanza di anticipare conseguenze indesiderate di interventi sanitari considerati positivi, il principio di precauzione viene invocato anche per la sanità pubblica. Evitare di creare nuovi problemi durante la soluzione di quelli già esistenti è un aspetto importante, anche se non è l’unico modo in cui il principio di precauzione può essere utile. Il principio di precauzione come stimolo allo sviluppo di nuove tecnologie L’identificazione di alternative e di opportunità più sicure è il tema centrale del principio di precauzione. Troppo frequentemente i politici chiedono: “Qual è il rischio posto da questa attività ed è esso significativo? Oppure “Qual è il livello di rischio accettabile?” Queste domande, radicate nell’approccio normativo di molte agenzie governative,
focalizzano l’attenzione sulla quantificazione di un potenziale pericolo piuttosto che sulla prevenzione dell’inquinamento. Esse spesso provocano un acceso dibattito sulla precisa caratterizzazione del rischio. Quando i sostenitori della sanità pubblica o gli ambientalisti entrano in questa discussione, essi possono inavvertitamente cedere sulla posizione più forte, cioè se la sostanza o l’attività pericolosa sia assolutamente necessaria. Un modo di pensare diverso e possibilmente più “precauzionale” prende origine da un altro gruppo di domande: “L’attività proposta è necessaria? E se lo è, quanta contaminazione possiamo evitare, pur raggiungendo gli obbiettivi previsti? Infine, esistono alternative che escludano del tutto il pericolo?” Per esempio, i solventi clorati hanno una funzione pulente che è possibile ottenere anche con sostanze acquose. Questo cambio di prospettiva richiede competenze spesso assenti nelle agenzie governative – progettazione della tecnologia e del prodotto, giustificazione ed esplicitazione dei costi ed altri sistemi di gestione. Inoltre essa necessita della più ampia visione possibile sulle conseguenze non previste delle scelte politiche. Esistono numerosi metodi per identificare le diverse opzioni politiche e le conseguenze non volute di un’attività. La trade-off analysis è stata proposta come un’alternativa alle tradizionali analisi di costo-beneficio e di valutazione del rischio. Con questo ap-
proccio vengono considerati tutti i rischi ed i benefici delle tecnologie concorrenti, senza tradurre le potenziali conseguenze in una singola espressione quantitativa. La valutazione di impatto fornisce uno strumento per identificare le implicazioni negative sulla salute di politiche governative non sanitarie. In ambiente di lavoro, la valutazione di impatto può essere utilizzata per evidenziare come un intervento in questa sede possa diventare un rischio non previsto per la salute dei lavoratori. Il Pollution Prevention Options Analysis System fornisce un approccio semiquantitativo per confrontare e valutare i potenziali effetti negativi delle tecnologie progettate per ridurre l’utilizzo di prodotti chimici e la produzione di rifiuti chimici. La riformulazione delle domande che definiscono il problema sposta l’attenzione della politica ambientale dalla quantificazione del rischio all’analisi di soluzioni, consentendo quindi una più ampia disamina di tutte le evidenze disponibili sul rischio, sulla esposizione, sulle incertezze e sulle alternative. Il principio di precauzione è un modo per dire sì a tecnologie innovative più pulite (anche se gli scettici sostengono che esso porterà solamente ad un arresto dello sviluppo tecnologico). Un’approfondita valutazione delle alternative permette di identificare il bisogno di soluzioni meno inquinanti e può influenzare la pianificazione di attività economiche sostenibili.
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Negli Stati Uniti, la valutazione quantitativa del rischio ha un ruolo fondamentale nella politica sanitaria ambientale. Il confronto tra le diverse opzioni coinvolge inevitabilmente la valutazione ed il confronto dei rischi, ma il determinare se un rischio è troppo elevato dipende in parte dalle alternative disponibili per ridurlo. La disponibilità di opzioni più sicure evita il ricorso ad una costosa, controversa e spesso fuorviante valutazione del rischio. Un esempio è rappresentato dalla decisione di bandire gli ftalati dai giocattoli. La Danish Environment Agency ha illustrato la sua decisione come segue: “Vi sono evidenze che dimostrano l’esposizione dei bambini e la tossicità negli animali; i bambini sono particolarmente suscettibili a molte sostanze tossiche; esistono materiali alternativi; il prodotto in causa non è indispensabile”. L’Agenzia ha concluso che queste sostanze plastificanti non dovrebbero essere utilizzate nella fabbricazioni dei giocattoli (L. Seedorf, MS; Direttore della Chemical Division, Danish Environmental Protection Agency, comunicazione orale, Maggio 1999). La US Consumer Product Safety Commission ha raggiunto una decisione simile, ma solo dopo un lungo e costoso studio di quantificazione del rischio. La commissione ha concluso che, data l’incertezza sull’entità del rischio, le industrie produttrici dovrebbero volontariamente eliminare queste sostanze dai giocattoli. Alla fine il risultato è stato lo stesso, ma l’ap-
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proccio decisionale ed i costi per la società sono stati assai diversi. Il principio di precauzione dovrebbe indurre la definizione di obiettivi a lungo termine, una pratica relativamente comune in sanità pubblica. Esempi sono rappresentati dall’eradicazione del vaiolo, dal progetto US Public Health Service Healthy People 2010 e dagli obiettivi nutrizionali nazionali. La pianificazione di un obiettivo non è focalizzata su quali eventi futuri probabilmente si realizzeranno, ma, piuttosto, su come possono essere ottenuti gli eventi futuri auspicati. Stabilire uno scopo aiuta a concentrare l’attenzione sullo sviluppo di politiche e misure atte a raggiungerlo, minimizzando la disgregazione sociale e le conseguenze inattese. Rispetto alle sostanze pericolose, l’obiettivo dovrebbe comprendere la riduzione dell’esposizione, della produzione del rischio (per esempio escludere le sostanze chimiche più dannose) e dell’incidenza di malattie legate all’ambiente. Un ulteriore scopo è diminuire del 5-10% per anno l’impatto di molte sostanze tossiche sulla popolazione generale. Questo sforzo avrà probabilmente conseguenze fortemente positive, anche se non sarà mai possibile capire tutte le modalità attraverso cui miscele di basse concentrazioni di composti chimici possano influire sulla salute. Democrazia e precauzione La partecipazione e la trasparenza sono componenti essenziali di un approccio di ti-
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po precauzionale alle decisioni in sanità pubblica. Fiorino ha identificato numerose ragioni per cui è necessario rendere più democratico il processo decisionale in politica ambientale. Per prima cosa, i non esperti pensano in termini più ampi e non sono limitati da vincoli disciplinari: quindi essi vedono problemi, questioni e soluzioni che gli esperti non riescono ad individuare. In secondo luogo, un giudizio laico riflette una sensibilità a valori politici e sociali ed un senso comune che gli esperti non possiedono. In terzo luogo, i laici possono avere maggiori capacità di adattarsi alle incertezze e di correggere gli errori. Una mentalità più aperta offre una prospettiva più ampia, che ha maggiore probabilità di ridurre il rischio di conseguenze negative non previste. Inoltre, il confronto tra politiche alternative deve includere punti di vista diversi perché i costi ed i benefici delle scelte ambientali e di sanità pubblica possono ricadere su gruppi differenti. Quando la scelta tra le diverse alternative è molto incerta, è rischioso per gli esperti prendere decisioni senza ascoltare la comunità in causa. La strategia usuale è tentare di presentare l’opzione in modo estremamente chiaro ed i dati scientifici in maniera convincente. Tuttavia, la fiducia dei cittadini è stata minata da una lunga serie di incidenti sanitari ed ambientali apparentemente non previsti, che rendono poco efficaci le rassicurazioni degli scienziati. Tra questi eventi ricordiamo i disastri di Three
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Miles Island e di Chernobyl, il Love Canal, il buco dell’ozono, ed il riscaldamento terrestre. La cittadinanza, sempre più consapevole, ha messo in discussione le apparenti sicurezze della comunità scientifica. Dopo la vittoriosa campagna dei malati di AIDS e delle pazienti colpite da tumore al seno a favore della loro partecipazione nella pianificazione della ricerca, sembra essere giunto il momento di modificare radicalmente il modo con cui il pubblico è coinvolto nell’uso degli studi di sanità pubblica. Una maggiore partecipazione della società può migliorare la qualità, la legittimità e la esplicitazione (accountability) di decisioni complesse. Poiché le scelte relative alle politiche ambientali (che comprendono valori molto incerti e contestabili) riguardano il pubblico, un processo che favorisca il coinvolgimento della comunità in causa potrebbe aumentare la fiducia nel governo. Questi processi devono essere equi e corretti, cioè devono permettere l’accesso alla fase decisionale fin dalle prime fasi a tutti coloro che lo desiderano e devono fornire il supporto economico e tecnico necessario affinché il cittadino possa competere alla pari con i tecnici. Infine, deve esistere un chiaro meccanismo attraverso cui l’input dei cittadini viene compreso nella fase decisionale. In vista di una maggiore partecipazione della cittadinanza, è necessario impostare una strategia di educazione a lungo termine, che abbia lo scopo di aumentare le cono-
scenze sulla forza ed i limiti delle evidenze scientifiche. Da molti anni il Danish Board of Technology sta sperimentando forme decisionali innovative. Queste “Consensus conferences” includono gruppi di persone laiche formate in ambito scientifico e su altri problemi attuali, cosa che permette il dialogo tra il pubblico e gli esperti. Fino ad ora in Danimarca sono state tenute 20 di queste conferenze che hanno contribuito alla politica governativa sugli organismi geneticamente modificati, sul progetto del genoma umano e sull’inquinamento atmosferico. La scienza per il principio di precauzione Gli studiosi di scienze ambientali affrontano sistemi complessi e scarsamente compresi, in cui è difficile quantificare il legame tra esposizione e malattia. Data questa incertezza, quali sono gli standard di evidenza appropriati ed utili per i politici? La risposta dipende dalle singole situazioni. Noi riteniamo che in alcuni casi il metodo di investigazione scientifica impedisca implicitamente un approccio precauzionale al problema, rendendo la decisione politica più difficile in presenza di dati incerti. Spesso le ricerche scientifiche sono focalizzate su un aspetto ristretto e quantificabile del problema, mentre la realtà è più complessa e richiede la valutazione dell’intero sistema con un metodo di ricerca multidisciplinare. I ricercatori in sanità pubblica possono sostenere il principio di precauzione sceglien-
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do delle metodologie di studio che, pur all’interno della “buona pratica”, possono aiutare i politici che devono prendere decisioni di estrema importanza anche in presenza di dati incerti. Per esempio, una più ampia ricerca e comunicazione sulla incertezza dei risultati (cosa sappiamo, cosa non sappiamo e cosa non possiamo sapere) faciliterebbe un processo decisionale più aperto. Inoltre l’utilizzo di metodi qualitativi consentirebbe una migliore descrizione delle complesse caratteristiche della comunità e degli ecosistemi di cui abbiamo dati quantitativi. Infine, il principio di precauzione dovrebbe spingere gli studiosi verso nuove aree di ricerca – interazioni, effetti cumulativi ed effetti sui differenti livelli del sistema (individui, famiglie, comunità, nazioni), nonché favorire la collaborazione tra discipline e tra scienziati e cittadini. Gruppi multidisciplinari approderanno con maggiore facilità a ipotesi non concepibili con un punto di vista più ristretto e potranno identificare dati non comprensibili a persone con un solo tipo di competenza. Lo sviluppo del-
l’ipotesi della disgregazione endocrina ambientale è un esempio. Il principio di precauzione rappresenta un monito a rivalutare il modo con cui la scienza informa il mondo politico ed in particolare il modo in cui è necessario utilizzare le incertezze scientifiche. La ricerca ha un ruolo fondamentale nella valutazione dei costi, dei rischi e dei benefici delle politiche sanitarie proposte al pubblico, anche se i risultati sono spesso limitati da ampie aree di incertezza. In queste zone grigie, le attività potenzialmente pericolose per la comunità vengono comunque permesse, dato che le regole della scienza tradizionale richiedono forti evidenze per respingere l’ipotesi nulla e per individuare l’effetto dannoso. Questo conservatorismo scientifico viene spesso considerato favorevole ai promotori di attività o tecnologie potenzialmente pericolose, in quanto la ricerca non è in grado di produrre dati sufficienti a dimostrare il rischio. In ambito scientifico, essere “conservatori” non è la stessa cosa che essere “cauti”.
Quando esiste una forte incertezza circa i rischi ed i benefici di una determinata attività, la decisione politica deve tendere più verso l’estremità della cautela per l’ambiente e per la salute pubblica. Precauzione o reazione? Il principio di precauzione è stato criticato per essere troppo vago 24 25. In un certo senso questa osservazione è vera, ma attualmente si sta lavorando molto per definire cosa significhi “precauzione” nella pratica e come essa possa migliorare il processo decisionale in presenza di rischi complessi ed incerti. La sanità pubblica ha quindi l’opportunità di influenzare il modo in cui verrà definita la precauzione nella pratica. Allo stesso tempo esiste il rischio che i proponenti la definizione rimangano ancorati ad uno standard irrealisticamente elevato – l’assunzione che tutti i problemi di sanità pubblica possano essere risolti applicando il principio di precauzione. Quando la scienza e la politica si scontrano, ci sarà sempre ambiguità e controversia e non è pensabile che una
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qualsiasi nuova idea possa eliminarle completamente. Non dobbiamo abusare del principio di precauzione, specialmente quando un danno è stato chiaramente prodotto o al contrario, quando non vi è alcuna ragionevole evidenza per sospettare un rischio per la salute pubblica. Se il principio di precauzione è un obbiettivo auspicabile, potremmo domandarci: qual è il principio “non sufficientemente precauzionale” su cui sono fondate le politiche attuali? Troppo spesso le politiche sanitarie ed ambientali sono basate su un principio di reazione. Le agenzie governative sono poste nella condizione di dover attendere la chiara dimostrazione del danno, prima di poter intraprendere azioni preventive. Trasformare l’approccio reattivo in uno precauzionale è pienamente in linea con l’idea fondamentale della pratica di sanità pubblica. Pensiamo che i funzionari, i ricercatori ed i sostenitori di questa disciplina dovrebbero abbracciare il principio di precauzione considerandolo un’opportunità per rinvigorire la sua grande tradizione preventiva, anche in presenza di incertezza.
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Alessandra Pedone Sandra Bartolucci* Alessandro Ghiandai** Marco la Mastra*** Roberto Romizi****
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Il progetto “Città sane”
Azienda USl 8, Centro Francesco Redi/PASA * Azienda USl 8 ** Centro Francesco Redi/PASA, Agenda 21 Arezzo *** Provincia di Arezzo, Servizio Politiche Sociali **** Centro Francesco Redi/PASA, Associazione medici per l’ambiente
’OMS rivolge la propria attenzione alle città in quanto la salute della popolazione sarà in gran parte determinata dal modo in cui le città sapranno governarsi. Entro la fine del 21° secolo, infatti, si stima che circa i tre quarti della popolazione mondiale vivrà nelle città. Il Progetto “Città sane”, promosso nel 1985 dall’Organizzazione mondiale della sanità, comprende attualmente 49 città progetto. Il comune di Arezzo è entrato nella sperimentazione nel 1999. Le città sono accomunate tra loro nello sforzo di migliorare costantemente lo stato di salute, inteso come benessere fisico, psichico e sociale dei cittadini ponendolo al centro della politica locale. Il progetto “Città sane” rappresenta un importante tentativo di sperimentare nelle città un approccio basato su due principi chiave della strategia “salute per tutti”, cioè l’azione intersettoriale e la partecipazione comunitaria. L’obiettivo principale è promuovere la salute della città
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e dei suoi abitanti attraverso un’azione globale, basata sull’agire integrato di tutte le componenti della vita cittadina e sul coinvolgimento attivo dei cittadini, che sono chiamati ad assumersi una responsabilità personale per quanto riguarda gli stili di vita riconosciuti ormai come uno dei determinanti principali dello stato di salute. Per partecipare alla sperimentazione, Arezzo, come le altre 48 città, ha dichiarato il proprio impegno attraverso un atto del sindaco e del consiglio comunale; ha costituito il comitato direttivo, formato oltre che dal comune stesso, dalla provincia, università, scuola, ASL, ARPAT, associazioni rappresentative dell’utenza ed altre componenti rilevanti della città; si è dotato di una struttura minima “l’ufficio Città sane” e della figura di un coordinatore, che tiene i rapporti con l’OMS, ne recepisce le indicazioni, il materiale e, soprattutto, si fa carico di diffondere la metodologia. Le “Città sane” non sono le città migliori in assoluto, ma
Gli obiettivi stabiliti dall’OMS per valutare e migliorare lo stato di salute della popolazione. Un esempio della sperimentazione in atto nel nostro paese
quelle nelle quali l’obiettivo di promuovere la salute di tutti gli abitanti è considerato e perseguito in modo integrato da tutte le componenti della comunità. Sono quindi dei “laboratori sul campo”, che mettono insieme i concetti e le conoscenze provenienti da due scuole di pensiero diverse (la sanità pubblica e la pianificazione urbana) per creare nuovi meccanismi di azione locale e per stabilire i principi e la pratica di un nuovo approccio alla costruzione della salute. L’importanza dell’azione locale è sottolineata dal fatto che il Progetto Città sane è la prima occasione nella quale l’OMS ha avuto come interlocutori diretti le amministrazioni locali piuttosto che i governi degli stati.
La metodologia Il progetto è articolato in fasi: attualmente si sta concludendo la III fase 1998-2002. Ciascuna fase definisce degli obiettivi. La metodologia utilizzata prevede una valutazione annuale da parte di ciascuna città dei risultati raggiunti attraverso l’utilizzo di appositi strumenti di valutazione. L’ufficio centrale dell’OMS diffonde i risultati di tali valutazioni, rileva le criticità ed elabora proposte di approfondimenti da presentare e condividere in occasione degli incontri periodici (business meetings) a cui partecipano le città progetto. In tali incontri sono affrontate tematiche specifiche quali la povertà, l’equità, la sostenibilità, la partecipazione e la programmazione integrata.
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Ciascun argomento è analizzato in tutti i suoi aspetti perché le città condividano anche concetti e linguaggi e possano affrontare le varie problematiche con la consapevolezza piena del loro significato e delle implicazioni. Oltre le città progetto, facenti parte della rete internazionale europea di “Città sane”, si sono costituite le reti nazionali e, più recentemente, le reti regionali. In Italia, oltre 100 comuni hanno aderito al progetto e sono organizzate occasioni di scambio di esperienze e documentazione. Le città progetto si devono dotare di due strumenti fondamentali: il profilo di salute e il piano di salute. Il “profilo di salute” è uno strumento tecnico, perché costruito su una base di indicatori proposti dall’OMS e al tempo stesso divulgativo, poiché deve essere di facile comprensione anche per i non addetti ai lavori. Ha lo scopo di rilevare lo stato di salute della città attraverso indicatori che misurano la salute dei cittadini e i maggiori fattori che la influenzano. Il “profilo di salute” rappresenta uno degli strumenti fondamentali che ogni comune aderente alla rete Città sane costruisce in modo che amministratori e decisori politici locali, operatori di enti pubblici e privati e rappresentanti dell’associazionismo possano trarvi indicazioni utili per individuare strategie, obiettivi prioritari e programmi d’intervento concreto nella città. È importante definire le fonti e i criteri di rilevazione degli indicatori perché il profilo di salute costituisce an-
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che lo strumento attraverso il quale si verificano, negli anni, i risultati ottenuti. Ad Arezzo sono stati predisposti i profili per il 1998 e 2000 ed è programmata la redazione del 2002. L’Organizzazione mondiale della sanità ha proposto un A1 A2 A3 B1 B2 B3 B4 B5 B6 B7
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C1 C2 C3 C4 C5 C6 C7 C8 C9 C10 C11 C12 C13 C14 D1 D2 D3 D4 D5 D6 D7 E -
set base di 32 indicatori (Tab. 1) che rispondono ad un principio di fattibilità (sono significativi anche per comuni con un numero limitato di abitanti e privi di particolari strutture) e, nel contempo, sono sufficienti per rappresentare lo stato di salute del-
Mortalità per tutte le cause Mortalità per causa Basso peso alla nascita Educazione alla salute Vaccinazioni obbligatorie Abitanti per medico di base Abitanti per infermiere Abitanti con assicurazione sanitaria Servizi in lingua straniera Questioni di salute prese in esame dal consiglio comunale Inquinamento atmosferico Qualità della fornitura idrica Sostanze inquinanti dell’acqua Qualità della raccolta dei rifiuti Qualità dello smaltimento dei rifiuti Spazi verdi nella città Accesso agli spazi verdi Siti industriali dismessi Impianti sportivi Zone pedonali Ciclismo in città Trasporto pubblico Copertura rete di trasporto pubblico Spazio abitabile Alloggi disagiati Senzatetto Tasso di disoccupazione Povertà Asili nido Natalità Aborti spontanei Informazioni generali sulla popolazione
la comunità. La metodologia risulta quindi funzionale ad un utilizzo interno del territorio comunale, ma anche ad un confronto fra le diverse città della rete, dato che l’O.M.S. indica con precisione la definizione, le caratteristiche dei dati utilizzati e il me-
Tab. 1 - Elenco indicatori dell’Organizzazione mondiale della sanità.
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todo di calcolo per ogni singolo indicatore. I macro-ambiti analizzati tramite gli indicatori si possono suddividere in: • Aspetti demografici • Caratteristiche di salute • Servizi sanitari • Ambiente fisico e inquinamento • Ambiente socio-economico. Ciascuna città può, comunque, integrare tale set definito con indicatori che tengano conto delle particolarità locali, poiché l’analisi del tessuto sociale può evidenziare la necessità di specifici approfondimenti per alcuni fenomeni oppure l’integrazione su aspetti della comunità non indagati. Nel “profilo di salute” di Arezzo, il set proposto dall’OMS è stato integrato dal “Gruppo di lavoro” con degli indicatori relativi all’immigratorietà (un fenomeno che sta assumendo sempre più rilevanza e incide fortemente sulle politiche locali), alla mortalità giovanile, alle interruzioni volontarie di gravidanza, ai ricoveri ospedalieri, all’inquinamento acustico e ai flussi di traffico, all’abbandono scolastico, alla criminalità e all’associazionismo: tutti elementi che hanno sicuramente un impatto con la salute e il benessere della comunità aretina. Gli indicatori sono generalmente rilevati a livello comunale; in molti casi è utile una loro disaggregazione in sottogruppi della popolazione o in subaree urbane espressione di livelli diversificati di rischio. Il piano di salute della città Il profilo fotografa lo stato di salute, il piano è lo strumen-
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to attraverso il quale può essere migliorato. Molte città europee hanno costruito il loro piano di salute con l’individuazione di obiettivi chiari di breve, medio e lungo termine, partendo dalle evidenze epidemiologiche emerse con il profilo, da problematiche demografiche (invecchiamento, immigrazione) o semplicemente dalla necessità di migliorare gli stili di vita. La realizzazione del piano di salute richiede l’apporto di competenze intersettoriali (i diversi settori con cui è organizzata l’amministrazione del comune) e interistituzionali (tutte le componenti individuate dal progetto: università, scuola, azienda sanitaria, associazioni, volontariato). La pianificazione urbana, la dislocazione delle attività produttive e dei servizi, il trattamento dei rifiuti e l’organizzazione dei trasporti hanno molta più ricaduta in termini di salute che non la programmazione in senso stretto dei servizi sanitari, unico strumento fino ad oggi utilizzato per “promuovere la salute”. La salute dell’anziano ad esempio si promuove salvaguardando la sua autosufficienza, la possibilità di fruire di una città sicura, di mantenere le relazioni sociali, di avere una vita attiva, di vivere il più a lungo possibile nella propria abitazione anche quando le condizioni di salute peggiorano e non solo organizzando i servizi sanitari che intervengono quando la salute non c’è più. Nella esperienza di Arezzo la realizzazione del piano di sa-
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lute rappresenta l’aspetto più critico. Tra le difficoltà riscontrate, comuni a molte città, per arrivare ad una programmazione integrata si possono rilevare: • mancata comprensione dei benefici che si potrebbero ottenere (il progetto Città sane come risorsa, come valore aggiunto); • “territorialismo”: le istituzioni ed organizzazioni difendono la propria area di competenza da ciò che percepiscono come “minacce d’ingerenza”, perdita di prestigio, potere; • integrazione degli organismi promotori condizionata dalle singole figure appartenenti agli enti; • frequente scollamento tra i risultati raggiunti dai singoli progetti e il governo della città. Le soluzioni proposte per la costituzione e il mantenimento dell’health partnership sono: • lavoro per progetti legati ai momenti di programmazione degli enti e quindi alle risorse economiche investite; • coinvolgimento dei dirigenti e dei funzionari delle varie istituzioni pubbliche implicate; • formazione continua del personale che lavora nei diversi enti; • individuazione di strumenti di comunicazione sia interna che esterna, distinti per target di riferimento e mezzo utilizzato; • costruzione di un sistema informativo locale; • dipendenza del progetto direttamente dal sindaco, per garantire l’intersettorialità interna e l’integra-
zione tra i soggetti pubblici e privati interessati. Il PSR 2002-2004 ha fatto proprie l’esperienze di “Città sane” e “Agenda 21”, che, pur avendo come obiettivo il miglioramento dello lo stato di salute dell’ambiente ha moltissime implicazioni in comune con la salute dell’uomo e, soprattutto presuppone la stessa metodologia di programmazione integrata. Gli strumenti indicati dal PSR sono i piani integrati di salute. Questi possono riguardare singole tematiche come un vero e proprio progetto che vede coinvolti i diversi soggetti. Il piano di salute può rappresentare uno strumento snello di programmazione, in cui sono indicati chiaramente gli obiettivi e l’apporto che ciascun partner può dare al loro perseguimento, le azioni principali e i risultati attesi. La comunicazione e la partecipazione attiva dei cittadini rivestono un ruolo fondamentale. Appare chiaro, quindi, che i singoli piani di settore, oltre a mantenere la loro specificità, concorrono tutti al perseguimento degli obiettivi di salute individuati dal piano. Nell’esperienza della Regione toscana, un contributo ulteriore può essere dato dallo sviluppo della rete regionale delle città, come momento di scambio di esperienze in un contesto culturale e normativo comune. Il “profilo di salute” della città di Arezzo Il percorso del profilo, che rappresenta la base per la definizione degli obiettivi di salute e quindi per la formula-
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zione del “piano per la salute”, è iniziato con un’analisi dei bisogni; a tal fine, sono state raccolte le informazioni necessarie per costruire un quadro epidemiologico della comunità aretina ed elaborare un’analisi dei determinanti della salute (condizioni socio-economiche, stato dell’ambiente, contesto sanitario e stili di vita) che hanno permesso al gruppo di lavoro l’individuazione delle priorità locali. Il profilo di salute, per sua natura e precisa scelta progettuale, è in continua evoluzione sia per l’aggiornamento dei dati che per il miglioramento delle conoscenze e delle tecnologie di analisi. I dati raccolti nel “profilo di salute” della città di Arezzo si riferiscono all’arco temporale che partendo dal 1991 (dati censuari) arriva agli anni più recenti, per i quali vi siano banche dati disponibili. Per rappresentare alcuni fenomeni,
numericamente limitati, sono stati aggregati i dati di più anni per rendere significativo l’indicatore; ad esempio nel caso della mortalità, i trend temporali si riferiscono a raggruppamenti triennali. Qui di seguito vengono riportati valutazioni su alcuni indicatori più significativi della realtà aretina. Aspetti demografici Informazioni generali sulla popolazione: l’incremento del numero di anziani rispetto ai giovani viene riassunto nell’indice di vecchiaia, che confronta il numero di residenti nel comune di Arezzo con 65 anni e più, con il numero di bambini fra O e 14 anni. Negli ultimi venti anni abbiamo assistito ad un aumento dell’indice dal 79,98% nel censimento del 1981, ad un valore più che doppio nel 1999 (178,60%). Ciò significa che ogni 79,98 anziani c’erano 100 bambini nell’anno 1981, men-
Settore Descrizione
I II III V VI VII VIII XIV XV XVI XVII
Mal. Infettive 0-140 Tumori 140-239 Mal. Ghiandole endoc. 240-279* Disturbi psichici 290-319** Mal. Sistema nervoso 320-389 Mal. Sistema circolatorio 390-459 Mal App. Respiratorio 460-519 Malf. Congenite 740-759 Cond. Morb. Perinatali 760-779 Cause Maldefinite 780-799 Cause violente e acc. 800-999
Totale complessivo
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Promozione della salute
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Femmine
tre nel 1999 per ogni 178,60 anziani c’erano 100 bambini. Si può capire quindi la rivoluzione che porta questa informazione in termini di bisogni sanitari e sociali. Percentuale di abitanti extracomunitari: l’incremento che si è avuto nella popolazione aretina negli anni ’90, è dovuto in gran parte all’incremento di residenti stranieri e, in particolare, di cittadini provenienti da paesi extracomunitari. Nel periodo 199599 il numero di tali cittadini è aumentato sia in termini assoluti (passando da 1.543 unità a 3.397, con un incremento del 120%) che in termini relativi (l’incidenza sulla popolazione è cresciuta dall’1,7% al 3,7%). Stato di salute Mortalità giovanile: per mortalità giovanile si intende l’insieme delle morti che si verificano entro il trentaquattresimo anno di età. Riportiamo un’aMaschi
6
3 3 1 9
20
35
55
1 2 1 1 3
* AIDS; ** Farmacodipendenza - overdose (ICD 304)
Servizi sanitari Numero di medici di medicina generale che aderiscono all’accordo quadro con l’azienda USL n°8: l’accordo quadro è un’intesa tra azienda e MMG che ha come obiettivo la realizzazione di un maggiore coinvolgimento dei medici nelle attività di assistenza territoriale, attraverso una corresponsabilizzazione sull’utilizzo delle strutture, delle risorse umane e strumentali, e la qualificazione del servizio reso al cittadino. Ha aderito il 78,6% dei medici dell’area aretina, tale da coprire il 58% della popolazione assistita.
Totale complessivo 1 10 2 5 4 6 1 4 6 1 15
5 1
1 5 1 5 3 4
nalisi descrittiva del fenomeno nel comune di Arezzo nel triennio 1996-1998 (Tab. 2). Le cause violente e accidentali sono al primo posto nell’analisi percentuale con il 28%. Di fatto il 60% di questa mortalità è attribuibile ad incidenti stradali.
Tab. 2 - Mortalità giovanile per settori, nel Comune di Arezzo: anni 1996-1998.
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Promozione della salute
Ambiente Inquinamento atmosferico: la fase di sensibile riduzione delle concentrazioni di alcuni inquinanti “classici” (CO, SOx) che ha caratterizzato la prima metà degli anni ’90 – grazie alla diffusione di vetture dotate di marmitte catalitiche, alla metanizzazione degli impianti di riscaldamento domestico, all’allontanamento dall’ambito urbano delle attività produttive – sembra essersi per il momento esaurita. Meno positiva appare la situazione per quanto riguarda gli NOx: pur essendosi gli indici ridotti a partire dal 1995, l’andamento delle serie storiche è meno pronunciato e univoco, permanendo tuttora livelli superiori ai nuovi limiti imposti dalla UE. Per quanto riguarda i “nuovi” inquinanti, la media annuale di O3 ha evidenziato una tendenza all’innalzamento. Nel periodo 1994-99 non è mai stato superato lo stato di attenzione, anche se sono state raggiunte concentrazioni molto prossime. Allo stato attuale assai meno documentata risulta la situazione per quanto riguarda gli altri inquinanti non convenzionali (PM10, benzene, IPA). Inquinamento acustico: il clima acustico nella città di Arezzo presenta come caratteristica di fondo un’elevata rumorosità. Sia la media energetica dei livelli istantanei sia il livello di rumore di 1997 Benzina Gasolio Gas Totale
46.676 5.012 4.200 55.888
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fondo, sono su valori eccedenti rispetto a quelli guida, per cui una loro riduzione in tempi rapidi è oltremodo auspicabile. Seppur circa il 65% delle misurazioni presentano livelli sonori inferiori al limite di 65 dBA (ritenuto il livello massimo diurno ammissibile in ambiente esterno per garantire condizioni accettabili di comfort negli ambienti interni), la maggior parte dei valori rientra nella fascia 6064 dBA, prossima alla soglia. Inoltre, il 35% circa delle misurazioni che risulta su valori superiori a 65 dBA, l’11% presenta valori da considerare di allarme, cioè oltre i 70 dBA. Il traffico veicolare è il maggior responsabile di questo stato di fatto, per cui gli interventi di riduzione dei livelli di pressione sonora, sia attivi che passivi, dovranno essere mirati alla revisione del piano urbano del traffico. Veicoli circolanti: a livello comunale si evidenzia una netta prevalenza dell’uso del mezzo privato, a discapito del mezzo pubblico, cui corrisponde un parallelo aumento dell’indice di motorizzazione privata. Nel periodo 1992-99, l’indice è sempre stato superiore a quello nazionale, raggiungendo il valore di 64,8 autovetture/100 abitanti. Il parco auto circolante è complessivamente aumentato (7,3%) nel triennio 1997-99 passando da circa % 83,5 9,0 7,5 100,0
1998 48.720 5.994 4.028 58.742
% 82,9 10,2 6,9 100,0
56.000 a circa 60.000 veicoli, in linea con il tasso di crescita media nazionale (Tab. 3). Contestualmente i dati di esercizio dell’azienda municipalizzata trasporti (ATAM) confermano il netto calo nel numero di viaggi procapite, passati da 90 a 65 viaggi/ab*anno (riduzione superiore al 30%). Flussi di traffico: la forte, e senz’altro preoccupante, riduzione della quota di spostamenti serviti da mezzi pubblici, la riduzione della possibilità di sostanziali spostamenti ciclopedonali ed il contestuale incremento dell’uso dell’auto privata, sono indicatori di una mobilità che tende ad aumentare le distanze percorse quotidianamente e che si diffonde progressivamente all’interno del territorio provinciale. Il mezzo pubblico, competitivo negli spostamenti interni alla città e/o su linee di forza a servizio di una domanda concentrata, tende inevitabilmente, in questa situazione, a perdere terreno. I margini per una ripresa del ruolo del servizio pubblico sono da ricercare sul lato sia dell’offerta sia della domanda. Riguardo all’offerta è necessario l’adeguamento dei servizi proposti alle mutate caratteristiche della domanda, e il rafforzamento del ruolo che il servizio pubblico deve comunque svolgere nel tessuto 1999 48.800 6.960 4.188 59.948
urbano più compatto, il che significa agire da un lato sulla dotazione infrastrutturale, garantendo priorità e fluidità alle linee di trasporto pubblico, e dall’altro sui nodi di interscambio fra mezzo pubblico e privato; riguardo alla domanda, l’utente deve divenire sempre più consapevole dei costi esterni che l’uso incondizionato del mezzo privato determina sull’ambiente urbano e sulla salute umana (inquinamento atmosferico, rumore, incidentalità). Aspetti socio-culturali Tasso di disoccupazione: la disoccupazione giovanile costituisce come è noto uno dei problemi più acuti del nostro paese, e si presenta in Toscana con valori preoccupanti. I tassi di disoccupazione giovanile della provincia di Arezzo non sono tuttavia particolarmente elevati nel contesto toscano. Il tasso di disoccupazione maschile in età 1529 della provincia di Arezzo, con il 4,9%, risulta essere il più basso della Toscana. Meno positivo è l’andamento della disoccupazione delle giovani donne (16,1%), che tocca livelli superiori rispetto a quelli di Siena e Prato. Persone che vivono al di sotto del livello nazionale di povertà: una recente rilevazione della (segue a pag. 208)
% 81,4 11,6 7,0 100,0
Tab. 3 – Veicoli circolanti nel comune di Arezzo.
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M.G. Barneschi M.F. Palmarini* A. Ciani** M. Marsili*** N. Zamperetti**** D. Mazzon***** L. Orsi****** C. Rossi******* Dirigente medico 1° livello UO Anestesia e Rianimazione I, A.O. Careggi, Firenze; Professore a c. Università di Firenze * Dirigente medico 1° livello UO Anestesia e Rianimazione I, A.O. Careggi, Firenze ** Specializzando in Anestesia e Rianimazione, Università di
Da alcuni anni gli operatori sanitari si confrontano con un panorama assistenziale caratterizzato da progressivo invecchiamento della popolazione e da continui progressi della medicina. In particolare, i successi ottenuti con la rianimazione cardiopolmonare (RCP) dei primi anni sessanta hanno diffuso l’organizzazione di una medicina d’emergenza e, con il tempo, la tendenza a considerare potenziale candidato alla RCP ogni persona in condizioni di salute critiche, indipendentemente dalla sua storia clinica. Allargare l’indicazione a questa terapia, molto ristretta in origine, concentrandosi sulla natura strettamente biologica della persona senza tener conto dei suoi valori, porta a prendere decisioni che modificano il processo del morire, allungandolo e spesso togliendogli dignità. Si può constatare allora che non tutti i pazienti beneficiano di una RCP e di cure intensive. Per avviare momenti di riflessione sulla gestione della relazione con il paziente grave,
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Prevenzione
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Il limite alle cure Firenze *** Dirigente medico 2° livello UO Anestesia e Rianimazione, Ospedale di Prato; Professore di Anestesia e Rianimazione, Università di Firenze **** Dirigente medico 1° livello UO Anestesia e
potenzialmente terminale, e con i suoi familiari è stata messa a punto un’indagine epidemiologica mediante un questionario che è stato distribuito a medici ed infermieri. Lo studio si è proposto di indagare l’attitudine degli operatori riguardo alla definizione ed alla gestione di un limite terapeutico nel malato critico e terminale, allo scopo di cercare un fine condiviso, e quindi anche eventuali limiti all’attività diagnostica e terapeutica. Metodo e materiali In collaborazione con la Commissione di bioetica della Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione, terapia intensiva (SIAARTI), con l’Ufficio per la formazione del personale dell’AO Careggi, con il Comitato etico locale dell’azienda USL n.4 - Prato, abbiamo sottoposto a 1600 operatori (800 dell’AOC e 800 dell’ASL di Prato), un questionario di bioetica (Tab. 1). Dopo la raccolta completa dei dati, siamo andati a valutare
Rianimazione, Ospedale San Bortolo, Vicenza ***** Dirigente medico 2° livello UO Anestesia e Rianimazione, Ospedale di Belluno; Coordinatore della Commissione di Bioetica della SIAARTI
****** Dirigente medico 1° livello UO Anestesia e Rianimazione, Ospedale di Crema ******* Centro di Ricerche cliniche per Malattie rare Aldo e Cele Daccò, Ranica (Bergamo)
Una ricerca sulle opinioni di medici e infermieri sulla rianimazione di malati terminali come le variabili oggetto di studio si differenziavano per professione, anni di servizio ed aggregazione per aree usufruendo del test chi-quadrato 1. Risultati Al questionario hanno risposto 618 operatori sanitari: 401 dall’azienda ospedaliera di Careggi e 217 dall’ASL di Prato. Gli infermieri professionali (IP) che hanno riconsegnato il questionario sono stati 421 (69,13%) ed i medici (M) 188 (30,87%). Il 25,91% ha 3 o meno anni di esperienza lavorativa, il 30,73% ne ha fra 4 e 10 ed il 43,36% ne ha più di 10. Dalla scomposizione del campione per aree risulta che il 42,29% presta attualmente servizio in reparti di degenze (RD), il 31,68% in strutture intensive (SI), il 6,85% in reparti a potenziale maggior frequenza di malati termina-
li (FT) e il 19,18% lavora nei servizi (S). L’interesse per la discussione bioetica risulta coinvolgere dal 95 al 100% del personale con maggior anzianità di lavoro, senza differenze nella suddivisone del campione per aree e in M/IP. Tra coloro che hanno compilato il questionario, il 9,74% non ha mai partecipato ad una RCP, il 44,48% qualche volta, spesso il 33,44% e solo assistito il 12,34%. Chi lavora da minor tempo ha una minor percentuale di partecipazioni all’RCP (“partecipano spesso” il 17,42% di chi ha 3 anni o meno di lavoro, il 36,76% di chi ne ha 410, il 41,92% di chi ne ha più di 10) (p < .0001). Per quanto riguarda l’esito di una RCP efficace, questo dovrebbe essere: il pieno ripristino delle funzioni senza nuovi deficit per il 32,13% (36,50%IP/22,46%M), il ripri-
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Bioetica
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• Professione, anzianità di servizio, reparto di lavoro, interesse per la bioetica, precedenti esperienze in Terapia intensiva, precedenti coinvolgimenti in CPR. • I risultati di una RCP efficace. • La percentuale stimata di pazienti rianimati senza nuovi deficit neurologici. • La possibilità di limitare la RCP. • La possibilità di limitare l’accesso in Terapia intensiva. • I criteri per intraprendere la RCP e di ammissione in Terapia intensiva. • Chi dovrebbe decidere sulla RCP di un paziente ricoverato in ospedale. • Le possibilità di un coinvolgimento precoce del paziente nelle scelte del proprio iter terapeutico. • L’introduzione delle direttive anticipate. • La possibilità di delega. • La possibilità che i curanti possano interpretare correttamente i desideri della persona malata. • La frequenza di discussione per l’applicazione/sospensione di RCP. • Le ipotesi per poter pianificare con il paziente un limite terapeutico. • La gestione del fine vita in ospedale. • La personale decisione su una ipotetica gestione del proprio “fine vita”.
stino delle principali funzioni con deficit minori accettabili che non compromettono l’autosufficienza per il 44,48% (38,20%IP/58,29%M), ed il ripristino delle funzioni vitali indipendentemente da eventuali nuovi deficit neurologici per il 23,39% (25,30%IP/19,25%M) (p < .0001). La suddivisione per aree non ha mostrato differenze rispetto ai dati generali. Il 29,98% dei rispondenti pensa che la percentuale di pazienti rianimati senza nuovi deficit sia del 4-15%, il 34,14% pensa sia del 16-33%, il 22,88% del 34-66%, il 6,76% ritiene che sia minore del 3%, il 6,24% maggiore del 67%. La possibilità di mettere limiti alla RCP (Tab. 2) è stata valutata positivamente dal 58,21% (50%IP/75,81%M); negativamente dal 19,57% (24,75%IP/8,60%M); e negativamente ma con un distinguo (“qualsiasi malato in arresto cardiorespiratorio deve essere rianimato indipendentemente dal suo stato clinico e dalla prognosi, a meno che non ab-
bia dato disposizioni”) dal 22,22% (25,52%IP/15,59%M) (p < .0001). Il 65,56% dei sanitari con 4-10 anni di servizio ritiene che si possano porre limiti alla RCP; così il 61,09% di quelli con più di 10 anni di lavoro e il 47,02% di coloro che hanno meno di tre anni di lavoro alle spalle. Inoltre il 31,79% di chi ha 3 o meno anni di lavoro ritiene che non si debba mai porre un limite all’RCP; questa opinione è condivisa solo dal 15,56% e dal 15,18% di chi ha rispettivamente 4-10 e più di 10 anni di lavoro (p < .0002). La possibilità di mettere limiti alle indicazioni per il ricovero in terapia intensiva è stata valutata positivamente dal 46,13% (37,75%IP/63,24%M) (Tab. 2); negativamente in senso assoluto dal 21,21% (26,00%IP/11,35%M); negativamente ma con un distinguo (come per la RCP) dal 32,66% (36,25%IP/25,41%M) (p < .0001). Suddividendo per età di lavoro: hanno risposto positivamente il 31,97% di chi ha
meno di tre anni di esperienza lavorativa, il 49,72% di chi ne ha 4-10, il 52,55% di chi ne ha più di 10 (p < .0008). I criteri utili per decidere se eseguire la RCP e utili come discriminante per l’ammissione in terapia intensiva sono stati indicati in: qualità di vita residua 36,34%, consenso del paziente (anche espresso in precedenza nel caso di paziente incosciente) 30,63%, consenso dei familiari di un paziente incapace di intendere e di volere 14,34%, attesa di vita 8,62%, età anagrafica 12,28%, altro 3,53%. Per quanto riguarda chi dovrebbe decidere se rianimare o meno un paziente ormai incosciente per il quale la necessità di procedere a RCP era prevedibile, i dati ottenuti (totali e IP/M) sono stati: rianimatore chiamato d’urgenza 13,29% (10,24/18,68%); medici del reparto 11,36% (4,46/25,82%); medici ed infermieri del reparto 16,43% (20,73/7,69%); familiari 1,57% (1,57/1,65%); medici del reparto con i familiari 5,94% (3,41/11,54%); medici ed infer-
Tab. 1 - Argomenti trattati nel questionario sul limite alle cure al paziente critico e terminale.
mieri del reparto con i familiari 12,41% (13,65/10,44%); andava fatto decidere al paziente prima che diventasse incosciente, finché era in grado di decidere, informandolo adeguatamente della sua diagnosi e prognosi 21,50% (24,6/13,74%); nessuno (la RCP deve essere sempre tentata) 15,03% (18,6/8,24); altri 2,45% (2,62/2,20%). La possibilità che il consenso informato per la definizione di un eventuale limite terapeutico, venga gestito anticipatamente con il paziente, se lo desidera e quando è possibile, e che tale decisione venga riportata in cartella clinica e venga poi presa in debita considerazione al momento della decisione è stata accolta favorevolmente dal 43,37%; negativamente dal 33,05%; da discutere con i familiari dal 23,58% (Tab. 2). Gli IP hanno risposto favorevolmente in maggior numero (45,90%) rispetto ai M (37,16%). La percentuale di chi non la ritiene una soluzione è del 31,79% negli IP e del 36,61% nei M.
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Bioetica
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Totale risposte
Professione Medici Infermieri % - N. % - N.
% - N.
Anni di lavoro fra 4 e 10 % - N.
3o<3 % - N.
> 10 % - N.
Pensi che si possano mettere limiti alla RCP (1)? Sì No, salvo disposizioni No, mai
58% (351) 22% (134) 20% (118)
76% (141)* 15% (29) 9% (16)
50% (204)* 25% (103) 25% (101)
47% (71)* 21% (32) 32% (48)
66% (118)* 19% (34) 15% (28)
61% (157)* 24% (61) 15% (39)
Pensi che si possano mettere dei limiti al ricovero in rianimazione? Sì No, salvo disposizioni No, mai
46% (274) 33% (194) 21% (126)
63% (117)* 26% (47) 11% (21)
38% (151)* 36% (145) 26% (104)
32% (47)* 37% (55) 31% (45)
50% (88)* 31% (55) 19% (34)
53% (134)* 30% (76) 17% (45)
Come giudichi l’ipotesi che il pz (2) possa gestire anticipatamente il limite terapeutico? È l’unica soluzione possibile Non è una soluzione Dà indicazioni utili da verificare con i familiari
43% (252) 33% (192) 24% (137)
37% (68) 37% (67) 26% (48)
46% (179) 32% (124) 22% (87)
– – –
– – –
– – –
Come giudichi l’ipotesi che il pz possa indicare in cartella chi potrà prendere decisioni per lui nel momento in cui non possa più farlo? Utile se con valore legale Creerebbe problemi familiari Sarebbe una soluzione adeguata
50% (279) 24% (138) 26% (146)
47% (85) 25% (45) 28% (51)
50% (189) 25% (92) 25% (95)
– – –
– – –
– – –
Pensi che sia possibile pianificare col pz la sospensione di farmaci e terapie nelle ultime fasi della vita? Sì, se inefficace Solo per terapie sproporzionate No, mai sospendere la terapie No, devono decidere i medici
46% 42% 8% 4%
41% 49% 5% 5%
49% 39% 9% 3%
– – – –
– – – –
– – – –
(267) (243) (46) (21)
(75) (90) (10) (8)
(187) (150) (36) (12)
*: Differenze statisticamente significative (p < .005); (1) RCP: rianimazione cardiopolmonare; (2) pz: paziente
Tab. 2 - Alcune delle domande presenti nel questionario e relative percentuali di risposta.
La proposta di promuovere la diffusione di un apposito modulo con il quale ognuno possa scegliere in anticipo alcune opzioni particolari, (se venire informato e fino a che punto, se venire rianimato in caso di arresto cardiaco se ammalato terminale), compilato per tempo (una dichiarazione autografa da tenere nel portafogli, ad esempio la Carta di autodeterminazione) oppure offerto ad ogni paziente al momento dell’am-
missione in ospedale, è stata accolta negativamente dal 6,98%; giudicata inadeguata dal 31,48%; accolta con cautela dal 13,77%; accolta con riserva di riconoscimento giuridico dal 36,85%; accolta pienamente dal 10,91%. L’ipotesi che il malato indichi chiaramente in cartella clinica chi, in sua vece, possa prendere tali decisioni nel caso egli non sia più in grado di farlo è accolta con riserva di riconoscimento giuridico dal
49,56%, scartata dal 24,51%, accolta dal 25,93% (Tab. II). L’ipotesi che M e IP siano generalmente in grado di interpretare al meglio la volontà del paziente su questi temi, in assenza di una qualche disposizione da parte sua, è stata giudicata: impossibile dal 20,52%, non facile ma possibile dal 39,14%, possibile solo con la cooperazione dei familiari dal 32,07%, relativamente facile dall’8,28%. Più gli IP dei M ritengono im-
possibile interpretare al meglio la volontà del paziente (24,16% vs l’11,83%). In riferimento alla personale esperienza in campo di RCP il 46,22% del campione non si è mai trovato a dover partecipare o assistere alla decisione se instaurare o meno una RCP, il 43,99% ha risposto “talvolta”, il 9,79% ha risposto “spesso”. L’ipotesi di pianificare col malato (o con i familiari di un malato non più in grado di
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decidere) la sospensione di farmaci e terapie in fase terminale, è stata accolta favorevolmente dal 46,27%; con qualche limite dal 42,11%; decisamente rifiutata dagli altri, con diverse motivazioni, dal 3,64% al 7,97% (Tab. 2). Solo il 4,50% del personale sanitario ritiene che il tempo di morire in ospedale, dovrebbe essere gestito come tutti gli altri tempi dell’assistenza, il 26,40% ritiene che bisognerebbe trasferire il paziente in un reparto a minor trattamento intensivo e possibilmente a casa, mentre il 69,10% ritiene che dovrebbe essere attrezzato in ogni reparto uno spazio particolare in cui i familiari possano stare con il loro caro ed assisterlo dignitosamente. Per finire, nel caso ipotetico di un proprio ricovero per una patologia critica, la soluzione considerata migliore per garantirsi una condotta diagnostico-terapeutica che rispetti fino alla fine le proprie volontà, sarebbe ricevere una spiegazione completa, in modo da poter concordare l’iter più adeguato per il 54,99%; poter sottoscrivere una dichiarazione autografa in cui fosse spiegato ciò che ci si attende e ciò che si desidera non sia fatto per il 21,74%; poter indicare una persona di fiducia che possa prendere le decisioni migliori quando non si sia più in grado di farlo per il 9,98%; non fare niente poiché i medici e gli infermieri saprebbero agire comunque nel nostro interesse per il 13,56%. Infine, il 90,78% del campione non ha rilasciato note sull’iniziativa, l’1,29% ha lascia-
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to note globalmente negative sull’iniziativa, lo 0,97% ha lasciato note globalmente positive sull’iniziativa, il 6,96% ha fatto delle proposte operative Discussione Il nostro studio si proponeva di indagare le opinioni sulle problematiche bioetiche in pazienti terminali e come vengono gestite attualmente queste situazioni dal personale sanitario del nostro territorio, per far emergere differenze nei valori individuali e nelle attitudini. La frequenza di risposta del nostro questionario è stata del 50% nell’AOC e del 27% nella ASL di Prato. Questa differenza è forse dovuta alla modalità di distribuzione. I contatti personali presi nell’AOC possono aver maggiormente impegnato alla risposta persone già motivate e sensibili, mentre una distribuzione non mediata da un colloquio con i colleghi può aver influito nella bassa risposta di Prato. Dalle risposte risulta che l’esigenza di confrontarsi con gli aspetti bioetici della professione è molto sentita e cresce con l’aumentare dell’esperienza di lavoro. Le differenze di opinione che si evidenziano tra M e IP sugli aspetti etici della gestione dell’assistenza dei pazienti terminali, suggeriscono la necessità di aumentare le opportunità di formazione e di dibattito su questi argomenti, così da creare le basi per un’intesa assistenziale che migliori la comunicazione e il rapporto con la persona malata e i suoi familiari e facili-
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ti la comunicazione tra i curanti. L’assistenza al malato grave, potenzialmente terminale, non è di competenza di qualche specialità medica, ma si presenta in tutti i reparti di degenza, anche se con frequenze diverse, e suggerisce che la problematica del limite alle cure non è di pertinenza specialistica, ma riguarda tutto il personale dedito all’assistenza, come dimostra l’alta percentuale di rispondenti che ha partecipato ad una RCP. La frequenza di partecipazione a manovre rianimatorie aumenta poi con gli anni di lavoro, e questo significa che anche chi non ha mai fatto questa esperienza potrebbe in futuro essere coinvolto, ed è importante che sia informato sulle terapie che potrebbe essere chiamato a fornire. Le convinzioni attuali sull’efficacia dell’RCP ad esempio, sono più ottimistiche di quanto riportato in letteratura. La percentuale di dimissioni dopo RCP intra-ospedaliero è fra lo 0% ed il 25% 2-5, con una sopravvivenza a lungo termine stimata intorno al 15% 6 7, mentre il 63,26% del nostro campione si attende un esito positivo (rianimazione senza nuovi deficit) per il 16% o più dei pazienti sottoposti a tali manovre. Fino a venticinque anni fa la maggioranza dei pazienti che morivano in terapia intensiva erano stati sottoposti a RCP 8. Da qualche tempo la situazione sta sicuramente evolvendo verso una maggior predisposizione circa l’astensione da manovre rianimatorie 9, che può essere, o meno, associato
alla scrittura in cartella della sigla DNAR. L’ordine “do not attempt resuscitation” (DNAR) è l’evoluzione del più noto DNR, “do not rianimate” e vuole suggerire proprio la non certezza del risultato nell’intraprendere la RCP 10. Da uno studio europeo emerge che in Italia solo l’8% dei medici che lavorano in terapia intensiva dichiara che discute e applica il DNAR, e riporta le indicazioni in cartella, mentre il 55% ritiene solo che dovrebbe essere fatto 11. Queste percentuali non sono immediatamente confrontabili con le nostre. Oltre la metà degli operatori sanitari che si sono espressi attraverso il nostro questionario ritiene che si possa, come per ogni altra terapia, limitare la RCP: i limiti alle manovre rianimatorie sono ritenuti opportuni dalla maggioranza degli IP e dei M, lo stesso per quanto riguarda i limiti al ricovero in terapia intensiva. I M più degli IP, e chi ha una maggiore esperienza di lavoro, sono più propensi a mettere dei limiti. È diffusamente avvertita tra gli IP e i M la necessità di far esprimere al paziente le sue volontà. Infatti per quanto concerne i criteri da valutare nella decisione se instaurare una RCP o se ricoverare il paziente in terapia intensiva, quasi la metà del nostro campione ha dato delle risposte che privilegiano il consenso del paziente o dei familiari, in quanto rappresentanti della volontà della persona malata. Pur con delle riserve, oltre i due terzi dei rispondenti sembrerebbe accettare la Carta delle volontà anticipate
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e la delega a una persona per farle rispettare. Dalle risposte date al nostro questionario risulta evidente come la maggior parte degli operatori sanitari non ritenga corretto mantenere o iniziare un trattamento terapeutico sproporzionato ed inefficace, anche se in Italia, come in altri paesi, ad esempio la Grecia ed il Portogallo, dove il principio della sacralità della vita e la religione cattolica hanno delle radici più profonde, i medici hanno una minor propensione a prendere simili decisioni, rispetto ai medici dei paesi del nord Europa 11. Inoltre molti hanno paura di ripercussioni medico legali poiché la sospensione delle cure nelle fasi terminali della vita non è regolamentata da leggi. La richiesta di leggi e normative, già esistenti in altri paesi, emerge fortemente dalle risposte che i sanitari hanno dato nel questionario, sia riguardo alla Carta delle volontà anticipate che per la direttiva di delega a una persona fidata. Questo non deve sorprendere se si pensa che solo nella più recente formulazione del Codice di deontologia medica del 1998 12 è chiaramente e-
spresso il diritto della persona malata all’informazione sulla diagnosi e prognosi della propria malattia, e la mancanza di uno strumento operativo ufficialmente proposto e accettato, come le direttive anticipate, limita la possibilità di far emergere il diritto di autodeterminazione del paziente. I M e ancora di più gli IP, tengono in considerazione il principio di autonomia del paziente e propendono verso l’accettazione delle direttive anticipate per la gestione delle problematiche di fine vita. Oltre i due terzi dei sanitari percepiscono il “tempo di morire” come un momento difficile da gestire e avvertono la necessità di attrezzare uno spazio in ogni reparto in cui i familiari possano stare con il loro caro; solo per una quota trascurabile infatti, gli ultimi giorni di vita rappresentano un momento da gestire come gli altri tempi dell’assistenza. Alla richiesta di immaginare un ipotetico personale ricovero per una patologia critica e di quale possa essere il migliore iter diagnostico-terapeutico per rispettare al meglio i propri desideri, la maggioranza ha risposto che ri-
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chiederebbe un’adeguata spiegazione al fine di concordare l’iter più adeguato, anche con una dichiarazione scritta delle proprie volontà ed eventuale delega, e cioè viene richiesto dagli stessi operatori una completa comunicazione sulla malattia e il rispetto dei propri valori di vita. Diversi studi 13-15 dimostrano come una comunicazione adeguata con i medici rimanga per il paziente e per i suoi familiari un bisogno non soddisfatto. Sicuramente i problemi di fine vita rappresentano una difficile questione da risolvere, per il fatto che spesso si ha a che fare con gravi patologie a rapida insorgenza, altamente coinvolgenti i curanti anche dal lato emotivo 16 17. Sempre più di frequente, si trattano casi clinici in cui le opzioni disponibili sono: per continuare / intraprendere una terapia per mantenere una vita qualitativamente molto povera oppure sospendere / non intraprendere una terapia e consentire la morte del paziente. In queste circostanze il principio bioetico di beneficenza, che ha sorretto da sempre le decisioni morali del medico non è facilmente applicabile.
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I valori di vita della persona malata sono sconosciuti, o solo a volte riferiti dai familiari, il principio di autonomia non trova più le condizioni per essere rispettato, mentre per il principio di non maleficenza e di giustizia sarebbe opportuno non provocare ulteriori sofferenze e non sprecare risorse. Il diffuso disagio provocato dal non saper gestire adeguatamente questi conflitti spinge a ricercare nuovi schemi di cura e di assistenza al malato terminale, per il rispetto della dignità della persona malata, e per il dovere che hanno M e IP di prendersi cura della persona malata e non della malattia. Sono necessari programmi di formazione sui problemi etici di fine vita e “linee guida” che possano essere un riferimento per tutti gli operatori sanitari che sentono l’esigenza di un cambiamento nel modo di rapportarsi con il paziente critico e i familiari, cambiamento che privilegi la relazione e la comunicazione, e consenta di poter prestare sia una cura intensiva che un’assistenza di tipo palliativo, quando la prima diventa futile e/o non accettata.
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(segue da pag. 202): Il progetto “Città sane”
Caritas Diocesana (“Primo rapporto dell’Osservatorio delle povertà nella diocesi di Arezzo Cortona Sansepolcro”), relativa ai bisogni con i quali i parroci
sono venuti in contatto, ci fornisce alcune interessanti informazioni relative al fenomeno. Nella città di Arezzo, in base ai dati relativi ai bisogni del ter-
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ritorio, così come percepiti dai parroci sono state censite 119 famiglie con difficoltà economiche e 736 soggetti che presentano varie forme di biso-
gno: di questi 237 sono immigrati extracomunitari, 160 anziani soli o con bisogno di assistenza, 102 handicappati fisici, 89 minori a rischio.
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Marco Geddes da Filicaia, Grazia Campanile* Direttore sanitario P.O. Firenze centro - Azienda sanitaria di Firenze *Direzione sanitaria P.O. Firenze centro - Azienda sanitaria di Firenze
l settore ospedaliero assorbe in Italia oltre il 48% della spesa con percentuali che arrivano al 53,8% in Val d’Aosta e al 43,8% in Emilia Romagna (anno 2001). Sotto il profilo degli investimenti tali strutture assorbono la gran parte delle risorse, in considerazione della tipologia e della rilevanza delle strutture edilizie, della concentrazione di tecnologie e delle strutture di supporto. In Italia è in atto da oltre 20 anni un diffuso adeguamento della rete ospedaliera anche in relazione alla normativa di accreditamento che impone, anche nel settore pubblico, specifici standard di carattere edilizio, tecnologico e organizzativo. La principale fonte di investimento è rappresentata dai fondi nazionali previsti dall’art. 20 della legge 97/88, il cui esito tuttavia è stato assai diversificato da regione a regione, con notevoli ritardi nell’utilizzo dei finanziamenti e nella realizzazione delle opere, in particolare nel Sud Italia. Ulteriori finanziamenti, in misura assai più limitata, si sono resi disponibili attraverso il progetto di riqualificazione dell’assistenza sanitaria nei grandi centri urbani (art. 71,
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L’adeguamento della rete nazionale legge 448/98) ed attraverso finanziamenti più specifici per patologie (AIDS), per attività professionali (libera professione intramoenia), per tipologie assistenziali (hospice). Con il ridursi della disponibilità finanziaria si è avviata anche in Italia, seppure in misura limitata, la ricerca di finanziamenti privati, attraverso il sistema del project financing (Geddes, 2002). I diversi sistemi di finanziamento da un lato e la diversa modalità di affidamento degli incarichi di progettazione dall’altro vengono a influenzare i rapporti che intercorrono fra il committente (l’Azienda sanitaria che definisce le caratteristiche sanitarie dell’intervento e la tipologia del presidio) e il progettista. Inoltre gli approcci si differenziano qualora si scelga di realizzare un nuovo ospedale, di ristrutturare edifici preesistenti ovvero di demolizioni e ricostruzioni, parziali o pressoché totali, di ospedali a padiglioni. Non si tratta pertanto di differenti tipologie architettoniche e strutturali; si tratta piuttosto di approcci diversificati, dettati dalle specifiche situazioni dei diversi contesti sanitari e terri-
Nuove tipologie architettoniche, recuperi, ridimensionamenti. Strategie di finanziamento toriali, quali la presenza di altre strutture ospedaliere pubbliche o private, i vincoli urbanistici, la possibilità di un utilizzo alternativo delle aree e degli edifici dismessi, la disponibilità di risorse finanziarie adeguate, etc. In questo articolo esamineremo i diversi approcci, ovvero metodologie generali di intervento nell’edilizia ospedaliera, utilizzate in Italia nel corso degli ultimi decenni, attraverso alcuni esempi di realizzazioni o di progetti. LA REALIZZAZIONE DI NUOVI OSPEDALI I nuovi ospedali realizzati nel corso degli ultimi decenni non si sono sviluppati seguendo una tipologia architettonica unica o prevalente; vi sono tuttavia alcuni orientamenti comuni, come evidenziano gli esempi qui riportati. La realizzazione di un complesso totalmente nuovo risponde abitualmente ad alcune esigenze, quali: • L’abbandono del precedente insediamento ospedalie-
ro, considerato inidoneo sotto molteplici aspetti, ad esempio la collocazione urbanistica, la tipologia edilizia, i vincoli a cui l’edificio è sottoposto. • La necessità di accorpare più complessi ospedalieri, di piccole dimensioni realizzando un nuovo ospedale dimensionato al nuovo bacino di utenza e in esso baricentrico. • Le considerazioni di carattere economico, con la possibilità di valorizzare l’area e gli edifici ospedalieri dismessi, tramite il cambio di destinazione urbanistica ed un conseguente realizzo finanziario adeguato per la realizzazione della nuova struttura. Il nuovo ospedale di Bergamo La storia L’ospedale è una delle più antiche istituzioni cittadine, essendo stato riconosciuto con bolla pontificia del 21 giugno 1459, con la denominazione di “Ospitale Grande di San
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Marco”. L’attuale ospedale è localizzato ad ovest della città, dapprima denominato Ospedale maggiore “Principessa di Piemonte”, ed è stato costruito dal 1927 al 1930 su un’area di 150.000 mq, con un edificato di circa 30.000 mc (Castelli, 1942). Negli anni settanta è avvenuta la unificazione con l’Istituto ortopedico “Matteo Rota”, edificio realizzato negli anni venti nella stessa area della città; da qui la attuale denominazione di “Ospedali riuniti di Bergamo”. Si tratta di una Azienda ospedaliera, riconosciuta quale ospedale di rilievo nazionale e di alta specializzazione con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 14/6/1993. La sede è stata oggetto di molteplici interventi di ristrutturazione, anche recenti, ma viene in definitiva considerata inidonea alle attuali esigenze e potenzialmente destinabile ad altre funzioni, fra cui quelle didattiche e di ricerca connesse al potenziamento delle attività universitarie a Bergamo (Ospedali riuniti di Bergamo, 2002). L’Azienda ospedaliera ha pertanto ottenuto l’inserimento della costruzione del nuovo
ospedale tra gli interventi del programma pluriennale della sanità della Regione Lombardia. La localizzazione Alla fine degli anni novanta, nel corso di adozione del nuovo piano regolatore di Bergamo, vengono avanzate alcune ipotesi di identificazione di area ospedaliera. La scelta cade su di un’area posta a sud ovest della città (area “Trucca”), direzione analoga, ma più lontana dal centro cittadino, a quella dell’attuale insediamento. I motivi che orientano tale scelta sono rappresentati da una baricentricità analoga a quella attuale ed in particolare dalla viabilità; l’area è infatti servita dall’asse interurbano, che la collega con l’autostrada e il sistema stradale provinciale e, in futuro, sarà raggiungibile con un ramo della tramvia, che avrà qui la stazione di interscambio con la ferrovia Bergamo–Lecco. La disponibilità del terreno risulta inoltre estremamente ampia, tale da permettere – a differenza di interventi in zone urbanizzate – la proposizione di un progetto senza particolari vincoli sotto tale profilo (Zublena, 2003).
Dimensioni area di intervento area ospedaliera volumetria s.l.p. altezza massima parcheggi
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Il progetto L’accordo di programma per la realizzazione del nuovo ospedale è stato sottoscritto nell’aprile 2000 dal Ministero della sanità, dalla Regione Lombardia, dal Comune di Bergamo e dalla Azienda ospedaliera. Il finanziamento complessivo è previsto in 284.051.295,50. Il finanziamento è assicurato dalla Regione, che acquisisce i finanziamenti nazionali ex articolo 20 e integra tramite propri finanziamenti, realizzati anche allocando sul mercato o cedendo ad altri enti aree ed edifici ospedalieri. L’ipotizzato utilizzo dell’attuale sede è a fini universitari. La procedura che viene scelta per la progettazione è quella di un concorso internazionale di progettazione in due gradi: il primo finalizzato ad acquisire proposte di idee e selezionare 5 concorrenti; il secondo per esaminare i progetti preliminari ed individuare il vincitore a cui affidare la progettazione definitiva ed esecutiva. L’indizione di un concorso internazionale rappresenta una procedura prevista dalla normativa nazionale e di altri paesi, ma in realtà assai poco utilizzata in Italia, dove ri-
sulta non incentivata e minoritaria (Ratti, 2003), in particolare per la realizzazione di ospedali. Le caratteristiche principali della struttura che viene messa a concorso sono riassunte nella Tabella 1. Nel 2000 è stato concluso il primo grado di concorso pubblico, in base al quale sono state selezionate le cinque proposte di idee meritevoli di essere ammesse al secondo grado del concorso. Per il II grado è stato ampiamente aggiornato l’elaborato “Criteri informatori per la redazione del progetto del nuovo ospedale di Bergamo”, già allegato all’accordo di programma. Ne emerge quindi una relazione tecnico-sanitaria (Ospedali riuniti di Bergamo, 2001) che è finalizzata ad indicare in maniera puntuale le funzioni a cui dovrà corrispondere la nuova progettazione. Si tratta per più aspetti di un documento che si allontana dalla tradizionale relazione tecnico-sanitaria che, predisposta dalla direzione sanitaria o da un igienista ospedaliero, viene allegata al progetto definitivo, al fine di commentarne e “giustificarne” gli aspetti igienistici, in termini preva-
Indicatori 329.000 mq 250.000 mq 600.000 mc 150.000 mq 24 m 60.000 mq
degenze ord. e lib. prof. terapie intensive day hospital e day surgery ambulatori sale operatorie maggiori sale operatorie per DS
964 p.l. 110 p.l. 126 p.l. n. 240 n. 18 n. 12
Tab. 1 - Caratteristiche principali della struttura messa a concorso.
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lentemente di percorsi, di conformità alla normativa ed alle buone regole di igiene. Si tratta di un documento più simile a quello in uso in altri paesi, ed in particolare in Francia, in cui il lavoro di programmazione precede il concorso di architettura (Pieri, 2003) ed è quindi finalizzata ad una programmazione complessiva della struttura ospedaliera, nell’ambito della rete dei servizi ospedalieri dell’area e delle connessioni fra l’ospedale e le strutture territoriali. Al secondo grado del concorso hanno partecipato tutti e 5 i raggruppamenti ammessi; tale concorso si è concluso il 31/10/2001 individuando come vincitore il raggruppamento avente capogruppo la SCAU Société de Conception d’Architecture et d’Urbanisme S.A. di Parigi, coordinata da Americh Zublena.
I principi ispiratori dichiarati dai progettisti sono quelli di un ospedale aperto, disponibile, leggero, che sia percepito come una struttura che si modifica e si adegua al territorio. Dalla città si potrà quindi percepire la vita che si svolge all’interno e gli spazi interni si apriranno verso l’esterno. Lo schema è di una corona esterna di sette corpi di degenza: torri di circa 43 x 43 metri, alte 5 piani e dotate di una corte interna, che si dispongono ai tre lati di un nucleo interno di diagnosi e cura (la piastra dei servizi sviluppata su tre piani) al quale sono direttamente collegate. Le camere sono a due letti e si affacciano su tre lati delle torri; in tal modo il piano di degenza tipo contiene 52 letti e può essere diviso in due moduli da 26 letti, consentendo così di individuare unità operative di minori dimensioni collocate in aree omogenee.
Il collegamento, a livello del piano terra (Figura 1), fra le torri di degenza e la piastra dei servizi avviene attraverso la hospital street che circonda la piastra dai tre lati, assicurando ai visitatori e ai pazienti esterni la possibilità di raggiungere i diversi servizi. “Gli spazi della hospital street – afferma la relazione – sono così destinati a diventare luogo pubblico per eccellenza dell’ospedale e sono perciò trattati con particolare cura anche nei dettagli e nei materiali” (Ospedali riuniti di Bergamo, 2002). Caratteristiche dell’intervento • Si tratta del trasferimento in toto di un ospedale esistente. Tale fatto rende più facile – in termini non tanto tecnici, ma di possibili contenziosi con gli operatori, le comunità locali, etc – il dimensionamento del progetto.
Fig. 1 Nuovo ospedale di Bergamo. Pianta primo livello. Le sette torri circondano la piastra dei servizi su tre lati e sono accessibili dalla strada coperta che si sviluppa intorno alla piastra. (Fonte: Ospedali riuniti di Bergamo. Nuovo ospedale di Bergamo. Concorso internazionale. Bolis Edizioni, Bergamo, settembre 2002).
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• La localizzazione della nuova sede risulta meno complessa che in altre situazioni. • La procedura progettuale scelta è stata quella di un concorso internazionale, sistema utilizzato per alcune grandi opere, ma raramente in uso per la progettazione di ospedali. Si tratta indubbiamente di una procedura che permette di valutare con adeguatezza le caratteristiche della progettazione preliminare, anche sotto il profilo della qualità architettonica ed urbanistica. • La procedura concorsuale impone al committente la definizione adeguata dei parametri sia tecnici che sanitari dell’opera. Anche da tale fatto deriva una messa a punto dei criteri informatori che vanno oltre l’abituale relazione tecnico-sanitaria di accompagnamento al progetto, costringendo, in qualche misura, la direzione sanitaria ad un forte ruolo di proposizione e di orientamento. Il nuovo ospedale di Mestre La storia La “storia” dell’ospedale di Mestre – Umberto I - presenta caratteristiche molto differenti da quelle precedentemente illustrate, sia per il lungo iter che l’ha caratterizzata, sia per la procedura di finanziamento intrapresa. L’ospedale civile fu inaugurato nel 1906 (Castelli, 1942), quale nuovo insediamento poiché Mestre era privo di ospedale e si serviva di quelli
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veneziani, a cui era ormai connessa dal ponte ferroviario realizzato nel 1846. Del nuovo ospedale si è iniziato a parlare nel 1962 con un primo progetto, abbandonato definitivamente nel 1968. Solo nel 1979 la Regione dichiarò la costruzione di un nuovo ospedale quale priorità regionale; fu pertanto predisposto un progetto da parte dell’arch. Carlo Aymonio e altri portato ad esecutivo nel 1984, con una previsione di 1.200 posti letto. Tuttavia l’area prevista venne vincolata in base alla legge Galasso su indicazione della commissione per la salvaguardia di Venezia e pertanto il progetto, prima riadattato, fu abbandonato. Nel contempo vennero fatti molteplici investimenti sull’ospedale esistente, sia di manutenzione ordinaria e straordinaria, sia con l’edificazione di un monoblocco capace di 108 posti letto recentemente inaugurato (aprile 2003). La localizzazione Il problema della localizzazione dell’ospedale ha avuto un ruolo di rilievo nei tempi di realizzazione. Si sono infatti succedute tre aree, con i rispettivi progetti. La prima area (terreno Bellinato, sul Terraglio) è stata oggetto del progetto del 1962; nel 1968 fu acquisita una specifica area a Carpenedo caratterizzata da un boschetto su cui è stato predisposto il secondo progetto (arch. Aymonio). Tuttavia i problemi di impatto ambientale parvero troppo rilevanti, sia per il bosco preesistente che per il rischio di intaccare le falde freatiche,
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e l’area venne vincolata in base alla legge Galasso, con conseguenti modifiche del progetto per rispettare i vincoli. Nel 2000 fu definitivamente individuata una nuova area, con lo scambio di proprietà con l’area precedente, tramite protocollo d’intesa fra Comune, Azienda e Regione. Il progetto La struttura prevede una spesa di almeno 360 miliardi di vecchie lire, per le quali vi è la disponibilità di 140 miliardi sull’articolo 20 e di 20 miliardi da fondi propri dell’Azienda Usl; da qui l’ipotesi di reperire gli ulteriori finanziamenti, pari a 160 miliardi di lire, con un project financing in base alla legge 109/1994 e successive modifiche (Strano, 2002). Il valore complessivo dell’opera è attualmente stimato in 225,3 milioni di €, di cui 82,6 a carico dei contributi pubblici (Il Sole, 2003). I servizi idonei ad essere realizzati in regime di concessione possono pertanto riguardare: • Servizi sanitari non di degenza, quali radiologia e laboratorio di analisi, limitatamente alla parte tecnica e amministrativa. • Trasmissione immagini radiologiche con relativo Corpo emergente Coperture edifici A verde Superficie a verde Parcheggi
PACS (integrated imaging solution). • Sistema multimediale di telecomunicazione. • Portale internet dei servizi socio sanitari. • Cucina. • Servizio alberghiero. • Pulizie. • Centro unico prenotazioni. • Gestione calore e cogenerazione. • Disinfezione e sterilizzazione. • Farmacia. • Sistema HIS integrato (Hospital Information Sistem) con gestione cartella automatizzata, gestione trasporti automatizzati, manutenzione ordinaria e straordinaria. • Parcheggi. • Aree commerciali. • Servizi alberghieri. Le linee guida dettate dall’Azienda, che hanno ispirato la progettazione, possono essere così riassunte (Colli, 2003): integrazione con il territorio e il tessuto urbano; accessibilità; alto livello tecnologico; massimo comfort per l’utenza e i lavoratori; flessibilità strutturale e funzionale. I parametri generali della costruzione sono descritti in Tabella 2. Il progetto si sviluppa su uno schema tipologico classico,
non molto dissimile, nelle linee generali, da quello di Bergamo: piastra tecnica e area di degenza (Figura 2). La piastra si sviluppa su tre piani, di cui uno interrato; l’area di degenza si sviluppa invece su sei piani, ed è per metà dedicata a degenze che si affacciano sulla piazza coperta interna o serra e l’altra metà all’esterno, su terrazze scalari. Nel documento programmatico i posti letto sono così indicati, con una simulazione di tasso di occupazione dell’85%, come riportato in Tab. 3. Il cronoprogramma progettuale prevede quanto indicato in Tab. 4 Caratteristiche dell’intervento • Si tratta di un programma caratterizzato da un lungo iter decisionale, per il rilevante mutamento di rapporti fra l’area di terraferma ed il centro storico veneziano, con una inversione di trend nella popolazione residente che forse non era prevedibile negli anni sessanta. • La localizzazione del presidio è stata un elemento di notevole contrasto ed ha indubbiamente contribuito ai ritardi nella decisione dell’opera. • L’intervento si caratterizza per una forte accelerazio-
9.000 33.480 211.520 1.092 posti (535 personale, 557 visitatori)
Tabella 2 Parametri generali delle costruzioni.
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Fig. 2 Ospedale civile di Mestre: pianta tipo. Appare evidente la tipologia che riprende il concetto di Hall e strada, realizzata nell’ospedale di Parigi (HEGP) su progetto di Zublena. (Fonte: Strano G., Tesacoli N, Il project financing nella sanità. Il nuovo ospedale di Venezia Mestre. 2002 Marsilio).
P.L. totali
Dh
Dipartimento medico
271
34
Dipartimento testa – collo Dipartimento cardiochirurgico Dipartimento chirurgico Dipartimento materno infantile Anestesia e rianimazione
108 85 140 60 16
2 5 3 4
Ds
% 13
6 8 12
7 15 11 7
Tabella 3 Posti letto nel documento programmatico.
Totale Posti letto dialisi Culle
680 25 20
48
26
11
ne nel 2000, a seguito degli accordi Regione Comune e della decisione di ricorrere ad un project financing. • Le modalità di investimento, la cui procedura è in uno stato avanzato, caratterizzano questo intervento, uno dei primi e più rilevanti nel settore ospedaliero e anticipatore di altre procedure, quali quelle della Regione Toscana per i quattro nuovi ospedali.
Paganti (solventi o dozzinanti) pari a 54 posti letto, circa il 10%.
30 giugno 2001: 31 ottobre 2001: 31 dicembre 2001: ottobre 2002: dicembre 2002: 2003: agosto 2006: 2007:
i promotori presentano proposte valutazione fattibilità delle proposte (presentazione proposte in conferenza dei servizi) indizione gara aggiudicazione concessione progetto definitivo da parte del concessionario per approvazione da parte degli organi competenti, tramite conferenza dei servizi progetto esecutivo approvato per lotti completamento dell’opera inizio delle attività
Tabella 4 Cronoprogramma progettuale.
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RISTRUTTURAZIONI EDIFICI PREESISTENTI Ospedale civile SS. Giovanni e Paolo di Venezia La storia L’Ospedale civile di Venezia è collocato in un insieme di edifici, il cui complesso fondamentale è rappresentato dalla “Scuola di S. Marco”, realizzata fra la fine del ‘400 e la prima metà del ‘500. Soppressa la scuola al principio dell’800, nel 1815 vi furono riuniti gli ospedali cittadini, occupando interamente l’area da campo SS. Giovanni e Paolo alle fondamenta nuove (Lorenzetti, 1980). Nell’area del campo SS. Giovanni e Paolo vengono realizzati, nel corso del novecento, alcuni edifici occupanti gli spazi liberi prospicienti al mare, a fini di ricovero. Anche le ipotesi di nuovo ospedale, avanzate alla fine degli anni trenta e non realizzate per l’inizio della guerra, prevedevano quale localizzazione l’area aderente al vecchio ospedale di SS Giovanni e Paolo, in uno spazio di circa 70.000 mq (Castelli, 1942). Senza riuscire a realizzare un nuovo ospedale, per successivi interventi l’ospedale si articola in spazi di degenza, aree tecniche e sedi amministrative, utilizzando spazi monumentali, edifici conventuali e nuovi edificati, seppure di modesta fattura. Un momento di svolta sembra essere l’approvazione del nuovo piano regolatore nel 1959, che destina a zona ospedaliera un’area in parte libera ed in parte occupata dal macello comunale, in fase
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di dismissione (zona San Giobbe). Viene pertanto ipotizzato un nuovo ospedale, di 1.200 posti letto, sostitutivo di SS. Giovanni e Paolo, la cui area sarebbe stata destinata ad attività ricreative e culturali. La definitiva approvazione del piano regolatore nel 1962 metteva fine all’opposizione dell’amministrazione ospedaliera – che non intendeva abbandonare il precedente insediamento – e dava luogo ad un evento progettuale fondamentale nella storia dell’architettura ospedaliera: il progetto di ospedale di Le Corbusier (Sarkis, 2001). Infatti, dopo un concorso indetto dall’amministrazione ospedaliera, che si concludeva senza vincitori, il Comune e l’ospedale affidavano a Le Corbusier la progettazione di un nuovo ospedale, progetto che rappresenta il testamento del grande architetto (Istituto universitario di architettura di Venezia, 1999). Come noto il progetto non fu mai realizzato, anche in seguito alla morte di Le Corbusier. Nel corso degli anni settanta si delineò definitivamente l’intendimento di mantenere un ospedale nel centro storico, utilizzando la storica sede, di realizzare un nuovo ospedale a Mestre, i cui residenti, circa la metà di quelli del centro storico nel 1951 (centro storico 174.808; terraferma 96.966) erano diventati assai più numerosi (nel 2000 rispettivamente 66.386 e 176.531) e di ridurre le funzioni dell’ospedale a mare (a Lido), che viene a fare parte del presidio centrale.
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La localizzazione Attualmente il presidio ospedaliero di Venezia si articola su due sedi: l’ospedale civile e l’ospedale a mare, collocato al Lido. I due complessi hanno rispettivamente (anno 2000) 480 e 139 posti letto, risultato di una progressiva diminuzione; due anni prima i posti letto all’ospedale civile di Venezia erano 623. Con gli attuali interventi, iniziati negli anni ottanta, si chiude un lungo periodo di dibattito in cui si ipotizzava di ricorrere ad un ospedale di terraferma o di realizzare un nuovo ospedale in altra localizzazione, secondo il progetto Le Corbusier. Come in altre città storiche, si conferma una sede ospedaliera nel centro storico, sulla base delle necessità della popolazione residente e nell’ambito di una politica urbanistica volta a contrastare l’abbandono dei centri storici da parte della popolazione. L’altra motivazione di persistenza del presidio è quella di una realtà cittadina in cui i presenti, i city user, i turisti, etc. sono numerosi. Il progetto Una serie di interventi rilevanti sono programmati, per l’ospedale civile, nel 1984; il 1° stralcio è stato realizzato nel 1992-96. Consiste in un nuovo fabbricato, in area non precedentemente occupata, con degenze di chirurgia, urologia, chirurgia pediatrica. Importo complessivo di 18 miliardi di lire. Successivamente sono iniziati interventi più consistenti, così articolati:
• 1° lotto (chirurgia di emergenza) consistente in un complesso di 7 sale operatorie connesse con il nuovo accesso del pronto soccorso, secondo il progetto degli architetti Semerani e Tamaro di Trieste (importo 25.500.000,00 Euro); tale complesso è già stato realizzato. • 2° lotto come ampliamento del padiglione di chirurgia di emergenza con attività intramoenia e di oculistica, secondo il progetto degli architetti Semerani e Tamaro di Trieste (importo 2.300.000,00 Euro). • 3° lotto: abbattimento di precedente padiglione prospiciente le vie d’acqua e realizzazione di nuovo edificato per un complesso di unità operative specialistiche in area medica e materno-infantile (importo previsto 26.000.000 Euro; progettazione interna con consulenza). I finanziamenti sono derivati dalla legge speciale per Venezia (1° lotto), dall’art. 20 legge 88/98 e dall’art. 71 legge 448/98 per il 2° lotto, mentre un apporto di capitale privato è previsto per il 3° lotto. Il numero totale dei posti letto previsti è di 420. Caratteristiche dell’intervento • L’intervento ha un finanziamento in parte atipico rispetto alle altre città: la legge speciale per Venezia. Con tale finanziamento viene coperta una quota delle spese necessarie alla realizzazione dell’opera. Si tenga conto che gli intereventi necessari presentano caratteristiche particolari
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e di notevole onerosità per il contesto urbano. Le opere antincendio e le fognature hanno, nella realtà veneta, costi elevati e l’accesso al pronto soccorso comporta la realizzazione di una darsena. • Si configura pertanto un ospedale i cui spazi di degenza vengono fortemente ridotti rispetto alla realtà storica, e in cui la priorità, anche in termini di interventi di messa a norma e potenziamento, viene data al complesso del dipartimento di emergenza, al blocco chirurgico, etc. • Una caratteristica peculiare dell’intervento è il contesto storico artistico nel quale si realizza, che lo assimila alla ristrutturazione
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di Santa Maria Nuova (Geddes, 2003). Ciò comporta la cessione di vari spazi a fini direzionali, convegnistici e museali e continui rapporti con la sovrintendenza; comporta inoltre una serie di studi e valutazioni di carattere storico ed artistico, che accompagnano i lavori.
INTERVENTI DI DEMOLIZIONE E RICOSTRUZIONE DI OSPEDALI A PADIGLIONE Policlinico Umberto I – Roma La storia Il Policlinico Umberto I fu “ideato” da Guido Baccelli, clinico medico di Roma e ministro della pubblica istruzio-
ne nel 1881. L’idea fu quella di riunire tutti gli istituti clinici che, nella capitale, si trovavano ancora nella localizzazione del periodo pontificio (Stroppiana, 1980). La costruzione, nel sistema a padiglioni attualmente presente – sebbene con numerose successive integrazioni – fu pressoché completata nel 1902, e nel 1903 gli edifici furono assegnati alle amministrazioni interessate, cioè al Ministero della pubblica istruzione che ricevette gli edifici delle cliniche e le loro pertinenze, mentre la commissione degli ospedali riuniti di Roma acquisì il reparto malattie infettive, i dieci padiglioni, il palazzo di amministrazione e gli edifici dei servizi generali, iniziando co-
sì una non sempre facile convivenza (Figura 3). All’inizio del suo funzionamento la capacità complessiva del Policlinico era di 1150 letti, di cui 350 per le cliniche e 800 per l’ospedale, compreso le malattie infettive. Alla fine del 1999 il Policlinico veniva a coprire circa 16 ettari (Figura 4), con 300.000 mq coperti, 2020 posti letto ordinari e 250 di day hospital, 7.000 dipendenti ed effettuava 62.000 ricoveri ogni anno, circa 1.200.000 prestazioni ambulatoriali, circa 200.000 accessi di pronto soccorso (Fatarella, 1999). Si tratta tuttavia di un periodo in cui l’ospedale è oggetto di una serie di interventi della magistratura, che arrivano al sequestro di numerose sale
Fig. 3 Policlinico Umberto I: pianta generale nel 1888. Sono evidenti i padiglioni della amministrazione e gli edifici universitari, di maggior pregio, prospicenti via delle Mura di Belisario. (Fonte: Stroppiana L. (a cura di), Il Policlinico Umberto I di Roma. Università degli Studi di Roma, 1980 Stampato da Arti grafiche E. Possidente & F.lli, Roma).
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Fig. 4 Policlinico Umberto I: stato attuale, che evidenzia, rispetto all’inizio del novecento (vedi fig. 3), notevoli variazioni, a monte delle cliniche universitarie, con eliminazione di percorsi, nuovi edifici etc. (Fonte: Azienda Policlinico Umberto I, 2002. Piano di riorganizzazione e ristrutturazione del Policlinico Umberto I, elaborato dal Dipartimento di Architettura ed urbanistica per l’Ingegneria dell’Università degli Studi di Roma. La Sapienza. Documento preliminare alla progettazione. Luglio 2002).
operatorie, a causa delle condizioni igieniche. Nel luglio 1999 vi sono 14 casi di enterite necrotizzante che richiamano nuovamente l’attenzione della Regione e del Governo sulle condizioni del Policlinico. La localizzazione Sebbene vi siano state, nel corso degli ultimi anni, alcune dichiarazioni favorevoli ad un complessivo abbandono dell’area del Policlinico, in relazione alle difficoltà igieniche e strutturali degli edifici, tale ipotesi non è stata mai realmente perseguita. E’ peraltro comprensibile che un’area strategica, a destinazione sanitaria, prossima all’Università degli studi e in prossimità del centro di Ro-
ma, seppure in posizione collaterale, risulti ottimale per una localizzazione di strutture sanitarie e non facilmente riconvertibile per le sue dimensioni. Inoltre numerosi edifici risultano vincolati. Il problema che si è posto, in termini di localizzazione, è quindi quello di alleggerire l’area da una serie di incombenze di carattere universitario e di scegliere fra diversi approcci di intervento possi-
bili su di un ospedale a padiglioni. La scelta definitiva è avvenuta tramite un accordo fra ministero e università, che prevede l’alleggerimento della struttura da funzioni di carattere universitario, con lo sdoppiamento della università su una seconda struttura, allora (1999) in fase di realizzazione e attualmente attiva: l’Ospedale S. Andrea. Prende pertanto corpo una progettazione di complessivo
Posti letto ordinari
Posti letto o D.H.
1.000 400 220
150 50 30
adeguamento del Policlinico, con la messa a norma, anche in riferimento alle norme di accreditamento. Il progetto Il documento preliminare di progettazione (Azienda Policlinico Umberto I, 2002) avanza alcuni scenari di dimensionamento, considerato che, con la realizzazione del S. Andrea e accordi con la Azienda USL di Latina, la ridistribuzione dei posti letto nel corso del
Tabella 5
Azienda Policlinico Azienda S. Andrea Azienda USL Latina
Ridistribuzione posti letto.
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Scenari
Attuale 2001 A B C D E
P. L. ordinari 1.502 873 873 873 700 700
prossimo triennio è prevista come riassunto in tab. 5. Il documento programmatico prospetta alcuni scenari, sintetizzati in tab. 6. A fronte della situazione attuale (2001) gli scenari A – E sono caratterizzati da ipotesi decrescenti di posti letto, da diverse percentuali di ricoveri in day hospital e da una riduzione di durate di degenza, in relazione ai noti trends di altri Paesi. Come appare evidente dai dati sopra riportati, con comportamenti gestionali “virtuosi” orientati ad una maggiore efficienza della potenzialità erogativa del Policlinico, anche con 700 letti di degenza ordinaria le capacità di assistenza del Policlinico, in termini di dimessi totali, resterebbe pressoché immutata. Gli obiettivi che persegue la riorganizzazione sono i seguenti: • Non procedere a recuperi di strutture non pienamente idonee allo svolgimento di attività assistenziali. • Realizzare un Dea di II livello di alta qualità. • Concentrazione delle sale operatorie e della diagnosti-
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P.L. DH
279 62 162 162 200 200
(15,7%) (15,7%) (15,7%) (15,7%) (22,2%) (22,2%)
Durata degenza
Totale dimessi
Totale giornate degenza
10,6 10,6 9,0 8,0 9,0 8,0
73.109 42.489 66.527 70.510 68.343 71.537
551.923 320.741 387.302 387.302 354.050 354.050
ca per immagine, attualmente diffuse in più edifici. Viene pertanto ipotizzata la liberazione, con demolizioni, di un’area di 4,8 ettari, alle spalle delle cliniche ed edifici universitari, edificando nell’area liberata un nuovo ospedale Policlinico, con una superficie coperta di 49.000 mq, una altezza massima di 29 metri, una capacità di ospitare sia l’ospedale per acuti che i servizi generali (Figura 5). L’intervento ipotizzato si svilupperebbe in tre fasi: 1. Demolizione di padiglioni ed altri edifici di basso valore architettonico – monumentale. 2. Costruzione – sulla sede dei padiglioni preesistenti demoliti - di edifici verticali (corpi piedritto). 3. La costruzione di strutture orizzontali (edifici architrave), a ponte fra gli edifici verticali, in modo tale da non alterare il terreno e gli strati archeologici. Caratteristiche dell’intervento L’intervento è ad una fase preliminare, finalizzata a trovare un ampio consenso sui criteri e a confermare il finanziamento in base all’art. 71 (interventi sulle aree me-
tropolitane). Si sviluppa pertanto in termini di ipotesi urbanistica e di valutazione dei valori storici e ambientali. Lo scenario sanitario, seppure sviluppato sinteticamente (i dati sopra esposti rappresentano tuttavia una sintesi degli scenari descritti), sono interessanti, poiché tendono a configurare i diversi fabbisogni in relazione ai possibili “comportamenti”. L’ipotesi perseguita è quella di una conservazione dei padiglioni di più elevata valenza storica e architettonica (la parte universitaria), con una conseguente ampia demolizione degli altri corpi di fabbrica e la realizzazione del “polo ospedaliero” di nuova edificazione. La tipologia dei nuovi edifici è descritta sommariamente, in termini di torri collegate da sezioni orizzontali a ponte, con la finalità di identificare modalità di edificazione compatibili con i notevoli vincoli ambientali connessi ai ritrovamenti archeologici. Sebbene in termini di preliminare, il programma rappresenta non solo la scelta di mantenere l’attuale localizzazione, ma anche quella di procedere ad una rideterminazione del
Tabella 6 Possibili scenari al variare del numero di posti letto.
fabbisogno di posti letto e ad una totale nuova edificazione degli edifici destinati ad ospitare i servizi diagnostici e terapeutici del Policlinico. Considerazioni conclusive La chiusura dei piccoli ospedali. La problematica della chiusura dei piccoli ospedali porta spesso alla realizzazione di nuove strutture in posizione baricentrica; le difficoltà connesse a mettere in atto tali decisioni sono un fenomeno non solo italiano, ma presente in molti altri Paesi (Hayocock, 1999). Si tratta tuttavia di una problematica che, in aggiunta ai problemi di identificazione del nuovo sito, allunga notevolmente i tempi decisionali. La scelta del sito Gli esempi riportati illustrano le problematiche affrontate nella scelta del sito. Un esempio particolare è rappresentato dall’ospedale della Versilia, per il quale il Dipartimento di Urbanistica della facoltà di Architettura di Venezia aveva messo a punto una griglia di criteri di identificazione (baricentricità, accessibilità, di-
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Fig. 5 Policlinico Umberto I. Scenario: a destra l’area di realizzazione del nuovo policlinico. (Fonte: Azienda Policlinico Umberto I. Piano di riorganizzazione e ristrutturazione del Policlinico Umberto I, elaborato dal Dipartimento di Architettura ed Urbanistica per l’Ingegneria dell’Università degli Studi di Roma. La Sapienza. Documento preliminare alla progettazione. Luglio 2002). Area del nuovo policlinico Edifici di pregio architettonico da recuperare anche con interventi di ristrutturazione con mantenimento dell’involucro esterno
Principali attraversamenti interni percorsi pubblici Sistema storico del fronte principale da riportare alla configurazione originaria con interventi di restauro fisiologico
mensione/forma, presenza edificatoria preesistente, culture agricole, allacciamento alle reti infrastrutturali, piacevolezza del sito, nocività ambientale, proprietà dell’area, prescrizioni urbanistiche). Tale esempio è rilevante sotto il profilo metodologico, anche se alcuni parametri di carattere politico e urbanistico sembra siano quelli che alla fine prevalgono, portando a delle decisioni particolari, come nel caso dell’ospedale del Valdarno, costruito a cavallo dei due comuni che dismettono il proprio ospedale (Ottani, 2003). Le modalità di finanziamento. Dalla casistica si evincono molteplici modalità di finanziamento. Se il finanziamen-
PIAZZE
MARGINI ATTREZZATI per le nuove piazze e spazi di ingresso da riqualificare DISLIVELLI
AREE LIBERE A PREVALENTE MORFOLOGIA VEGETALE
to in base all’art. 20/88 rappresenta la modalità più diffusa, esso si integra, specie nei periodi più recenti, con altre fonti già indicate nell’introduzione. Alcune modalità di finanziamento, in particolare il project financing, pongono alla Azienda sanitaria e alla direzione sanitaria del presidio il compito di una corretta definizione delle richieste e, in fase di espletamento dell’iter, di interscambio e controllo delle proposte dei promotori. Le modalità di progettazione Alcune procedure, quale il project financing e il concorso internazionale, collocano all’esterno delle strutture tecniche aziendali la progetta-
Accesso carrabile alla nuova struttura ospedaliera
Accesso pedonale alla nuova struttura ospedaliera
zione e – generalmente – la direzione dei lavori. Tali procedure tendono a collocare la progettazione dell’opera in un contesto di confronto internazionale, ponendo al responsabile del procedimento e alla direzione sanitaria l’onere di una chiara, e ci sembra utile, definizione dei bisogni del committente, cosa non sempre attuata in occasione di progettazioni interne o affidate con modalità di partecipazione più ristrette e di minore impatto sull’opinione pubblica. La tipologia dei progetti Non possiamo parlare, ovviamente, di tipologie univoche, ma indubbiamente alcuni criteri generali appaiono perse-
guiti in modo diffuso. In particolare la tematica dei diversi livelli di intensità di cura, presente nel meta-progetto planimetrico e tridimensionale “Nuovo modello di ospedale” Veronesi/Piano (Capolongo, 2001) è generalmente ricercata; ulteriore elemento è una forte attenzione al rapporto fra l’ospedale e la città, proprio di esperienze già realizzate, quale l’ospedale europeo George Pompidou di Parigi o l’attenzione agli accessi del pubblico, al loro dimensionamento, sia nella ricerca di una caratterizzazione architettonica dell’ospedale, sia nella volontà di dotare l’ospedale di un punto di forte qualificazione, da cui si dipartono i percorsi fondamentali,
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anche esso presente in esperienze di altri paesi (Zublena, 2001; Capolongo, 2003). Il dimensionamento degli ospedali Non possiamo negare che la dimensione degli interventi attuati, partiti negli anni novanta, ma frutto di ideazioni del decennio precedente, è fortemente sovrastimata rispetto alle attuali esigenze di ricovero. Se si confrontano i posti letto che erano ipotizzati in molti progetti (ad esempio Mestre) si conferma che le modalità di stima del fabbisogno e lo studio dei trend di durata di degenza di altri paesi, attività indubbiamente complessa, non erano state neanche oggetto di riflessione. Tale fenomeno ha comportato riduzioni di posti letto in corso d’opera, favorendo così una tendenza alla concentrazione di molteplici attività nell’ambito dell’area e dello stesso edificio ospedaliero per conversione di
spazi destinati alla degenza verso altre funzioni. Nell’ospedale si collocano pertanto non solo servizi di carattere generale, che gli ospedali localizzati in centri storici tendono ad esternalizzare (lavanderia, cucine, magazzini, farmacie, etc.), comprensibilmente e utilmente in tali realtà, ma anche attività prettamente non ospedaliere, quali l’hospice o il centro di riabilitazione intensiva extraospedaliera, con una contraddizione anche semantica! La gestione di tali attività può trarne vantaggi sotto il profilo gestionale ed economico, ma la localizzazione rischia di cambiare le caratteristiche del servizio erogato. Le ristrutturazioni Gli interventi di ristrutturazione tendono ovviamente a realizzare nuovi complessi nelle aree libere, anche in ambito di centri storici (vedi Venezia). Negli ospedali di
Bibliografia Azienda Policlinico Umberto I (2002). Piano di riorganizzazione e ristrutturazione del Policlinico Umberto I, elaborato dal Dipartimento di Architettura ed Urbanistica per l’Ingegneria dell’Università degli Studi di Roma. La Sapienza. Documento Preliminare alla Progettazione. Luglio.
valenza storico-monumentale si tende pertanto a destinare le aree di maggior pregio e non ristrutturabili a funzioni non sanitarie e ad inserire, anche in complessi monumentali interi nuovi blocchi (Picchi, 2002). Risultano ormai più rari interventi di radicale trasformazione di parti di edifici preesistenti, con la trasformazione, ad esempio, di padiglioni in stanze per uno o due letti. Gli interventi negli ospedali a padiglione. In tali complessi la sostituzione di un intero fabbricato appare più facilmente realizzabile; è infatti quanto è stato attuato anche negli anni settanta con la realizzazione di monoblocchi fra i padiglioni esistenti. Ad esempio: ospedale S. Martino di Genova, già negli anni ottanta; ospedale Borgo Trento di Verona, in cui è presente un monoblocco ai margini dell’area ed in cui è previsto un
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nuovo edificio centrale con pronto soccorso e chirurgie. La novità consiste pertanto nella totale trasformazione del polo ospedaliero, con il trasferimento di tutte le attività in nuovi edifici, l’abbattimento, ove possibile, delle preesistenze o la destinazione di edifici vincolati a funzioni non assistenziali. Tale metodologia di intervento è quella proposta per il Policlinico Umberto I di Roma, ma presenta criticità. In particolare si tratta di lavorare per almeno un decennio in un’area ospedaliera e di una capacità non solo di programmazione, ma di coerente realizzazione progressiva, di un generale piano, che deve avere una sua omogeneità, sia sanitaria che architettonica. Gli esempi in fase avanzata sono rari e citiamo a tale proposito quanto si sta realizzando a Careggi in coerente attuazione con il progetto generale Careggi 2000, predisposto circa un decennio fa.
Geddes M., Campanile G. Riflessioni sull’ospitalità in Italia: c’è ancora spazio per un ospedale nella città? QA 2003; 14 (3): 141-147. Hayocock J., Stanley A., Edwarsds N., Nicholls R. The hospital of the future. Changing hospitals. BMJ 1999; 319:1262-4.
Capolongo S. Un nuovo modello di ospedale. Proposta progettuale di Renzo Piano. Tecnica Ospedaliera 2001; giugno: 38-45.
Istituto Universitario di Architettura di Venezia - Azienda Usl Venezia. H VEN LC hôpital de venise le corbusier - testimonianze (a cura di Renzo Dubbini e Roberto Sordina); inventario analitico degli atti (a cura di Valeria Farinati). IUAV AP - Archivio progetti, Venezia 1999.
Capolongo S. (2003). “Georges Pompidou” Parigi. Ospedale del XXI secolo. Tecnica ospedaliera 2003; XXXIII; 3: 28-54.
Lorenzetti G. (1980). Venezia e il suo estuario. Trieste, Edizioni LINT, 1980.
Castelli G. Gli ospedali d’Italia. Milano, Medici Domus 1942. Colli U., Altieri A. Il nuovo ospedale di Mestre. 1° Convegno nazionale di Organizzazione, Igiene e Tecnica ospedaliera. Grado 1011 aprile 2003.
Ospedali Riuniti di Bergamo. Nuovo ospedale di Bergamo in località Trucca. Criteri informatori per la redazione del progetto del nuovo ospedale di Bergamo. Aggiornamento (gennaio 2001). Dattiloscritto: 117.
Fatarella R. Un grande ospedale per una grande città? La Nuova Città, Maggio 1999; II, 4: 43-49.
Ospedali Riuniti di Bergamo. Nuovo Ospedale di Bergamo. Concorso Internazionale. Bergamo, Bolis Edizioni, 2002.
Geddes M. Le politiche ospedaliere in Italia. Salute e Territorio 2002; 131: 92-99.
(segue a pag. 224)
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Spazio Toscana
Eva Buiatti Elena Marchini Alberto Dolara Agenzia regionale sanità Regione Toscana
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Centri aventi funzioni di riferimento nella Regione Toscana Risultati di un’indagine conoscitiva
li obiettivi generali delle istituzioni sanitarie sono quelli di assicurare un livello quantitativo e qualitativo adeguato delle prestazioni, ma anche di valorizzare e potenziare “centri di riferimento” e/o di eccellenza tramite i quali promuovere e garantire metodi innovativi di assistenza e nel contempo evitare dispersioni di risorse economiche e di esperienze professionali. La definizione di centro avente “funzioni di riferimento” o “centro di eccellenza” è dinamica per l’evoluzione continua delle conoscenze mediche: l’assistenza ad una condizione morbosa scarsamente nota o la messa a punto di una determinata tecnica innovativa può nascere in una singola istituzione sanitaria, ma poi diffondersi proprio per evitare concentrazioni non vantaggiose per il paziente; oppure può rimanere circoscritta ad un determinato centro o istituzione proprio perché l’affezione morbosa richiede una tecnica altamente sofisticata e/o costosa o perché la rarità dell’affezione non permette-
G
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rebbe comunque agli operatori sanitari di acquisire una sufficiente esperienza specifica; un centro infine può avere anche funzioni di riferimento culturale indicando linee guida, promuovendo aggiornamenti e proposte organizzative generali. Per un corretto funzionamento di un centro di riferimento è indispensabile un’adeguata struttura organizzativa che permetta al paziente un’adeguata assistenza. Infine è indispensabile che gli operatori sanitari, i pazienti ed i loro familiari abbiano un’informazione corretta dei centri cui rivolgersi. Delibere della Regione Toscana istitutive dei Centri aventi funzioni di riferimento La Regione Toscana con una delibera del 19.04.1999 provvedeva ad attivare il procedimento di riconoscimento delle funzioni regionali di riferimento attenendosi ai criteri di seguito indicati: “verifica di funzionalità: la funzione regionale dovrà erogare servizi la cui carenza penalizzerebbe
strutturalmente il sistema; verifica di qualità, avendo a riferimento: numero e complessità della casistica annualmente trattata; indice di attrazione infra ed extraregionali; produzione scientifica del personale della struttura; tempi presenti nelle liste di attesa; qualità delle attrezzature e delle tecnologie; idoneità dell’organizzazione”. Sulla base di tali criteri venivano riconosciuti, con delibere successive n° 1036, 1276, 411 e 600 del 1999 e del 2000, 131 centri aventi funzioni di riferimento, cosi suddivisi: 31 all’AO Meyer, 44 all’AO Careggi, 3 nell’Azienda sanitaria fiorentina, 3 al CNR di Pisa, 41 nell’AO pisana, 1 nell’Azienda sanitaria di Lucca e 18 nell’AO senese; con una delibera n° 216 del marzo 2002 venivano istituiti 32 nuovi centri di cui 26 all’AO Careggi e 6 all’AO senese. Indagine conoscitiva della Agenzia regionale sanità toscana Nel giugno 2002 veniva iniziata, da parte dell’Agenzia regionale toscana un’indagine
conoscitiva, mediante questionario, per rilevare l’attività dei centri con funzione di riferimento svolta nel biennio 2000-2001; sono stati considerati i centri deliberati nel 1999-2000 e non quelli deliberati nel 2002 perché la brevità del periodo intercorrente dalla delibera all’inizio dell’indagine non avrebbe permesso di valutare le risposte in modo adeguato. Al dicembre successivo avevano risposto al questionario ed ai successivi solleciti 130/131 centri; per quanto riguarda le AO di Firenze, Pisa e Siena in 65 di essi l’istituzione in cui si svolge l’attività è risultata a direzione universitaria ed in 56 ospedaliera; i centri sono raggruppabili in “aree omogenee”: 6 di genetica, 7 di pediatria, 5 di area materno-infantile, 21 di medicina interna, 15 di chirurgia, 7 di cardiologia clinica, 7 di pneumologia, 3 di neurologia, 6 di ortopedia, 2 di medicina sportiva, 15 di anatomia patologica, radiologia, medicina nucleare, laboratorio nonché 11 di aree di attività non inquadrabili in quelle precedenti *.
L’elenco dei centri di riferimento ed i risultati dell’indagine sono disponibili presso l’Agenzia regionale di sanità.
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È stata valutata l’attività clinica complessiva per 128 centri (due di essi non svolgono attività clinica) riguardante l’osservazione dei casi ed il loro follow-up nel biennio 20002001. Vi sono alcune incertezze sulla valutazione dei dati forniti: infatti si ritiene probabile che la massima parte dei centri abbiano incluso nella casistica dell’anno 2000 i casi osservati in precedenza; per ottenere una stima approssimativa dei casi osservati per anno dal singolo centro (carico di lavoro) è quindi necessario sottrarre dai casi osservati nel 2001 quelli osservati nell’anno precedente. L’analisi dei dati ha comunque evidenziato una notevole dispersione della casistica osservata: vi sono 28 centri che hanno osservato nell’anno 2001 meno di 100 casi, quasi sempre in rapporto alla rarità della casistica in esame; 7 centri che ne hanno osservati oltre 5.000, che operano prevalentemente nell’area di diagnostica di laboratorio. La valutazione dell’attività scientifica, suddivisa in relazioni, comunicazioni e poster ai congressi nazionali ed internazionali e numero di pubblicazioni recensite da Medline ha mostrato, come per l’attività assistenziale, una dispersione notevole di dati; per le pubblicazioni su Medline per esempio il 17%
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Spazio Toscana
dei centri non aveva alcuna pubblicazione, il 14% un numero uguale o inferiore a cinque pubblicazioni, mentre il 31% aveva oltre 40 pubblicazioni nel periodo considerato. Alla richiesta specifica di come la delibera regionale avesse influenzato l’attività dei centri per circa la metà di essi non è risultata modificata, in oltre un terzo dei centri è stata definita come più facile o molto più facile; hanno dichiarato un aumento delle difficoltà circa l’8% dei centri; nessun commento da parte del rimanente 12%. Nei commenti liberi vi sono state richieste di fondi e personale, sanitario o amministrativo da parte di circa 1/3 dei centri; in particolare è stato richiesto il ripristino della destinazione dei fondi assegnati dalla Regione alle aziende sanitarie per i centri di riferimento ed autonomia di budget e/o scorporo delle attività; sono state avanzate inoltre proposte di collegamenti con altri centri ed aumento della visibilità. Conclusioni I dati sovraesposti sono stati presentati ad un convegno organizzato a Firenze dall’Agenzia regionale di sanità il 14.04.03; i partecipanti sono stati oltre 100 da tutta la Regione Toscana con numerosi interventi; ha concluso il
convegno l’assessore Enrico Rossi del dipartimento salute e sicurezza della Regione Toscana. Dal convegno sono emerse le seguenti considerazioni: • La definizione di un centro dovrebbe avere una connotazione dinamica dato l’evolversi delle conoscenze mediche. • L’attività di un centro di riferimento dovrebbe essere definita: a) dall’epidemiologia della malattia, b) dallo sviluppo di tecniche specifiche ed innovative; c) dalla produzione culturale. • Dal punto di vista assistenziale le funzioni di un centro di riferimento dovrebbero essere definite: a) dalla capacità di valutazione dei casi che hanno rarità epidemiologica; b) essere in grado di eseguire metodiche che richiedono esperienza particolare; c) essere dotati di strumentazione complessa e costosa. • L’elevato numero dei centri nella Regione Toscana potrebbe comportare una dispersione delle competenze e delle risorse. • È quindi indispensabile un collegamento tra centri che hanno funzioni affini costituendo una rete di servizi. • Può essere utile la distinzione tra centri di riferimento per l’area vasta e centri di eccellenza che
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hanno una valenza regionale o addirittura extraregionale; in tal modo il numero complessivo di questi centri potrebbe essere ridotto a 20-40. • Si potrebbe prevedere per i centri di eccellenza una valutazione da parte di osservatori “esterni”. • È necessario sviluppare un’informazione adeguata tra i vari centri, verso i medici di famiglia, gli specialisti e soprattutto la cittadinanza. • La gestione da parte dei centri di un sito a cura dell’Agenzia regionale di sanità e del dipartimento sicurezza sociale potrebbe permettere una maggiore informazione sull’attività del singolo centro ed essere a disposizione degli addetti ai lavori e degli utenti del Servizio sanitario nazionale. L’organizzazione adeguata dei centri di riferimento, indispensabile per qualificare l’assistenza sanitaria, promuovere e garantire metodi innovativi di assistenza, evitando dispersioni di risorse economiche ed esperienze professionali, è un problema complesso che richiede disponibilità ed impegno da parte delle istituzioni sanitarie. L’iniziativa dell’Agenzia regionale tsoscana si è mossa in questa direzione e porterà avanti ulteriori iniziative in proposito.
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La gestione del rischio di procurare un danno alla salute del paziente
L’ERRORE IN MEDICINA
I princìpi giuridici sulle responsabilità individuali o delle strutture sanitarie. Le strategie, i progetti di prevenzione e le esperienze condotte in strutture ospedaliere regionali
Monografia a cura di Riccardo Tartaglia e Tommaso Bellandi centro.ergonomia@asf.toscana.it
I contributi di questa monografia sono stati tratti dal Seminario nazionale “La sicurezza del paziente e l’errore in medicina”, organizzato a Campi Bisenzio (Fi) nell’anno 2003
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Assessore regionale per il diritto alla salute
Le responsabilità dell’informazione
l tema della malasanità e dell’errore in medicina è diventato un argomento quasi quotidiano sui media e non viene mai controbilanciato dai ringraziamenti che pure ci giungono dai cittadini per il buon funzionamento della sanità pubblica toscana. Al di là della volontà di attaccare complessivamente il servizio pubblico, dandone comunque un’immagine negativa, per affrontare il problema bisogna anche prendere atto di una diffusa disponibilità a recepire acriticamente questo giudizio. Oggi la nostra società è non solo più ricca, ma anche culturalmente più preparata, più informata rispetto alla generazione che oggi è giunta alla terza età; i cittadini vogliono essere riconosciuti come portatori di diritti e non sono più disposti a tollerare un rapporto di sudditanza, di subordinazione verso le istituzioni che dovrebbero tutelare la salute pubblica. A questo proposito dobbiamo prendere atto che non si è dato sufficiente peso alla necessità di alimentare una informazione corretta sul funzionamento del servizio pubblico, per cui nell’eventualità di un errore, che pure è umano, avviene che la stampa lo amplifica, determinando sfiducia e rancore,
creando un circuito che si autoalimenta. Bisogna poi sottolineare la tendenza della medicina a rappresentarsi come onnipotente, per cui ogni scoperta, ma anche ogni intervento, deve essere finalizzato sempre e soltanto al successo. La stampa, che dedica sempre più spazio ai temi della salute, ma è anche influenzata da interessi di parte, rafforza questa immagine, mettendo in atto una competizione fra le strutture sanitarie indicate, a torto o a ragione, come di “serie A” o di “serie B”, indirizzando di conseguenza le richieste di analisi e di interventi in maniera del tutto impropria. Il ministro Sirchia, per fare un esempio, ha fatto una classifica dei centri trapianto operanti nel nostro paese, un elenco che secondo la mia opinione di politico e di governatore è francamente avulso da ogni considerazione di tempo, di luogo e soprattutto di casistica. Detto questo, bisogna riconoscere che sempre più spesso veniamo a conoscenza di errori commessi da medici, infermieri, personale sanitario. Errori che provocano danni, invalidità, e in qualche caso anche la morte dei pazienti. Sulla stampa arrivano solo i casi più clamorosi: per uno che viene alla luce, tanti altri
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I possibili interventi strutturali per prevenire o limitare il rischio di sbagliare restano sconosciuti. Dagli studi internazionali condotti finora ci giungono dati impressionanti: negli Stati Uniti ne muoiono più per errori dei medici che per incidenti stradali o sul lavoro, un errore su tre è dovuto a imperizia, almeno la metà dei cosiddetti “eventi avversi” sarebbero prevenibili. In Europa non esistono ancora ricerche analoghe, e anche in Italia le fonti di informazione disponibili non consentono di quantificare l’entità del fenomeno nelle nostre realtà sanitarie. Quello che è certo è che le segnalazioni e le denunce di cui si viene a conoscenza non sono che la classica punta dell’iceberg, il grosso rimane sommerso. L’errore è insito nella natura umana, e qualche volta a sbagliare sono anche le macchine. Per chi lavora nella sanità, il rischio di sbagliare è sempre in agguato. Un rischio che, anziché diminuire, paradossalmente cresce con il progredire della medicina e della tecnologia. Medici e infermieri lavorano spesso in situazioni di stress, fisico ed emotivo; sono sempre di più gli atti medici eseguiti su un paziente duran-
te il ricovero; sono sempre maggiori le possibilità di diagnosi e terapia; c’è la tendenza a ridurre la permanenza del malato in ospedale: tutto questo crea un ambiente più rischioso per la sicurezza del paziente e più stressante per gli operatori. Tutti gli esperti concordano nel considerare lo studio degli errori come uno dei temi di rilevanza primaria in ambito sanitario. Non serve occultare o negare gli errori: per evitare clamori, pubblicità negativa, conseguenze legali, ed essere considerati meno bravi. Molto meglio, invece, riconoscerli e prenderne atto: per analizzarli, studiarli, e imparare, proprio dagli errori fatti, a non ripeterli, o a non farne altri diversi. In questo scenario, prendere atto del problema dell’errore medico e farne uno strumento di conoscenza significa rivedere i percorsi terapeutici, le scelte sanitarie in una luce critica che può solo giovare al sistema nel suo complesso. Nel momento in cui ammette di aver commesso un errore, il medico dovrebbe autodenunciarsi, e quindi mettere in moto un’azione penale nei
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suoi confronti; questo, comprensibilmente, può creare un freno all’ammissione di avere sbagliato. È quindi necessario individuare una metodologia per arrivare ad una analisi, su pochissimi punti pertinenti al problema, del Servizio sanitario regionale. In questo modo introdurremmo un sistema di intervento per la riduzione del rischio di errore, dando un importante contributo al cambiamento della cultura medica. Nello stesso tempo bisogna studiare i mezzi per rendere il cittadino più consapevole della possibilità che un errore possa accadere, magari distribuendo, sia negli ospedali che negli ambulatori medici, degli stampati che, pur ammettendo un eventuale fallimento dell’intervento, lo rassicurano sull’impegno della struttura per evitarlo e gli consigliano come comportarsi per essere maggiormente tutelato. Io credo che i cittadi-
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ni, di fronte ad una messaggio di questo tipo, si sentirebbero onorati e considerati come persone, stabilendo con gli operatori un rapporto di empatia. A livello regionale ritengo utile e urgente creare una commissione composta da rappresentanti dell’azienda ospedaliera di Careggi, del Consiglio sanitario, dell’università e dell’agenzia sanitaria, con l’obiettivo di individuare un sistema per rilevare non più di due punti critici, che non comportino penalità per i medici e gli infermieri del sistema sanitario, sollecitandone nello stesso tempo la partecipazione. Questo potrebbe portarci a rilevamenti sui quali sarebbe poi possibile intervenire a livello strutturale per evitare o ridurre il rischio di errore. Prendere atto che il problema esiste, è già un primo importante e coraggioso passo per affrontarlo, con la comune
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volontà di capirne i meccanismi e di cercare insieme come porvi rimedio. È questo l’impegno che la Regione intende assumersi nei confronti dei cittadini: un impegno che del resto è nello spirito della Carta dei servizi, una sorta di ‘patto’ stretto tra l’ente pubblico e i cittadini, proprio allo scopo di tutelare i diritti delle persone rispetto ai servizi offerti. Sul fronte della lotta all’errore in medicina, in Italia si stanno muovendo ora i primi passi. Al San Filippo Neri di Roma funziona la prima banca degli errori nella sanità, un sistema di monitoraggio è in funzione al San Raffaele di Milano, il Tribunale per i diritti del malato ha lanciato il progetto “Impariamo dall’errore”. La Regione Toscana è l’unica, per ora, ad aver attivato un osservatorio per il monitoraggio dei reclami. E la Asl di Firenze, tra le prime in Italia,
ha adottato un modello di approccio per l’analisi degli incidenti in campo medico, per capire le criticità organizzative che possono essere causa di eventi avversi, e poterle così eliminare, migliorando le condizioni di sicurezza per i pazienti. Ma siamo appena agli inizi, c’è ancora tanto da fare. È mia intenzione investire del problema il Consiglio sanitario regionale, e destinare un miliardo di vecchie lire perché nelle tre aziende ospedaliere-universitarie si costituiscano altrettante équipe tecniche con il compito di studiare le esperienze già realizzate, monitorare gli errori fatti e prevenire quelli futuri. Lavorare per una sanità migliore e più efficiente significa certamente valorizzare ciò che funziona bene, ma anche cercare di migliorare sempre di più quello che invece funziona meno bene: e quindi anche eliminare i rischi e gli errori.
(segue da pag. 219): Strategie di adeguamento della rete ospedaliera nazionale
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Bruno Giordano Magistrato, Ufficio Gip presso il Tribunale di Milano
l tema e i problemi che stiamo studiando ormai da parecchio tempo riguardano gli errori o le omissioni, o almeno quelle più gravi che nel campo dell’organizzazione sanitaria hanno dato luogo a interventi giurisprudenziali sia nel campo civile che nel campo penale. Soltanto per chi non è giurista, vorrei premettere che l’errore nel nostro ordinamento è considerato come un vizio della volontà; nel diritto civile l’errore dà luogo a un contratto invalido, nel diritto penale l’errore esclude il dolo, cioè esclude la volontà di un determinato fatto. Quindi porta alla non punibilità, cioè a discriminare i fatti che sono puniti solo per dolo, ma non porta ad escludere la punibilità dei fatti che sono puniti per colpa. È evidente quindi che l’errore è un’indicazione di colpa; l’errore coincide con la colpa stessa se questa com’è definita dal nostro ordinamento penale, coincide con negligenza, imprudenza e imperizia. Di conseguenza l’ipotesi che noi definiamo spesso come errore, tecnicamente è un’ipotesi di colpa, se ovviamente manifesta di per sé non un caso fortuito ma una disattenzione, un’imprudenza o un’impreparazione sul caso concreto.
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Il punto di vista giuridico Ma l’errore non è solo valutabile come elemento di colpa è anche indicativo di un elemento di causalità. Gli eventi a cui ci riferiamo non sono soltanto quelli che attengono alla persona (per esempio un omicidio colposo), ma anche quelli che riguardano beni materiali (come per esempio l’incendio colposo) o ancora possono attenere ad una sicurezza più ampia riguardante la collettività (si faccia l’esempio del disastro colposo aereo, ferroviario, navale ecc.). È evidente quindi che l’errore, per l’ordinamento giuridico, si colloca come una delle cause che possono provocare un determinato evento. Ogni causa può essere accompagnata da altre concause, ma per il principio di equivalenza causale, ogni causa è causa dell’evento. Di conseguenza è sufficiente, per rispondere di un determinato evento, porre in essere una sola causa quindi un solo errore, anche se questo errore è concatenato con altre cause, con altre concause, che possono essere precedenti, concomitanti oppure successive rispetto alla causa che stiamo esaminando. Nel campo della sanità Questo nel campo della sanità porta subito ad evidenziare i diversi piani esistenti in
Omissioni, colpe individuali e responsabilità delle organizzazioni sanitarie un’organizzazione complessa che deve offrire un’assistenza, una cura ed un servizio attraverso una moltitudine di beni, di persone, di attrezzature. Quindi occorre distinguere – e queste distinzioni corrispondono a diversi momenti storici degli studi e della giurisprudenza in questo campo – il piano medico innanzi tutto da quello paramedico, da quello amministrativo, e soprattutto da quello gestionale; all’interno del piano gestionale dobbiamo distinguere una gestione di vertice, da una gestione di profilo più basso, un piano finanziario per finire ad un piano organizzativo strutturale di tutto il servizio. Proviamo a distinguere tra questi piani due grandi ambiti. Innanzi tutto il piano medico e paramedico, cioè gli errori umani, gli errori del professionista che costituiscono ormai il tema di parecchie centinaia di sentenze che si sono occupate della colpa professionale medica. È un argomento spinosissimo che ha riguardato sia i profili della causalità sia i profili della colpevolezza, ed è tanto centrale che non più di due
mesi fa è dovuto intervenire il massimo collegio giurisprudenziale, la Cassazione a sezioni unite, per porre dei principi in materia di colpa professionale medica. Quindi anche per noi giuristi il tema della colpa medica si incentra sulla responsabilità per colpa e in particolare sui principi che riguardano la causalità. I principi sulla responsabilità del medico e/o del personale paramedico Studiando questi casi la giurisprudenza incidentalmente ha indicato delle responsabilità che andavano ben oltre la sfera della responsabilità personale del primario, del medico, del chirurgo, del ginecologo, del paramedico, ecc. Per esempio le due note sentenze che si sono occupate dei danni da parto. Una prima sentenza ha indicato il momento colposo di questa responsabilità in una omissione dell’ostetrica, ma al tempo stesso ha individuato la responsabilità del primario per avere emesso un ordine di servizio che spostava il medico dalla sala parto. La decisione ha anche indicato uno
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dei fattori colposi nella mancanza della disponibilità di un’attrezzatura. Una seconda sentenza sempre in materia di danno da parto ha fotografato un caso diverso ma con principi simili. Si pensi ancora al caso del suicidio occorso in un ospedale psichiatrico, dove è stata evidenziata la responsabilità non di chi doveva curare sul piano medico la ricoverata che ha realizzato questo suicidio, ma di chi doveva assicurare la chiusura della finestra con un sistema di chiusura adatto, e questo ovviamente non è un problema terapeutico ma un problema strutturale, di organizzazione della struttura. Altra sentenza si è occupata di un medico che ha assicurato l’idoneità sportiva di un ragazzo, che durante un incontro sportivo ha incontrato la morte; il medico aveva omesso di diagnosticare una determinata patologia cardiaca per mancanza di una apposita attrezzatura. Le sentenze sono parecchie centinaia; citiamo soltanto quelle che si riferiscono all’anno 2001-2002: una in particolare che riguarda un complicato intervento chirurgico individua la responsabilità del primario con queste parole che richiamano l’articolo 7 comma 5 del DPR 128 del ’69, “spetta al primario l’obbligo di gestire le urgenze e di organizzare il corretto funzionamento del reparto anche in sua assenza, rispondendo di quanto in tale struttura accada anche in sua assenza”. Questo è uno dei passaggi che delineano la responsabilità al di là della presenza fisica per la organizzazione di un reparto, ma lo stesso prin-
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cipio potrebbe valere per altri settori. Il caso della tragedia del Galeazzi ad esempio è stato provocato, come è stato accertato da tre sentenze e diverse perizie, anche per un difetto organizzativo. Una serie di altre sentenze hanno messo a fuoco, invece, la necessità che il medico sia tenuto ad intervenire, e quindi ad evitare l’omesso intervento, a favore del paziente anche nel caso in cui ci siano poche probabilità di successo, cioè anche nel caso in cui l’intervento chirurgico o un altro intervento terapeutico non sia necessario, o non sia l’intervento risolutivo. Comunque la Cassazione ha ripetuto per parecchi anni e nell’ultima sentenza ha ritoccato questo principio, l’obbligo del sanitario e del professionista sanitario di intervenire anche se vi sono poche probabilità di successo perché è in gioco il bene vita, il bene salute. La sentenza delle sezioni unite Franzese, ci ha fatto e ci farà discutere perché incentra sulla responsabilità del medico tutta una questione più ampia in tema di nesso di causalità. E la guerra di campo sul piano scientifico è stabilire dove finisce la causalità, dove noi possiamo provare scientificamente che un fatto è causa di un determinato evento e dove inizia invece la casualità di questo. Il limite cioè fra l’aver causato ed il caso fortuito è il limite fra la responsabilità e la non responsabilità. È un limite scientifico che però ci impone di osservare non solo la causa soggettiva, cioè la causa posta in essere da un essere umano,
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ma anche delle cause oggettive, strutturali, organizzative. La responsabilità della struttura sanitaria È necessario quindi guardare in un secondo campo: quello della responsabilità della struttura sanitaria, dove negli ultimi anni si sono soffermate le sentenze dei giudici civili che hanno riconosciuto la responsabilità civile di istituti pubblici e di istituti privati per danno da parto, per danno da morte e anche per danno esistenziale rispetto al paziente per gli errori occorsi. Quindi già civilmente la struttura sanitaria è stata chiamata a rispondere per il danno del singolo professionista, del proprio medico, cagionato al paziente. Al riguardo è stato individuato innanzi tutto un rapporto trilaterale costituito dal paziente, dal medico e dalla struttura sanitaria. L’intuizione di fondo, che costringe i giuristi a non potersi allontanare da questa responsabilità, ci deriva dalla legge di riforma sanitaria n. 833 del 1978 perché espressamente ha definito il diritto alla salute non soltanto come diritto del cittadino, ma come interesse della collettività. E questo è un principio che viene ribadito anche negli ultimi DPR del 1999 e del 2000. L’idea che la salute sia un fatto non individuale, ma un interesse collettivo ha postulato nell’ambito della riforma sanitaria e di tutto ciò che poi ne è seguito, la necessità che ci fosse una struttura che si occupasse di questo, di tutta la sanità, ap-
punto la struttura sanitaria, costituita, come dice espressamente la 833, da funzioni, strutture, servizi e attività. Allora guardiamo in che misura, come e quando la struttura sanitaria può causare un danno. Questa entità complessa è impersonale e oggettivizzata nella struttura. Sappiamo che la struttura non offre soltanto cura, offre diagnosi, assistenza, usa delle attrezzature, usa dei macchinari, ha dei compiti di vigilanza all’interno e all’esterno dei propri edifici individuati per materia; si pensi al campo veterinario, alla medicina sociale, alla medicina del lavoro, alla sicurezza del lavoro ecc. La struttura sanitaria offre anche vitto, alloggio e riscaldamento, cioè un servizio che richiama più quello alberghiero che non quello strettamente sanitario, perché questi sono i connotati. Ecco quindi che abbiamo distinto un danno, il danno da medico che è poi diventato il danno da colpa medica da questo danno che è da struttura sanitaria, e che chiaramente occorre distinguere dall’errore diagnostico o dal mero errore terapeutico. In questo, oggi, i nuovi decreti della fine degli anni ’90 e del 2000, indicano ed indirizzano fermamente nella struttura sanitaria dei compiti a favore della collettività. Sappiamo in cosa consiste il sistema dell’accreditamento, degli atti di indirizzo per i requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi per l’esercizio delle attività sanitarie, delle strutture pubbliche e private, per le cure trasfusionali, per le cure palliative ecc.
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L’organizzazione sanitaria È costituita da tantissimi profili. Più conosciamo questa organizzazione, più siamo in grado di liberarci della struttura delle colpe dell’organizzazione sanitaria che possono ricadere invece sulle responsabilità individuali. Diceva Lucrezio qualche millennio fa “l’uomo per essere libero deve conoscere la causa delle cose”. Allora l’organizzazione sanitaria è costituita da una serie di aspetti, di cui abbiamo un catalogo normativo per la loro prevenzione. Quali sono gli aspetti organizzativi che possono dar luogo nella loro complessità a dei momenti eziologici, a causare un errore complessivamente? Innanzi tutto la disponibilità di personale qualificato nei momenti in cui è necessario. La sorveglianza nei servizi. I locali salubri, idonei e sicuri. Il coordinamento dei servizi. Le attrezzature a norma. I prodotti sicuri. Abbiamo visto il rapporto paziente-medico, e l’organizzazione della sanità, ma abbiamo da considerare i soggetti non legati alla struttura sanitaria da un rapporto di terapia, di cura o di diagnosi: i lavoratori delle strutture sanitarie presenti all’interno delle strutture stesse unitamente ai pazienti. A differenza di altri luoghi di lavoro, non si può distinguere l’utilizzo di una scala antincendio o di un piano di evacuazione, se lo usi l’infermiere o il paziente che deve scappare. Le misure di prevenzione sono le stesse e ovviamente vanno adattate a quella struttura sanitaria, per la presenza di
questi personaggi particolari che sono i pazienti. Quindi abbiamo due campi normativi che trovano sicuramente diretta applicazione. Il primo è quello delle norme in tema di sicurezza del lavoro, posto che parliamo di luoghi di lavoro, le cui norme funzionano e valgono anche per i pazienti. Qui ovviamente occorre richiamare non soltanto tutta la legislazione degli anni ’50, ma la più recente legislazione di derivazione comunitaria costituita dal decreto 626 del ’94, che è incentrato già dall’articolo 1 e dall’articolo 3 sul rispetto di alcuni principi che valgono per tutte le attività private e pubbliche. Uno di questi, è il rispetto dei principi ergonomici, previsto dall’articolo 3 lettera F, sia nella scelta delle attrezzature, sia nei metodi di lavoro, nei processi produttivi e nell’organizzazione del lavoro stesso. È evidente quindi che questi principi ergonomici implicano anche il dovere di prevenzione culturale, cioè di sapere di essere formati ed informati ma anche di informare altri sulle condizioni organizzative e sulla scelta di attrezzature. Ma lo stesso articolo 3 prevede un altro principio fondamentale, che già il legislatore comunitario ha voluto distinguere dai principi ergonomici per esaltarne la funzione, e cioè l’obbligo di informazione, di formazione, di consultazione e di partecipazione: sono quattro sostantivi che si riferiscono a quattro principi diversi. La partecipazione non è la stessa cosa della consultazione né tanto meno della formazione o dell’informazione, concetti diversi che comples-
sivamente attengono comunque ad un ruolo attivo di tutti i soggetti che partecipano al momento lavorativo, ma anche dei soggetti che non partecipano al momento lavorativo, ma che comunque si imbattono in questo, come possono essere i pazienti. Una scala antincendio di cui non viene resa nota la presenza ai pazienti, cioè alle persone che malauguratamente dovrebbero essere i primi ad utilizzarla e i primi ad essere aiutati nell’utilizzarla è una scala antincendio che non esiste dal punto di vista dei principi giuridici, perché la presenza della scala antincendio deve essere partecipata, deve essere oggetto di informazione e quindi chi deve far usare quella scala antincendio deve essere consultato, formato e informato. La valutazione del rischio Ma vi è un terzo principio fondamentale in materia di sicurezza del lavoro, da cui dobbiamo prendere le mosse, per entrare nelle responsabilità della struttura sanitaria: il documento di valutazione del rischio. È un documento in cui occorre fotografare il rischio presente, come vuole l’articolo 4 lettera a, in cui occorre fotografare, descrivere e sottoscrivere da parte del datore di lavoro, dal vertice della struttura sanitaria che ha un obbligo non delegabile, quindi strettamente personale, di prevenire, identificare e trascrivere le misure di prevenzione su questo. Quindi bisogna fotografare il rischio e bisogna anche indicare come stiamo prevenendo quel rischio. Ma la lettera c
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impone un terzo obbligo, quello di indicare le misure opportune che si intendono adottare per migliorare nel tempo questo tipo di misure di prevenzione. Qui è successo un grave errore, anche tra noi magistrati: quello di identificare questa lettera c come una sorta di auto denuncia; se si scrive nel documento di valutazione del rischio quello che ancora dobbiamo fare, sostanzialmente stiamo scrivendo quello che ancora non abbiamo potuto fare, quindi ci stiamo auto denunciando, mettendo per iscritto le misure che non abbiamo ancora adottato. La legge non dice questo, la legge prevede nella lettera a e nella lettera b, il dovere di identificare il rischio e di dire come lo ha già prevenuto, nella lettera c quali sono le misure opportune, non quelle necessarie, per migliorare la sicurezza in quel luogo di lavoro. Quindi quello che non è necessario, ma in base all’evoluzione tecnologica o ad una certa priorità, è possibile adottare nel tempo. In un processo portato alla mia competenza riguardante il direttore generale di un ospedale di Milano, pur in presenza di centinaia di contravvenzioni, di centinaia di reati, si è giunti alla assoluzione, perché questo soggetto come organo di vertice dell’ospedale ha dimostrato di aver bandito tutti gli appalti secondo un regime comunitario, di aver iniziato ma di non aver potuto chiudere le diciotto sale parto perché questo avrebbe significato l’interruzione di un pubblico servizio, di non po-
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ter chiudere tutte le sale chirurgiche perché anche questo sarebbe stato un intervento traumatico per l’esistenza stessa del servizio, ma di avere scalettato delle priorità in modo tale da aver consentito, progressivamente nel tempo, di mettere a norma tutte le sale operatorie, ma per tempi che certo non dipendevano dalla sua capacità organizzativa o dalla sua stretta responsabilità. Infine lo stesso decreto legislativo 626 del 1994, obbliga nella valutazione del rischio ad identificare il rischio per la salute della popolazione e la tutela della collettività. È evidente quindi che c’è un ambito da coprire che riguarda non solo i singoli lavoratori: art. 4, comma quinto, lettera n. Formazione e informazione Per ultimo quello che più ci riguarda è l’obbligo di formazione e di informazione espressamente previsto dagli articoli 21 e seguenti. È ovvio che l’obbligo di formazione ed informazione unitamente a quello della consultazione e
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della partecipazione, non può trascurare l’obbligo di venire a conoscenza degli errori, delle distorsioni, delle sconnessioni che possono esserci, e quindi anche l’obbligo di portarli a conoscenza. Questa non è una forma di comunicazione di cui aver paura, ma fa parte dei contenuti dell’obbligo di formazione, che chiaramente presuppone uno scambio reciproco di informazione e formazione tra chi ha la formazione e chi la deve ricevere. Tra chi ha l’informazione e chi la deve ricevere per farne a sua volta altra formazione o altra informazione. Passando al campo normativo che riguarda più specificamente la sanità dettato dal DPR 229 del 1999, che individua nel dipartimento di prevenzione anche questo tipo di competenze, leggiamo per esempio “tutela della collettività e dei singoli dai rischi infortunistici e sanitari connessi comunque agli ambienti di lavoro”. Vi è un riferimento ancora più importante alla formazione, che è dettato
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dall’articolo 16 bis, che espressamente è rubricato “formazione continua”, distinto tra l’aggiornamento professionale e la formazione permanente. Quest’ultima viene esattamente identificata come quell’attività finalizzata a migliorare le competenze e le abilità cliniche, tecniche e manageriali e di comportamento degli operatori sanitari rispetto al progresso scientifico e tecnologico, con l’obiettivo di garantire efficacia, appropriatezza, sicurezza ed efficienza dell’assistenza prestata. Vi sono quindi dei precisi obblighi che cadono in capo alla struttura sanitaria. Infine, una recentissima sentenza di un tribunale italiano, a proposito di un infortunio sul lavoro, si è occupata di verificare quale fosse la punibilità o la non punibilità per un infortunio occorso all’interno dello stabilimento di una casa farmaceutica, quindi non una struttura sanitaria, ma uno stabilimento industriale, che ha ricevuto la certificazione ISO14001. In questo caso il giudice ha rite-
nuto di assolvere l’imputato perché l’adeguamento pieno a quella certificazione integrava pienamente l’esimente dell’assenza di colpa perché dava la dimostrazione che tutte le misure erano state adottate. Questa è per ora la prima ed unica sentenza in Italia che si è occupata di questo profilo di colpa di chi è dotato di questa certificazione. Infine: il confine che c’è tra la causalità, quindi la responsabilità, e la casualità è dovuto alla nostra scienza, la nostra preparazione, alla nostra conoscenza dei fatti. Laplace scrisse che il caso è la somma delle nostre ignoranze. Infatti quando ci appelliamo al caso fortuito è perché non ci spieghiamo un determinato fatto; forse molti dei casi che hanno riguardato i medici con la responsabilità delle strutture sanitarie, sicuramente potevano già essere evitate se ci fosse stata una maggiore conoscenza delle condizioni in cui gli stessi soggetti operavano.
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Gian Franco Gensini* ** Andrea A. Conti* ** Raffaele Rasoini* Carlo Rostagno*
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Il “critical pathway”
* Dipartimento di Area critica medico chirurgica, Università degli Studi di Firenze ** Fondazione Don Carlo Gnocchi, IRCCS Firenze
na quota di errori in medicina è inevitabile e, anche alla luce di tale consapevolezza, del tutto recentemente l’attenzione per gli aspetti metodologici dell’errore in sanità è aumentata notevolmente. Molte fonti indicano consensualmente che gli errori sono diffusi e comuni a tutte le discipline ed aree mediche, che la loro gestione tramite la valutazione della frequenza e la promozione di interventi di prevenzione e contenimento è di fatto possibile, che è altrettanto possibile – ed anzi necessario – apprendere dagli errori pregressi anche al fine di evitarne la ripetizione, e che è essenziale allestire sistemi di sorveglianza degli errori fondati su informazioni aggiornate ed affidabili. La genesi degli errori medici è complessa, e ad essa concorrono difetti organizzativi, carenze strutturali, carichi di lavoro eccessivi, scarsa comunicazione tra i diversi operatori. Gli eventi avversi e gli incidenti scaturiscono pertanto da tutta una serie di passaggi che vedono coinvolte le cause remote (carenza di risorse, scarsa organizzazione dei servizi), le condi-
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zioni di lavoro (deficit di supervisione, conoscenza ed abilità tecnica), le cause immediate (omissioni, difetti cognitivi) ed infine i meccanismi di controllo. Varie e diverse sono le tipologie di errore in sanità, ma probabilmente le più comuni riconoscono gli errori di violazione, quelli di esecuzione, quelli di comunicazione, quelli di capacità ed esperienza, e gli errori decisionali 1. Proprio nella prospettiva della riduzione della frequenza e gravità di quest’ultima tipologia di errore sono stati elaborati in molti paesi i cosiddetti “critical pathway” (CP), denominati in Italia “profili di cura” o “percorsi diagnostico-terapeutici”, che sono “piani di gestione che dichiarano gli obiettivi per il paziente e forniscono la sequenza temporale delle azioni necessarie per raggiungerli con efficienza ottimale” 2. Tali strumenti di cura non hanno avuto origine in medicina, ma in ambito industriale, come mezzi per identificare e gestire le tappe limitanti la rapidità dei processi di produzione 3. L’interesse per questi strumenti in medicina è nato nel
I percorsi diagnostico-terapeutici come strumenti di valutazione e di riorganizzazione degli interventi campo dei sistemi sanitari legati al pagamento prospettico, in quanto essi sono stati ritenuti in grado di ottimizzare l’efficienza ospedaliera tramite la riduzione della variabilità nella pratica clinica, la razionalizzazione nell’utilizzazione delle risorse e il miglioramento della qualità di cura 4 5. I primi CP adottati in ambito sanitario sono stati sviluppati dal personale infermieristico 6, ma ben presto lo sviluppo e l’applicazione pratica di questi strumenti sono diventati prerogative di team multidisciplinari così da abbracciare tutti gli aspetti della cura dei pazienti ospedalizzati 7. Disegno dei critical pathway Le principali componenti di ogni CP possono essere considerate la tempistica, le categorie di cura e i loro interventi, gli outcome intermedi e quelli a lungo termine, la documentazione della varianza 8.
Il formato di presentazione più frequente dei CP è rappresentato dalla cosiddetta carta di Gantt, che delinea il processo di cura suggerito basandosi su una matrice di “incarichi a tempo” enumerante i componenti del processo in una colonna, affiancata da altre colonne che fanno riferimento alla tempistica e contenenti gli interventi da eseguire. I componenti del team multidisciplinare sono quindi in lista nella prima colonna mentre nelle contigue, definite dalla tempistica che può essere scandita in giorni o in ore, vengono definite le azioni da compiere da parte di ogni componente del team stesso. All’interno della carta di Gantt sono esplicitati anche i “passaggi di transizione” relativi al percorso del paziente ovvero gli outcome intermedi che si progetta di ottenere e che indicano la corretta progressione del paziente stesso all’interno del CP. Qualora questi outcome
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intermedi non vengano per qualche ragione ottenuti, entra a far parte del CP la varianza, definita come una deviazione da una o più attività oppure obiettivi elencati nel CP, varianza che potrebbe interferire con gli esiti attesi 8. Obiettivi dei critical pathway I principali obiettivi dei CP sono i seguenti: 1. Selezionare la migliore pratica clinica possibile quando esistono inutili disomogeneità nella gestione di una determinata condizione. 2. Definire gli standard per la durata attesa della degenza e per l’utilizzo dei saggi diagnostici e dei trattamenti. 3. Analizzare le relazioni tra i differenti passaggi nel processo di cura con la finalità di individuare modalità per coordinare e ridurre il tempo impiegato nelle tappe limitanti la rapidità del processo stesso. 4. Fornire a tutto il personale sanitario un piano comune dal quale sia possibile evincere i vari ruoli specifici nell’ambito del processo di cura. 5. Ridurre il carico di errore tramite procedure comuni, standardizzate e condivise. 6. Fornire un modello per raccogliere i dati riguardanti il processo di cura al fine di valutare quanto spesso e perché i pazienti si discostano dal percorso atteso durante il ricovero. 7. Snellire l’imponente documentazione relativa al paziente sia per il personale medico che per quello infermieristico. 8. Migliorare la soddisfazione del paziente attraverso l’e-
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ducazione del medesimo e dei familiari circa il piano di cura 2. I CP possono, inoltre, essere utilizzati come strumenti per una valutazione della appropriatezza degli interventi diagnostico-terapeutici, anche in considerazione della loro struttura, che richiede la compilazione di tutti i campi presenti da parte di ogni componente del gruppo multidisciplinare coinvolto, così da rendere facilmente ricavabili a posteriori i dati che testimoniano gli atti svolti 5. Questa loro funzione indica chiaramente le loro potenzialità in termini di prevenzione del verificarsi dell’errore e di gestione dello stesso una volta che si è verificato. Preparazione ed implementazione dei critical pathway Lo sviluppo e la successiva applicazione di un CP nella pratica clinica richiedono una serie di passaggi. Selezione di un’area sanitaria I CP vengono elaborati per migliorare la cura di patologie associate con procedure diagnostiche e interventi terapeutici di costo elevato, in particolare per le malattie riguardo alle quali si ritiene vi sia notevole variabilità tra gruppi diversi di medici in merito alla scelta degli interventi da eseguire 4. Anche alcune procedure chirurgiche quali il by-pass aorto-coronarico si prestano bene allo sviluppo di questi strumenti in quanto il processo di cura differisce relativamente poco tra paziente e paziente. In ambito cardiologico le procedure
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coronarografiche, l’angioplastica primaria, la gestione dell’infarto miocardico acuto e dell’angina instabile rappresentano situazioni in cui il corso degli eventi durante l’ospedalizzazione risulta relativamente prevedibile e nelle quali d’altra parte è stata documentata un’estrema variabilità di azione. Fra diversi operatori, infatti, esistono dati a favore di una non adesione alle raccomandazioni contenute nelle linee guida e in questo senso i CP potrebbero migliorare la qualità di cura consentendo una maggiore aderenza alle stesse 5. Valutazione del processo assistenziale Durante tale fase è necessario identificare le disomogeneità di azione evidenti tra i medici nonché il ruolo di ogni componente coinvolto nel processo di cura. Altro obiettivo è quello di individuare, tramite un’analisi dettagliata delle tappe della gestione ospedaliera relative alla patologia in questione, gli outcome intermedi e finali che si rendono necessari per documentare l’aderenza agli obiettivi del CP da parte del paziente e del personale sanitario 2. Valutazione delle evidenze disponibili e della loro applicazione pratica Attualmente la letteratura medica fornisce un buon numero di informazioni circa l’efficacia dimostrata di saggi diagnostici ed interventi terapeutici. Purtroppo, in molti casi, la letteratura ha finora avuto un’importanza limitata nello sviluppo di un CP. Di fatto, numerose domande che
il team deve porsi e alle quali deve cercare di rispondere, come quelle relative alla migliore evidenza cui fare riferimento per l’implementazione della cura, alla durata ideale della degenza, agli outcome intermedi da definire e alla soddisfazione del paziente, raramente sono state oggetto di studi ben condotti 9. Considerata quindi in molti casi la carenza di prove di efficacia in letteratura, una metodologia utilizzabile per coadiuvare il team nello sviluppo di un CP è quella del “benchmarking”, ovvero il confronto con altre istituzioni che hanno costruito e messo in opera un pathway relativo alla stessa condizione patologica 10. Documentazione e analisi della varianza La varianza riguarda gli esiti clinici del paziente o le azioni del team che discordano dalle aspettative del pathway. Le varianze legate ad azioni dello staff sono spesso da attribuire ad omissioni nei confronti di ciò che è suggerito nel CP. D’altra parte, poiché i primi CP si sono focalizzati essenzialmente sull’accelerazione della sequenza di attività da compiere, molti sistemi di analisi della varianza hanno indagato esclusivamente interventi o outcome che non si verificano nei tempi stabiliti. Comunque, dal momento che ogni azione di un CP può essere considerata una fonte di varianza se non eseguita in assoluto o nei tempi stabiliti, molte istituzioni hanno incontrato durante la messa in opera di questi strumenti un “sovraccarico di varianze”, molte delle quali peraltro non significative nel
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modificare gli outcome clinici, la soddisfazione del paziente e l’utilizzazione delle risorse 10. Un approccio per risolvere questo problema potrebbe essere quello di concentrarsi su pochi argomenti critici del CP identificati a priori, che rappresentino outcome intermedi, alla costituzione dei quali concorrono definiti determinanti significativi 2. Applicazione pratica dei critical pathway Molti studi non controllati eseguiti in ambiti differenti hanno riportato riduzioni della degenza dal 5% al 40%, riduzioni dei costi fino al
33%, significative diminuzioni nelle percentuali di riammissione e aumento della compliance da parte dei pazienti 6. Al contrario, dati emersi da altri studi non hanno mostrato benefici significativi riguardo la riduzione dei costi e gli outcome dei pazienti 11 12. Al di là dell’eventuale successo o insuccesso del CP è comunque essenziale la formazione di tutto il personale coinvolto. Risulta fondamentale, infatti, la definizione dei ruoli e delle responsabilità secondo aspetti temporali critici 10, e l’ampia sperimentazione di tali modelli assistenziali al fine di valu-
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tarne in modo sempre più documentato l’affidabilità “sul campo”. Considerazioni conclusive La “epidemiologia” dell’errore in medicina è particolarmente articolata. L’errore a monte del CP è naturalmente molto pericoloso, in quanto qualunque percorso imboccato a valle di esso, per quanto correttamente seguito e appropriatamente applicato, non può condurre alla soluzione del quesito clinico. La preparazione e la sensibilità del singolo clinico sono quindi sempre (e sempre più) importanti nell’indirizzare i
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comportamenti appropriati nella sanità attuale. Nell’ottica del miglioramento del livello di attenzione di tutti gli operatori sanitari nei confronti dell’intero iter diagnostico-terapeutico, lo strumento critical pathway appare promettente e merita ulteriori sperimentazioni. Le esperienze già in corso, tra cui in ambito nazionale una condotta dal nostro gruppo sullo scompenso cardiaco, potranno gettare luce sull’efficienza clinico-gestionale dei critical pathway, e sulla loro efficienza nel ridurre gli errori organizzativi, gestionali e decisionali.
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Stefania Rodella Coordinatore Osservatorio qualità, Agenzia regionale di sanità della Toscana, Firenze
a sicurezza è una componente fondamentale della qualità dell’assistenza socio-sanitaria. L’Institute of Medicine americano la definisce come “assenza di danni o lesioni accidentali” o ancora come “evitare ai pazienti danni derivanti da attività sanitarie che hanno lo scopo di aiutarli”. Questa seconda definizione esprime in modo efficace la responsabilità del tutto peculiare che, sul fronte della sicurezza, distingue un’organizzazione sanitaria da qualunque altra organizzazione: un’organizzazione sanitaria che procuri danni o lesioni accidentali attraverso la propria attività, la cui ragion d’essere consiste invece nel portare aiuto, tradisce il proprio mandato di fronte alla società. La sicurezza di cittadini e pazienti è dunque parte integrante della realizzazione di un mandato che consiste nel mantenimento e nel miglioramento della salute. In quanto tale, la sicurezza deve rappresentare un obiettivo prioritario e un risultato (misurabile) di ogni organizzazione sanitaria, laddove con tale termine si intende non solo un’azienda, un ospedale, un’unità operativa o un servizio, ma anche un intero sistema sanitario, regionale o nazionale.
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La cultura della sicurezza I problemi di sicurezza per pazienti e cittadini possono generalmente considerarsi la conseguenza di un utilizzo scorretto dei servizi e/o di una inadeguata organizzazione degli stessi. La definizione di sicurezza è strettamente connessa a quella di “errore”, inteso sia come “mancata attuazione di un piano secondo le tappe previste” (errore di esecuzione) sia come “messa in atto di un piano sbagliato per raggiungere un obiettivo” (errore di pianificazione). Non tutti gli errori si traducono in un danno, ma quando questo accade si verifica un “evento indesiderato prevenibile”, cioè un danno evitabile causato (o non impedito) dall’intervento sanitario piuttosto che dalla condizione clinica del paziente. Rientrano in questa definizione di errore, ad esempio, errori di trasfusione, errori di trattamento farmacologico, interventi chirurgici in sedi sbagliate, errori di identificazione del paziente. L’errore, in assenza o in presenza di danni, può essere rilevato come evento critico dei processi assistenziali. I danni possono essere rappresentati da complicanze chirurgiche, da incidenti (ad esempio cadute, ustioni) o da patologie mediche (ad esempio infezioni nosocomiali, ulcere da pressio-
La gestione del rischio nelle organizzazioni sanitarie ne, patologie da farmaci) e sono rilevabili attraverso flussi informativi correnti o attraverso rilevazioni ad hoc. La difesa della sicurezza richiede la messa in atto di azioni efficaci per la prevenzione degli errori e per il contenimento delle rispettive conseguenze. Gli sforzi per l’attivazione di tali programmi nelle organizzazioni sanitarie si scontrano spesso con la mancanza di una tassonomia condivisa e di processi informativi appropriati per l’identificazione e la rilevazione degli eventi indesiderati. Gli stessi processi di autorizzazione e di accreditamento, che intervengono soprattutto sulla creazione e sul mantenimento di condizioni strutturali, tecnologiche e organizzative adeguate a produrre buona assistenza, non sempre fanno riferimento esplicito a obiettivi di sicurezza e non sempre rappresentano quindi una garanzia sufficiente o, addirittura, in alcuni casi possono fornire una falsa rassicurazione alla comunità. Ma sono soprattutto le difficoltà culturali ad ostacolare la crescita di iniziative effica-
ci su questo fronte. Difficoltà culturali che fanno capo sostanzialmente a tre importanti fattori: 1. La visione di sistema. 2. L’attenzione alla manutenzione. 3. L’uso appropriato dell’informazione e della comunicazione. Visione di sistema Consente di leggere l’organizzazione come un insieme di fattori tra loro correlati, finalizzati al raggiungimento di un obiettivo comune. In una prospettiva sistemica ogni operatore, ogni gruppo di operatori, è in continuo collegamento con altri anelli di una catena e nello svolgimento della sua attività contemporaneamente influenza e viene influenzato, produce e subisce effetti. In questa prospettiva l’errore non è il risultato di un comportamento aberrante di pochi individui, ma un evento atteso, che fa parte della condizione umana di fallibilità e la cui probabilità viene continuamente modificata dalle interazioni che si svolgono dentro l’organizzazione. Il sistema (l’organizzazione) può e
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deve attrezzarsi per prevenire e contenere l’errore, può e deve costruire, dentro i suoi processi, nel cuore del suo funzionamento, meccanismi adatti a difendersi. Come dice Reason, “non possiamo cambiare la natura umana, ma possiamo cambiare le condizioni in cui gli esseri umani lavorano”. Nelle nostre organizzazioni sanitarie purtroppo prevalgono ancora da un lato una visione del lavoro “verticale”, poco favorevole al gioco di squadra, dall’altro una concezione individuale, morale e punitiva dell’errore. Attenzione alla manutenzione Gioca nella vita delle nostre organizzazioni (ma anche nelle nostre vite individuali) un ruolo conflittuale. In generale viene considerata un peso anziché un aumento del valore aggiunto. Per manutenzione non si intende soltanto un insieme di operazioni su attrezzature, locali, muri o infissi, ma anche cura e conservazione dei gesti e della loro precisione. La manutenzione richiede tempo e concentrazione ed è scarsamente compatibile con quella che James Hillman chiama “una visione eroica” della produzione, in cui i ritmi sono in accelerazione continua, le attività si moltiplicano e si sovrappongono (anche a causa della visione “verticale” del lavoro, cui si accennava poco fa) e l’entropia è in continuo aumento. Girare molte volte al giorno un paziente allettato per prevenire un’ulcera da pressione, scrivere in modo leggibile un diario clinico per evitare errori di lettura da parte di altri medici, lavare le mani per
un tempo sufficiente dopo ogni visita, controllare in modo sempre uguale il nome del farmaco e del paziente prima della terapia: sono tutte operazioni di manutenzione, ripetitive, modeste, tutt’altro che “eroiche”, la cui accurata esecuzione si traduce non in un evento visibile (e quindi potenzialmente gratificante perché riconosciuto dalla comunità), ma in un’assenza di eventi e quindi in un effetto “invisibile”. È forse questa mancanza di visibilità che rende così difficile talvolta, nelle nostre organizzazioni, dare il peso necessario (obiettivi, tempo, risorse, formazione) a queste attività? Esiste un aspetto cognitivo da superare, così come avviene per tutte le attività volte a prevenire? Ma qual è il costo, a conti fatti, di una manutenzione non riuscita? Uso appropriato dell’informazione e della comunicazione Le nostre organizzazioni producono continuamente masse enormi di informazioni. Alcune si traducono in flussi informativi strutturati, altre vanno ad accrescere un patrimonio di conoscenza stabile e accessibile secondo varie necessità, altre vengono scambiate continuamente nell’esercizio delle attività, moltissime vengono riassorbite o perdute. Qual è l’uso appropriato dell’informazione e della comunicazione nella difesa della sicurezza? Lo scienziato sociale americano Ron Westrum ha definito tre tipologie di ‘cultura della sicurezza’ in base al modo in cui un’organizzazione utilizza le informazioni ad essa correlate. Un’organizzazione cosiddetta
‘generativa’ o ‘ad alta affidabilità’ ‘incoraggia gli individui e i gruppi ad osservare, indagare, trarre conclusioni e farle conoscere e, laddove le osservazioni riguardano aspetti importanti del sistema, portarle in modo attivo all’attenzione del management. Al contrario, un’organizzazione “patologica” punisce o insabbia le manchevolezze e scoraggia le idee nuove. In breve, non vuole sapere. Infine, un’organizzazione “burocratica” (la tipologia più diffusa) reagisce ad un livello intermedio, nella convinzione che le nuove idee possano comunque creare problemi. La gestione della sicurezza e della qualità viene “recintata” e i problemi vengono risolti con interventi locali e delimitati piuttosto che con riforme di sistema. La costruzione di un sistema informativo realmente orientato alla qualità e alla sicurezza non passa quindi solo attraverso flussi informativi ben disegnati e correttamente gestiti, ma anche attraverso iniziative che incoraggiano seriamente attività ad elevata valenza informativa, come il reporting, l’audit, il benchmarking, in stretto collegamento all’esplicitazione di obiettivi misurabili, piuttosto che alla semplice, seppure auspicabile, visibilità di approcci metodologici più o meno innovativi. Esiste inoltre l’informazione e la comunicazione con il paziente. La sicurezza del paziente deve essere garantita ma anche comunicata. Oltre ad essere sicuro il paziente o il cittadino deve “sentirsi” sicuro. E questa percezione positiva si annida in tanti dettagli diversi: l’ordine e la pulizia degli oggetti, la cal-
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ma degli operatori, la chiarezza nelle informazioni fornite, segni verbali e non verbali di attenzione, la “messa in scena” di un clima disteso anche in condizioni organizzative difficili. In sintesi, un intervento efficace per la difesa della sicurezza nelle organizzazioni socio-sanitarie dovrebbe fondarsi soprattutto su due elementi di grande rilevanza progettuale: 1. Un obiettivo generale: costruire e rafforzare gradualmente una “cultura della sicurezza”, che consenta di passare da una posizione autoreferenziale (“va tutto bene, siamo bravi, gli errori sono rari”) a una posizione “generativa” (“esistono possibilità di miglioramento, l’errore è un evento atteso ma controllabile, ognuno di noi può compiere errori”) e da una cultura del “colpevole” a una cultura della “ricerca delle cause di sistema”. Tali cambiamenti sono raggiungibili solo attraverso interventi formativi mirati, prolungati, strettamente connessi a progetti di cambiamento organizzativo e tali da favorire, con gradualità ma con continuità, un vero e proprio cambiamento di modello cognitivo. 2. Una scelta di prorità: identificare alcune aree assistenziali nelle quali attivare un processo ad elevata fattibilità e con valenza di prototipo, con il coinvolgimento dei professionisti e con il sostegno delle direzioni sanitarie. I criteri con cui identificare tali aree possono essere quelli
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del maggior rischio e complessità delle attività assistenziali che vi si svolgono, ma anche di una maggiore sensibilità e disponibilità degli operatori. Sulla guida di tali elementi fondanti è possibile allora elencare alcuni obiettivi specifici e concreti per l’organizzazione sanitaria (ospedale, azienda, sistema sanitario regionale) che voglia attuare un progetto realistico per la difesa della sicurezza: 1. Inserire obiettivi di sicurezza misurabili nei propri piani strategici (e piani sanitari). 2. Costruire/condividere/adot-
tare un glossario comune per la definizione degli eventi avversi. 3. Attivare specifici progetti di rilevazione degli eventi avversi, con particolare riferimento ad alcune aree assistenziali critiche e con l’eventuale adozione di sistemi di incentivazione legati alla rilevazione stessa, base di partenza per successivi progetti di riduzione degli eventi. 4. Attivare specifici programmi mirati alla diffusione di pratiche efficaci per la sicurezza nella somministrazione di farmaci. 5. Scegliere alcuni indicatori
Bibliografia Beccastrini S, Gardini A, Tonelli S. Piccolo Dizionario della qualità. Torino: Centro Scientifico Editore 2001. Commissione per la Garanzia dell’informazione statistica. Definizione di un set di indicatori per il monitoraggio e la valutazione dell’attività sanitaria. In: Bellini P, Braga M, Rodella S, Vendrami E, eds. Rapporto conclusivo di ricerca. 2002.
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generali a “basso costo”, ricavabili dai flussi correnti, a cui collegare iniziative di audit. 6. Sostenere queste iniziative con adeguati “rinforzi” formativi, utili sul piano metodologico ma, soprattutto, sul piano culturale e cognitivo. È importante inoltre sottolineare, ed è questo un dato segnalato ampiamente in letteratura, come l’efficacia e l’utilità decisionale della rilevazione di dati e della definizione e adozione di indicatori di sicurezza sia strettamente legata all’esistenza di un progetto complessivo
dell’organizzazione, costruito dentro il sistema, esteso gradualmente a tutti i suoi livelli organizzativi, sostenuto dalla direzione. Infine è bene ricordare: la “sicurezza” è l’obiettivo, la “gestione del rischio” è lo strumento. L’attivazione e il finanziamento di unità operative o gruppi di lavoro per la gestione del rischio sarà veramente efficace solo se l’organizzazione nel suo complesso investirà su obiettivi di sicurezza e qualità, anche limitati, anche non “eroici”, ma fattibili, misurabili e comunicabili a cittadini e pazienti.
Hillman J. Il potere. Milano: Rizzoli Ed. 2002:85-114. Institute of Medicine. To err is human. Building a safer health system. National Academy Press 2000. Reason JT, Carthey J, de Leval MR. Diagnosing ‘vulnerable system syndrome’: an essential prerequisite to effective risk management. Quality in Health Care 2001;10(Suppl II):ii21-5. Reason J. Human error: models and management. BMJ 2000;320:768-70.
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Pierangelo Bonini Francesca Rubboli* Direttore del servizio integrato di Medicina di laboratorio dell’Ospedale IRCCS San Raffaele di Milano * Ricercatrice CeSREM (Centro studi San Raffaele rischi ed errori in medicina)
er poter parlare in modo concreto di sicurezza del paziente, è necessario che si prendano in considerazione tutti gli aspetti che riguardano la gestione del rischio clinico: • L’errore come una realtà ineludibile all’interno dei sistemi complessi. • La filosofia dell’errore come mezzo d’apprendimento. • La tecnologia come portatrice di soluzioni all’interno del sistema. Il CeSREM (Centro studi San Raffaele rischi errori in medicina) si propone come un organismo di sviluppo dei diversi poli sopra citati, in grado di analizzarli e prenderne in considerazione gli aspetti salienti; con l’obiettivo di
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LA REALTÀ
La sicurezza del paziente creare i presupposti organizzativi ed istituzionali che garantiscano al cittadino un servizio sanitario nel quale dominino sempre più gli elementi di qualità e sicurezza. Il primo compito del CeSREM è l’analisi degli eventi avversi che viene effettuata utilizzando un approccio completo mirato ad individuare i fattori di rischio che si nascondono nell’organizzazione, unito allo studio e sintesi dei lavori tratti dalla letteratura internazionale e da indagini statistiche. L’analisi di rischio viene effettuata attraverso un processo per stadi che va ad individuare le attività e a descrivere i processi cognitivi, ad identificare i modi di errore e a valutarne i percorsi
LA FILOSOFIA
Una visione integrata a partire dall’analisi dell’errore. La sperimentazione di soluzioni tecnologiche causali che hanno permesso che si verificassero, infine si procede ad una valutazione del rischio collegato ad ogni attività. Dal 2000 sono state istituite all’interno dell’Ospedale San Raffaele 6 unità di gestione del rischio (UGR), seguendo le indicazioni inserite nel documento “Imparare dall’errore. Le unità di gestione del rischio” proposto dal Tribunale per i diritti del malato. All’interno di queste 6 unità, 2 delle quali dell’area dei servizi (laboratorio e radiologia)
LA TECNOLOGIA
✔ Errare è umano ✔ Imparare dall’errore ✔ Le soluzioni
❍ ❋
Approccio formale, completo, ingegneristico alla Safety ed alla Privacy ✔
Dati di letteratura, indagini statistiche UGR
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❑ ❍
✗ CeSREM
Soluzioni tecnologiche ed organizzative
Grafico 1 Innovazione e Strategia
Formazione Attività istituzionali
altre 2 dell’area medica (2 reparti di medicina interna) e 2 dell’area chirurgica (chirurgia vascolare e neurochirurgia), dovrebbero essere segnalati tutti i possibili errori o rischi di errori attraverso una scheda di segnalazione che riassuma l’accaduto. Ciò viene effettuato attraverso l’indicazione di campi che descrivano e identifichino l’evento, come la gravità di esso, le persone coinvolte, il tipo di prestazione, il luogo di origine dell’evento avverso e chi l’ha identificato. Schede che poi serviranno per andare ad individuare i fattori che hanno permesso che l’evento avverso si verificasse a tutti i livelli, umano, organizzativo, tecnologico, infrastrutturale. Gli errori rilevati più di frequente attraverso le UGR riguardano l’area diagnostica, seguita dall’identificazione del paziente, le informazioni, il farmaco e segnalazioni che riguardano in generale il paziente
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Inoltre, con rilevanza minore, sono presenti anche altri tipi di incidente: problemi di trasporto, ritardi in diagnosi ed esami e nella sicurezza delle apparecchiature. Attraverso il CeSREM si vuole cercare di indurre un cambiamento culturale; si vorrebbe produrre una cultura della sicurezza all’interno del sistema, una cultura che si basi sull’incidente come fonte di apprendimento per migliorare il sistema attraverso l’individuazione e l’eliminazione delle cause che lo hanno prodotto. Al fine di attuare questo cambiamento culturale vengono tenuti dei corsi accreditati dall’ECM per dirigenti ospedalieri ed operatori sanitari, che hanno come obiettivo, quello di fornire una visione integrata del problema attraverso gli strumenti di gestione e di analisi e tecnologie per la riduzione del rischio di errore. I corsi si strutturano attorno a diverse tematiche: cultura della sicurezza in ambiente ospedaliero, fattori di contesto ed evoluzione del sistema sanitario, dimensione organizzativa e tecnologica, aspetti operativi di presidio e riduzione dei rischi. Ultima prospettiva del CeSREM riguarda l’applicazione delle lezioni imparate dall’analisi degli errori attraverso la sperimentazione delle soluzioni tecnologiche, prima tra tutte quella del carrello intelligente. Studiato per abbattere l’incidenza dei rischi di errore di identificazione del paziente e nella gestione del farmaco trova utili applicazioni per il monitoraggio dei parametri vitali e per gli esami di laboratorio.
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Fig. 1 Il carrello intelligente.
Il dispositivo consiste in un carrello dotato di un computer con software specifici, di un
monitor per i parametri vitali, di un lettore ottico bidimensionale, di una cassettiera au-
Fig. 2 Il braccialetto di identificazione.
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tomatica per la somministrazione dei farmaci e di una stampante di etichette per le provette di laboratorio. Accessorio fondamentale per il funzionamento del carrello è il braccialetto di identificazione, di cui deve essere dotato ogni paziente. Questo è caratterizzato da un codice a barre bidimensionale che, una volta letto dal lettore ottico, permette di identificare con certezza il paziente ed i dati che lo riguardano: i suoi dati personali e clinici, l’intervento clinico
da cui il paziente è interessato, il reparto dove questo si trova, ed anche altre informazioni ad hoc. Attraverso l’uso combinato del carrello e del braccialetto è quindi possibile tenere sotto controllo tutto ciò che riguarda la somministrazione farmacologica, il monitoraggio dei parametri vitali, e gli esami di laboratorio. Per quanto riguarda la somministrazione dei farmaci il dispositivo è molto efficiente, in quanto permette di archiviare
Bibliografia Brennan TA, Leape L, Laird NM, et al. Incidence of adverse events and negligence in hospitalized patients. Results of the Harvard Medical Practice Study I. N Engl J Med 1991;324:370-6. Leape L, Brennan TA, Cullen DJ. The nature of adverse events in hospitalized patients. Results of the Harvard Medical Practice Study II. N Engl J Med ;1991;324:377-84. Reason J. Human Error. Cambridge University Press. 1992 Bonini PA, Alpert N, Luzzana M, Rubin R. Guidelines for the identification and distribution of patient samples in medical laboratory. J Autom Chem 1994;16:25-32. McClelland DBL, Phillips P. Errors in blood transfusion in Britain: survey of hospital haematology departments. BMJ 1994;308:1205-6. Shulman IA, Lohr K, Derdiarian AK, Picukaric JM. Monitoring transfusionist practice: a strategy for improving transfusion safety. Transfusion 1994;1:11-5. Sloand EM, Pitt E, Klein HG. Safety of the blood supply. JAMA 1995;17:1368-73. Brunner H.H:, Conen D,et al. Towards a safe healthcare system: proposal for a national programme on patient safety improvement for Switzerland. www.swiss-q.org/apr-2001/docs/Final_ReportE.pdf. 2001. Classen DC, Pestonik SL, Evans RS, et al. Adverse drug events in hospitalized patients: axcess of length of stay, extra costs and attributable mortality. JAMA 1997;277:301-6. Lesar TS, Briceland L, Stein DS. Factors related to errors in medication prescribing. JAMA 1997;277:312-7. Plebani M. Mistake in stat laboratory: types and frequency. Clin Chem 1997;43:1348-51. Wenz B, Mercuriali F, AuBuchon JP. Pratical methods to improve
le terapie farmacologiche relative ad ogni paziente, di preparare i farmaci in base ad esse. Al letto del paziente, tramite la lettura del codice a barre, viene dispensato solo il farmaco prescritto attraverso l’apertura dei cassetti automatici della cassettiera che rispondono alle informazioni acquisite attraverso il braccialetto. Il monitoraggio dei parametri vitali avviene attraverso un software denominato MobyVital che permette di rilevare appunto i parametri vitali del pa-
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ziente edi valutarne i risultati anche tenendo conto della terapia in corso di esecuzione. Il MobyLab è invece preposto al controllo degli esami di laboratorio, eseguiti al letto del paziente, che consente di non avere problemi nel riconoscimento dei campioni prelevati; infatti il carrello è in grado di fornire per ogni prelievo effettuato 2 etichette una relativa al campione, l’altra relativa ai dati del paziente che forniscono senza alcun dubbio l’identificazione del campione stesso.
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Tommaso Bellandi Riccardo Tartaglia Paola De Simone Carlo Tomassini Veronica Casotto*
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Il clima organizzativo ospedaliero
Centro ricerche in ergonomia, Azienda sanitaria di Firenze * Agenzia regionale della sanità toscana
l clima organizzativo è un concetto molto interessante ai fini della definizione di un sistema di miglioramento continuo della qualità all’interno di una struttura sanitaria. Lo studio e la valutazione del clima organizzativo costituisce altresì una precondizione per realizzare un piano efficace per la gestione del rischio clinico. Avere un quadro di dati sulla percezione della qualità globale delle condizioni di lavoro da parte degli operatori è infatti il punto di partenza per organizzare le attività di revisione degli eventi avversi e miglioramento della sicurezza dei pazienti in modo che tali attività riescano a collocarsi all’interno del contesto di lavoro rispondendo adeguatamente alle caratteristiche del clima interno. Dal punto di vista ergonomico, quindi, lo studio del clima organizzativo risponde all’esigenza di valutare l’impatto di azioni organizzative sui processi di lavoro quotidiani oltre che essere un modo per misurare lo stato di salute di un’organizzazione. Il clima organizzativo è una “qualità” relativamente stabile dell’ambiente interno di una organizzazione che:
I
• È percepita dai membri. • Influenza il loro comportamento. • Può essere descritta sulla base di una serie di fattori che fanno riferimento ad elementi strutturali, interpersonali, individuali. Rispetto alla cultura organizzativa, il clima è la manifestazione nelle pratiche di lavoro quotidiane delle norme, dei valori, dei significati condivisi che costituiscono la prospettiva culturale di fondo di un’organizzazione. Se confrontato con la cultura, il clima è quindi più soggetto a mutamenti provocati da cambiamenti nelle pratiche o da modificazioni dell’ambiente circostante. Di conseguenza il clima organizzativo è un concetto misurabile e gestibile dal management aziendale, a differenza della cultura che non può essere quantificata e modificata in tempi brevi dalle azioni organizzative (Schein, 1985; Schneider, 1990). Il legame tra clima organizzativo e cultura aziendale • Trattano entrambi dei modi con cui i membri di un’organizzazione attribuiscono senso al loro ambiente.
Risultati della prima fase dell’indagine condotta nell’azienda sanitaria di Firenze • Clima e cultura sono entrambi appresi attraverso processi di socializzazione e interazione tra i membri di un gruppo. • Il clima si sviluppa da alcuni elementi stessi della cultura. • Il clima interseca le forme della cultura che sono esperite in modo più immediato. Clima e cultura sono due costrutti complementari. La ricerca all’interno degli ospedali dell’azienda sanitaria di Firenze La ricerca condotta all’interno delle strutture ospedaliere dell’azienda sanitaria di Firenze qui presentata costituisce la prima fase di un’indagine epidemiologica di tipo longitudinale finalizzata a valutare gli effetti della ristrutturazione degli ambienti dell’ospedale di Santa Maria Nuova sul clima organizzativo ed il benessere degli operatori sanitari. Lo studio consiste nella somministrazione di una serie di questionari di ti-
po psico-sociale ad un campione rappresentativo dei dipendenti dell’ospedale, che andrà incontro alle ristrutturazioni previste dal piano straordinario di riqualificazione delle strutture sanitarie nell’area metropolitana fiorentina. L’obiettivo specifico che ci si è posti in questa prima fase è l’individuazione di alcune criticità rispetto al livello di stress occupazionale e disagio psichico, alla soddisfazione lavorativa e al coinvolgimento in un campione di lavoratori che operano in 4 presidi ospedalieri della ASF (Santa Maria Nuova, Santa Maria Annunziata, Serristori, Mugello). L’individuazione delle situazioni più critiche rispetto all’esposizione allo stress ed al disagio verranno poi prese in considerazione per gli approfondimenti previsti nella seconda fase dell’indagine. Il campione di soggetti da sottoporre all’indagine è stato costruito estraendo casualmente dal database dell’intera popo-
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lazione lavorativa (n° 6.830 lavoratori) 200 dipendenti (M e F), 100 dell’ospedale Santa Maria Nuova (SMN) che rappresentano il gruppo d’indagine e 100 degli ospedali Santa Maria Annunziata (OSMA), Serristori e dell’ospedale del Mugello che costituiscono il gruppo di controllo, in quanto tali ospedali non rientrano nel piano di ristrutturazione e riorganizzazione che cambierà completamente la struttura architettonica ed organizzativa dell’ospedale Santa Maria Nuova nel corso dei prossimi anni. Il campione è stato stratificato solo per dipendenti appartenenti all’area medica e dipendenti di area non-medica, fissando il rapporto di uno a tre per avere un numero minimo di medici utile per effettuare alcuni confronti in fase di analisi dei dati. In 191 su 200 hanno risposto alla convocazione ed hanno partecipato all’indagine. Soltanto un dipendente si è rifiutato di partecipare dichiarando di non volersi prestare alla ricerca, mentre gli altri 8 non si sono presentati a causa di prolungate assenze per malattia, gravidanza o pensionamento. Dei 191 che hanno risposto 93 appartengono all’ospedale di Santa Maria Nuova e 98 agli altri ospedali (OSMA, Serristori, Mugello). Particolare attenzione è stata dedicata alle modalità di somministrazione dei questionari: tutti i soggetti sono stati convocati con una lettera del direttore sanitario aziendale, che spiegava le ragioni e le finalità della ricerca, presso le direzioni sanitarie dei presidi coinvolti ed invitati a compilare in modo anonimo una se-
rie di questionari informatizzati su pc, in una sala appositamente predisposta per l’indagine. La compilazione è avvenuta sotto la supervisione di un membro del team di ricerca che è rimasto a disposizione degli intervistati per qualsiasi chiarimento. Descrizione degli strumenti 1. Scheda socio-anagrafica (preliminare) Si tratta di un questionario per la raccolta di informazioni relative a ruoli, compiti, mansioni dei dipendenti. Nello specifico saranno raccolte informazioni su: • Dati anagrafici (età, sesso, residenza vicina o lontana dal luogo di lavoro etc.) • Ruolo • Qualifica professionale • Livello • Anzianità sul lavoro • Titolo di studio 2. Job Content Questionnaire (stress occupazionale) Il questionario trae le sue origini nel 1979 quando Robert A. Karasek ha pubblicato il suo primo studio sullo stress lavorativo percepito. Il suo modello suggerisce fondamentalmente che la relazione tra elevata domanda lavorativa (JD = Job Demand) e bassa libertà decisionale (DL = Decision Latitude) definisca una condizione di job strain o perceived job stress (stress lavorativo percepito), in grado di spiegare i livelli di stress cronico e l’incremento del rischio cardiovascolare. Le due principali dimensioni lavorative (domanda e controllo) sono considerate va-
riabili indipendenti e poste su assi ortogonali. La JD si riferisce all’impegno lavorativo richiesto, ovvero i ritmi di lavoro, la natura impositiva dell’organizzazione, il numero di ore lavorative e le eventuali richieste incongruenti. La DL è definita da due componenti: la skill discretion e la decision authority: la prima identifica condizioni connotate dalla possibilità di imparare cose nuove, dal grado di ripetitività dei compiti e dall’opportunità di valorizzare le proprie competenze; la seconda individua fondamentalmente il livello di controllo dell’individuo sulla programmazione ed organizzazione del lavoro. Il modello di job strain è stato poi approfondito negli anni ’80 da J.V. Johnson che ha sostanzialmente aggiunto una terza dimensione: il work place social support o social network. In accordo con questo modello, il più elevato rischio di malattie cardiovascolari si è rilevato nei gruppi connotati da un’elevata domanda lavorativa, da una bassa possibilità decisionale (DL) e da un basso supporto sociale da parte di colleghi e capi. Con il JCQ è possibile individuare quattro differenti condizioni di lavoro: 1. High strain, elevata domanda con bassa capacità di decisione (ad esempio operatori ai videoterminali e addetti all’assemblaggio). 2. Passive, bassa domanda con bassa decisione (tipica di mansioni che non incentivano le capacità individuali, con marcati livelli di insoddisfazione).
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3. Active, elevata domanda con elevata decisione (occupazioni caratterizzate da un elevato grado di apprendimento e che impongono all’individuo un intervento in tempi rapidi e con elevata responsabilità). 4. Low strain, bassa domanda con elevata decisione (situazione lavorativa ottimale, in cui l’individuo può gestire in autonomia il suo tempo lavorativo). 3. Work Involvment Measuring Scale (Warr, Cook e Wall, 1979) Scala di coinvolgimento nei confronti del lavoro che indaga il livello di coinvolgimento e di “appartenenza” all’attività professionale inteso nei termini della rappresentazione e del significato personale attribuito al lavoro stesso. È una scala situazionale costituita da 5 items, ogni risposta presenta 7 possibili risposte, il punteggio va da 1 a 6: maggiore è il punteggio finale ottenuto, maggiore è il coinvolgimento nei confronti del lavoro. 4. Questionario sull’opinione rispetto alla situazione lavorativa nei suoi diversi aspetti Si tratta di un questionario composto di items in cui si chiede un’opinione riguardo al lavoro; ogni persona è quindi pregata di rispondere pensando alla propria situazione lavorativa. Le domande includono tutti gli aspetti principali relativi alla condizione professionale e rappresentano dei “vissuti” valutati con la scala Likert di giudizio.
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Le affermazioni del questionario si riferiscono principalmente alle seguenti aree: • Lavoro nei termini di dinamiche interne e condizioni organizzative e logistiche (monotonia, professionalità, fatica, specializzazione, retribuzione, possibilità di carriera, valutazione del proprio rendimento da parte dei superiori, possibilità di addestramento e aggiornamento professionale, margini di autonomia decisionale, assunzione di responsabilità). • Ambiente fisico di lavoro (temperatura, illuminazione, rumorosità, sporcizia, posture ecc.). • Ambiente sociale di lavoro (rapporti con i superiori diretti, rapporti con la Direzione, relazioni interpersonali instaurate con i propri colleghi e i colleghi di altre Unità operative allo scopo di evidenziare problemi di efficienza, di conflittualità e collaborazione). • Sicurezza fisica (incolumità) e sicurezza del “posto di lavoro” (stabilità, timori di perdita del posto).
trici. Le malattie che il questionario vuole identificare sono state descritte come “non psicotiche”. Questa scala non dà informazioni sullo stato mentale passato né futuro, ma solo su quello presente. Gli item del GHQ valutano infatti la situazione hic et nunc e non fanno attenzione a come l’individuo si è sentito o comportato nel passato (scala situazionale). L’attenzione è quindi posta su quanto lo stato presente di chi risponde differisce dallo stato usuale. Gli item della scala esplorano alcuni settori di stato psicofisico del soggetto come percepiti negli ultimi giorni: la sensazione di essere sotto pressione, di non riuscire a prendere decisioni, di non essere concentrato, di non poter dormire ecc. La versione utilizzata della scala è quella più breve a 12 items, scelti all’interno di 30 già considerati equivalenti per efficacia alla forma completa di 60 items. Le risposte sono date su una scala qualitativa ordinale con quattro possibilità che vanno da un’assenza completa del sintomo ad una presenza marcata. Originariamente validato per uso clinico questo strumento si è in seguito dimostrato appropriato per l’uso in setting diversi tra cui anche quello lavorativo, essendo il que-
5. General Health Questionnaire (Goldberg, 1972) È una scala che serve per identificare i pazienti con disturbi psichici e non psicotici che non siano mai venuti a contatto con i servizi psichiapassive SMN Altri Totale
18 26 44 2
18,4% 28,8% 23,0%
Test q 3.08 p 3, 379
low strain 28 27 55
28,6% 29,0% 28,8%
high strain 27 18 46
27,6% 20,4% 24,1%
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stionario sensibile alle condizioni occupazionali sia agli effetti, ad esempio, della disoccupazione. In Italia è stato validato e standardizzato sia nella versione a 30 che nella 12 dal gruppo del Prof. Tansella dell’Università di Verona, presso l’Istituto di psichiatria sia in setting di pazienti di ambulatori di medicina di base che in contesto di indagine di popolazione. Elaborazione Per quanto riguarda l’elaborazione statistica e psicometrica dei dati sono stati utilizzate due tecniche di analisi. Per indagare le relazioni causali tra l’esposizione allo stress misurata con il JCQ e la percezione di disagio psichico misurata con il GHQ è stata effettuata una valutazione degli Odds Ratio, classica misura di associazione negli studi epidemiologici di tipo caso-controllo, per rilevare il rischio di presenza di disagio psichico in relazione ai diversi livelli di esposizione allo stress. Sulle due parti del questionario sull’opinione rispetto alla condizione lavorativa si è adoperata l’analisi fattoriale, finalizzata all’individuazione delle dimensioni latenti di clima che emergono dalle variabili osservate, nonché alla standardizzazione del questionario frutto della rielaborazioactive 25 21 46
25,5% 22,6% 24,1%
ne del tema di ricerca sullo strumento originale prodotto dall’Istituto superiore della sanità. Risultati Caratteristiche generali del campione Il campione si divide omogeneamente rispetto al ruolo professionale: area medica (90 soggetti) e area non medica (101 soggetti) (Tab. 1). Gli operatori sanitari di SMN non presentano differenze statisticamente significative di età e anzianità lavorativa rispetto al gruppo di controllo (altri ospedali); la distribuzione per sesso è omogenea nei due gruppi a confronto. La sostanziale omogeneità sulle variabili socioanagrafiche dei soggetti appartenenti ai due gruppi ci conforta rispetto all’ipotesi di confronto nel tempo delle misure del clima organizzativo tra i due gruppi. Differenti livelli di stress occupazionale nei presidi ospedalieri dell’Asl 10 Il livello di stress occupazionale nell’ospedale di SMN non presenta differenze significative rispetto al gruppo di controllo, anche se questi dati ci suggeriscono che all’interno dell’ospedale SMN potrebbe esserci un numero maggiore di soggetti che vi-
totale 98 93 191
100% 100% 100%
Tab. 2 - L’esposizione professionale allo stress nei due gruppi ospedalieri.
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N° soggetti
*Età Media
(DS) Anzianità Media
(DS)
SMN
M F
44 49
46,8 42,2
(9,09) (8,2)
11,9 10,1
(8,1) (7,1)
Altri
M F
38 60
46,4 43,2
(8,09) (8,1)
12,5 11,5
(7,9) (7,04)
191
44,4
(8,5)
11,3
(8,5)
Totale
vono una condizione lavorativa di high strain, che secondo il modello di Karasek è la situazione più a rischio per la salute dei lavoratori (Tab. 2). La distribuzione degli operatori di area medica e non-medica sul modello di Karasek Osservando le distribuzioni dei soggetti intervistati sulle 4 condizioni lavorative del modello di Karasek, si evidenzia una tendenza dei medici a collocarsi nelle categoDL
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rie a minor stress (active e low strain) (Fig. 1) rispetto ai non medici che sembrano maggiormente esposti (passive e high strain) a situazioni stressanti (Fig. 2). Questi dati sono coerenti con le caratteristiche del ruolo di maggior responsabilità che i medici rivestono all’interno delle strutture ospedaliere rispetto ai non-medici e che li mette nelle condizioni di avere una maggiore autonomia decisionale nel proprio lavoro.
LOW STRAIN
lavorativa di alta esposizione allo stress. Tab. 1 - Caratteristiche socioanagrafiche del campione.
Rischio di disagio psichico nelle 4 condizioni lavorative in relazione alla percezione di un alto o un basso supporto sociale Il rischio di disagio psichico è significativamente elevato nella condizione di high strain e basso supporto sociale dei colleghi. Questo dato e gli altri presentati in tabella 3 ci suggeriscono che per gli operatori sanitari intervistati il supporto sociale può attenuare notevolmente il rischio di trovarsi in una condizione
Analisi fattoriale Dall’analisi fattoriale del questionario sull’opinione lavorativa emergono le seguenti dimensioni, intorno alle quali si concentrano i relativi items indicati nello schema 1. Le medie dei valori degli items riferiti alle 4 dimensioni emergenti mostrano un livello pressoché analogo di clima tra SMN e il gruppo di controllo su tutte le scale. I valori riportati in Tabella 4 sono stati normalizzati su una scala da 1 a 10. Per la dimensione individuale e relazionale il valore 1 è il polo negativo mentre il valore 10 è il polo positivo della qualità del clima interno. Per le scale del carico di lavoro e dell’organizzazione del lavo-
ACTIVE
Fig. 1 1 - Distribuzione dei medici tra le quattro condizioni lavorative.
PASSIVE 1
JD
HIGH STRAIN
Nel grafico di dispersione molti soggetti si sovrappongono nello stesso punto in quanto presentano gli stessi valori di decision latitude e job demand.
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DL
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LOW STRAIN
ACTIVE
Fig. 2 - Distribuzione degli operatori non-medici tra le quattro condizioni lavorative.
PASSIVE
JD
HIGH STRAIN
LOW STRAIN
PASSIVE
ACTIVE
HIGH STRAIN
Alto supporto
1
3,67 LC (0,23-110,32)
2,13 LC (0,14-62,67)
3,14 LC (0,20-93,85)
Basso supporto
1,65 LC (0,00-64,75)
6,60 LC (0,61-166,78)
9,90 LC (0,76-278,7)
17,6 LC (1,89-410,2)
Tab. 3 - Valori di ODDS RATIO relativi alla presenza di disagio psichico in relazione al supporto sociale dei colleghi per ognuna delle quattro condizioni lavorative.
Dalla condizione low strain alla condizione high strain i valori di Odds Ratio aumentano in maniera più che proporzionale OR da 1,65 a 17,6.
Scale
S. M. Nuova Media (Dev. Std.)
Dimensione individuale del clima Dimensione relazionale Carico di lavoro Organizzazione del lavoro
ro il valore 1 è il polo positivo ed il valore 10 è il polo negativo.
4,6 5,9 6,0 4,4
(2,07) (1,90) (2,36) (3,05)
Valutazione del coinvolgimento In 81 casi su 191 del campione totale il coinvolgimento
Altri ospedali Media (Dev. Std.) 4,6 6,0 6,4 4,4
(1,84) (1,76) (2,26) (3,47)
risulta basso. L’analisi del coinvolgimento in base agli ospedali rivela che al Santa
Tab. 4 - Scale ottenute dall’analisi fattoriale (rotazione Varimax).
Maria Nuova il 64,5% del campione dell’ospedale ha un alto livello di coinvolgimento
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Dimensione individuale
Dimensione relazionale
Possibilità di carriera
Aiuto e sostegno che riceve dai colleghi
Possibilità di imparare cose nuove
Rapporti di collaborazione coi colleghi
Possibilità di frequentare corsi e altre iniziative di formazione
Conoscenza dei contenuti del suo lavoro da parte dei colleghi
Possibilità di spazio per iniziative personali
Carico di lavoro
Organizzazione del lavoro
Ritmi particolarmente veloci e pesanti
Turni
Eccesso di quantità di lavoro
Lavoro notturno o festivo
Fatica fisica Rapporti personali coi colleghi
Partecipazione alle decisioni che riguardano il suo lavoro
Chiarezza dei ruoli e responsabilità
Senso di utilità Responsabilità insita del ruolo
Richieste compatibili
Equità e giustizia negli avanzamenti di carriera Aiuto e sostegno dei superiori
Schema 1
SMN Altri Totale
Alto
Coinvolgimento Basso
Totale
60 50 110
33 48 81
93 98 191
contro il 35,5% che invece si colloca a un livello basso. Il coinvolgimento e l’aspettativa negli altri ospedali sono un po’ più bassi, infatti, il 51% del campione si colloca su livelli alti contro un 49%
che invece riporta un basso coinvolgimento (Tab. 5). Soddisfazione, senso di appartenenza e “mobbing” All’interno del questionario sull’opinione rispetto alla
Tab. 5 - Livello di coinvolgimento.
condizione lavorativa ci sono alcuni items rimasti al di fuori dell’analisi fattoriale perché è stata presa la decisione di valutarli come indicatori a sé stanti di concetti che rientrano nell’ambito della ricer-
ca. Limitandoci ad un’analisi descrittiva, presentiamo qui quelli che hanno dato dei risultati piuttosto interessanti, che danno uno spunto per ulteriori riflessioni ed approfondimenti da svolgere nella seconda fase della ricerca. La percentuale di soggetti molto insoddisfatti del proprio lavoro è del 14,6%, quella dei molto soddisfatti dell’11%. Se valutato nel complesso, il grafico mostra comunque una netta tenden-
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za dei soggetti a collocarsi al di sopra del livello della sufficienza rispetto alla soddisfazione sul lavoro (Fig. 3). Il 25,1% del campione dichiara di provare un senso di appartenenza all’azienda pessimo o scarso. Nessun soggetto ha dichiarato di provare un senso di appartenenza ottimo all’azienda sanitaria. Questi dati meritano sicuramente l’interesse del management
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che ha il compito di diffondere tra tutti gli operatori la mission e la vision aziendale, cercando di adoperarsi affinché gli operatori condividano almeno in parte i valori dell’azienda (Fig. 4). Ben il 6,8% dei soggetti dichiara di essere stato vittima di violenza o persecuzione nel corso dell’ultimo mese ed in totale, il 29,3% dichiara di essere stato oggetto di discrimi-
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nazione o persecuzione. Pur non esaurendo il significato del concetto di mobbing, questi dati rappresentano una spia di allarme rispetto alle violenze psicologiche che subiscono gli operatori all’interno degli ospedali (Fig. 5). Discussione I risultati ottenuti al termine di questa prima fase dell’indagine sul clima organizzati-
vo nelle strutture ospedaliere dell’azienda sanitaria di Firenze offrono l’opportunità per una prima serie di considerazioni sulla metodologia e sui risultati preliminari. Partendo dai limiti e dai difetti fin qui riscontrati, il campione risulta esiguo per analisi statistiche approfondite. La numerosità dei soggetti è sufficiente per consentire un confronto tra l’ospedale di SMN
Fig. 3 - La soddisfazione.
Fig. 4 - Il senso di appartenenza.
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Fig. 5 - Il “mobbing”.
(gruppo dei dipendenti oggetto dell’indagine) e gli altri (gruppo di controllo). Soltanto in alcune elaborazioni si raggiunge infatti la significatività statistica nelle comparazioni tra gruppi di soggetti. Di conseguenza i risultati non possono essere generalizzati a tutta la popolazione lavorativa degli ospedali. Emergono comunque alcuni risultati di interesse per ulteriori approfondimenti. A fronte della complessità di un concetto come quello di clima organizzativo si sono poi riscontrati i limiti dell’analisi
quantitativa, che restituisce una visione piuttosto superficiale di una realtà lavorativa complessa e dinamica, densa di relazioni sociali e di processi organizzativi com’è quella degli ospedali. La rappresentazione dello stato del clima organizzativo ottenuta ha la forma di una fotografia a fronte di una realtà in continuo mutamento. Per quanto riguarda i pregi di questa prima esperienza di ricerca sul clima, possiamo dirci soddisfatti nel fornire una visione globale dell’esposizione allo stress degli operatori sa-
Bibliografia Karasek RA, Theorell T. Healthy work: stress, productivity, and the reconstruction of working life. New York: Basic books 1990. Levi L. Guida allo stress legato all’attività lavorativa. Bruxell: UE 2000. Schneider B, Reichers AE. Organizational climate and culture. San Francisco: Jossey-Bass Publishers 1990. Schein EM. Organizational culture and leadership: a dynamic view. San Francisco: Jossey-Bass 1985.
nitari secondo il modello di Karasek, che è oggi uno dei modelli di valutazione dello stress più accreditato a livello internazionale (Levi, 2000). Grazie all’analisi fattoriale sono poi state individuate le scale del clima organizzativo e gli items rilevanti per l’indagine, che corrispondono alle ipotesi di partenza secondo cui il clima è opportuno studiarlo andando ad indagare le dimensioni individuale, relazionale e strutturale della qualità globale della condizioni di lavoro. Rispetto all’obbiettivo generale, cioè la definizione dello
stato attuale del clima organizzativo all’interno dell’ospedale Santa Maria Nuova in vista delle ristrutturazioni, i dati ottenuti sono validi. La sostanziale omogeneità del gruppo d’indagine e del gruppo di controllo ci garantisce una buona prospettiva per la valutazione longitudinale degli eventuali cambiamenti di clima a seguito delle ristrutturazioni nell’ospedale di Santa Maria Nuova, nonché per valutarne l’efficacia rispetto ai mutamenti nella qualità delle condizioni di lavoro.
Ringraziamenti Si ringrazia per il contributo dato all’elaborazione dei dati il Dott. Alberto Baldasseroni, UO Epidemiologia della azienda sanitaria di Firenze e la Dott.ssa Casotto Veronica, Agenzia regionale della sanità toscana. Per la disponibilità data allo svolgimento dell’indagine si ringraziano le direzioni sanitarie degli ospedali dell’Azienda sanitaria di Firenze (ospedale della SS. Annunziata, di Santa Maria Nuova, di Borgo San Lorenzo).
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Renata Cinotti* Vania Basini** Patrizio Di Denia** * Responsabile dell’Area accreditamento dell’Agenzia sanitaria regionale dell’Emilia Romagna ** Collaboratore dell’Area accreditamento dell’Agenzia sanitaria regionale dell’Emilia Romagna
egli ultimi anni la sicurezza del paziente è diventata una questione centrale per le strutture sanitarie di molti paesi e rappresenta oggi una primaria preoccupazione degli utenti, degli operatori sanitari e degli amministratori dei servizi sanitari nazionali. Questa preoccupazione è cresciuta col crescere della consapevolezza dei cittadini rispetto alle loro condizioni di salute e di cura e con la diffusione di dati relativi agli incidenti provocati da errori clinici. Da più parti viene sottolineato che il numero dei reclami e le denuncie di malpractice sono in continuo aumento, così come i costi assicurativi per le strutture sanitarie. Nella nostra Regione non esistono dati di riferimento sull’incidenza del problema ‘errore’ in ambito sanitario, mancando anche strumenti che rilevino le evenienze, in modo da rendere possibili la raccolta ed analisi dei dati in maniera coerente con un approccio complessivo alla gestione del rischio. Esistono viceversa, nelle strutture sanitarie, fonti informative che attengono più o meno diret-
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Approccio integrato alla gestione del rischio
tamente al tema, affrontando solo specifici aspetti non collegati tra loro (es.: segnalazioni per la farmacovigilanza, studi di sorveglianza delle infezioni ospedaliere, delle lesioni da decubito, delle cadute, reclami dei cittadini, richieste di risarcimento) ovvero fonti informative non utilizzate a questo scopo (es.: cartelle cliniche, SDO, registri delle malattie professionali) In relazione al tema della gestione del rischio per i pazienti che si configura principalmente come rischio clinico, si pone la forte esigenza di cominciare ad integrare, almeno concettualmente, i ”sistemi qualità e sicurezza”. Dalla gestione separata di aree problematiche, pertanto, è indispensabile oggi ragionare in termini di ‘sistemi integrati di gestione’, sistemi cioè che condividono gli strumenti, pur nella differenziazione delle responsabilità. Il Piano sanitario regionale 1999-2001 dell’Emilia Romagna, ha posto la gestione del rischio fra gli elementi caratterizzanti l’approccio del ‘governo clinico’ della attività sanitaria: “il governo clinico … si esercita attraverso l’uso
Il progetto dell’Agenzia sanitaria regionale della Regione Emilia Romagna corrente e sistematico di idonei strumenti operativi-gestionali tesi ad evitare i rischi, ad individuare tempestivamente e apertamente gli eventi indesiderati, a trarre insegnamento dagli errori, a disseminare la buona pratica clinica, a garantire che siano in opera adeguati strumenti per il miglioramento continuo della qualità”. Fin dal 1999, perciò è stato attivo presso l’Agenzia sanitaria un gruppo “istruttorio” sul tema del rischio in strutture sanitarie, i cui risultati sono stati la predisposizione di un progetto che la Regione Emilia Romagna ha presentato nell’anno 2001 al Ministero della salute, per il finanziamento ai sensi del D. Lgs. 502/92 art. 12, comma 2, lettera b), avente ad oggetto la realizzazione di un approccio integrato alla gestione del rischio nelle strutture sanitarie, che è stato approvato. Il programma, di durata biennale, ha avuto inizio formale nel febbraio 2002 ed è stato
affidato all’Area accreditamento dell’Agenzia sanitaria regionale, quale sede del Comitato di coordinamento e supporto metodologico e logistico per lo sviluppo complessivo del programma. Al programma hanno aderito 5 Aziende sanitarie della Regione: Azienda USL di Modena, Azienda USL di Reggio Emilia, Azienda ospedaliera di Bologna, Azienda ospedaliera di Reggio Emilia, Azienda ospedaliera di Ferrara, che sono state individuate in modo da sviluppare un tema ciascuna; ad esse si sono aggiunte altre aziende sanitarie, che pur non partecipando formalmente al programma, portano contributi alla sua realizzazione (Fig. 1). Obiettivo finale del programma Gestione integrata del rischio significa, prima di tutto, individuare come ‘sistema’ gli aspetti da trattare: • rischi per i ricoverati/assistiti collegabili direttamen-
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Fig. 1
te od indirettamente alla attività assistenziale e clinica svolta all’interno della struttura (rischio clinico); • sicurezza ambientale (struttura, impianti, impatto sull’ambiente, rischi di incendio, esplosione, esposizione a radiazioni ecc.); • sicurezza del personale (specifici collegati all’attività svolta: rischio biologico, infortuni, malattie professionali ecc.); • aspetti legati ad emergenze esterne o a fattori “incontrollabili” (interruzioni di servizi essenziali, improvviso aumento di domanda esterna: terremoti, sciagure ecc.); • rischi economico-finanziari in conseguenza dello svolgimento della attività caratteristica. L’obiettivo del programma è quindi la realizzazione di un approccio integrato alla gestione del rischio in strutture sanitarie, nei diversi aspetti della sicurezza all’interno delle strutture sanitarie, attraverso lo sviluppo di una cultura condivisa del rischio fra i professionisti afferenti ad aree tecnico-gestionali diverse. Il sistema, da una parte potrà
essere utilizzato dinamicamente in modo da conseguire obiettivi di miglioramento complessivo delle attività e prestazioni sanitarie, dall’altra può presentarsi come elemento di affidabilità delle aziende sanitarie in sede di gestione del contenzioso e contrattazione con le assicurazioni. Nell’ambito del progetto sono state quindi individuate tre aree tematiche di interesse: 1. Rischio clinico, legato alla sicurezza delle pratiche assistenziali, diagnostiche e terapeutiche. 2. Rischio legato alla sicurezza degli ambienti, degli impianti e dei lavoratori. 3. Aspetti giuridico-amministrativi, legati alla gestione del contenzioso e alla tutela degli operatori e dei pazienti. Metodologia utilizzata Nel primo anno del progetto si è insediato, presso l’Agenzia sanitaria regionale, un gruppo di coordinamento regionale per la “Gestione del rischio”, costituito da referenti e responsabili aziendali di servizi ed uffici coinvolti dal tema del rischio nelle
strutture sanitarie (Direzioni sanitarie, Direzioni amministrative, Settori qualità, URP, Uffici legali, Medicina legale, Servizi di prevenzione e protezione) con l’obiettivo di definire il problema in maniera sistemica integrando tutte le figure professionali e le competenze coinvolte. Si è deciso, inoltre, di definire 3 gruppi di lavoro specifici per area tematica di interesse (giuridico-amministrativo, rischio clinico, sicurezza ambientale e dei lavoratori) che si incontreranno per tutta la durata del progetto in momenti separati per discutere le problematiche inerenti gli specifici ambiti di attività e, periodicamente, in incontri plenari per il confronto. Compito del gruppo di coordinamento è di mantenere e garantire l’aggregazione ed omogeneizzazione degli aspetti sviluppati. Il gruppo di coordinamento è la sede di regia complessiva del progetto, mentre le UO aziendali sono le sedi per la sperimentazione degli strumenti specifici e “settoriali”, ciascuna in riferimento agli obiettivi assegnati. Il metodo utilizzato è quello della “ricerca ed intervento”, cioè nel
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momento in cui si costruisce uno strumento, contestualmente se ne effettua l’applicazione nella specifica UO dedicata ed eventualmente in altre realtà che volontariamente si dichiarino interessate. Tale metodo consente sia di approfondire ed eventualmente adattare gli strumenti man mano che nascono, sia di allargare, su base volontaria, il consenso e l’utilizzo ad aree più ampie rispetto alle iniziali sedi di sviluppo. La metodologia di sviluppo del progetto è già essa stessa sperimentazione della trasferibilità dei risultati conseguiti. Infatti, se nella prima fase del progetto è prevalente l’elaborazione di strumenti e metodi nelle UO coinvolte, nel corso del periodo successivo la sperimentazione dei prodotti elaborati verrà estesa all’ambito regionale. Sia gli strumenti che i metodi saranno resi disponibili con apposite “istruzioni d’uso”. Le attività sviluppate durante il progetto saranno resocontate e diffuse attraverso apposite pubblicazioni, sia concernenti i metodi sperimentali, sia come descrizioni ed istruzioni per l’applicazione degli strumenti. Alla conclusione del progetto sarà compito del gruppo di coordinamento predisporre un documento orientativo/linea guida da diffondere alle aziende, redatto in modo da essere immediatamente applicabile. Attività realizzate e primi output Area rischio clinico Per quanto attiene agli aspetti relativi al “rischio clinico”
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il programma si propone la rilevazione degli “eventi” significativi o dei “quasi-eventi” attraverso la definizione e sperimentazione degli strumenti da utilizzare (incident reporting, revisione cartelle cliniche, utilizzo delle SDO, altri sistemi di screening) a partire dalla costruzione di un glossario condiviso. 1. Glossario di riferimento e pacchetto formativo propedeutico. È stato definito un Glossario del rischio, condiviso con le unità aziendali partecipanti al progetto, contenente le definizioni di tipo generale che dovranno essere utilizzate dagli operatori durante l’effettuazione delle sperimentazioni ed in modo da poter essere utilizzato dai diversi ambiti professionali interessati al tema (clinico, giuridico-amministrativo, tecnico-gestionale). Il glossario fa parte di un pacchetto formativo che è già stato somministrato agli operatori delle unità in sperimentazione. Infatti, il progetto prevede la realizzazione di percorsi formativi, da attivare in tutte le unità aderenti al programma, finalizzati da una parte all’acquisizione di una maggiore consapevolezza e sensibilizzazione del personale sui temi della sicurezza del paziente e degli incidenti nelle strutture sanitarie e, dall’altra, a supportare l’utilizzo degli strumenti sperimentali. Il percorso formativo standardizzato è un’ulteriore garanzia dell’estensione della sperimentazione e della diffusione a regime degli strumenti operativi. È intenzione dell’Agenzia sanitaria, predisporre e rendere disponibile
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alle aziende aderenti, percorsi formativi di tipo modulare basati anche sulle nuove metodologie multimediali per la formazione a distanza (FAD). 2. Sistema di individuazione degli eventi attraverso la segnalazione spontanea di evento (Incident reporting). Il sistema è basato sulla segnalazione spontanea di “evento” inteso come accadimento connesso ad un insuccesso potenziale (i quasi-eventi), o causativo di danni (l’evento avverso). Un approccio di questo tipo è stato già sperimentato in alcune unità operative aderenti al progetto ed in altre sarà a breve sperimentato. Il sistema di Incident reporting, permetterà la costruzione di una banca dati empirica degli incidenti a livello locale e regionale e l’individuazione delle aree di criticità, sulle quali intervenire per la riduzione dei rischi. È stata utilizzata una scheda di segnalazione spontanea di evento che è attualmente in fase di semplificazione e miglioramento sulla base delle considerazioni apportate dalle prime sperimentazioni; ciò renderà lo strumento più “fruibile” dagli operatori e dalle aziende. È stato predisposto e fornito alle aziende, un software in Access, per la registrazione automatica dei dati delle schede, anch’esso in fase di ulteriore sviluppo e perfezionamento. 3. Selezione e revisione di cartelle cliniche. Per l’identificazione di “eventi avversi” e la successiva valutazione rispetto alla loro prevenibilità è stato ipotizzato l’utilizzo di
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strumenti di revisione retrospettiva dell’attività clinica attraverso la selezione delle cartelle cliniche e delle SDO. È stata avviata una sperimentazione sulla base di modalità di prima selezione delle cartelle (limited screening secondo i criteri del metodo di Wolff) da sottoporre a successiva revisione manuale ed eventuali audit clinici, utilizzando procedure di interrogazione automatica della banca dati regionale SDO. 4. Sistema informativo regionale per la gestione dei reclami. È stato realizzato un programma informatico per la gestione dei reclami a livello locale che permette di trasferire i dati di sintesi a livello regionale; esso consente di registrare gli eventi con natura di “incidente” per i cittadini (percezione di un danno subito dal paziente, indipendentemente dal fatto che tale danno sia oggettivo, o che per tale danno richieda un risarcimento). Il sistema, sperimentato nel corso del 2002, è entrato a regime con l’inizio del 2003. Esso permette l’elaborazione di una reportistica degli incidenti segnalati dai cittadini; ciò potrà essere utilizzato sia per il confronto delle informazioni a livello regionale, sia, a livello locale, per l’individuazione di aree di debolezza organizzativa, sulle quali effettuare percorsi di miglioramento. 5. Metodi proattivi di individuazione/analisi/trattamento del rischio. In due situazioni sono stati sperimentati metodi di analisi qualitativa e quantitativa dei rischi per il paziente, connessi all’attività
clinica, quali la FMEA-FMECA. Ciò ha permesso di validare queste metodologie come strumenti di valutazione dei rischi in specifiche realtà assistenziali (per la loro individuazione, analisi e trattamento dopo aver graduato la priorità di intervento). 6. Attivazione di pagine web 1. La pubblicazione sul web dei risultati conseguiti nello svolgimento del programma è apparsa la forma più semplice e rapida per la loro diffusione. Sul sito dell’Agenzia sanitaria regionale, sono state quindi attivate alcune pagine internet dedicate alla presentazione del programma, alle attività svolte ed ai prodotti elaborati dalle sperimentazioni. Area sicurezza ambientale e del lavoro Sono stati sviluppati strumenti di valutazione e monitoraggio dei rischi collegati ad aspetti di sicurezza (ambiente e lavoratori) che integrano gli aspetti della sicurezza ai sensi del Dlgs 626/94 (verifiche elettriche degli impianti, rilevazioni su dispositivi di protezione individuali), con i requisiti di autorizzazione di struttura previsti dalla normativa nazionale e regionale (DPR del 14.1.97; Legge Regionale 34/98). Questi temi sono stati scelti fra i molti di interesse, confrontando gli approcci in un gruppo ristretto dedicato all’area sicurezza, per il loro carattere di confine fra le competenze dei servizi per la sicurezza aziendali (SPP) e l’area di competenza clinicoassistenziale. La sicurezza elettrica, infatti, si rapporta alle destinazioni
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d’uso degli ambienti a fini clinici, mentre la scelta dei dispositivi di protezione individuale si correla alle “buone pratiche” per il controllo del rischio biologico sui lavoratori, ma anche sui pazienti. Il metodo adottato per tale area è stato di comunicare i risultati attraverso la promozione di seminari di approfondimento, coinvolgenti le diverse professionalità istituzionalmente deputate all’analisi delle migliori pratiche di tutte le aziende della Regione, con ciò favorendone la diffusione. Area giuridico-amministrativa All’interno delle Aziende aderenti al programma, sono stati prodotti strumenti per la gestione delle controversie/contenzioso (intendendo anche la prevenzione di esse), quali procedure aziendali per il consenso informato, linee guida per la corretta compilazione
della cartella clinica, modelli gestionali di tipo amministrativo-legale per il trattamento delle segnalazioni da parte dei cittadini e delle richieste di risarcimento dei danni. Criticità rilevate Per quanto finora rilevato in questa prima fase, sono particolarmente critici gli aspetti relativi all’affronto delle problematiche “giuridico-amministrative” sul tema “rischio” sia per i timori e le resistenze rispetto all’oggetto specifico, sia per i differenti assetti organizzativi e funzionali delle aziende. Per quanto riguarda l’area del rischio clinico, in alcune situazioni, oltre che per il timore di punizioni e sanzioni, si è rivelato difficoltoso l’utilizzo del sistema di segnalazione spontanea di evento da parte degli operatori soprattutto per i seguenti aspetti:
Riferimenti bibliografici
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• Interpretazioni e percezioni diverse rispetto alla necessità di segnalazione dell’evento, con tendenza a non riconoscere l’evento inatteso come “incident”, bensì come ‘normale’ conseguenza delle attività di cura, soprattutto – ma non solo – nelle UO chirurgiche; talvolta, viceversa, è stato segnalato un evento potenziale per tutti i pazienti, ma che non ha visto situazione di pericolo per alcun paziente. • In alcune situazioni, la segnalazione è stata percepita come un appesantimento burocratico rispetto alle normali attività clinico-assistenziali. Prospettive di sviluppo e innovatività del programma Dopo questo primo anno di attuazione del programma, è
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intenzione dell’Agenzia sanitaria, così come avvenuto fino ad ora, allargare e diffondere la sperimentazione di metodologie e strumenti per la gestione e la riduzione del rischio anche ad altre aziende (oltre a quelle già aderenti formalmente al programma), anche al fine di pervenire a valutazioni di praticabilità degli stessi in contesti di “normalità” organizzativa. Al termine del programma, potranno essere messe a disposizione delle strutture sanitarie regionali metodologie e strumenti validati per la gestione del rischio, da utilizzarsi all’interno di programmi strutturati. Il programma dell’Agenzia sanitaria consiste, in sostanza, in un esperimento di gestione integrata del problema rischio. In tale “integrazione” fra gestori, tecnici e professionisti sta il potenziale innovativo.
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Giovanna Cangiano Roberta Paleani* Medico, specialista in psicologia clinica * Psicologo, specialista in psicologia clinica
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Il triage di Pronto soccorso
cangiano.paleani@virgilio.it
Quando calavano le tenebre, lo scarso numero degli uomini di guardia non bastava più a impedire che la notte si impadronisse della Fortezza. Vasti settori di mura erano incustoditi e di là penetravano i pensieri del buio, la tristezza di essere soli. Come una sperduta isola era infatti il vecchio forte, attorniato da territori vuoti: a destra e a sinistra le montagne, a sud la lunga valle disabitata e dall’altra parte la pianura dei Tartari. (Il deserto dei Tartari, D. Buzzati) uesto articolo nasce da un’esperienza di formazione sul triage ospedaliero, durata un anno e mezzo e diretta a tutti gli infermieri di Pronto Soccorso (PS) dell’Azienda ospedaliera Careggi di Firenze. Il modulo formativo da noi condotto sul tema della comunicazione interpersonale, si è rivelato un osservatorio privilegiato sul contesto organizzativo del PS, su come esso si colloca all’interno dell’ospedale e sulle sue relazioni con il territorio. Obiettivo dell’articolo è proprio quello di proporre sguardi sui vari mondi che si incrociano all’ingresso dell’ospedale, mon-
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di spesso tenuti separati tra loro, per aprire ad una riflessione sul rapporto tra formazione ed organizzazioni sanitarie. La parola triage deriva dal francese trier (scegliere, selezionare). Il triage, come metodo di selezione dei feriti sui campi di battaglia, fu utilizzato per la prima volta dagli ufficiali medici delle armate napoleoniche alla fine del 1700. Venivano individuati e quindi soccorsi i soldati con maggiori possibilità di sopravvivenza, che dovevano poi essere prontamente rinviati a combattere. Questo sistema di selezione e di soccorso è stato poi affinato ed applicato nel corso dei grandi conflitti che si sono succeduti nella storia: le due grandi guerre mondiali, la guerra del Vietnam, i conflitti in Libano, Golfo Persico, Balcani e Medio Oriente. Sono stati messi a punto dei veri e propri sistemi organizzativi e di procedure, individuati dei codici-colore che corrispondono a criteri di priorità di intervento. Tra i protocolli di triage militare più conosciuti ed utilizzati vi sono il sistema START (Simple Triage And Rapid Treatment), di origine americana e il sistema NATO, che prevedono, per i pazienti più
gravi e con scarse possibilità di successo, anche una categoria “non salvabile”. Da questa impostazione di origine militare, si passa all’utilizzo in campo sanitario, relativamente all’area di emergenza-urgenza (PS e 118) e all’intervento in caso di calamità. Ovviamente l’intento, in questi ultimi contesti, è l’esatto contrario del precedente, dato che lo sforzo maggiore è rivolto proprio verso i pazienti in condizioni più critiche. Ricordiamo i sistemi messi a punto dalla Associazione italiana di medicina delle catastrofi (CESIRA, PhAST), utilizzati in caso di gravi calamità, che non prevedono pazienti non salvabili e che possono essere applicati anche da personale non sanitario (si pensi al grande numero di volontari impiegati nelle alluvioni, nei terremoti ecc.) 1. In ambito sanitario, il triage viene introdotto in Pronto Soccorso in seguito ad una serie di leggi (D.P.R. 27/03/92, D.M. Sanità 17/05/96) con l’obiettivo di offrire un “primo momento di accoglienza e valutazione dei pazienti in base a criteri definiti che consentano di stabilire le priorità d’intervento”.
In altre parole si tratta di attribuire un codice di priorità d’accesso alle prestazioni sanitarie, basato su 4 o 5 codici-colore. Al PS di Careggi è stata adottata la formula dei 5 codici: dai più gravi, rosso e giallo (“funzioni vitali gravemente compromesse”), ai meno gravi, azzurro (“problema acuto, ma non di rilevanza vitale”) e bianco (“non d’urgenza, con problemi insorti da più giorni, gestibile ambulatorialmente”), passando per un codice intermedio, il verde (“problema acuto, ma di minima rilevanza vitale”). “Tale funzione è svolta da personale infermieristico adeguatamente formato che opera secondo protocolli prestabiliti dal dirigente del servizio”. Per attivare questo nuovo strumento di lavoro, è quindi richiesta una formazione destinata agli operatori che dovranno mettere in atto in prima persona i nuovi protocolli: gli infermieri. Una cittadella fortificata Il triage ci introduce in un’organizzazione, quella sanitaria, che ha tratti in comune con quella militare e dove, non a caso, si utilizzano termini come “montare di guardia”, “darsi le consegne”, “combat-
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tere la malattia”, “dominare i sintomi”. A prima vista il PS appare come una vera e propria “porta dell’ospedale”, un tramite tra ospedale ed esterno, ma anche come una cittadella fortificata, con garitte e vedette, quotidianamente assediata da un esercito di individui che sostano fuori della porta. In particolare si ha l’impressione di un’organizzazione dentro l’organizzazione, quasi un ospedale nell’ospedale, dove gli operatori funzionano come “un sol uomo”. “Nella sala rossa la notte dura dodici ore, ma tutto succede in un minuto. Perciò è importante che in quel minuto le persone che vi lavorano si muovano con la massima rapidità e la massima coordinazione” 2. Infatti in PS, così come più in generale in tutta l’area critica, l’oggetto di lavoro non è la malattia cronica, ma piuttosto tutte quelle condizioni patologiche che mettono a repentaglio la vita nell’immediato. Si gioca cioè una partita tra la vita e la morte, che solo un assetto organizzativo e mentale finemente strutturato permette di affrontare e talvolta di vincere. Gli infermieri scelgono di lavorare in PS proprio in virtù di questi aspetti eroici, che sono fondanti per la rappresentazione del proprio lavoro. Un lavoro sempre in emergenza, in un costante clima di allarme, vissuto spesso in solitudine, dove gli unici su cui poter contare sono i colleghi del proprio turno. Il curriculum professionale degli operatori, l’organizzazione degli spazi e del perso-
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nale mostrano chiaramente come al centro del PS ci sia il trattamento dei “codici rossi” e come la struttura ruoti intorno a questo compito. Il codice rosso è funzionale all’azione: di fronte all’urgenza, ognuno ritrova il proprio ruolo, si placano i conflitti, ci si sente tutti uniti e ciò permette il miglior funzionamento del gruppo e del servizio. Ma la realtà del PS non è così lineare. Accanto ai codici rossi, si rileva la presenza di un numero molto consistente di codici bianchi e azzurri, ovvero di persone che risultano non avere un problema clinico grave. Nel 2001 a Careggi su 37.562 prestazioni, circa il 30% è costituito da questi ultimi casi contro il 2% di codici rossi, il 20% di codici gialli e il 48% di codici verdi. C’è quindi un PS “intasato impropriamente” 3 da persone che non presentano alterazioni delle funzioni vitali e che quindi accedono al servizio per i motivi più vari, con l’aspettativa, comunque, di avere risposte efficaci, in tempi rapidi e gratuitamente. In altre parole il vero sintomo che il “cittadino-codice non grave” porta al servizio è la sua stessa domanda. Porta bisogni che, a ben guardare, stanno su piani diversi da quello strettamente sanitario e che spesso attengono a fenomeni quali solitudine, invecchiamento, emarginazione, immigrazione e, più in generale, disagio sociale. Da ciò deriva la definizione di accessi impropri, comunemente usata dagli infermieri per questi utenti, contraddi-
zione in termini che denuncia le contraddizioni sottostanti al servizio. Infatti, da una parte gli orientamenti metodologici del PS impongono di “prendere tutti” coloro che vi accedono, con l’obiettivo di offrire accoglienza e risposte adeguate, dall’altra parte il PS, come indica il suo stesso nome, assume il mandato sociale di fornire interventi di emergenza-urgenza. Tali finalità sono contraddittorie, quindi sono spesso non praticabili, cioè non traducibili in operatività competenti e coerenti con esse 4. Gli infermieri, lavorando a diretto contatto con gli utenti, rilevano tale incongruenza ma la leggono con le stesse categorie dell’organizzazione d’appartenenza. Gli accessi impropri sono perciò considerati, come scarti dal modello ideale, come errori, attribuiti ai cittadini stessi che, in qualche modo, “sbagliano posto”. Il PS attende così, pronto al “combattimento”, utenti che in realtà, per una quota importante, richiedono soprattutto accoglienza e ascolto. Ciò mette in crisi il lavoro degli operatori che si trovano ad adempiere, contemporaneamente, a due diversi mandati. Se approfondiamo lo sguardo, ci accorgiamo allora che, accanto a situazioni di pericolo per la vita, si manifesta in PS una realtà percepita, per altri versi, altrettanto difficile: è la realtà rappresentata da quell’“esercito” di individui che affolla la sala d’aspetto, come una massa informe ed incombente.
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Il paziente codice rosso o giallo è ciò che gli operatori si aspettano e per il quale si sentono attrezzati. I pazienti codici bianchi ed azzurri rappresentano qualcosa di estraneo: chi sono? cosa vogliono? perché vengono? Da qui si sviluppa quella dimensione difensiva che conferisce al PS, insieme al carattere di porta dell’ospedale, quello di cittadella fortificata e che sposta l’attenzione degli operatori sull’apparato organizzativo interno lasciando sullo sfondo ciò che in quel momento si realizza: l’incontro tra cittadino e istituzione. La realtà di quest’incontro viene oscurata dalla struttura stessa del servizio, dalla sua “ossatura”, che si reifica in termini di differenziazione di mansioni, di prescrizioni normative e di procedure. In questo caso, la struttura organizzativa rischia di prevalere sulle finalità del servizio. Così, accanto agli obiettivi dichiarati del triage, che stanno su un piano razionale, incontriamo processi immateriali: un universo di emozioni, valori, atteggiamenti, modi di fare e di pensare che stanno su un livello implicito ma che tanto influenzano l’azione 5. Su questo livello, d’altronde, si intessono le identificazioni che le persone che lavorano in PS costruiscono tra loro e con l’organizzazione e sono proprio la gerarchia e la rigida maglia delle procedure a mantenere queste identificazioni.
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La formazione come intervento sull’organizzazione Attualmente, la formazione è lo strumento strategico più utilizzato in campo sanitario per affrontare i continui cambiamenti introdotti nel funzionamento organizzativo. Sotto questo termine sono comprese le iniziative più varie, con obiettivi e modelli di riferimento molto diversi tra loro, ma con in comune l’idea di intervenire sulla capacità dell’organizzazione di rispondere alle sfide sollecitate da un contesto sociale sempre più pressante, mutevole e conflittuale. Alla formazione viene attribuito il compito specifico di promuovere, nei singoli e nei gruppi professionali, l’interiorizzazione di nuove prescrizioni di ruolo e di nuove procedure organizzative 6. Ma la formazione non porta automaticamente a questi risultati. Piuttosto, se non si pone il problema del cambiamento, rischia di assumere solo funzioni di controllo e di mantenimento del funzionamento in atto nel sistema. Non a caso, quelli a cui assistiamo comunemente sono interventi formativi in cui i programmi sono rigidamente predefiniti ed in cui i contenuti ed i modelli di comportamento da trasmettere sono sempre più dettagliati. In questo modo vengono implicitamente sostenuti valori, relazioni, atteggiamenti in linea con la cultura meccanicistica dell’organizzazione: la formazione assume funzioni di manutenzione e potenziamento di un sistema rappre-
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sentato come una macchina, che via via richiede l’intervento di esperti sulle sue parti disfunzionanti. In quest’ottica non è previsto, dunque, che i singoli e i gruppi operanti nelle specifiche realtà possano apportare un contributo alle decisioni su strutture, programmi e indicatori di risultato. Sia gli operatori che gli utenti devono piuttosto conformarsi a prescrizioni prestabilite. Si può invece pensare ad una formazione che si ponga il problema del cambiamento, che non venga solo eseguita per adempiere ad una legge o ad un obbligo istituzionale, ma promuova e sostenga un reale processo mutativo. Si tratta di progettare interventi formativi intesi, innanzitutto, come spazi perché le persone possano vedere i problemi e rappresentarsi i cambiamenti, quale unico modo per comprendere ed influenzare gli avvenimenti 7. I processi innovativi implicano, infatti, una riconfigurazione non tanto o non solo dei propri saperi, ma del modo di rappresentarsi quel certo problema o aspetto del proprio lavoro. Questi processi, data la loro complessità, non possono riguardare solo gli operatori a diretto contatto con l’utente, con l’idea implicita che stia a loro ricomporre le contraddizioni del sistema. Gli “altri” interlocutori, che di solito sono attori muti per la formazione, possono essere interpellati e coinvolti attraverso un percorso di verifiche e delucidazioni 8. In altre parole, è necessario creare luoghi di comparteci-
pazione tra tutti i livelli, compresi quelli dirigenziali, intorno ai problemi, per attribuire significati condivisi alle azioni e mettere a punto obiettivi realistici. In quest’ottica un risultato della formazione è proprio la costruzione di collegamenti tra elementi lontani dell’organizzazione, per favorire azioni di ritorno a modifica dell’organizzazione stessa. I vertici hanno visuali ampie, ma proprio per questo sfumate, mentre gli operatori, a contatto con le realtà specifiche, hanno orizzonti più limitati ma più nitidi. La formazione deve tener conto della necessità di integrare questi diversi punti di vista, piuttosto che mantenere le scissioni, come accade se ci si rivolge separatamente a ciascuna componente. In questo senso l’esperienza della formazione al triage appare paradigmatica. Gli accessi impropri, se non considerati solo come un errore degli utenti o un problema degli operatori, possono diventare un’occasione di sviluppo professionale ed organizzativo. Compito della formazione è proprio quello di accompagnare le persone coinvolte in processi di ri-organizzazione del proprio lavoro, supportando la competenza a leggere e interpretare i fenomeni che si manifestano nel contesto organizzativo per ricollocarsi più realisticamente in esso. Queste molteplici riconnessioni interne all’organizzazione costituiscono infatti la premessa per una apertura
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verso l’esterno più adeguata alla realtà. Il triage può rappresentare allora la possibilità di avvicinare le richieste dell’utente e l’offerta del servizio, svolgendo un ruolo cerniera tra dentro e fuori l’organizzazione. In quanto “zona di confine”, il PS rappresenta un esempio concreto del difficile rapporto che le organizzazioni sanitarie stanno attraversando con il contesto sociale ma, allo stesso tempo, può diventare una preziosa fonte d’informazione sull’esterno. Ciò eviterebbe che il PS venga identificato come il depositario degli aspetti più insostenibili della comunità locale, il ricettacolo di tutto ciò che non è gestito dai servizi intermedi e potrebbe invece farne il motore propulsore di conoscenza e di azione a livello locale. “In realtà il territorio non è uno spazio affollato da individui che si possono ammalare, bensì una società con la sua cultura, le sue abitudini, le sue tradizioni, aspetti indispensabili anche alla comprensione dei problemi sanitari” 9. In questo momento, che vede le aziende sanitarie impegnate in un’opera di risanamento delle finanze, in cui le risorse sono “finite” nel senso che non sono illimitate, è più che mai importante fornire risposte differenziate e mirate rispetto ai vari bisogni. La conoscenza del territorio da parte dell’organizzazione può così divenire lo strumento per produrre servizi 10 realmente fruibili dai cittadini, riposizionando più adeguatamente il sistema sanitario nel contesto sociale.
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3
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Paniccia RM, Salvatore S. Il colloquio: dalla tecnica all’intervento. In: Montesarchio G, ed. Colloquio da manuale. Milano: Giuffrè Editore 1998. Guerra G. Psicosociologia dell’ospedale. Roma: NIS 1992.
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7
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8
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Attivecomeprima* La cura della persona colpita dal cancro e la cura della malattia: due aspetti inscindibili di un’azione con un solo fine “AIUTARE A VIVERE”
“ATTIVEcomeprima” nasce a Milano nel 1973, come prima associazione italiana a sostegno delle donne colpite dal cancro al seno. In questi trent’anni, Ada Burrone, la sua fondatrice, dopo l’esperienza personale della malattia, é riuscita a concretizzare la sua volontà di aiuto, facendo crescere un’équipe di lavoro composta da psicologi, medici, ex-pazienti ed esperti nel campo della creatività e della armonizzazione mente-corpo. L’esperienza maturata attraverso l’ascolto dei bisogni espressi dalle persone incontrate, ha dato origine a una metodologia operativa, sistematica e trasmissibile. Pur mantenendo un’unica sede a Milano, questi strumenti rappresentano una risorsa non solo per i pazienti ma anche per gli specialisti di altre organizzazioni che in Italia e all’estero hanno scelto e scelgono di utilizzarli. In concreto, accanto ai servizi di consulenza, al sostegno medico generale durante le terapie oncologiche, ai pareri di specialisti, “ATTIVE” propone una metodologia originale per un percorso di sostegno psicologico, articolato in tre fasi: “Riprogettiamo l’esistenza”, “Decido di vivere”, “La terapia degli affetti”. Durante il percorso sono suggerite attività psicocorporee e creative e corsi sulla alimentazione. Al termine del percorso e anche a distanza di tempo, le donne possono accedere a una quarta fase finalizzata a mantenere e sviluppare le risorse interne: “Il tesoro nascosto”, quel tesoro dentro di noi di cui tutti abbiamo un profondo bisogno: la speranza. Attivecomeprima svolge costantemente studi e ricerche sui cambiamenti indotti dalle attività di gruppo (minore depressione, minore fragilità, più equilibrio e maggiore capacità di esprimersi per quello che si é) e sulla qualità della vita. Trasferisce il suo know-how agli specialisti mediante incontri e seminari. Per la sua capacità di interfaccia tra malati e medici collabora con Istituti oncologici, università e Centri di ricerca. Tra le ricerche: Progetto Diana (prevenzione del cancro mammario attraverso l’alimentazione) e la partecipazione alla ricerca nazionale sulla Fatigue, realizzata in collaborazione con il CERGAS dell’università Bocconi di Milano, che ha messo in luce quanto questa sindrome, associata alla malattia tumorale e alle terapie, pregiudichi la qualità della vita del paziente. * Onlus
Per informazioni: “ATTIVEcomeprima” Via Livigno, 3 - 20158 Milano Tel. 0266889647; fax: 026887898; e-mail: cp@attivecomeprima.org; www.attivecomeprima.org Conto Corrente Postale n°11705209
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Recensioni
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Recensioni Daniele Dionisio (ed.), Textbook-Atlas of intestinal infection in AIDS, Springer-Vergal, Milano, 2003 Daniele Dionisio raccoglie in questo volume i contributi di 58 studiosi rappresentanti di molteplici discipline e operanti in diversi continenti, offrendoci un quadro completo delle diverse parassitosi intestinali che colpiscono i pazienti affetti da immunodeficienza acquisita. Le infezioni intestinali hanno rappresentato infatti uno dei problemi più rilevanti dei malati di Aids, un problema attenuatosi solo negli ultimi anni a seguito della diffusione della terapia antiretrovirale. Resta tuttavia un problema fondamentale nei paesi in via di sviluppo in cui la terapia è meno accessibile.
Il dr. Dionisio, a cui si devono due capitoli fondamentali del volume (Gut Infections: etiopathogenetic and clinical remarks; Parassites commonly associated with recognized agents of Aids-related chronic diarrea in developing countries), ci offre, in una puntuale e sintetica introduzione, il quadro complessivo della diffusione dell’Aids nel mondo. Si tratta di 42 milioni di persone affette da HIV/Aids; 5 milioni sono state contagiate nel 2002 e i decessi nello stesso anno sono stimati in 3.1 milioni. La patologia è ormai appannaggio essenzialmente dei paesi in via di sviluppo e una parte consistente della popolazione contagiata è rappresentata da bambini di età inferiore ai 15 anni.
sulle parassitosi intestinali, sia in periodo pre-microscopico che nella fase avviata da Francesco Redi e Lazzaro Spallanzani con l’inizio dell’uso dei microscopi. Viene poi esaminata la storia naturale dell’infezione da HIV con alcuni capitoli specifici sulla relazione fra infezione HIV e le funzioni gastrointestinali.
I primi capitoli ripercorrono l’evolversi delle conoscenze
Il volume (prezzo sul catalogo telematico della casa edi-
Ai vari gruppi di agenti infettivi è dedicato un singolo capitolo: batteri, micobatteri, macrosporidi, funghi, virus enterici, Herpesvirus etc., con i fondamentali elementi diagnostici e terapeutici. Altri capitoli illustrano i reperti anatomopatologici e le immagini ecografiche e radiologiche proprie della compromissione del tratto intestinale
trice 129 euro), si caratterizza, come indicato anche nel titolo (Textbook-Atlas), per la ricchezza delle immagini, che intendono offrire, accanto alla puntuale descrizione, uno strumento fondamentale di orientamento diagnostico per gli operatori. Il libro è arricchito da numerose tavole nelle quali, con una iconografia semplice ed efficace, sono sintetizzate le diverse vie di trasmissione degli agenti infettivi. L’apparato iconografico rende il volume un supporto ideale per i programmi di formazione degli operatori sanitari dei paesi in via di sviluppo e il libro è un punto di riferimento per clinici e laboratoristi, di fronte ad un problema che coinvolge tuttora un gran numero di pazienti.
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